Muammar el Gheddafi Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/muammar-el-gheddafi/ geopolitica etc Mon, 10 May 2021 13:47:35 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 I francesi non se ne sono mai andati dal Sahel. Parte 1 – Il Ciad prima di Déby https://ogzero.org/il-sahel-e-in-ebollizione-i-francesi-non-se-ne-sono-mai-andati-dal-sahel-parte-1-il-ciad-prima-di-deby/ Mon, 03 May 2021 08:56:24 +0000 https://ogzero.org/?p=3299 Inauguriamo con questo intervento di Eric Salerno, e con il successivo di Angelo Ferrari, cui si aggiunge un podcast finale che raccoglie un’analisi di Luca Raineri, una serie di articoli imperniati sul Ciad e la sua importanza per la regione del Sahel.  Le strategie neocoloniali si sono adeguate subito all’emancipazione africana che nel 1960 portò […]

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Inauguriamo con questo intervento di Eric Salerno, e con il successivo di Angelo Ferrari, cui si aggiunge un podcast finale che raccoglie un’analisi di Luca Raineri, una serie di articoli imperniati sul Ciad e la sua importanza per la regione del Sahel. 

Le strategie neocoloniali si sono adeguate subito all’emancipazione africana che nel 1960 portò all’indipendenza di 17 nazioni, dopo il processo di decolonizzazione seguito alla Seconda guerra mondiale. A sessant’anni di distanza la reazione alle richieste di autodeterminazione rimangono invariate: repressione attraverso governi-fantoccio di leader militari addestrati in accademie, installati al potere con lo scopo di depredare le risorse del territorio; appoggio dei conflitti etnici, che spesso nascondono strutture economiche in competizione per le stesse risorse della terra. Il Sahel è in ebollizione e la morte improvvisa di Idriss Déby, il gendarme di Francia usato negli ultimi 30 anni da tutti gli inquilini dell’Eliseo per interventi militari in tutta l’area, crea ulteriori tensioni, ribellioni e istanze anticoloniali. 


Il cuore della Françafrique

Tessalit è adagiato su un pendio che dal Sahara algerino scivola dolcemente verso il cuore del Mali. Nel 1969 le poche casupole di fango impastato circondate dalle acacie in fiore (mimose che si difendono con spine capaci di forare pneumatici) ruotavano attorno alla vecchia caserma della Legione straniera francese. Il suo comandante, un giovane ufficiale, ci accolse con tè e biscotti, un giradischi impolverato, tanti 33 giri di musica classica e la realtà di un mondo in transizione. Mezzo secolo dopo, quel mondo è ancora alla ricerca della sua vera identità. È Storia o soltanto cronaca quella degli ultimi cinquanta anni che si ripete mentre la maggioranza degli osservatori si concentra sul presente e guarda nell’attesa del nuovo il futuro sempre incerto? La scienza ha fatto balzi incredibili. Il mondo si è aperto come mai nella storia dell’umanità era accaduto. E, purtroppo, sbagliamo se crediamo che vecchie abitudini possano sparire con la stessa velocità.

Tissalit 1969

Dall’emancipazione panafricanista dei padri dell’indipendentismo (1960)…

Quellufficiale era arrivato a bordo di un fuoristrada di fabbricazione sovietica ad accogliere i quattro viaggiatori italiani che attendevano davanti al suo ufficio che era anche il suo domicilio. Era tirato a lucido. Indossava una divisa appena stirata. Lui, il capitano, era responsabile del “governatorato” nel quale ci trovavamo. Il suo francese era perfetto. Aveva studiato a Bamako, la capitale. Poi il servizio militare e l’accademia militare di St. Cyr in Francia, il luogo in cui i colonialisti, un po’ snob, avevano forgiato gli uomini in divisa che avrebbero dovuto guidare l’Impero. Il Mali, però, aveva scelto una strada autonoma. Il suo leader, Modibo Keïta, come molti altri padri della nuova Africa indipendente, si era appoggiato a sinistra, prima all’Urss, infine alla Cina. Lui, il capitano, era appena tornato da Mosca, l’ultima tappa nel suo percorso ma, ci confidò, preferiva St.Cyr. Si parlò più dell’Europa che del Mali e l’indomani ci chiedemmo per quale motivo l’ufficiale era sembrato restio a discutere le vicende del proprio paese. Qualche settimana dopo il nostro rientro in Italia, viaggio di piacere non di lavoro, lo ritrovai fotografato su un’altra jeep mentre sfilava a Bamako, la capitale del Mali. Un colpo di stato militare, caldeggiato da Parigi, aveva cambiato le carte in tavola.

… alle controrivoluzioni fomentate nelle accademie militari neocoloniali (fine anni Sessanta)

Sono oltre trenta le nazioni africane che hanno avuto, o hanno ancora, leader usciti dai ranghi delle forze armate. St. Cyr, era l’accademia dei francofoni; Sandhurst quella per la formazione iniziale degli ufficiali dell’esercito britannico. Felix Malloum, presidente e primo ministro del Ciad dal 1975 al 1978, era un prodotto dell’accademia militare francese, il suo “vicino” a nord, Muammar el Gheddafi di quello britannico. Jean-Bedel Bokassa, uno dei peggiori dittatori nella storia del continente, imperatore della Repubblica centrafricana, a sud del Ciad, aveva alle spalle una lunga carriera militare con le forze armate francesi. E merita di essere ricordato il sottufficiale Idi Amin Dada, che grazie a Gran Bretagna e Israele rovesciò con un golpe il progressista Milton Obote. Amin e Bokassa, re e imperatore, vengono spacciati per espressioni di unAfrica senza cultura. Invece sonoFigli della vecchia Europa: il titolo su un mio articolo del dicembre 1976 che cito solo per sottolineare come il mondo allora era consapevole dei giochi delle vecchie potenze. Tanto che a Parigi due anni dopo, Germania, Belgio e Gran Bretagna – ex potenze coloniali –- e Stati Uniti fecero capire senza mezzi termini che non si fidavano della politica di Valéry Giscard d’Estaing, come se loro fossero espressione di un mondo migliore.

Il conflitto etnico: l’altra faccia del neocolonialismo

Il Sahel è in ebollizione

Goukouni Ouaddei, presidente del Ciad dal marzo all’aprile 1979 e dal settembre 1979 al giugno 1982 non ha mai indossato la divisa. Rappresentava, però, un’altra realtà fondamentale del continente africano: il conflitto etnico, risultato in gran parte della politica coloniale e dai confini decisi a tavolino in Europa.

La prima volta che lo incontrai fu in una camera buia di un albergo di Tripoli dove godeva della protezione del leader libico e si preparava a tornare in patria. Aveva appeso alla parete una cartina del suo paese e mi spiegò la complessità della situazione geopolitica.

Il Sahel è in ebollizione

Goukouni Ouaddei illustra mappe rappresentanti le spartizioni del Sahel nel 1981. Non cambia molto

La geografia di ieri è la stessa di oggi. La politica, in qualche modo, pure. L’avrei rivisto, quel “protetto” del leader libico, a N’djamena dove nel 1981, ero arrivato dalla capitale libica a bordo di un aereo su cui avevano preso posto una manciata di giornalisti e una delegazione del governo di Tripoli che andava a festeggiare, diciamo così, il ritiro delle forze armate libiche dalla capitale ciadiana devastata dalla guerra.

“Il Messaggero”, 12 aprile 1981

Resistenza del Tibesti contro le appropriazioni coloniali: dai Senoussi (1935) ai Toubou (1973)

Per cercare di comprendere il passato, il presente e probabilmente il futuro, è fondamentale quella cartina appesa da Ouaddei alla parete della sua camera d’albergo. Lui, come mi raccontò allora, era figlio di Ouaddei Kichidemi, derde, ossia la maggiore autorità religiosa e politica dei Toubou del Tibesti, la vasta, impervia catena montagnosa che cavalca il confine tra Ciad e Libia. Là nacque l’ordine religioso dei Senoussi, la stessa che guidò la rivolta della Cirenaica contro il colonialismo italiano e che soffrì maggiormente per la violenza della repressione – genocidio – ordinata da Mussolini e perpetrata dal generale Graziani, criminale di guerra italiano.


Lo sceicco sulla forca

Si calcola che all’incirca ottantamila libici siano costretti a lasciare i loro villaggi per arrivare dopo una lunga peregrinazione, scortati dall’esercito, nei baraccamenti costruiti in pieno deserto, cinti di filo spinato e vigilati da postazioni armate. Le condizioni igieniche nei campi sono terribili, inoltre scarseggiano l’acqua e il cibo, tutto questo determina fra i deportati un altissimo tasso di mortalità. Alcune altre decine di migliaia di libici riescono a sottrarsi alla deportazione e si rifugiano in Egitto. La crudele strategia di Graziani funziona a meraviglia, alla fine della campagna “pacificatrice” la popolazione della Cirenaica si sarà ridotta di oltre un quarto.

Troncato con le reclusioni nei campi il nesso vitale fra i guerriglieri e la loro gente, Graziani può condurre la sua feroce offensiva. I reparti italiani e coloniali possono finalmente scorrazzare lungo le piste del deserto, sorvolate e sorvegliate, mitragliate e bombardate dall’aeronautica. Le oasi della resistenza vengono occupate l’una dopo l’altra. Eppure la resistenza rimane agguerrita e determinata. Di fronte allo spietato generale italiano si erge una figura destinata a entrare nella leggenda, quella di Omar al-Mukhtar, uno sceicco aderente alla confraternita senussita che comanda l’insurrezione armata in Cirenaica e si ritaglierà nella storia libica il ruolo di eroe nazionale.

Ma la sua determinazione non basta, le bande di al-Mukhtar possono ben poco contro un nemico che alla moderna organizzazione militare associa una brutalità medievale, un nemico che incendia i villaggi, avvelena i pozzi, sequestra i beni dei capi senussiti, bombarda l’oasi di Cufra, nido dei ribelli, ricorrendo addirittura a quegli stessi aggressivi chimici che pochi anni prima, sottoscrivendo un solenne patto internazionale, l’Italia si è impegnata a mettere al bando. Per impedire i contatti della guerriglia con il santuario egiziano, dove si rifugiano i ribelli e da dove arrivano aiuti e rifornimenti, viene costruita lungo la frontiera, nel deserto fra il mare e l’oasi di Giarabub, una barriera di filo spinato lunga 270 chilometri.

[Alfredo Venturi, Il casco di sughero, p. 80, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020]

 

Nel 1935, come al solito, i padroni di allora – Italia e Francia – giocarono una piccola partita a Monopoli con la terra degli altri. Con un trattato che prese nome dai suoi firmatari, Mussolini e Laval, la Francia cedette all’Italia un pezzo della terra dei Toubou come premio per la partecipazione di Roma alla Prima guerra mondiale e, ancora più importante, alla rinuncia italiana a rivendicare come propria la colonia francese della Tunisia abitata da molti italiani. Nel 1955 re Idriss I “restituì” il territorio (114.000 kmq) alla Francia. Nel 1973, la Libia di Gheddafi pensando ai giacimenti di uranio e altri minerali rari nella striscia invase quel territorio e citando laccordo Mussolini-Laval, lo annesse nel 1976. Curiosamente tutte le fazioni ciadiane, per contestare le pretese libico, citarono il più vecchio accordo (1899) tra Francia e Regno Unito.

Il Sahel è in ebollizione

Fazioni ciadiane in Guerra per l’uranio delle potenze occidentali (1975)

E qui dobbiamo ritornare, appunto, alle fazioni ciadiane, alla decolonizzazione, alle rivendicazioni tribali e regionali, alle alleanze interne ed esterne. E al bottino. Goukouni Ouaddei entrò nel mondo politico come militante del Fronte nazionale di liberazione del Ciad (Frolinat) che rappresentava le istanze delle popolazioni delle zone centrali e nordiche contro la dominazione dei sudisti rappresentati dal presidente Francois Tombalbaye, considerato uno strumento dellegemonia politica di Parigi nel paese. Il suo assassinio nel corso di un golpe militare nel 1975 aprì ufficialmente, si potrebbe dire, la guerra per le risorse – ingenti depositi di petrolio e uranio – che avrebbero dovuto trasformare radicalmente l’economia del paese e le condizioni della sua popolazione.

Il Sahel è in ebollizione

Eric Salerno, L’intervento libico in Ciad, “Il Messaggero”, 16 gennaio 1981

Da allora gli attori esterni hanno dominato la scena in una competizione che ha visto anni di guerra civile e gli interventi diretti della Libia di Gheddafi e della Francia spesso a sostegno alternato dei medesimi attori interni.

Teatrino di fantocci incrociati (primi anni Ottanta)

Così nell’aprile 1981 ritrovai Goukouni Ouaddei in una N’Djamena devastata dalla guerra civile dove era tornato a riprendere il potere grazie all’apparato militare libico che aveva invaso il paese. L’altalena delle alleanze incrociate e degli interventi armati per “stabilizzare il Ciad”, come spiegarono Parigi e i suoi alleati occidentali e non solo, non si è mai fermata da allora.

Il Sahel è in ebollizione

“Il Messaggero”, 16 aprile 1981

 

Nel giugno 1982 senza le truppe libiche a sostegno, Ouaddei fu costretto (da vecchi alleati come Hissene Habrè, l’uomo su cui per un certo periodo la Francia aveva puntato) a tornare al suo albergo tripolino e ripresero i giochi. Nel 1984, per 48 ore, ci fu una nuova sceneggiata nella capitale libica. Gheddafi e un inviato speciale di Mitterand si misero alla ricerca di un “terzo uomo” da sostituire ai due vecchi attori. La cronaca di quegli anni è solo storia di scontri armati, follie politiche e diplomatiche e di una popolazione divisa dalle radici tribali, religiose ed economiche (pastori contro agricoltori) a cui non viene consentito di trovare una via pacifica verso il futuro.

Il Sahel è in ebollizione

Un paese poverissimo, gendarme francese: la caserma Ciad

Il Ciad oggi è ancora uno dei paesi più poveri del mondo. Il 42 percento della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e secondo l’International Crisis Group, tra il 30 e il 40 per cento del bilancio annuale del paese viene destinato, guarda caso, alle spese militari. In questi giorni, dopo la morte di Idriss Déby Into, il cui ruolo di presidente è stato, per proclama dei militari, ereditato dal figlio, c’è un tentativo di mediazione da parte degli altri quattro paesi del Sahel (Mauritania, Burkina Faso, Mali e Niger) per trovare un punto d’incontro tra le tre correnti politico-militari su un possibile governo di unità nazionale. Un compito oggi probabilmente più difficile e complesso di ieri. Quella fascia del continente africano, come altre più a sud, è presa tra vari conflitti incrociati dove mai come prima l’Islam viene usato come arma di conquista e distruzione e nuovi attori, come la Cina e soprattutto la Turchia, guadagnano nuovi spazi e alleanze economiche e politiche.

 

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n. 6 – Primavere, rivolte e rivoluzioni: dieci anni di utili contaminazioni https://ogzero.org/l-eredita-delle-primavere-arabe-e-le-rivoluzioni-di-oggi/ Sun, 02 May 2021 09:50:35 +0000 https://ogzero.org/?p=3244 Questo articolo introduce una sezione nuova della raccolta di articoli di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria: analizzeremo le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medioriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe, e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative […]

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Questo articolo introduce una sezione nuova della raccolta di articoli di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria: analizzeremo le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medioriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe, e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti.


n. 6

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Correnti umane da un Medio Oriente interconnesso

L’area del Medio Oriente è particolarmente rilevante per l’analisi delle situazioni di instabilità politica o di perdurante conflitto dei paesi d’origine dei migranti che sfociano o che potrebbero presto sfociare, come nel caso del Libano, in correnti umane lungo la rotta dell’Egeo e lungo quella balcanica, per approdare in prossimità dei confini europei.

Dalla Rivoluzione dei Gelsomini alla fuga di Saleh

Al riguardo occorre sottolineare che difficilmente la precarietà istituzionale o gli episodi di violenza presenti in uno dei paesi mediorientali non va a dispiegare i propri effetti su un altro paese appartenente alla medesima area, anche se in modalità diverse e con diversa intensità. Se è vero, tuttavia, che l’onda propulsiva degli eventi che interessano i paesi del Medio Oriente è caratterizzata dalla contaminazione di un paese con l’altro, va altresì riconosciuto che l’area nell’ultimo decennio ha subito il contraccolpo degli effetti politici e sociali che dieci anni fa si sono generati mediante le cosiddette Primavere arabe – termine coniato dai media occidentali – a loro volta conseguenza delle proteste popolari contro le autorità dittatoriali allora detentrici del potere. Infatti, nel dicembre 2010 un venditore ambulante in Tunisia, Mohamed Bouazizi, si diede fuoco davanti al municipio della città di Sidi Bouzid come tragico simbolo di protesta contro il perdurante eccesso dell’impiego della violenza e della repressione delle forze di polizia fedeli al regime di Zine El-Abidine Ben Ali, a quel tempo da 23 anni al potere, nei confronti della popolazione civile. Nel caso specifico di Mohamed Bouazizi la polizia tunisina aveva sequestrato arbitrariamente il suo banco di vendita del pesce dinanzi all’assoluta indifferenza delle autorità. Da quel momento la Tunisia s’incendiò in tumulti popolari definiti come la “Rivoluzione dei Gelsomini” che portarono il presidente-dittatore all’esilio e al primo innesto di un processo democratico nel paese. Invece il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh fuggì in esilio in Arabia Saudita rassegnando le dimissioni e lasciando il paese in una situazione di completa instabilità. Le immagini di tale gesto di immolazione in Tunisia arrivarono negli altri paesi del Medio Oriente grazie all’emittente Al-Jazeera. Nel corso di qualche mese l’ondata di proteste si dispiegò in altri paesi dell’area del Nord Africa e in alcuni del Medio Oriente che progressivamente videro i vari regimi crollare uno a uno come le tessere di un domino: ciò avvenne in primo luogo in Egitto con le celebri proteste del 25 gennaio 2011 in piazza Tahrir. Non solo, se monarchie quali Giordania, Marocco resistettero a tali tumulti attraverso concessioni alle richieste del popolo grazie a esigue modifiche delle rispettive costituzioni, in altri paesi le proteste mutarono rapidamente in sanguinosi conflitti civili non ancora del tutto risolti, come avvenne in Siria contro il regime di Bashar al-Assad, in Libia durante la dittatura di Gheddafi e infine nello Yemen contro Ali Abdullah Saleh che nel 2012 lasciò il potere.

L'eredità delle Primavere arabe

Campo di ribelli della coalizione anti-Gaddafi, Ajdabiya in Libia, aprile 2011 (foto Rosen Ivanov Iliev).

In tutti i paesi interessati da tali reazioni popolari sono rintracciabili tre elementi comuni qualificabili quali: il disagio economico, la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi individui, quasi in una sorta di oligarchia economica ravvisabile in particolar modo nella cerchia di soggetti affiliati al regime di Ben Ali in Tunisia o quello di Bashar al-Assad in Siria e, infine, il controllo fortemente repressivo e autoritario della vita pubblica.

Le Primavere arabe sono davvero fallite?

Ad ogni modo, guardando alla situazione attuale degli stessi stati, tra cui l’Egitto retto oggi dal presidente dittatore Abdel Fattah al-Sisi, paese nel quale dieci anni fa i poteri autoritari erano stati sovvertiti dal popolo, si parla spesso di un fallimento di tali “primavere” e dell’incompiutezza del sistema democratico al quale esse stesse miravano attraverso l’affermazione di principi di libertà e di uguaglianza e la rivendicazione dei diritti civili, ma è realmente così?

Il dubbio tuttavia che un fenomeno importante – seppur incompiuto – si determinò a partire dalla fine del 2010 attraverso le cosiddette Primavere arabe, proviene proprio dall’analisi dei movimenti  di protesta che si sono dispiegati nel decennio successivo allo scoppio delle rivolte e che da ultimo, nel 2019,  hanno condotto alle dimissioni il presidente dell’Algeria Abdelaziz Bouteflika, e alla destituzione di Omar Hasan Ahmad al-Bashir in Sudan, nonché l’ondata di disperate proteste iniziate negli scorsi anni da parte della popolazione irachena e di quella libanese.

Ascolta “Lo stallo ad Algeri e la resistenza del movimento Hirak: un sistema da sovvertire” su Spreaker.

In particolare, in Libano gli scontri nell’ottobre del 2019 si sono verificati contro l’élite politica da sempre contraddistinta per la sua corruzione ed emersa con evidenza con la dichiarazione da parte del governo del default finanziario nel marzo del 2019 del quale ci occuperemo più specificamente in seguito. Con riferimento a tali paesi oggi si parla più che di “primavere” di vere e proprie “rivolte arabe” o di “rivoluzioni arabe”. Le proteste in Iraq e in Libano si muovono oltretutto in modo più maturo e consapevole dimostrando capacità di resistenza popolare alle provocazioni istituzionali durante gli scontri, nonché capacità dei manifestanti di riorganizzarsi e di essere costantemente presenti nonostante le misure anti-Covid-19 imposte dal governo, e purtroppo spesso da questo strumentalizzate con un fine chiaramente repressivo volto al mantenimento del proprio status quo.

Cosa quindi possiamo dire si sia generato con quelle controreazioni del popolo rispetto agli abusi dei poteri istituzionali, cosa è andato rompendosi in modo definitivo allora, nonostante dalle macerie ancora oggi non risorga in quei paesi la fenice di uno stato democratico?  Occorre fare una riflessione preliminare: i moti di protesta detti Primavere arabe, non sono altro che un fenomeno che rappresenta solamente la punta dell’icerberg di un malessere profondo e generalizzato per anni covato negli animi della popolazione civile di diversi paesi impossibilitata a vivere in stati non rispettosi dei propri diritti e delle proprie libertà non riconosciute a causa dei regimi totalitari presenti in essi.

Prestiti in cambio di una politica liberista

I primi accenni del malcontento popolare in realtà si devono ricercare nel fallimento economico degli anni Ottanta e Novanta che ha interessato molti paesi arabi. I sistemi di questi paesi negli anni Settanta si contraddistinguevano per essere delle economie socialiste mentre nei decenni successivi sono passati a un sistema di libero mercato che non ha avvantaggiato la popolazione ma esclusivamente l’élite al potere. Negli anni Ottanta in particolare si determinò la crisi del sistema economico e iniziarono le proteste da parte del popolo che non beneficiava del medesimo benessere e che invece veniva ostentato dalla classe politica. I paesi arabi negli anni accumularono infatti ingenti debiti pubblici che li portarono a negoziare nuovamente con la Banca mondiale i fondi internazionali ricevuti, promettendo in cambio un approccio neoliberista delle proprie economie che come detto determinò una disparità sociale con un peggioramento della condizione popolare. Ciò avvenne in primo luogo in Algeria nel 1988 con il crollo dei prezzi del petrolio. Ci si rese ben presto conto tuttavia che le egemonie allora al potere in molti paesi arabi non avevano alcun interesse alla promozione di un sistema democratico che resta ancora oggi un’utopia in quest’area. La società invece era retta sempre da un sistema di forte repressione e di controllo della popolazione civile. L’errore in quel caso fu anche da parte dell’Occidente, illuso di poter negoziare con gli autoritarismi arabi, dandone per scontata la stabilità politica e la loro condizione di immobilismo, preoccupati dell’instaurazione di un sistema di privatizzazione economica da parte dei regimi islamici.

Il popolo anestetizzato e oggetto passivo della politica

Nel 2011 la natura dei poteri contestati dalla popolazione furono monarchie come Marocco, Giordania e Arabia Saudita che legittimano il loro potere nell’appartenenza a clan familiari o le repubbliche nazionaliste dittatoriali come l’Egitto che dichiaravano di assicurare una sorta di welfare generalizzato dei servizi pubblici per la popolazione, tuttavia senza mai dotarsi di un apparato per la loro erogazione. La narrazione infatti da parte delle autorità politiche delle repubbliche nazionaliste in questo caso si concentrò sulla costante minaccia di qualche potere esterno finalizzata al rafforzamento politico interno della loro condizione e anestetizzando il popolo con tale retorica per diversi anni rispetto a quanto stava realmente accadendo. Infine, il Libano invece costituiva in quegli anni un unicum rispetto al sistema statale, essendo contraddistinto da un sistema confessionale del potere al quale passò anche l’Iraq dopo il 2003.  A crollare, come detto sopra, nel 2011 furono soprattutto le egemonie nazionaliste venendo messo in discussione per la prima volta in modo propulsivo il patto sociale tra la popolazione civile e le autorità al potere. Infatti, a parte le specificità di ogni singolo paese, ciò che emerse già negli anni Ottanta e Novanta così come nei primi anni del Duemila fu la volontà del popolo arabo di affermare la propria cittadinanza attiva che si manifestò proprio in quei paesi nei quali il potere non investiva sul protagonismo e sulla volontà popolare come in Algeria o in Egitto. In questi paesi, già allora e successivamente mediante le primavere arabe, e ancora oggi, il popolo richiede il riconoscimento da parte delle istituzioni della società da esso costituita e contraddistinta e di tutte le sue articolazioni, stanco ormai di essere mero oggetto passivo della politica. A distanza di anni, proprio alla luce di valutazioni che affermano il fallimento di tali moti rispetto al processo di democratizzazione, si deve dunque riflettere se semplicemente nel 2011 non sia stata maturata la capacità di operare una precisa e corretta individuazione, da parte del popolo, della causa della mancanza di riconoscimento delle libertà civili e dei diritti politici. Infatti, come si comprende meglio dopo dieci anni, tale mancanza di riconoscimento non è tanto da rinvenirsi nelle figure autoritarie, allora al potere, come per esempio Hosni Mubarak e Abdelaziz Bouteflika, quanto piuttosto nel sistema a esse sottostante, ossia quello di regimi che come vediamo non sono mutati ma piuttosto peggiorati.

Non a caso, nonostante il colpo di stato, ancora oggi, con la salita al potere del presidente al-Sisi, l’Egitto rimane oggetto di numerose contestazioni popolari alle quali il governo risponde con l’applicazione di una forza militare altamente repressiva. Di fatti i manifestanti egiziani oggi dirigono le loro proteste non più verso lo stato civile quanto piuttosto contro il regime militare.

I malcontenti sono gli stessi…

Tornando poi al malcontento popolare, manifestato più specificamente dal 2018 al 2020 in Algeria, Iraq e Libano, vi è da sottolineare che le primavere arabe dispiegarono i loro effetti in parte, senza essere sovversive del sistema politico allora al potere, o per nulla in questi paesi, diversamente da quanto avvenne in altri, sia del Nord Africa che del Medio Oriente, come già evidenziato sopra. In Libano, in Iraq o in Algeria sono emersi comunque oggi gli stessi malcontenti di allora: in Algeria ancora una volta contro il presidente Abdelaziz Bouteflika, costretto a dimettersi il 2 aprile del 2019.

L'eredità delle Primavere arabe

Algeri, 5 aprile 2019: Rachid Nekkaz, attivista fondatore del Mouvement de Jeune et Changement (MJC), dopo la cacciata di Bouteflika (foto Soheib Mehdaoui). Si trova in isolamento in carcere dal dicembre 2019.

Migliaia di manifestanti tunisini, algerini, come in passato e iracheni e libanesi per la prima volta, sono scesi negli ultimi anni in strada accusando le forze di sicurezza e l’élite al potere di corruzione e di gravi violazioni dei diritti umani. Questo aiuta a comprendere oggi come alcuni fenomeni rimandino più all’idea che le Primavere arabe furono la manifestazione di una “malattia cronica” e non “semplicemente acuta”. I ragazzi che oggi manifestano hanno vissuto la dittatura durante la loro infanzia e vivono la condizione di una democrazia sospesa, a questo va aggiunto il ruolo delle forze del sedicente Stato Islamico che hanno portato un aggravio di situazioni sociali e politiche già logorate.

L'eredità delle Primavere arabe

Proteste a Beirut (foto alichehade).

… ma è aumentata la povertà

Si può dunque ipotizzare che le primavere del 2011 abbiano cambiato solo la facciata dei sistemi politici allora al potere, ma ne sono rimaste per decenni intatte le loro dinamiche. Inoltre, con riferimento ai recenti tumulti che hanno interessato Algeria, Iraq e Libano va detto che la pandemia diffusasi nello scorso anno non ha fatto altro che accelerare ed esacerbare tali dinamiche legate ai poteri di sempre e che portano tuttora i giovani a manifestare per l’acquisizione degli stessi diritti, ma in una condizione di povertà senza precedenti.

In conclusione, quindi si può affermare che anche se le richieste politiche economiche e sociali sono ancora disattese – nonostante le Primavere arabe e le rivoluzioni arabe verificatesi negli ultimi anni – occorre forse che trascorra ancora del tempo affinché tali istanze civili possano effettivamente determinarsi con un conseguente cambiamento del sistema politico e del ruolo della società civile. Sarà tuttavia il popolo capace di resistere ancora una volta?

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n. 2 – Mali e Niger: conflitti e instabilità nel Sahel https://ogzero.org/n-2-mali-e-niger-conflitti-e-instabilita-nel-sahel/ Sun, 11 Apr 2021 08:22:10 +0000 https://ogzero.org/?p=2912 Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere […]

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Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui il secondo contributo, focalizzato sulla regione del Sahel.


n. 2

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Sahel: estrema povertà, crescita demografica e marginalità delle comunità periferiche

Secondo l’interpretazione dell’Unione Europea a far parte di quest’area sono i cosiddetti paesi del G5, ossia Mali, Mauritania, Burkina Faso, Ciad e Niger. Nell’area è presente un forte attivismo dei gruppi armati jihadisti in particolare nei territori del Mali, Niger e Mauritania, favoriti anche dai confini estremamente porosi tra i tre paesi. Ad ogni modo tutti gli stati appartenenti all’area del Sahel sono oggi interessati da traffici illeciti di armi, droga e di uomini nonché da massicci fenomeni migratori che spingono l’Europa a esternalizzare nella regione le sue frontiere, come vedremo in seguito. I paesi del Sahel infatti si trovano in una condizione di instabilità dalla caduta del regime di Gheddafi in Libia. Già nel 2014 emergeva la drammatica condizione del Sahel: estrema povertà dell’area, forte crescita demografica e marginalità delle comunità periferiche. Questi fenomeni sono stati acuiti proprio dalla caduta di Gheddafi, dalle Primavere Arabe determinate nel Nord del continente africano, e dalla diffusione degli estremisti di matrice fondamentalista.

Le missioni Onu

Soprattutto in ragione della presenza di gruppi terroristi nei territori del Sahel è dovuto l’intervento di forze internazionali ed europee nell’area con la missione Onu Minusma, missione di pace nella regione del Mali, e rispettivamente con le missioni europee: Eucap in Niger per fornire assistenza alle forze di sicurezza interne al paese e per un maggiore coordinamento con altri paesi del Sahel, in particolare con Mali e Mauritania, Eucap in Mali con lo scopo di difendere la democrazia già flebile per ristabilire l’autorità di uno stato in un territorio dove le forze jihadiste sembrano inarrestabili. Infine, si segnalano l’Eutm, ossia la missione europea per fornire assistenza e mentoring alle forze armate maliane, e la Racc missione europea per consentire in Mauritania e in Ciad una maggiore e più stabile presenza europea.

Missione Minusma in Mali (foto del Ministero della Difesa dei Paesi Bassi)

Il mese di marzo è stato interessato da diversi scontri tra le ramificazioni di al-Qaeda e l’Isis nel Sahel, nella regione delle tre frontiere tra Burkina Faso, Mali e Niger. Il conflitto si è verificato da ultimo tra il gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani ossia lo Jnim affiliato ad al-Qaeda e l’Isgs ossia lo Stato Islamico nel grande Sahara. Secondo l’istituto per gli studi di politica internazionale tale conflitto può essere legittimamente qualificato come uno dei più cruenti al mondo.

Conflitti e instabilità nel Sahel

Video propagandistico rilasciato dalle milizie Jnim (foto Menastream)

Jnim e Isgs condividono origini comuni nella rete di al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi). Tra i due gruppi infatti vi erano legami personali e di lungo periodo basati anche su azioni coordinate per affrontare nemici che allora erano comuni, contraddistinti dalla mancanza assoluta di lotte intestine jihadiste tra loro.

Tuttavia, negli ultimi anni si sono strutturati in maniera diversa: l’Isgs si è fondato nel 2015 dopo essersi separato da al-Mourabiton, movimento affiliato ad al-Qaeda. Tuttavia, il suo rapporto con al-Qaeda non è mai terminato e anzi, ancora oggi, si riscontrano tra loro accordi, collusioni e relazioni di coesistenza nel territorio.  Lo Jnim, fondato invece nel 2017, ha riunito diversi gruppi jihadisti disparati in diverse aree, tra cui proprio il gruppo al-Mourabiton e il gruppo jihadista burkinabè Ansarul Islam.

L’Isgs, gruppo piccolo e oscuro, dotato di una rudimentale infrastruttura multimediale ha saputo sfruttare l’assenza dello stato nelle comunità remote, intercettando le sensazioni di abbandono della popolazione civile e gli interessi delle comunità pastorali presenti nell’area, al contempo non ha dimostrato alcuna reticenza a incorporare anche unità dello Jnim, indebolite o marginalizzate. Lo Jnim nello stesso periodo ha preferito maggiormente rafforzare il suo processo d’integrazione nell’Isis. Nel 2019 con un’azione simultanea le due forze jihadiste hanno preso possesso della regione al confine dei tre stati costringendo al ritiro gli eserciti locali. Oggi l’Isgs sfida apertamente lo Jnim vantandosi delle sue vittorie su questo. Lo Jnim scredita apertamente l’Isgs per le vittime civili a causa dei suoi militanti.  A questa situazione si aggiunge la pressione delle forze militari contro il terrorismo, guidate dalla Francia nella missione Barkhane. È necessario quindi interrogarsi come sia nata tale missione e a che punto si trovi oggi rispetto ai fini precostituiti in passato e che legittimano la sua esistenza nella regione del Sahel.

I francesi nel Sahel: i movimenti in Azawad

La Francia era stata già presente militarmente nell’area del Sahel con la missione Serval. Il presidente Hollande nel 2013 è intervenuto con tale operazione in esito ad alcuni accadimenti di particolare rilievo che avevano interessato il Mali. Dopo la caduta di Gheddafi, infatti, la maggiore instabilità del Sahel si era riscontrata nei territori sahariani del Nord del Mali, nella regione dell’Azawad, che dopo l’indipendenza dalla Francia nel 1960, sono passati a Bamako.

La caduta del regime dittatoriale libico infatti ha provocato la formazione di movimenti filoindipendentisti tuareg nei quali militavano non solo cittadini maliani, ma anche altri cittadini africani con un background militare non indifferente. Alcuni di loro provenivano proprio dalle fila militari lealiste di Gheddafi. Tali militanti insieme hanno fondato l’Mnla, ossia il Movimento di Liberazione dell’Azawad. Questo fenomeno e la concomitante condizione di malcontento nelle caserme militari e l’incapacità delle forze militari maliane di fermare gli stessi movimenti filo-indipendentisti, nonché l’appoggio fornito ai tuareg da parte di al-Qaeda, hanno contribuito in modo fondamentale alla determinazione del colpo di stato nel dicembre 2012 in Mali. Il colpo di stato è stato infatti condotto dai tuareg e dai gruppi estremisti islamici. Tuttavia, dopo il colpo di stato, i gruppi estremisti hanno sempre più limitato la presenza dei tuareg negli interventi militari e hanno portato il conflitto sempre più a sud del paese fino ad arrivare a Konna, località non lontana dalla capitale Bamako. A questo punto il governo maliano ha chiesto aiuto e supporto a Parigi e alle forze militari francesi, in accordo con la comunità economica degli stati dell’Africa occidentale.

Dall’operazione Serval a Barkhane

L’operazione Serval, quindi, prima attraverso dei bombardamenti aerei, poi con dei gruppi militari di terra, costringendo i ribelli a fuggire nuovamente a Nord, ha consentito che Bamako riacquisisse il controllo di quasi tutto il territorio del Mali. In seguito a tale operazione, nel 2014, i francesi con l’operazione Barkhane, sono intervenuti nuovamente a livello militare in Africa, non solo in Mali, ma anche in tutta la regione del Sahel comprendente i cinque stati sopracitati. L’operazione Serval, quindi, è stata ristrutturata e rinominata.

I colpi di stato

In ogni caso questa volta, nonostante la presenza militare della Francia, ad agosto del 2020, si è verificato un nuovo colpo di stato simile a quello del 2012. Infatti, vi è stato l’ammutinamento della base militare a Katim e il presidente Ibrahim Boubacar Keita è stato rimosso. Ritorna l’elemento comune al colpo di stato del 2012 del malcontento delle Forze armate del Mali rispetto al governo centrale.  Ad agosto del 2020 Amnesty International con un comunicato si è detta estremamente preoccupata per l’arresto dell’ormai ex presidente del Mali, Ibrahim Boubacar Keita, dell’ex primo ministro Boubou Cissé e di altri esponenti del deposto governo a opera del Comitato nazionale per la Salvezza del Popolo, autore del colpo di stato del 18 agosto 2020. L’organizzazione ha chiesto alla giunta militare che ha assunto il potere di liberare tutte le persone arrestate – tranne quelle per cui possono provare che siano state autrici di crimini riconosciuti dal diritto internazionale – e di impegnarsi a rispettare i diritti umani. Amnesty International ha espresso preoccupazione anche per la notizia riguardante la morte di 4 persone e il ferimento di 15 colpite da armi da fuoco in circostanze ancora poco chiare. Il colpo di stato si è verificato, come specifica l’organizzazione umanitaria, in un contesto di forte crisi politica, nata in seguito alla proclamazione dei risultati delle elezioni legislative dell’aprile del 2020 e acuitasi durante le proteste di massa, promosse e dirette, dal mese di giugno, dal Movimento 5 giugno Fronte patriottico di resistenza. Il 10 luglio scorso le proteste, infatti, ricorda Amnesty erano state soppresse dalle forze di sicurezza con estrema brutalità. Alla fine della giornata i morti erano stati almeno 14 e i feriti 300. La crisi istituzionale, infatti, è stata esacerbata dalla questione Covid, che ha provocato numerosi scioperi e un peggioramento del sistema educativo. Per tali motivi il presidente ha deciso il rinvio delle elezioni legislative in Mali e, in seguito, i giudici della Corte Costituzionale in Mali hanno accolto il ricorso dell’ex presidente Boubacar Keita assegnandogli 8 seggi in più rispetto a quanti ne risultavano dall’esito delle votazioni. Questo è stato uno degli elementi che ha portato al colpo di stato questa estate.

Milizie e gruppi terroristici

In tutta l’area del Sahel, ad ogni modo, si rileva la presenza costante di gruppi terroristi ed è per questo che molte forze internazionali ed europee hanno deciso di intervenire negli ultimi anni nella regione. Tra tali gruppi terroristici, tuttavia, ci sono state molte tensioni negli ultimi anni come tra al-Qaeda e Stato Islamico nel Sahel, per cui oggi, con riferimento alla regione, si parla di “terrorismo non unitario”. Tuttavia, vi sono anche moltissimi gruppi armati non terroristici (groupes armés non identifiès) che sono da considerarsi comunque pericolosi come quelli terroristici e così anche le forze armate maliane autrici di molteplici abusi che rappresentano un terzo delle violenze perpetrate nell’area. È bene, tuttavia, soffermarsi sui gruppi non terroristici presenti nell’area. La proliferazione di gruppi non statali armati nel Sahel ha determinato violenza e insicurezza nella regione; tali gruppi, come visto, oltre a quelli estremisti violenti, sono gruppi armati politicamente motivati, le milizie di autodifesa, i gruppi di sicurezza locali. L’aumento di tutti i gruppi armati presenti nella regione riflette in ogni caso l’incapacità degli stati del Sahel di esercitare il monopolio della forza in modo da proteggere efficacemente i loro cittadini e preservare l’integrità del territorio. Gli attori non statali infatti operano in modo scioccante in spazi in cui la presenza dello stato è debole o contestata, come per esempio le aree rurali e di confine, così come le aree maggiormente periferiche. Il Niger – nonostante una politica che afferma “tolleranza zero” verso le milizie locali e i gruppi di autodifesa – non è stato risparmiato dai gruppi estremistici violenti che stanno guadagnando sempre più terreno nel territorio nigerino. In Mali, invece, le regioni di Mopti e di Segon, interessate da conflitti secolari, da una limitata presenza delle forze di sicurezza dello stato e da un facile accesso alle armi, hanno condotto alla creazione di gruppi locali di autodifesa su base comunitaria e di milizie locali.

Ascolta “Le frontiere liquide del Sahel” su Spreaker.

I gruppi armati non violenti ed estremisti, ma politicamente motivati, invece in Mali sono stati ritenuti ufficialmente partner legittimi per lo stato con cui lavorare, come è avvenuto con gli accordi di pace e di riconciliazione del 2015.

Barkhane: una missione controversa

In questo scenario è importante capire quali siano dunque le prospettive per l’operazione Barkhane nel Sahel. Macron, infatti, ha ribadito l’impegno della Francia nell’area del Sahel con la missione, senza una diminuzione delle forze armate militari impiegate nell’area. L’obiettivo principale di Macron è quello di annientare militarmente i principali gruppi terroristi jihadisti che hanno fatto del Sahel la propria roccaforte. Barkhane è la più ingente missione europea su suolo africano e fornisce training, mentoring, supporto logistico ed intelligence alle forze armate e all’intelligence dei paesi del G5, in un’ottica di cooperazione governativa della politica di sicurezza contro il terrorismo. Tale ultima dichiarazione del presidente francese ha destato non poco stupore in ambito internazionale poiché Macron aveva precedentemente comunicato la volontà di ritirare circa 600 uomini facenti parte dell’unità di supporto in Burkhinabé, facendo trapelare l’intento di rimodulazione dell’intervento del contingente, in linea con parte dell’opinione pubblica francese che ha assunto opinioni critiche sulla missione.

Takouba: quando Barkhane non basta

Infatti, la Francia nella missione ha visto il verificarsi di molteplici incidenti e 55 vittime tra i militari francesi nonostante con Barkhane si siano riportati dei “successi” come l’uccisione di Abdelmalek Proukdel, il leader di al-Qaeda nel Maghreb islamico. La missione viene criticata perché concepita solo sotto il profilo militare e diversa dagli approcci degli stati G5 e delle Nazioni Unite che concepiscono come strumento utile per lo state-building, la riduzione dei conflitti e la capacità di negoziare con i principali gruppi insorgenti nell’area in quanto darebbe a Parigi la possibilità di strutturarsi come presenza di medio-lungo periodo nella regione del Sahel.

Conflitti e instabilità nel Sahel

Operazioni della Missione Takouba

Su queste basi infatti sembrerebbe nata l’idea della missione francese Takouba, ossia una missione che implicherebbe il coinvolgimento di altri paesi in sostegno alla propria attività militare nel Sahel alla quale hanno già aderito, a livello intenzionale, Belgio, Danimarca, Italia, Estonia, Olanda e Repubblica Ceca. Tuttavia, la missione Takouba sembra fondarsi più su un approccio massimalista che riflessivo, ossia poiché Barkhane non sta funzionando come previsto, occorre aggiungere altro supporto militare e quindi chiedere ad altri paesi europei di partecipare alla propria missione militare con forze congiunte.

Al proposito Antonio Mazzeo può approfondire l’aspetto relativo all’impegno militare, estendendo il discorso a strategie neocolonialiste

Ascolta “Missioni coloniali in Sahel: tassello della guerra globale e della spartizione del mercato africano” su Spreaker.

Le armi come aiuti umanitari

I conflitti armati nel Sahel hanno coinciso con un aumento di importazione delle armi da parte dei paesi G5, in particolare Mali e Burkina Faso. Alcuni di questi trasferimenti sono stati finanziati dall’Unione Europea o sono stati consegnati come aiuti umanitari da parte della Francia, del Qatar o degli Emirati Arabi Uniti. Secondo il Sipri, infatti, diverse grandi potenze stanno usando le forniture di armi come uno strumento di politica estera per aumentare l’influenza nell’area.

Inoltre, in Niger si è registrata negli ultimi giorni una recrudescenza dei conflitti che desta grande preoccupazione a livello internazionale. Il 15 marzo 2021 sono rimaste uccise 58 persone e si registrano molti feriti in seguito all’attacco sferrato contro gli abitanti dei villaggi che facevano ritorno dal mercato settimanale di Banibangou, nella regione di Tilabèri, in prossimità del confine con il Mali.

Insicurezza interna

Gli autori di questa strage anche in questa circostanza sono ritenuti “gruppi armati non identificati”; il medesimo giorno i gruppi hanno attaccato anche il villaggio di Darey Dey nel quale sono rimasti uccisi tutti gli abitanti e si sono verificati episodi di saccheggio, devastazioni e incendi. Lo scopo di tali attacchi è quello di costringere la popolazione locale, attraverso atti violenti e vandalici, a lasciare i territori di appartenenza. La sessa zona di Tilabèri, tra l’altro, era stata interessata a gennaio del 2020, da un’uccisione di massa rivendicata, in questo caso, dallo Stato Islamico nel Grande Sahara.

Ancora, il 21 marzo 2021 sono stati uccisi 40 civili nei villaggi di Intazayene, Bakorat, e AkiFakit nel distretto di Tillia, nella regione di Tahoua, sempre in prossimità del confine con il Mali. La regione stessa ospita diversi rifugiati maliani. In questa zona di confine normalmente operano diversi gruppi terroristi, in particolare lo Stato Islamico nel Grande Sahara. Anche la responsabilità di questo ulteriore drammatico evento viene attribuita a “non meglio identificati individui armati”.  In realtà, a causa dell’attacco nel distretto di Tillia, di domenica 21 marzo, è salito a 137 il bilancio delle vittime.

Tra dicembre 2020 e marzo 2021, mentre in Niger erano in corso le elezioni, infatti, sono state uccise complessivamente circa 262 persone, tutte civili, la maggior parte proprio da gruppi armati non identificati. La questione si incardina proprio nell’impossibilità di comprendere il fenomeno alla base di tali attacchi poiché quasi nessuno di essi è stato rivendicato. La tesi prevalente è quella, al momento, che tali gruppi armati non identificati vogliano operare, attraverso le proprie attività criminali, una sorta di pulizia etnica.

In questo momento storico dunque il Niger si trova ad affrontare, oltre agli atti di natura terroristica anche gli scontri politici determinati dagli esiti delle votazioni elettorali del 21 febbraio del 2021 che hanno decretato la vittoria ufficiale di Mahamane Bazoum, contestata fortemente dall’altro candidato, Mahamane Ousmane che ha denunciato brogli e ha promesso forti proteste nel paese. Per Bazoum, quindi, che assumerà la carica il prossimo, 2 aprile 2021, la questione securitaria è certamente la prima da affrontare.

Fonti:

L'articolo n. 2 – Mali e Niger: conflitti e instabilità nel Sahel proviene da OGzero.

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Tuareg, i curdi dell’Africa? https://ogzero.org/il-deserto-diventa-pantano-in-libia/ Fri, 02 Oct 2020 11:28:43 +0000 http://ogzero.org/?p=1333 L'indipendenza e autodeterminazione dei popoli del Fezzan e della Nigeria passa attraverso la collaborazione tra tuareg e tebu, ma anche contro il neocolonialismo occidentale, soprattutto francese, che mira a controllare oro, uranio, petrolio, acqua e vuole imporre la sua presenza militare attraverso missioni Onu con il pretesto di combattere il jihadismo, con cui brevemente e riconoscendo l'errore il popolo azawad si era alleato nel 2013

L'articolo Tuareg, i curdi dell’Africa? proviene da OGzero.

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Se non proprio malevola, almeno superficiale.

Così almeno mi era apparsa la semplificazione mediatica con cui si proiettava lo spettro jihadista sull’ultima – per ora – ribellione tuareg. Arrivando a sostenere che certe etnie del Mali non potevano essere altro che “vittime o complici dell’islamismo più feroce”.

Tertium non datur.

In realtà – credo – la questione è più complessa. Si doveva, almeno, precisare quale fosse – e quale sostanzialmente sia – la condizione in cui versano i tuareg. Quella di una “nazione senza stato” che vive, si sposta e – se del caso – combatte ben oltre i ristretti confini del Mali. Per inciso. Appare evidente l’analogia con la nazione curda, ugualmente frantumata da vari confini statali, più o meno artificiosi, a seguito dei ben noti processi di “decolonizzazione controllata” del secolo scorso.

Invece si è cercato di interpretare la diffusione, il dilagare dell’islamismo radicale come effetto collaterale del “rientro” (in realtà una dispersione) delle “milizie nomadi” (in parte costituite da combattenti tuareg) già “alleate del beduino Gheddafi”. Senza interrogarsi in merito alle ragioni che avevano spinto molti tuareg, legati o meno al Mnla (Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad) in Libia.

Indipendenza e autodeterminazione azawad

Alla fine del Novecento le lotte per l’indipendenza (o almeno per l’autonomia, il decentramento) e gli scontri armati tra le milizie tuareg e gli eserciti di Mali e Niger risultarono deleteri soprattutto per le popolazioni civili, oggetto di repressione e brutali massacri.

Come per esempio nel 1990 a Tchin Tabaraden in Niger.

E forse non è un caso che anche attualmente nel Niger permangano gruppi armati che lottano per l’autodeterminazione. Tra questi il Mnj (Mouvement des Nigériens pour la justice).

Oltre alla liberazione dei prigionieri politici tuareg e alla possibilità di svolgere liberamente attività politica, il Mnj esige dal governo di Niamey la fine dello sfruttamento coloniale dei territori abitati dai tuareg (vedi le miniere di uranio, devastanti per la salute della gente, in mano alle multinazionali straniere come la francese Areva).

Altra organizzazione armata in parte ancora operativa (o almeno nel primo decennio del XXI secolo) il Front des forces de redressement. Avrebbe (meglio il condizionale in attesa di conferme) invece deposto definitivamente le armi il Front patriotique nigérien.

La svolta islamista: faida interna e non conversione religiosa

Comunque, tornando alla caduta di Gheddafi, all’epoca buona parte dei tuareg prese la via del ritorno. Talvolta portandosi appresso una discreta quantità di armamenti sofisticati. Salvo poi – magari incautamente – venderle a gruppi jihadisti ben riforniti di petrodollari. Peggio ancora. Qualche ex esponente del Mnla (vedi Iyad Ag Ghali) si era avvicinato da tempo alle milizie jihadiste, anche in contrapposizione con gli ex compagni di lotta.

Più che una conversione religiosa, la vedrei come il risultato di personalismi, concorrenze e faide interne.

Risaliva al 6 aprile 2012 la dichiarazione unilaterale di indipendenza dell’Azawad che di fatto aveva temporaneamente spaccato il Mali in due. Ma dopo nemmeno venti giorni – forse per inesperienza, stupidità o sotto minaccia come nei matrimoni forzati – alcuni referenti del Mnla presenti sul campo firmavano un accordo-capestro con Ansar al-Din, gruppo islamista finanziato da al-Qaeda nel Maghreb islamico. Con la velleitaria creazione di un Consiglio transitorio dello Stato Islamico dell’Azawad formato da 40 membri, 20 del Mnla e 20 di Ansar al-Din.

Risvolto grave, l’applicazione della sharia e la costituzione della polizia islamica (hisba).

A sua parziale giustificazione Bilal Ag Sherif, segretario del Mnla e firmatario dell’accordo, sosteneva di aver agito per evitare una guerra interna tra tuareg e convincere i fratelli integrati in Ansar al-Din ad abbandonarne i ranghi.

Un accordo che era lecito definire una “mostruosità” e appunto come tale veniva sconfessato dal coordinamento dei responsabili del Mnla.

Il portavoce del Mnla Habaye Ag Mohamed riteneva «inconciliabile con la linea politica del Mnla l’atteggiamento fondamentalista e in particolare il jihadismo salafita portato avanti da Ansar al-Din».

Bilal Ag Sherif, firmatario del documento, veniva richiamato all’ordine e costretto a rompere tale accordo.

Per Nina Valet Intalou, esponente dell’Ufficio esecutivo del Mnla, bisognava «rigettare categoricamente questo accordo, perché cercare di evitare una guerra fratricida non significa accettare il diktat imposto da gruppi oscurantisti».

Il documento, spiegava: «era stato firmato pensando che i nostri fratelli tuareg schierati con Ansar al-Din avrebbero lasciato questa organizzazione terroristica. Avremmo potuto accettare uno Stato islamico democratico, pensando che noi siamo già musulmani. Ma il documento proposto da Iyad Ag Ghali è veramente contrario agli obiettivi del Mnla e alla nostra cultura. Quello che lui vorrebbe è uno stato talebano».

Ovviamente nel 2012 il confronto veniva spontaneo con i talebani. Oggi probabilmente si evocherebbe lo spettro dell’Isis.

Donne e giovani protestano contro i fondamentalisti

A conferma dell’estraneità tra il movimento per l’autodeterminazione tuareg e l’integralismo islamista, già il 5 e il 6 giugno 2012 centinaia di donne e di giovani della città di Kidal scendevano in strada per protestare contro i fondamentalisti. Successivamente, nella notte tra il 7 e l’8 giugno, si registravano scontri armati tra i militanti di Mnla e quelli di Ansar al-Din.

Purtroppo la storia della lotta tuareg per l’autodeterminazione (sia indipendentista che autonomista) è da sempre attraversata da scissioni e conflitti interni.

Lo stesso leader di Ansar al-Din, Iyad Ag Ghali, in precedenza si era distinto come promotore delle rivolte degli anni Novanta del secolo scorso.

Ma, almeno fino al 2012, le istanze dell’islamismo radicale non avevano – pare – trovato spazio significativo all’interno del movimento tuareg, da sempre sostanzialmente laico.

Successivamente, nel giro di qualche mese, il Nord del Mali finiva quasi completamente in mani jihadiste (oltre ad Ansar al-Din, erano entrati in azione anche il Mujao (Movimento unicità e jihad nell’Africa dell’Ovest) e direttamente Aqmi, Al-Qaïda au Maghreb islamique). Ma con la riunione internazionale di Bamako del 19 ottobre 2012 si avviava quel «progetto di intervento militare credibile» richiesto nella settimana precedente alla Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest (Cedao) e all’Unione Africana. La Francia riusciva a coinvolgere i 15 paesi membri del Consiglio di Sicurezza e porre la questione sotto il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite (in quanto la situazione del paese africano costituiva «una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale»). Il resto è cosa nota. Prima l’intervento diretto dell’esercito francese (aviazione, forze speciali…) per riprendere il controllo di Gao, Timbuctù, Kidal, Tessalit… con l’Operazione Serval (dal nome di un felino africano) dal gennaio 2013 alla metà del 2014.

Operativi da gennaio anche alcune centinaia di soldati africani (provenienti da Niger, Benin, Nigeria e Togo) della Missione internazionale di sostegno al Mali (Misma).

Barkhane e Takouba ma la guerra non si ferma

Poi – dopo la costituzione della missione onusiana Minisma (Mission Multidimensionelle Intégrée des Nations Unies pour la Stabilisation au Mali) e una serie di operazioni dai nomi più o meno pittoreschi (Dragon, Constrictor, Centaure, Epervier…) dall’agosto 2014 l’intervento contro le bande salafite assumeva la veste di un dispositivo regionale: l’operazione Barkhane (dal nome di una duna “migrante” nel deserto) a cui partecipavano Mauritania, Burkina Faso, Ciad, Mali e Niger (comunque sottoposti alla direzione dell’Esagono).

Ma la guerra non si è fermata. Nemmeno dopo migliaia di morti e centinaia di migliaia di sfollati. Un tragico bilancio a cui si deve aggiungere la denuncia di sistematiche violazioni dei diritti umani. Opera soprattutto di soldati africani nei confronti di civili arabi e tuareg (sbrigativamente – e comodamente – identificati come salafiti). Nel frattempo ha visto la luce anche Takouba (“spada di legno” – quella dell’Onore – in tamashek, la lingua dei tuareg), denominazione per le forze speciali europee che dovrebbero sostenere le truppe maliane nella lotta contro il terrorismo jihadista.

Stando alle dichiarazioni della ministra della Difesa francese Florence Parly, Takouba era già stata preannunciata da Macron in occasione dell’incontro di Pau, quello indetto proprio per tacitare le voci sul dissenso africano all’intervento francese.

Quanto al governo di Bamako, va riconosciuto che fin dal 2012 – in prossimità dei territori occupati dalle milizie jihadiste – venivano allestiti alcuni campi di addestramento.

Tuttavia – vuoi per mancanza di mezzi, vuoi per imperizia – risultavano alquanto scadenti. Con i volontari alloggiati in strutture provvisorie, senza armi e addirittura scarsamente riforniti di generi alimentari (letteralmente “alla fame” secondo alcuni visitatori, nemmeno in grado di compiere l’addestramento). Com’era prevedibile, molti disertarono per raggiungere Ansar al-Din e il Mujao, Organizzazioni ben finanziate, in grado di garantire «assistenza economica alle famiglie di ogni combattente vivo o morto e un’abitazione fino al momento in cui i figli saranno in grado di sposarsi».

Un copione che si va ripetendo su larga scala anche in questi giorni.

Contraddizioni in seno ai popoli

Un bel casino, certamente. Senza dimenticare che oltre ai durevoli, tenaci contenziosi tra popolazioni indigene e governi statali ne permangono altri – non meno devastanti – tra le popolazioni stesse.

Troppo spesso strumentalizzati dai governi (e anche in questo Gheddafi aveva fatto scuola) in nome del sempre attuale “divide et impera”.

Come quello tra tuareg e tebu (il “Popolo delle Rocce”) chiamati ikaraden dai tuareg.

Un breve riepilogo

Nei suoi 40 anni di permanenza al potere Gheddafi aveva abilmente alimentato le reciproche ostilità tra le tribù arabe e alcune “minoranze” (in realtà popolazioni minorizzate in quanto separate dai confini statali, come i curdi o anche i baschi) presenti nel Sud della Libia: tebu e tuareg. Utilizzando gli scontri interetnici per controllare, discriminare, emarginare e reprimere. E i tuareg – in particolare nelle zone di frontiera – per far pressione su Algeria, Niger e Mali.

Dopo il 2011, con la caduta del regime, esplodevano le istanze di maggior autonomia politica da parte dei tebu per il controllo delle zone petrolifere e aurifere e delle vie di comunicazione. In particolare dei check-point utilizzati per sfruttare proficuamente i vari traffici legali e illegali (armi, medicinali, derrate alimentari, droga, alcolici e anche esseri umani).

Mentre la Libia sprofondava nel conflitto, in questo decennio i Tebu si sono imposti – talvolta anche violentemente – alle altre tribù (sia arabe che tuareg, se pur in diversa misura e in maniera differenziata) per trarre benefico dalla nuova situazione generatasi con la caduta ingloriosa del Colonnello. Nei territori meridionali della Libia – lì dove coabitano le varie etnie – sono presenti in grande quantità non solo l’ambita risorsa petrolifera, ma anche minerali rari e perfino l’acqua (per la presenza di vaste falde freatiche). Acqua di cui usufruiscono le popolazioni (il 90 per cento dei libici) che vivono nel Nord del paese.

Tuareg e tebu: scontri etnici tra apolidi

Non si deve comunque generalizzare. Occorre valutare la complessità delle relazioni che si vanno instaurando di volta in volta, di luogo in luogo. Relazioni, si diceva, varie e variabili (differenziate, variegate…), sia politicamente che economicamente.

Per esempio nel contenzioso per il controllo delle risorse tra tebu e tuareg nel Fezzan (nel Sudovest del paese) per un certo periodo sembrava prevalere l’aspetto militare, lo scontro armato.

In passato, in quanto minoranze non arabe, sia tebu che tuareg avevano subito evidenti discriminazioni (entrambi manipolati in funzione della politica “panafricana” di Gheddafi), ma in diversa misura.

Così, mentre migliaia sia di tuareg sia di tebu si ritrovavano sostanzialmente nella medesima condizione di apolidi, per i primi esisteva la possibilità di integrarsi vantaggiosamente nel sistema della sicurezza interna. Godendo quindi della possibilità di armarsi adeguatamente e di facilitazioni in campo economico (permessi di lavoro, accesso all’amministrazione…).

Gheddafi il garante dei tuareg

Del resto Gheddafi si presentava talvolta come un “garante”, un “sostegno”, un protettore anche dei tuareg del Mali e del Niger. Perfino nei confronti dei loro governi dai quali effettivamente subivano discriminazioni e repressione.

Questo può spiegare la posizione assunta nel 2011 dai tuareg libici (a cui si aggregarono molti altri provenienti da Mali e Niger) che si schierarono con il regime.

Una scelta che in seguito avrebbero pagato duramente.

Ad aggravare ulteriormente il conflitto tra le due etnie, la chiusura nel 2014 della frontiera tra Libia e Algeria fino ad allora vantaggiosamente controllata dai tuareg. Di colpo questi si scoprivano privati di una preziosa fonte di reddito in quanto flussi commerciali, traffici e contrabbando venivano dirottati sulla frontiera con il Niger, tradizionalmente controllata dai Tebu. L’altra frontiera del Sud della Libia, quella con il Ciad, dal 2013 è interessata da un imponente traffico di oro estratto, spesso artigianalmente, dalle miniere del Fezzan. Anche questo un traffico gestito principalmente dai tebu.

La scelta infelice di una parte dei tuareg (ormai in difficoltà anche sul piano sanitario) di allearsi militarmente con elementi integralisti forniva ai tebu l’occasione per tacciarli di “terrorismo” (assimilandoli ai salafiti) e di presentarsi all’opinione pubblica internazionale come garanti della lotta al medesimo nel Sud della Libia. Così per esempio vennero interpretati gli scontri sanguinosi – con decine di vittime – del settembre 2014 a Ubari (storicamente feudo tuareg del Fezzan, ma con una forte presenza tebu) tra milizie tebu e tuareg. Scontri scoppiati inizialmente non certo per questioni ideologiche o religiose, ma semplicemente per il controllo dei check-point e di una stazione di servizio (oltre che, beninteso, dei cospicui giacimenti petroliferi della zona).

Il paradosso della riconciliazione

Per la cronaca. In un primo momento i tuareg ebbero la meglio, ma successivamente, nel 2019, persero nuovamente il controllo dei giacimenti, stavolta per mano dell’Esercito nazionale libico (Anl).

In questa circostanza le milizie tuareg e tebu si “riconciliarono” e costituirono un fronte comune per combattere contro l’esercito del generale Haftar.

Ennesimo paradosso del conflitto libico (talvolta, benevolmente, definito un ginepraio, ma più spesso un “autentico pantano”)?

Forse non proprio se pensiamo all’accordo di pace faticosamente conseguito e sottoscritto dalle due comunità nel 2015 a Doha.

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La Russia e il Medio Oriente https://ogzero.org/la-russia-e-il-medio-oriente/ Mon, 06 Jul 2020 10:56:02 +0000 http://ogzero.org/?p=427 Da zar a raiss. La tentazione di esagerare, quando si affronta il tema della politica mediorientale di Vladimir Putin, è forte. Il perché è ovvio. L’operazione militare in Siria è stata (quasi) un successo, la gestione degli equilibri di forza sul campo con Iran e Turchia un capolavoro di tattica, l’offensiva diplomatica nell’area – tra […]

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Da zar a raiss. La tentazione di esagerare, quando si affronta il tema della politica mediorientale di Vladimir Putin, è forte. Il perché è ovvio. L’operazione militare in Siria è stata (quasi) un successo, la gestione degli equilibri di forza sul campo con Iran e Turchia un capolavoro di tattica, l’offensiva diplomatica nell’area – tra contratti miliardari di armi e visite di stato “storiche” del presidente russo, come quella a Riad nell’ottobre del 2019 – il tratto del maestro. Se si aggiunge lo zampino di Washington con la sua volontà di disimpegno dall’Oriente Medio, iniziata da Barack Obama e proseguita da Donald Trump, ecco spiegato perché oggi si parla di Vladimir d’Arabia. In quella parte di mondo però il successo non è mai stabile, bensì mobile come le dune dei suoi deserti. L’esempio più fulgido, e attuale, è la “campagna” di Libia. Mosca, dopo la ritirata del maresciallo Haftar, pare in difficoltà. Ma non mollerà. Perché, paradossalmente, nella mente di Putin è Tripoli, e non Damasco, il vero obiettivo per vincere la ‘regata’ nel Mediterraneo.

La Libia, infatti, per Putin è l’omphalos delle crisi che hanno portato alla destabilizzazione della regione e il segnale tangibile – se ce ne fosse ancora bisogno – che dell’Occidente non ci si può fidare. Al Cremlino, nel 2011, era in sella Dmitry Medvedev e Putin, al contrario, si era adattato alle mansioni del primo ministro (che non prevedono la politica estera, saldamente nelle mani del presidente). Come ricorda Mikhail Zygar nel suo Tutti gli uomini del Presidente, «per Putin la decisione di Medvedev di non porre il veto all’ONU sulla risoluzione antilibica fu un’imperdonabile dimostrazione di debolezza». Così ruppe la comanda del silenzio e iniziò a criticare pubblicamente la Nato (e implicitamente le decisioni di Medvedev). «Se l’obiettivo era la no-fly zone perché i palazzi di Gheddafi vengono bombardati ogni giorno?», dichiarò in Tv. Per Putin Europa e Usa non solo avevano truffato Gheddafi – prima revocando il suo status di paria, ammettendolo nel circolo bene dei vari G8, e poi pugnalandolo alla schiena – ma anche Medvedev. E dunque la Russia.

Secondo Zygar la morte del dittatore libico per Putin fu un vero e proprio shock. Non solo. Fu l’evento che lo convinse a tornare al Cremlino, ordinando a Medvedev di farsi da parte. «Il mondo è un casino, rischieresti di perdere la Russia», disse Putin al suo incredulo delfino nel corso (appropriatamente) di una battuta di pesca nei pressi di Astrakhan. «Gheddafi non credeva di certo che avrebbe perso la Libia ma gli americani lo hanno fregato: io resto il candidato più forte». Così l’arrocco fu deciso e Putin s’incoronò zar per davvero (ora, grazie alla riforma della Costituzione, potrà governare indisturbato, se lo vuole, fino al 2036). C’è di più. La Libia non è cruciale nel Putin-pensiero solo per la detronizzazione di Gheddafi, ovvero per gli effetti della rivoluzione, ma soprattutto per le sue cause. Che secondo il Cremlino sono esogene.

Tutte le “rivoluzioni colorate”, infatti, per Mosca sono create dall’estero, in particolare dalla Cia, e la “Primavera araba” rientra in questo esercizio di sovvertimento dello status quo attraverso metodi “ibridi”, che fondono la manipolazione sapiente dell’opinione pubblica (grazie ai social media) alla buona vecchia forza bruta, quando serve. L’uso qui del termine “ibrido” non è un caso. Anzi. Perché la Libia è un caleidoscopio dove le nostre certezze sulla Russia si smontano per essere ricomposte subito dopo in altra foggia e colore. Se dunque fino a oggi avete pensato che il concetto di “guerra ibrida” fosse il prisma adatto con cui osservare e spiegare le mosse di Mosca, be’, è vero l’esatto contrario. La guerra ibrida, per la Russia, l’ha inventata l’Occidente e il suo principale poligono di tiro è stata propria la Libia. Altro che Ucraina.

Ecco, qui per non perdere la bussola sarà necessario aprire una rapida parentesi. La guerra ibrida russa, nei circoli occidentali, prende anche il nome di “dottrina Gerasimov”, in onore del capo dello stato maggiore dell’esercito, il generale Valery Gerasimov. Era il febbraio del 2013 e il periodico russo “Military-Industrial Courier” aveva dato alle stampe un discorso di Gerasimov in cui il generale parlava di come, nel mondo moderno, l’uso della propaganda e dei sotterfugi rendesse possibile a «uno stato perfettamente fiorente di trasformarsi, nel giro di mesi e persino di giorni, in un’arena di feroci conflitti armati, cadere vittima d’intervento straniero e sprofondare nel caos, nella catastrofe umanitaria e nella guerra civile». Ovvero la carta d’identità della Libia post-Gheddafi.

Nel “saggio” si afferma che «lo spazio informatico apre grandi possibilità asimmetriche per ridurre la capacità combattiva di un potenziale nemico: in Africa siamo stati testimoni dell’uso delle tecnologie per influenzare istituzioni e popolazioni con l’aiuto dei network informativi (i social, N.d.r.) ed è necessario perfezionare le attività della sfera digitale, compresa la difesa nei nostri stessi obiettivi». Insomma, a essere ibridi sono gli altri, è la Russia che si deve attrezzare, e il target finale è proprio Mosca, che si vorrebbe destabilizzare con una rivoluzione colorata ad hoc. L’intervento di Gerasimov, in sé passato inosservato, è stato però tradotto in inglese e rilanciato dal blog dell’analista Mark Galeotti. Che per amor di fama ha un po’ forzato la mano. «Un blog – racconterà poi nel 2018 in un articolo pubblicato da “Foreign Policy” – è un esercizio di vanità come tante altre cose: ovviamente volevo che la gente lo leggesse. Così, per avere un titolo scattante, ho coniato il termine “dottrina Gerasimov”, anche se già allora avevo notato nel testo che questo non si trattava altro che di “un contenitore” e non era certo “una dottrina”».

Bene. Se il desiderio era fare colpo, missione compiuta. Con lo scoppiare della crisi ucraina, e l’euro-Maidan di Kiev, altra operazione speciale dell’Occidente agli occhi del Cremlino, il titolo “scattante” di Galeotti tracima l’ambito degli addetti ai lavori e grazie ai media diventa di dominio comune. «All’annessione della Crimea, quando “gli omini verdi” – commandos senza mostrine – si impadronirono della penisola senza sparare un colpo, seguì la guerra del Donbass, combattuta inizialmente da una variegata schiera di teppisti locali, separatisti, avventurieri russi e forze speciali, accompagnati da una raffica di sapida propaganda russa: all’improvviso sembrò che Gerasimov avesse davvero descritto ciò che sarebbe venuto, se solo ce ne fossimo resi conto», riflette ancora Galeotti. Il che è curioso. Sembra una versione geopolitica del Batman di Tim Burton, in cui il Joker e l’eroe mascherato si accusano di essersi creati a vicenda.

La Russia e l’Occidente d’altra parte hanno una lunga tradizione di incomprensioni reciproche e Winston Churchill si spinse a definirla «un rebus all’interno di un enigma avvolto nel mistero». Il grande statista britannico, campione negli aforismi tanto quanto modesto coi pennelli, non si limitò però a lasciarci nella nebbia. Il segreto per decifrare il segreto russo era infatti seguire il filo d’Arianna «dell’interesse nazionale». E in effetti funziona. Oggi, se vogliamo, possiamo aggiornare Churchill usando il concetto di “sovranità” – termine senz’altro più à la page – e le nebbie inizieranno a diradarsi. In Siria la Russia è intervenuta per difendere i propri interessi nazionali e la sovranità del governo in carica (piaccia o no, Bashar al-Assad formalmente era il presidente legittimamente eletto), riaffermando al contempo un doppio principio: Mosca non abbandona i propri alleati ed è ora abbastanza forte per dimenticare le guerre di cortile (Cecenia 1 e 2, Georgia 2008) e tornare a proiettare la sua influenza sullo scacchiere internazionale, come ai tempi dell’Unione Sovietica. Tripoli è dunque la conclusione logica di questo processo. Per chiudere la partita là dove è iniziata. E ristabilire al contempo il proprio interesse nazionale – ovvero il rispetto dei contratti firmati al tempo di Gheddafi.

L’abbiamo presa un tantino larga, ma alla fine siamo arrivati al punto. La Libia, per la Russia, è anche una questione di soldi. Armi, infrastrutture, energia. Mosca aveva dei bei piani con l’autore del Libro Verde. Poi è stato il caos e il Cremlino non ha perso l’occasione per ritagliarsi un posto al tavolo libico. Ma l’equazione Mosca-Libia non è automatica. O perlomeno, non lo era. Nel corso della conferenza stampa di Serghei Lavrov, ministro degli Esteri russo nonché veterano della diplomazia globale, e del suo omologo italiano (al tempo Paolo Gentiloni, era il 2016), dopo un incontro nella capitale russa, Lavrov rispose in modo abbastanza piccato a chi, tra di noi, gli chiedeva se tra Russia e Italia potesse aprirsi un ponte sul dossier libico. In sintesi, Lavrov si lamentava del fatto che in Siria la Russia era vista dall’Occidente come una forza «destabilizzante» mentre in Libia era stato l’intervento della Nato a causare «la distruzione dello stato». «Mi pare curioso pensare che adesso sia compito della Russia trovare il modo per risolvere la crisi», disse Lavrov, legando di fatto i due teatri.

Ecco, quattro anni più tardi lo status quo è sotto gli occhi di tutti. In Libia operano i mercenari russi della Wagner (benché il Cremlino smentisca) e recentemente gli Usa hanno pubblicato delle immagini satellitari che proverebbero la presenza di jet russi moderni nell’est del paese. Insomma, un aiuto sostanziale a Haftar. Mosca, dal canto suo, ha smentito anche questa informazione, per bocca di Mikhail Bogdanov, fine arabista nonché inviato speciale di Putin in Medio Oriente e viceministro degli Esteri: aerei «vecchi», già presenti «da tempo», le solite «fake news». Al di là della querelle sull’aiutino russo, che peraltro viene confermato da chiunque si occupi con attenzione di Libia, la vera questione, persino più interessante, è se davvero Haftar si possa considerare un uomo di Putin. E la risposta è ni.

Dietro l’uomo forte della Cirenaica ci sono diversi interessi. L’Egitto, per esempio. Ma anche gli Emirati Arabi. Il passato di un uomo, parafrasando Fitzgerald, non passa davvero mai, fino in fondo. Se infatti è vero che Haftar, al termine degli anni Settanta, ha ricevuto l’addestramento militare nell’Unione Sovietica, completando una speciale laurea triennale per ufficiali stranieri presso l’Accademia militare M.V. Frunze, in seguito ha poi proseguito la sua formazione militare in Egitto. Senza contare che ha vissuto per 20 anni negli Usa, fino a diventare cittadino americano. Da eroi dei due mondi a voltagabbana il confine d’altra parte è spesso sottile. Quindi sì, Mosca ha una certa familiarità con il maresciallo ma, come ha recentemente sottolineato Jalel Harchaoui, ricercatore dell’Istituto Clingendael dell’Aia, «se dipendesse dai russi, Haftar oggi avrebbe molto meno potere».

L’amara verità è che la vera novità, in Libia come in altre parti del Medio Oriente, è l’inedito attivismo della Turchia. A cambiare le sorti della guerra civile è stato l’intervento di Erdoğan, su richiesta di Tripoli. Che poi è esattamente quanto accaduto in Siria, a parti invertite. Putin in tal senso ha fatto davvero scuola e forse il sultano che fu costretto a baciare la pantofola dello zar per archiviare il grande affronto del jet russo abbattuto dai turchi nei cieli siriani si è tolto un bel sassone dalla scarpa. Sia come sia, Ankara e Mosca hanno ormai alle spalle una lunga storia di collaborazione (per certi versi quasi un’intesa). Senz’altro in Siria, dove, con l’aggiunta dell’Iran, è nata la troika genitrice del format di Astana: piaccia o non piaccia, quella piattaforma ha portato a dei progressi sul piano negoziale, sebbene forse ormai del tutto vanificati dall’esuberanza turca nell’area di Idlib.

E proprio Idlib è stata al centro delle ultime divergenze tra Mosca e Ankara, sanate poi da un summit Putin-Erdoğan in cui si è salvato il salvabile, con un’intesa che ha sino adesso riportato la calma sul terreno. In quell’occasione i due leader hanno affermato che Russia e Turchia, quando la situazione lo richiede, sanno “sempre” giungere a un “accordo”. Non sempre alleati, insomma, ma nemici mai. Un rapporto certo non facile eppure di reciproca soddisfazione. Erdoğan ha acquistato i famigerati sistemi antimissilistici russi S-400 mandando su tutte le furie gli Usa, che da un alleato Nato si aspetterebbero ben altra fedeltà. Un punto a favore (sulla carta) per Putin. C’è poi il TurkStream. Che oltre a portare altro gas russo in Turchia ha dato la possibilità al Cremlino di resuscitare, di fatto, il South Stream, allacciando al tubo i Balcani e l’Est Europa meridionale (e un giorno forse anche l’Italia). Altro favore a Putin. Ma anche a se stessa. La Turchia, infatti, è diventata così un importante hub energetico (sempre sul suo territorio passa il gasdotto che unirà a breve l’Azerbaigian alla Puglia).

Ecco allora che la presenza turca, in Libia, potrebbe non essere così deleteria, per Putin: il punto di caduta, nel medio periodo, si troverebbe su una spartizione del territorio per zone d’influenza. Poi chi vivrà vedrà. Intanto finché l’Occidente non vince, il Cremlino non perde. C’è chi pensa infatti che sarebbe un errore credere che Mosca abbia un “gran piano” in mente per tutto il Medio Oriente e il Mediterraneo. Bruno Macaes, ex ministro portoghese per gli Affari europei e autore di fortunati libri sul ruolo dell’Eurasia (e dunque di Cina e Russia) nella geopolitica che verrà, non esclude che la Russia al momento si accontenti di «partecipare al gioco».

Il coronavirus ha poi scompigliato tutte le carte. Mosca avrà il suo daffare a tamponare la crisi, che sarà pesante dal punto di vista economico, e non è detto che per Putin rappresenti un giro di boa indolore, al netto della riforma costituzionale che dovrebbe (o se non altro potrebbe) garantirgli la poltrona al Cremlino fino al 2036. Il paradiso, per lo zar, può dunque attendere, in Medio Oriente o altrove. Il 2020-2021 sarà probabilmente l’anno in cui, più che giocare a Risiko, Putin si dedicherà a consolidare il fronte interno.

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