muhajir Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/muhajir/ geopolitica etc Fri, 29 Apr 2022 14:52:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 L’assalto al carcere di Sina “forse” orchestrato da Ankara e Damasco https://ogzero.org/assalto-al-carcere-forse-orchestrato-da-ankara-e-damasco/ Thu, 03 Feb 2022 17:10:52 +0000 https://ogzero.org/?p=6122 Quattro giorni di ininterrotti scontri tra i combattenti dello Stato Islamico (Isis) e le forze curdo-siriane (Fds), che presidiavano il carcere assalito da miliziani ben equipaggiati. Il bilancio finale è stato di più di 330 morti, molti jihadisti fuggiti (un migliaio i catturati dalla pronta reazione curda); un preoccupante segnale di quanto la rete jihadista […]

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Quattro giorni di ininterrotti scontri tra i combattenti dello Stato Islamico (Isis) e le forze curdo-siriane (Fds), che presidiavano il carcere assalito da miliziani ben equipaggiati. Il bilancio finale è stato di più di 330 morti, molti jihadisti fuggiti (un migliaio i catturati dalla pronta reazione curda); un preoccupante segnale di quanto la rete jihadista si sia ricostruita, ancora più allarmante se si riconduce a una precisa orchestrazione occulta da cercare ad Ankara – e non solo – questo improvviso assalto dei tagliagole del Daesh al carcere curdo in cui erano reclusi i foreign fighters che gli occidentali non rivogliono indietro. Un ritorno dell’interesse occidentale per la questione dei jihadisti stranieri detenuti deve aver sollecitato il presidente turco a intervenire; e il risultato è stato l’annientamento di Abu Ibrahim al Hashimi Al Qurayshi, leader dell’Isis, dopo l’insuccesso del piano ordito dai satrapi turco-siriani.

A questo proposito abbiamo ricevuto alcune rilevanti osservazioni di Gianni Sartori, confermate dai bombardamenti avvenuti una settimana dopo per mano dell’aviazione di Erdoğan, come racconta l’articolo di Chiara Cruciati per “il manifesto” del 3 febbraio 2022, che proponiamo qui sotto. Riprendiamo dunque il pezzo di Sartori comparso sulla rivista “Etnie”, corredandolo tra le altre con un’immagine di Matthias Canapini, con il quale inauguriamo una collaborazione che immaginiamo proficua.


Lo davamo per scontato. Intravedere dietro l’attacco di Daesh al carcere di Sina (nel quartiere di Xiwêran/Gweiran della città di Hesîçe/Hassaké) la complicità di Ankara era tutto meno che un esercizio di fantasia. Ma a quanto sembra la manina inopportuna non era l’unica. In base ai primi accertamenti, le fonti curde hanno denunciato un ruolo, oltre che dell’intelligence turca, anche di quella siriana.

Bombardamenti turchi sui curdi siriani dopo l'assalto jihadista

3 febbraio 2022. Bombardamenti turchi sul Confederalismo democratico dei curdi siriani dopo l’assalto jihadista del 20 gennaio: evidente l’impronta di Ankara.

Premesse dell’assalto e mandanti

Iniziato il 20 gennaio, l’assalto operato dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Daesh) veniva se non stroncato sul nascere, perlomeno ridotto ai minimi termini. Purtroppo aveva avuto il tempo di provocare “danni collaterali” non irrilevanti. Sono almeno una cinquantina (ma il bilancio potrebbe accrescersi) i caduti tra membri di Fds, Asayish e civili curdi accorsi volontariamente per contrastare l’operazione jihadista. Dopo mesi di sostanziale menefreghismo per la sorte delle popolazioni (curde, ma non solo) del Nord e dell’Est della Siria sottoposte all’occupazione o comunque agli attacchi dell’esercito e dell’aviazione turca, l’Occidente è parso ridestarsi e prendere coscienza che la minaccia dell’Isis/Daesh non era stata definitivamente cancellata.
Per cui, non detto ma pensato, anche la presenza curda recuperava spessore e spazio sui media. Perlomeno come argine al fanatismo degli estremisti islamici.
Se pur lentamente, emergono le prime connessioni – interne ed estere – che hanno reso operativo il progetto per liberare i circa 5000 detenuti (membri o sostenitori di Daesh) rinchiusi a Sina. E tutte invariabilmente conducono ad Ankara o a Damasco. O magari a entrambe. Si tratta di elementi, indizi riguardanti le riunioni preliminari, le varie fasi di pianificazione, gli obiettivi individuati dalla banda degli assalitori. Non si sarebbe trattato quindi di un’azione pianificata esclusivamente dall’Isis, ma di una complessa operazione con il sostegno – come dire: bilaterale – proveniente dall’esterno del gruppo jihadista (per quanto questo sia presumibilmente infiltrato come un colabrodo da servizi vari).
A quanto sembra, condizionale sempre d’obbligo, l’operazione potrebbe essere stata decisa e pianificata in Turchia. I membri di Daesh catturati dalle Fds avrebbero confessato che era stata preceduta da una lunga preparazione (almeno 7-8 mesi) e che le riunioni di pianificazione si sarebbero tenute a Serêkaniyê (Ras al-Ain) ossia in un’area attualmente sotto occupazione turca. Vi avrebbero partecipato membri di varie “cellule dormienti” sia locali che provenienti dalla Turchia. E tutte indistintamente sarebbero state rifornite di adeguati armamenti.
Dato che tra i prigionieri si trovavano diversi esponenti di alto livello dell’organizzazione terrorista, è evidente che l’operazione rivestiva una certa importanza.
Per prima cosa, con qualche mese di anticipo, vari esponenti dell’organizzazione terrorista, sia individualmente che in piccoli gruppi, erano venuti ad abitare nel quartiere di Gweiran/Xiwêran, dove sorge la prigione (una ex scuola provvisoriamente adibita a carcere) e in quello di Heyî Zihur.
Nel comunicato delle Fds del 25 gennaio si legge che «almeno 200 esponenti dello stato islamico si erano installati a Serêkaniyê, Girê Spî e Ramadî, in particolare nel quartiere di Gweiran e nei dintorni del carcere».
Contemporaneamente anche i detenuti si organizzavano per la rivolta.
Va ribadito che in maggioranza si tratta di persone addestrate alla guerra e di origine straniera (muhajir ossia “migranti”, termine utilizzato per indicare i miliziani stranieri che combattono per Daesh). Persone che – in genere – i rispettivi paesi di provenienza si rifiutano di riportare in patria.

Dinamica dell’assalto e indizi sui mandanti

Orchestrazione Isis
Il primo veicolo imbottito di esplosivo era stato posto in prossimità dello svincolo di una condotta petrolifera (moltiplicando quindi la potenza dell’attentato) mentre venivano bloccate le strade d’accesso al carcere. Altri veicoli, ugualmente riempiti con materiale esplodente, colpivano la porta della prigione e l’edificio delle Forze di autodifesa (Erka Xweparastinê). Entravano allora in azione anche le “cellule dormienti” precedentemente installate nel quartiere. Catturando alcuni civili (da usare come ostaggi o scudi umani) e abbattendo un muro della prigione con una ruspa.
Assalto al carcere di Sina

Famiglia yazida a Dohuk (© Matthias Canapini)

Una volta entrati, distribuivano le armi ai detenuti islamisti e prendevano altri ostaggi tra il personale del carcere.

Risposta Fds

La priorità per le Fds e per le forze della sicurezza interna (Asayish) è stata quella di proteggere i civili. Nel contempo circondavano (bloccandone a loro volta le vie d’accesso) e mettevano in sicurezza (procedendo all’evacuazione degli abitanti) i quartieri di Gweiran e di Heyî Zihur. Al momento sarebbero circa 200 (per almeno tre quarti facenti parte delle “cellule dormienti” esterne al carcere) gli esponenti di Daesh uccisi in cinque giorni di combattimenti. Alcune centinaia degli evasi poi sono già stati ripresi.

Quello che sta emergendo, sia dalle prove raccolte che dalle testimonianze e dagli interrogatori, è un probabile ruolo di Ankara e Damasco nell’orchestrare il grave episodio.
Equipaggiamento turco, attività siriana

Tra gli “indizi” (ma messi tutti in fila acquistano le sembianze di prove) a sostegno della tesi di un diretto coinvolgimento di Turchia e Siria: le armi – della Nato – con numeri di serie turchi trovate in mano ai terroristi dell’Isis; la registrazione di telefonate dei membri di Daesh in prigione con la Turchia; le confessioni di quelli catturati mentre cercavano di rientrare a Serêkaniyê (sotto l’ombrello turco); le carte d’identità siriane di recente emissione in mano ai miliziani jihadisti; l’incremento di attività del regime siriano nella regione…

Assalto al carcere di Sina

Jihadisti evasi dalla prigione secondo l’agenzia russa “Sputnik”.

Altri elementi, altre prove, assicurano le Fds saranno presto messi a disposizione dell’opinione pubblica. Nel giro di qualche giorno.

Pianificazione a lunga scadenza:

contrattempi…
Stando ai piani preliminari, l’attacco avrebbe dovuto svolgersi ancora in ottobre o novembre, in coincidenza con un ennesimo attacco turco nel nord e nell’est della Siria e con il previsto rafforzamento dei suoi presidi e avamposti militari nelle zone già occupate. Proprio in ottobre Erdoğan si era consultato sia con Biden che con Putin ed è plausibile pensare che non ne abbia ottenuto il tacito assenso per l’ulteriore invasione.
Un contrattempo (per Ankara e Daesh beninteso) a cui se ne aggiunse presto un altro. Quando le Fds avevano individuato e arrestato alcune “cellule dormienti” a Hesekê e Raqqa ricevendo da uno dei caporioni arrestati la confessione che il loro obiettivo era il carcere di Hesekê. Un progetto quindi apparentemente disinnescato dall’operazione delle Fds, ma in realtà solo rinviato.
… e coincidenze d’intelligence
Altra coincidenza. Con un tempismo perfetto, al momento dell’attacco jihadista al carcere, l’esercito e l’aviazione turchi attaccavano simultaneamente Zirgan, Tel Tamer (da dove avrebbero potuto intervenire agevolmente in sostegno a Daesh) e Ain Issa causando vittime tra i civili.
Questo per quanto riguarda Ankara. E Damasco?
Rimane sempre a guardare mentre il territorio della Siria viene occupato da forze straniere? In realtà prima dell’attacco jihadista si era registrata un’intensa attività militare dell’esercito siriano proprio a Hesekê. Ma soprattutto era andata intensificandosi una violenta campagna diffamatoria nel confronti dell’amministrazione autonoma (Aanes) delle Fds sui media siriani filogovernativi. Inevitabile collegare tutto ciò ai recenti incontri tra il Mit (intelligence turca) e il Mukhabarat (intelligence siriana).
Un riavvicinamento tra i rispettivi servizi (ostili e su fronti opposti per molte questioni, ma sostanzialmente concordi nei confronti del “pericolo curdo”) che li aveva visti confrontarsi alla fine di dicembre (stando almeno a quanto riportava la stampa turca) in Giordania, ad Aqaba.
Sempre basandoci su quanto scrivevano i giornali turchi, nel corso della riunione si sarebbe discusso anche di «operazioni congiunte nel Nordest della Siria» e in particolare di «un’operazione militare turca per la profondità di 35 chilometri in revisione agli accordi di Adana; la sollevazione delle tribù (in chiave anticurda, ça va sans dire, come ci aggiornano regolarmente alcuni siti rosso-bruni italici N.d.A) a Deir ez-Zor, Hesekê  e Raqqa; la liberazione dei detenuti nelle prigioni e la ricostruzione di Aleppo».
Sempre sulla stampa turca – e quindi la cosa va presa con beneficio d’inventario – si suggeriva che Mosca e Damasco apparivano interessati, favorevolmente, alle richieste turche.

Un complotto annunciato contro l’amministrazione autonoma

Minacce velate

Qualche giorno prima, il 22 dicembre 2021, c’era stata la dichiarazione congiunta dell’ultima (per ora, siamo già alla diciassettesima) riunione di Astana tra Russia, Turchia e Iran, dove si stabiliva che le parti interessate erano concordi nell’«opporsi alle attività separatiste che minacciano la sicurezza nazionale dei paesi vicini all’est dell’Eufrate». Inoltre venivano definite “illegali” (anzi, un vero e proprio “sequestro”) i redditi provenienti dal petrolio siriano. Con un evidente riferimento al fatto che i curdi, dovendo comunque sopravvivere e tenere in piedi l’amministrazione autonoma, le milizie di autodifesa e soprattutto garantire prezzi calmierati (sia del pane che del combustibile) alla popolazione, si rivendono il petrolio. Del resto perché non dovrebbero farne uso visto che sgorga su quei territori dove convivono con arabi, turcomanni, armeni e altre popolazioni? Territori, ricordo, liberati dalla presenza di Daesh soprattutto grazie al sacrificio di migliaia di curdi delle Ypg.
Per chi vuole intendere, se pur dietro un linguaggio formalmente corretto, il messaggio era chiaro.

Il complotto dei Servizi

Ora, secondo i curdi, in questa dichiarazione si intravedono i presupposti per un autentico complotto contro l’amministrazione autonoma (Aanes) e il Rojava. In caso di vittoria dell’operazione al carcere di Hesekê è probabile che la Turchia sarebbe intervenuta da Tell Tamer (da nord) mentre Damasco avrebbe attaccato da Tabqa, Raqqa e Deir ez- Zor (da sud). Così come si era probabilmente stabilito nell’incontro tra il Mit e il Mukhabarat.
Magari con la scusa di porre fine al massacro (facilmente prevedibile se Daesh non fosse stata fermata in tempo) da loro stessi promosso, previsto e forse pianificato.
Se la pronta, coraggiosa risposta delle Fds ha impedito comunque un disastro ben peggiore, rimane il dubbio che a conti fatti quanto è accaduto possa ugualmente portare acqua al mulino dei due regimi. Potrebbe infatti fornire il pretesto (non solo a Damasco e Ankara, ma anche a Mosca e Teheran) per accusare l’amministrazione autonoma di incapacità e inadeguatezza. Di essere esposta ai rigurgiti di Daesh. Prima alimentati e innescati, poi strumentalizzati come alibi per “riportare l’ordine” in Rojava.
A consolazione, va ricordato che i curdi hanno dimostrato ancora una volta di essere un osso duro. Oltre che per i cani rabbiosi di Daesh, anche per i mastini di Ankara e Damasco.
Assalto al carcere di Sina

A completamento della ingarbugliata serie di eventi intrecciati nella zona denominata Mena giunge notizia (la riporta “Mediapart”) dell’eliminazione del capo dello Stato Islamico in seguito a un raid dell’esercito americano: un’esplosione ha raso al suolo la casa di tre piani che ospitava il turkmeno Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi (alias Abdullah Kardaş, ufficiale di Saddam Hussein, ovvero Amir Mohammed Abdul Rahman al Mawli al Salbi) e parte della sua famiglia che si è fatto saltare in aria al momento dell’attacco ordinato da Biden. Abitava ad Atamah, un villaggio nei pressi di un campo profughi al confine tra Siria e Turchia, in quella provincia di Idlib, che fa da zona cuscinetto pretesa da Erdoğan al momento della sconfitta dell’Isis di al-Baghdadi e da lui controllata… un’altra coincidenza?

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Khyber Pass: orizzonti perduti, orizzonti ritrovati https://ogzero.org/khyber-pass-mitico-luogo-nel-racconto-di-eric-salerno/ Sun, 05 Sep 2021 17:10:24 +0000 https://ogzero.org/?p=4834 Per concessione dell’autore e dell’Atlante delle Guerre pubblichiamo un estratto da “Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati”, appena pubblicato da il Saggiatore. Si racconta del mitico Khyber Pass e di com’era un giovane Pakistan che cercava il suo posto nel mondo. Non com’è oggi dove, sulla frontiera tra i due paesi, si accalcano gli afgani che vogliono […]

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Per concessione dell’autore e dell’Atlante delle Guerre pubblichiamo un estratto da “Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati”, appena pubblicato da il Saggiatore. Si racconta del mitico Khyber Pass e di com’era un giovane Pakistan che cercava il suo posto nel mondo. Non com’è oggi dove, sulla frontiera tra i due paesi, si accalcano gli afgani che vogliono sfuggire al regime talebano e alla miseria del loro paese dopo oltre 40 anni di guerra. Abbiamo pensato di accostare a questo racconto, quello – anch’esso di Eric Salerno – scritto nel dicembre 1960, che descrive le tribù che abitavano il Passo Khyber. Spunti di riflessione per capire la composizione tribale odierna e gli scontri tra comunità in quelle terre illustrati da immagini scattate dall’autore.


Passo Khyber. Abito scuro, camicia bianca e cravatta: io, invitato sulla rotta che sarebbe stata resa famosa dagli hippy europei e americani e che la Pakistan International Airlines, all’epoca una delle più importanti compagnie aeree dell’Oriente, forse del mondo, apriva al turismo d’élite. Siamo nel 1960, tredici anni dopo la Partizione, quella terribile divisione della vecchia India in due stati che costò la vita a un milione di persone, stravolse quella di centinaia di milioni e lasciò una ferita che oggi sembra più aperta di allora. Fu una delle mie prime esperienze all’estero da viaggiatore e giornalista insieme.

Sono nato nel 1939. La data di nascita del Pakistan è il 14 agosto 1947. Negli anni Sessanta il paese, giovane e antico allo stesso tempo, vide uno dei suoi momenti migliori. Io ero giornalista da poco, ma avevo un patrimonio invidiabile da sfruttare: oltre a me, solo un altro redattore di “Paese Sera” parlava l’inglese, ma era molto più grande e i suoi impegni mi regalarono ampio spazio di manovra. La lingua dell’Impero britannico in fase decadente e dei vincitori della Seconda guerra mondiale era ancora relegata in secondo ordine dagli italiani, dopo quella dei cugini odiati d’oltralpe. Eppure stava diventando sempre più essenziale nel mondo che iniziava ad aprirsi anche grazie allo sviluppo dell’aviazione civile, di cui avevo cominciato a occuparmi sulle pagine del battagliero quotidiano romano di sinistra, vera scuola di giornalismo.

Da Roma, il gruppo di reporter italiani, di cui ero il più giovane, volò fino a Londra per imbarcarsi sul volo inaugurale del primo 707 con i colori della Pia, un quadrigetto della Boeing, sulla rotta di Karachi, allora – ma ancora per poco – la capitale del Pakistan. Una prima classe come non ne vidi più. Un servizio impeccabile: la mia prima aragosta, champagne e tutto il resto. Tappa sotto la neve a Francoforte, un’altra a Zurigo. Poi la traversata del Mediterraneo e il mio primo approdo a Beirut, la Svizzera del Medio Oriente si diceva allora, dove ci aspettava una splendida cena levantina con tanto di danza del ventre in un ristorante dell’aeroporto prima di riprendere il volo per Teheran e, tempo di fare rifornimento, di assistere a un altro spettacolo di danza in un locale non distante dallo scalo. Arrivammo a Karachi all’alba, accolti da dirigenti della Pia, da una delegazione dell’ambasciata italiana e, scesi dal pulmino davanti allo storico hotel Metropole, da stormi di corvi neri.

Il verde, quello dell’islam, era il colore ufficiale della Pia e dello stato nato apposta per i musulmani, ma allora Karachi era una metropoli multiculturale, multietnica e multireligiosa aperta al mondo – più all’Occidente che all’Oriente – che usciva dalla Grande guerra numero due e dalla fine ufficiale degli imperi coloniali. Le divise delle hostess erano state disegnate da Pierre Cardin, icona della moda parigina, l’unico a fare testo. Turisti americani e britannici in costume prendevano il sole sulla spiaggia di fronte al mar Arabico. I locali notturni abbondavano. Le orchestre jazz imperversavano. L’alcol era tabù solo per chi non voleva bere. L’hashish, con discrezione, era accessibile a hippy e finti figli dei fiori di passaggio. Droghe più pesanti non mancavano. I camerieri in livrea del Metropole, luogo di ritrovo dei giornalisti stranieri, di una certa borghesia locale, dei turisti – avanguardia del boom degli anni a venire –, erano impeccabili nel loro servizio. E nel prendersi gioco dei clienti, ai quali propinavano prelibatezze della cucina locale che nemmeno un fachiro mangiatore di fuoco avrebbe mandato giù senza una smorfia di dolore. «Con un sorso di scotch si smorza tutto» e lo offrivano sorridendo….
….
Non ci sono turisti oggi a Peshawar e le botteghe della città di confine vendono soprattutto fucili, mitragliatrici, pistole, cartucce di ogni genere, cartucciere. Roba nuova di zecca e armi avanzate da quando, non molti anni fa, Usa e Urss si fronteggiavano indirettamente per il controllo dell’Afghanistan, uno dei paesi strategicamente più importanti della regione. Sarebbe riduttivo parlare solo di armi sui banchi dei negozi. Da quando le truppe di Mosca lasciarono il posto a quelle di Washington, il Pakistan (potenza nucleare come l’India) è direttamente o indirettamente coinvolto nei grandi traffici di stupefacenti, soprattutto oppio e i suoi derivati, partiti dalle ricche coltivazioni afgane. Ci vorrebbero livelli di turismo oggi nemmeno pensabili per sostituire e distribuire l’elevato reddito pro capite prodotto dalla droga.

E oggi – mi riferisco sempre ai gloriosi tempi pre Covid – non ci sono turisti nemmeno a Lahore, se non pochi gruppi isolati attirati da un paio di intraprendenti e molto sospetti travel blogger americani e inglesi. Una di loro è stata accusata di lavorare non soltanto per gli addetti al turismo locali ma addirittura per i servizi segreti, considerati molto vicini alle numerose organizzazioni terroristiche che operano nella zona. «Nessun pericolo» sostiene il regime (uno dei meno democratici di quella regione), la blogger «non fa che difendere gli interessi del popolo». Affermazioni che hanno provocato la dura reazione di organizzazioni antigovernative che denunciano come i diritti umani in Pakistan siano un’opzione, il terrorismo e il traffico di stupefacenti marcino mano nella mano, le donne vengano trattate come nel Medioevo e i dissidenti finiscano quasi sempre in galera se non sottoterra. Nonostante le campagne dei blogger entusiasti che riempiono il web di parole e filmati, girati anche in alcune delle zone più pericolose del paese, turisti e viaggiatori stranieri restano pochi. Passeggiare, come ebbi la possibilità di fare nei viali degli straordinari giardini Shalimar di Lahore, eredità del Gran Moghul Shah Jahan che li fece costruire nel 1641, è raro e spesso pericoloso. I giardini furono inclusi dall’Unesco tra i patrimoni dell’umanità nel 1981.

Hanno la forma di un parallelogramma oblungo, circondato da un alto muro a mattoni. Il giardino misura 658 metri sulla direttrice nord‐sud e 258 sulla est‐ovest. Ai giornalisti italiani invitati nel 1960 per raccontare le bellezze del paese e stimolare il turismo non fu difficile descrivere, nei loro articoli, la meravigliosa simmetria del vasto parco che si sviluppa su tre terrazze, sopraelevate di 4‐5 metri una dall’altra. Appuntai il loro nome in lingua urdu: Farah Baksh (“apportatrice di piacere”), Faiz Baksh (“apportatrice di bontà”), Hayat Baksh (“apportatrice di vita”).
Mi dicono che le guide turistiche più anziane non trovano difficile spiegare per quale motivo e come si è potuti passare dal boom degli anni Sessanta alla tragica situazione di oggi – gelosie tribali e intricati giochi politici –, ma preferiscono parlare dei tesori di questa città. La moschea imperiale, che coniuga passione, bellezza e gloria dei moghul, come altri luoghi di culto in giro per il mondo, fu sconsacrata più volte nel corso dei secoli e usata come presidio militare dagli invasori sikh e dai gentiluomini di Londra in divisa. I turisti che, come me, la visitarono negli anni Sessanta potevano apprezzarne l’architettura ma poco le sue opere d’arte, che soltanto di recente sono state restaurate e rimesse al loro posto, o sostituite.

La Pia era considerata una delle compagnie aeree principali del mondo e l’aeroporto di Karachi, la “porta all’Asia”. Titolo e funzione che avrebbe mantenuto durante tutto il boom economico e la rapida industrializzazione che accompagnarono la prima metà del regime militare di Ayub Khan, feldmaresciallo arrivato al potere con un golpe e votato a schiacciare corruzione e crimine nella vecchia capitale mentre preparava le basi per costruire quella nuova, Islamabad. Le spiagge di Karachi, scrisse all’epoca il “Washington Post” che raccontava la vita dei turisti stranieri, «sono le più pulite dell’Asia». E non soltanto le spiagge. Le vie del boom, con una nuova borsa, banche, società di assicurazioni, giornali, venivano «lavate con l’acqua tutti i giorni». Il sogno e il turismo sarebbero durati poco. Già nel 1965, pochi anni dopo la mia visita, le contraddizioni e i contrasti dovuti all’industrializzazione cominciarono a provocare i primi scontri tra la maggioranza muhajir di Karachi e i migranti pashtun, arrivati dall’Afghanistan in cerca di lavoro. La capitale era in difficoltà, ma lo era anche il resto del paese, che non riusciva a trovare pace nella sua faticosa ricerca di un’identità, sempre più islamica, sempre meno tollerante.

Ormai è chiaro, e quasi tutti gli storici e chi osserva le realtà del mondo di oggi concordano: i vecchi imperi avevano una tenuta che gli stati usciti dalla loro frammentazione non hanno ereditato. Negli anni Settanta i movimenti islamisti divennero più forti. Le attrazioni per i viaggiatori stranieri, meno appetibili. La minoranza cristiana, fulcro di una parte importante della vita notturna di Karachi, cominciò ad abbandonare il paese. Il declino lento ma inesorabile toccò anche alla Pia e l’aeroporto dell’ex capitale fu costretto a cedere l’etichetta di «porta dell’Asia» a Dubai. Nel 2002, agli scontri tribali e ai contrasti etnici si aggiunse una nuova forma di terrorismo. Decine di passanti furono uccisi da alcuni kamikaze che si fecero saltare in aria accanto all’albergo Marriott e all’ambasciata Usa.

Articolo di Eric Salerno su “Paese Sera” del 12-13 dicembre 1960.

Qualche mese prima, il giornalista del “Wall Street Journal” Daniel Pearl era stato rapito dopo essere uscito dal Village restaurant di fronte a quel famoso ma ormai decaduto albergo Metropole, sarebbe stato decapitato nel giro di pochi giorni. Nel 2007 gli dedicarono un film, Un cuore grande, e per girare la scena del rapimento fu richiesto un imponente cordone di sicurezza della polizia di Karachi. Erano stati i fondamentalisti islamici a uccidere il mio collega, non si voleva rischiare un’altra tragedia. Da allora pochi osano parlare di turismo occidentale da quelle parti.

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