movimenti Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/movimenti/ geopolitica etc Tue, 13 Sep 2022 17:29:59 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 n. 10 Maghreb – parte II: Algeria postelettorale, dove il “nuovo” non cambia https://ogzero.org/algeria-postelettorale-in-crisi-economica-e-stallo-politico/ Fri, 09 Jul 2021 10:34:09 +0000 https://ogzero.org/?p=4255 Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: proseguiamo con l’Algeria, che in questo tempo postelettorale fa i conti con la crisi economica e lo stallo politico, con la repressione del movimento Hirak. E intanto il rapporto con i paesi limitrofi e la definizione […]

L'articolo n. 10 Maghreb – parte II: Algeria postelettorale, dove il “nuovo” non cambia proviene da OGzero.

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Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: proseguiamo con l’Algeria, che in questo tempo postelettorale fa i conti con la crisi economica e lo stallo politico, con la repressione del movimento Hirak. E intanto il rapporto con i paesi limitrofi e la definizione delle Zee del Mediterraneo ci portano verso il caos libico.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


L’ennesimo roud elettorale

Nella presente sezione riguardante i paesi del Nord Africa – connaturati dall’essere non solo paesi di immigrazione – considerati i flussi migratori provenienti dall’Africa subsahariana, ma anche paesi di transito e di emigrazione degli stessi cittadini nordafricani verso l’Europa – va annoverata l’Algeria, geograficamente la più grande nazione del continente africano con circa 50 milioni di abitanti. Lo scorso 12 giugno questo paese è stato interessato da un ennesimo round elettorale, quello parlamentare, che ha registrato la vittoria indiscussa dell’astensionismo: circa il 70% degli aventi diritto al voto, infatti, non si sono presentati ai seggi per le elezioni del nuovo Parlamento.

Invero il fenomeno non desta particolare stupore perché già nelle precedenti tornate elettorali, in particolare quella del referendum sulla riforma della Costituzione, nel novembre del 2020, così come quella precedente dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica Tebboune il 13 dicembre del 2019 (in seguito alle dimissioni di Bouteflika) si sono distinte per una bassa affluenza alle urne.

Basti pensare che l’attuale presidente è stato eletto con circa il 40% dei voti.

Va ricordato inoltre che il primo ministro algerino Abdelaziz Djerad nominato il 28 dicembre del 2019 e appartenente al gruppo parlamentare degli indipendentisti si è dimesso proprio in esito alle elezioni parlamentari del giugno scorso ed è stato sostituito il 30 giugno dal ministro delle Finanze Ayman Benabderrahmane.

L’astensionismo e la protesta

Le ragioni di un così marcato disinteresse, sino a sfiorare il totale rifiuto, della popolazione algerina nei confronti della classe politica vanno ricercate temporalmente nel febbraio del 2019, data nella quale nacque il movimento di protesta popolare Hirak mediante il quale si sollevarono pacifiche ma decisive mobilitazioni all’indomani delle intenzioni – manifestate da parte dell’ex presidente Bouteflika – di volersi ricandidare per un quinto mandato. L’ex capo di stato, all’epoca in carica da più di venti anni, ottantaduenne e costretto su una sedia a rotelle dal 2013 in seguito a un ictus, pur rivestendo una posizione apicale da diversi anni non aveva più alcuna autonomia d’iniziativa politica e rappresentava soltanto il debole vertice di un apparato statale militare che invece costituisce ancora oggi la vera struttura portante del sistema istituzionale oligarchico algerino. Potere politico e potere militare nella classe dirigente algerina si sovrappongono ed è proprio contro questo impianto che l’Hirak protestò a partire dal 2019, così come avvenne con le proteste popolari in Libano e in Iraq, ottenendo una prima parziale vittoria con le dimissioni di Bouteflika ad aprile dello stesso anno – foraggiate, se non imposte, proprio dall’allora capo di stato maggiore dell’esercito Gaid Salah.

Tuttavia, l’Hirak non è riuscito ancora a scalfire l’impianto sottostante al capo di stato che il movimento di protesta criticava e critica tutt’ora aspramente per le decisioni politiche economiche e sociali adottate nel paese.

Il sistema politico-militare “Povoir”, infatti, che più che una casta rappresenta una struttura “genetica” del potere algerino, è considerato fortemente corrotto e interessato soltanto al mantenimento del proprio status quo, nonostante il tracollo economico che il paese oggi si trova ad affrontare, aggravato ulteriormente a partire dal 2020, dal contesto pandemico. Al riguardo si ricorda che il capo di stato Tebboune ha contratto il Covid-19, in seguito alla sua elezione, e ciò ha provocato un ulteriore stallo politico ed economico nel paese essendosi assentato per un lungo lasso di tempo per sottoporsi alle cure in Germania.

Troppo dipendenti dal petrolio

In tale scenario economico disastroso, contraddistinto da un preoccupante indice di disoccupazione, da un taglio dell’export del 20%, dall’aumento della spesa pubblica e soprattutto da un vertiginoso ribasso del prezzo del petrolio – da 70 dollari al barile a 46 dollari registrati nel 2021 – l’economia algerina ha dimostrato e dimostra le falle di un sistema che non consente l’elargizione dei sussidi necessari per la popolazione civile poiché troppo dipendente dagli introiti derivanti dagli idrocarburi. In particolare, l’Algeria avrebbe la forte necessità di diversificare la propria economia aprendosi maggiormente agli investitori stranieri. Anche se ciò in parte si è cercato di realizzare con alcune riforme legislative, l’impianto, per quanto riguarda la vendita del greggio, non ha subito variazioni.

A ricordarlo è la Legge 49/51 ancora in vigore in Algeria secondo la quale, nell’ipotesi di partecipazioni straniere nelle attività economiche e nelle società algerine, della maggioranza del ricavato deve essere sempre titolare l’apparato statale: caso emblematico è quello della società petrolifera algerina Sonatrach i cui profitti sono intestati per l’80% a dirigenti statali. In tale situazione si ricorda che l’Italia è il primo investitore straniero nell’economia algerina e il 90% del gas importato proviene proprio da quel paese.

La Zee: una rivendicazione unilaterale

Al riguardo occorre sottolineare che nel 2018 l’Algeria, la più grande potenza militare africana, i cui arsenali provengono soprattutto dalla Russia, ha rivendicato unilateralmente la propria zona economica esclusiva (Zee) nell’area marittima che si estende fino a Oristano, più specificatamente a distanza di 60 miglia dalla costa occidentale della Sardegna e almeno a 195 miglia dalla costa algerina, senza che, fino a quest’anno, dal governo italiano vi sia stata alcuna opposizione ufficiale.

Lo scorso giugno anche l’Italia tuttavia ha stabilito la propria Zee che in alcuni casi come quello dell’Algeria ha fatto emergere diverse visioni di giurisdizione.

Vedremo in seguito come tale rivendicazione unilaterale marittima dell’Algeria abbia determinato degli effetti anche sui processi di emigrazione dal paese.

Dopo l’Italia anche la Francia rappresenta un partner economico importante per l’Algeria – che ne era una colonia fino al 1962 – considerato in modo meno benevolo dagli algerini per questioni storiche passate.

Passare per cospiratori: la repressione

Ricordiamo che nel 2021 il presidente Macron dopo molti anni ha ammesso la responsabilità francese di alcune uccisioni durante la guerra di Algeria fino a ora mistificate. I movimenti di protesta dell’Hirak iniziati nel 2019, sospesi momentaneamente nel 2020 a causa delle misure imposte dal governo per il contenimento del virus, sono ripresi in modo vigoroso a partire da febbraio del 2021 e si sono accentuati in prossimità delle elezioni, in particolare nel mese di maggio e giugno di quest’anno. Contro di essi si è imposta una forte repressione caratterizzata da arresti di massa sulla base di false accuse di cospirazione o terrorismo. Inoltre, con emendamenti al Codice penale nel 2021 è stata ampliata la definizione di “terrorismo” secondo la quale rientra anche “il tentativo di conquistare il potere o cambiare il sistema di governo con sistemi incostituzionali”. Più specificatamente alla data del 23 giugno, 273 risultavano essere gli attivisti arrestati e perseguitati solamente per avere esercitato il diritto alla libertà di espressione e di riunione in prossimità delle elezioni, esprimendo il loro dissenso politico.

Tale reazione istituzionale appare contraddittoria rispetto all’operazione di facciata del capo di stato, a febbraio 2021, della liberazione di 37 manifestanti dell’Hirak – lasciandone in carcere comunque ancora 31 – per dimostrare fin da subito una rottura rispetto al passato regime.

L’operazione cosmetica della sicurezza

I manifestanti dell’Hirak in realtà anche nel 2020 sono stati arrestati con l’accusa della violazione delle norme del lockdown o in base alla violazione della legge sulle fake news entrata in vigore lo stesso anno, secondo la quale è prevista la pena detentiva fino a tre anni per i trasgressori. Inoltre, le istituzioni algerine hanno strumentalizzato le misure per il contenimento del Covid-19 per impedire il più possibile le proteste. La stessa approvazione, con referendum popolare della modifica della Costituzione, nel novembre del 2020, era stata vista dalla popolazione come una mera operazione cosmetica che pur registrando delle aperture istituzionali rispetto al regime guidato da Bouteflika – come per esempio l’introduzione della figura del vicepresidente della repubblica  – ha mantenuto la posizione predominante del capo di stato algerino non solo sull’esecutivo, ma anche rispetto al potere legislativo, avendo il presidente la possibilità di porre il veto rispetto alle leggi parlamentari, e su quello giudiziario, restando prevalenti le preferenze che egli esprime sulla nomina dei giudici. La modifica della Costituzione inoltre – entrata in vigore a gennaio del 2021 – se da un lato ha migliorato la protezione delle donne, dall’altro ha indebolito la libertà di parola subordinandola ai valori religiosi e culturali del paese. Oltre a ciò va detto che nel testo della legge contro la discriminazione e l’odio, adottato ad aprile di quest’anno, non vi è alcun riferimento alle discriminazioni legate alla religione, all’orientamento sessuale, e all’identità di genere. Nei confronti delle donne e per le persone Lgbtqi persistono quindi ancora gravi discriminazioni ed è rimasta intatta la disposizione che criminalizza le relazioni sessuali consensuali tra le persone dello stesso sesso per le quali è prevista una pena da due mesi a due anni di carcere oltre a una sanzione pecuniaria. Per le donne le discriminazioni più specificatamente sono state perpetrate in materia di eredità, matrimonio, divorzio, così come è proseguita la violenza di genere e il femminicidio.

Inoltre, si ricorda che è solo grazie all’approvazione di una nuova legge elettorale – lo scorso 7 marzo – che il presidente Tebboune ha potuto indire le elezioni del 12 giugno 2021, anticipandole rispetto alla data del 2022 originariamente prevista per il loro svolgimento.

Perché Tebboune aveva bisogno di anticipare le elezioni?

Tebboune si è posto come l’emblema (falso) dell’appagamento delle istanze sollevate dal movimento Hirak, ringraziando il Movimento stesso per avergli dato la possibilità di salire al potere e riconoscendogli la vittoria per la caduta del precedente regime, ma affermando al contempo che proprio per questo l’Hirak oggi non ha più motivo di esistere in quanto con la propria nomina sarebbe iniziata una nuova era politica per l’Algeria.

Anche qui siamo di fronte alla solita operazione di facciata: Tebboune ha indetto elezioni anticipate con una pluralità di liste parlamentari, circa 1500 per 407 seggi disponibili, ben conscio che il Parlamento in carica al momento della sua nomina si formò nel 2017 sotto il regime di Bouteflika e quindi era privo, in ragione delle successive proteste del movimento Hirak, di una vera legittimazione popolare. Per questo motivo alla vigilia delle elezioni ha dichiarato di non essere poi così interessato a un eventuale astensionismo mentre l’Hirak da parte sua ha cercato di boicottare le elezioni in ogni modo con successo. Se infatti è vero che le elezioni si sono tenute, è vero anche che si è registrata nuovamente l’acquisizione di molti seggi da parte dei partiti emblematici dell’alleanza politica durante il regime di Bouteflika –  il partito Unico del Fronte di Liberazione Nazionale (Fln) con 105 seggi al potere dal 1962 e dal quale proviene l’attuale capo di stato, quello del Ressemblement National Democratique (Rnd) con 57 seggi, al quale apparteneva Bouteflika, e  il partito islamista Movimento per la Società della Pace (Msp) con 64 seggi – che unita all’astensionismo ha fatto fallire in pieno quell’ideale progetto di svolta istituzionale  e di legittimazione popolare che avrebbe voluto mostrare il presidente davanti alla comunità internazionale, tradendo invece più realisticamente la condizione d’impasse o addirittura di regresso politico nella quale si trova attualmente l’Algeria.

Ascolta “Lo stallo ad Algeri e la resistenza del movimento Hirak: un sistema da sovvertire” su Spreaker.

Il “Punto zero”

Il sistema istituzionale algerino desta quindi preoccupazioni sia per la violenta repressione della libertà di espressione, sia di quella politica che quella di credo religioso, che per le persecuzioni nei confronti delle donne e delle comunità Lgbtqi potenzialmente valutabili ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato in conformità alla Convenzione di Ginevra del 1951. È sempre in contrasto rispetto a quanto viene stabilito all’articolo 33 (principio di non-refoulement) della medesima Convenzione che da diversi anni l’Algeria si è resa responsabile di deportazioni di massa dei cittadini provenienti dall’Africa subsahariana verso il cosiddetto “Punto zero” nel deserto nigerino, in prossimità della città di Assamaka, l’unico punto ufficiale di passaggio tra Algeria e Niger. La questione ha assunto una rilevanza drammatica nel 2020, anno nel quale, nonostante gli elevati rischi di contagi legati al virus e la chiusura delle frontiere, l’Algeria ha comunque continuato a eseguire espulsioni sistematiche dei migranti provenienti prevalentemente dall’Africa occidentale, più precisamente di 23.175 individui, mentre nel 2021, tra gennaio e aprile, ha respinto specialmente durante le ore notturne 4370 migranti – dopo averli arrestati e detenuti per giorni – verso la zona desertica nigerina privi di mappe e di rilevatori satellitari.

L’appoggio al Polisario e al popolo saharawi

Ciò appare alquanto singolare dato che l’Algeria è anche un paese di accoglienza: da molti anni sostiene il popolo saharawi che negli anni Ottanta rivendicò la propria autonomia rispetto al Marocco riconosciuta anche dall’Unione Africana. L’Algeria infatti ancora oggi appoggia il Fronte Polisario per la Liberazione del Popolo saharawi dall’occupazione marocchina iniziata nel 1975, ospitando in prossimità della città di Tindouf nella zona sudovest del deserto algerino circa 180.000 profughi saharawi. La questione si è ultimamente esacerbata in seguito alle dichiarazioni lo scorso anno da parte dell’amministrazione americana che ha deciso di riconoscere l’autorità marocchina sui territori contesi, mentre l’Algeria continua a sostenere che la questione dell’indipendenza del Sahara Occidentale può essere risolta solo mediante l’applicazione del diritto internazionale con un referendum di autodeterminazione.

La rotta dimenticata

Insieme a tali fenomeni, legati all’immigrazione e all’accoglienza algerina, occorre considerare anche quello dell’emigrazione che interessa da diversi anni il paese e che concerne la cosiddetta rotta “dimenticata” tra Algeria e Sardegna, percorsa quasi esclusivamente dagli stessi algerini. La rotta, sottoposta a un’attenzione mediatica minore rispetto a quella più pericolosa del Mediterraneo centrale, della quale ci occuperemo più dettagliatamente nella sezione del saggio riguardante gli attuali flussi delle correnti umane, dal 2015 ha interessato particolarmente la tratta Annaba (Algeria) – Sulcis, in particolare le spiagge di Sant’Antioco, Teulada e Sant’Anna Arresi che distano circa 100 miglia dal Nord Africa e sulle quali dall’Algeria si può approdare – nel caso di buone condizioni marittime – anche in 24 ore. I mezzi impiegati in tale rotta oltretutto a volte risultano ben diversi rispetto a quelli di fortuna utilizzati per attraversare la rotta del Mediterraneo centrale: è di febbraio del 2021 la notizia dell’arrivo di un gruppo di trenta migranti tra cui donne e minori giunti dall’Algeria nel Sud della Sardegna a bordo di due motoscafi con motori da 200 cavalli. Già all’inizio del 2020 la nazionalità algerina infatti era al primo posto tra quelle dei migranti approdati in Italia, proprio mediante tale rotta, ragione per cui, nello stesso anno, non solo è stato aperto il centro per il rimpatrio di Macomer, ricavato dall’ex carcere presente sull’isola italiana, ma a settembre del 2020 il ministro dell’Interno italiano Lamorgese ha incontrato il suo omologo algerino Beldjoud e hanno convenuto sull’“attuazione di nuovi modelli operativi con particolare riferimento alle procedure di rimpatrio anche per rendere più efficiente e velocizzare la loro esecuzione”.

Verso il caos libico

Infine, interessante è il rapporto che l’Algeria ha con la vicina Libia. L’Algeria si è da sempre opposta alla bipartizione del paese (Russia e Turchia) e attualmente sostiene il governo ad interim delle Nazioni Unite presiedendo il Gruppo di Lavoro politico del Comitato internazionale sulla Libia. Anche nel 2021 infatti il paese a causa del poroso confine desertico con la Libia ha subito diversi attacchi terroristici. Ecco dunque che in tale sezione del saggio ci avviciniamo inevitabilmente a quel “Caos libico” che evidenzia l’annosa questione degli accordi con il governo italiano, tutt’ora in vigore, per il controllo dei flussi migratori del Mediterraneo centrale.

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L’armata rurale assedia la Grande Delhi https://ogzero.org/assedio-a-delhi/ Sat, 23 Jan 2021 15:27:12 +0000 http://ogzero.org/?p=2281 Chi avrebbe mai detto che una protesta di agricoltori avrebbe creato un problema politico capace di mettere in imbarazzo il governo di Narendra Modi, in India. Eppure è proprio così. Da due mesi la capitale indiana Delhi è assediata da una moltitudine di coltivatori e lavoratori agricoli. Sono centinaia di migliaia di persone venute soprattutto […]

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Chi avrebbe mai detto che una protesta di agricoltori avrebbe creato un problema politico capace di mettere in imbarazzo il governo di Narendra Modi, in India. Eppure è proprio così. Da due mesi la capitale indiana Delhi è assediata da una moltitudine di coltivatori e lavoratori agricoli. Sono centinaia di migliaia di persone venute soprattutto dai grandi stati della pianura indogangetica ma in parte anche dal resto dell’India. Dalla fine di novembre sono accampati intorno alla Grande Delhi; chiedono l’abrogazione di tre nuove leggi che liberalizzano il mercato agricolo, approvate lo scorso settembre dal parlamento nazionale in gran fretta e senza dibattito. Sono determinati: hanno resistito prima alle cariche di polizia e poi al freddo invernale.

Una prova di forza

Ora, dopo undici round di incontri inconclusivi con rappresentanti del governo, le trattative sono rotte. Il governo offre di sospendere l’applicazione delle leggi contestate per 12 o 18 mesi, ma non tratterà altro. I coltivatori ripetono che non se ne andranno finché quelle leggi non saranno abrogate.

Si prepara una prova di forza. I rappresentanti degli agricoltori confermano una “marcia dei trattori” il 26 gennaio, giorno della festa delle Repubblica, quando a Delhi si svolge un’imponente parata militare. Il governo sperava di evitarlo: ma la Corte Suprema, interpellata, ha rifiutato di emettere un divieto. La dimostrazione di potenza dell’India “emergente” oscurata da un’armata rurale.

Vivere della terra

Un movimento popolare così ampio ha spiazzato il governo. La protesta dei coltivatori è stata descritta dai grandi media indiani come la rivolta di un gruppo sociale che vive di sovvenzioni di stato e teme di perdere i propri privilegi: rappresentanti di un vecchio mondo assistito che frenano le riforme necessarie a modernizzare un settore agricolo inefficiente e insostenibile. Come ha ripetuto il primo ministro Modi, le nuove leggi «liberano gli agricoltori indiani», che potranno finalmente competere sul mercato. Molti hanno sottolineato che in fondo l’agricoltura fa solo il 16 per cento del Prodotto interno lordo indiano, una fetta marginale rispetto all’industria e soprattutto i servizi cresciuti negli ultimi vent’anni. Dimenticano però di aggiungere che il 55 per cento della forza lavoro è occupata in agricoltura, e anche neppure questo dato riflette la realtà: 800 milioni di persone, su un miliardo e 300 milioni di indiani, vivono direttamente o indirettamente della terra. La protesta dell’India rurale mette in imbarazzo il governo perché ogni dirigente indiano sa che la terra e i coltivatori restano la base della società e della legittimità politica della nazione.

Sette campi di protesta, sette città temporaneee

Chi ha visitato i sette campi di protesta che circondano la Grande Delhi infatti ha raccolto una storia ben diversa da quella raccontata dai media mainstream.
La scena. Le prime colonne di trattori e camion sono arrivate dagli stati del Punjab e dell’Haryana a nord-ovest della capitale federale. Bloccati dalla polizia al confine del territorio di Delhi (è un Territorio dell’Unione, come un ministato), si sono accampati là, in località Singhu. Altre colonne di protesta sono arrivate dall’Uttar Pradesh e dal Bihar a est, e in parte dal Rajasthan a ovest; delegazioni sono giunte dal Maharashtra (lo stato con capitale Mumbai) e dal Kerala a sud. Poco a poco sono sorti ben sette siti di protesta: il più grande, a Singhu, si estende per oltre dieci chilometri. Come città temporanee popolate da uomini e donne, vecchi e giovani. Ci sono caste rurali e anche Dalit (i fuoricasta, lo scalino più basso della gerarchia sociale indiana).

L'assedio di Delhi

Gli accampamenti nella Grande Delhi (foto da Kisan Ekta Morcha)

La solidarietà palpabile

Secondo un’inviata di “The Wire”, «l’ossatura della protesta sono contadini senza terra e coltivatori marginali», parola che indica una misura precisa: le proprietà agricole “marginali” sono quelle sotto un ettaro, “piccole” quelle sotto i due ettari. Secondo il censimento agricolo, in India l’86 per cento degli agricoltori sono appunto marginali e piccoli, vivono su meno di due ettari di terra; nel Punjab, da cui vengono molti dei manifestanti, un terzo delle proprietà sono sotto due ettari e un altro terzo sotto 4 ettari. l’India rurale è fatta di una miriade di piccolissimi produttori. Gli accampamenti sono organizzati per resistere. I rimorchi dei camion sono diventati alloggi di fortuna. Altri hanno montato tende. Centinaia di cucine da campo servono cibo a tutti, di ogni religione o casta. «In ogni sito di protesta il livello di organizzazione e il senso di solidarietà, è palpabile», riferisce un inviato del magazine “Frontline”. Intorno agli agricoltori si è costituita una rete di solidarietà; attivisti sociali hanno organizzato dispensari medici e dormitori in edifici pubblici; sono state allestite lavanderie, perfino biblioteche.

L'assedio di Delhi

Un agricoltore manifestante in preghiera durante la protesta a Dehli (foto Im_rohitbhakar)

L’atmosfera oscilla tra la resistenza e la festa popolare, con decine di assemblee pubbliche, eventi culturali, lezioni, musica. Le notti d’inverno però sono gelide nell’India settentrionale. C’è notizia di numerose persone morte di ipotermia, o infarto o altro.

Protesta diffusa: le comunità sono unite

Ma nonostante tutto la protesta continua, e questo è possibile perché ha un retroterra. In Punjab, secondo numerose testimonianze, da ciascuno dei 13.000 villaggi sono partite delegazioni di decine di persone, coltivatori e anche maestri di scuola, camionisti, rappresentanti dei municipi rurali.
«In Punjab c’è un’insurrezione», scrive un’inviata del giornale online “The Wire”, che in una sola provincia di questo grande stato ha contato 68 sit-in permanenti, grandi e piccoli. Descrive comizi e raduni pubblici, e raccolte di viveri, coperte, tende da mandare a quelli che sono andati a Delhi. I manifestanti si alternano; c’è chi torna a casa per occuparsi del raccolto mentre altri danno il cambio. «Tutte le comunità sono unite», spiegano alcuni manifestanti.
Al movimento partecipano circa 500 organizzazioni di agricoltori e sindacati rurali, raggruppati n 40 organizzazioni ora raggruppate in un coordinamento. «Il governo pensa che i coltivatori oggi siano la massa impotente e ingenua descritta dalla letteratura preindipendenza. Ma i coltivatori oggi hanno assorbito l’eredità del movimento per la libertà [il movimento anticoloniale nella prima metà del Novecento], i giovani hanno ereditato quello spirito», spiega a “Frontline” un agricoltore ed ex soldato nel sito di Ghazipur, a est di Delhi. Non per nulla tra cartelli e volantini riemerge il volto di Bhagat Singh, leggendario leader socialista rivoluzionario novecentesco.

Assedio a Delhi

L’arrivo in città dei manifestanti da ogni parte del paese (foto da Kisan Ekta Morcha)

Il contrasto alla propaganda governativa

«Abbiamo capito che bisognava contrastare la propaganda che rimbalza sulla tv e sui social media», spiega (sempre a “Frontline”) un giovane ingegnere informatico impegnato nella protesta: con un piccolo gruppo di volontari ha creato una piattaforma elettronica che mette online conferenze stampa quotidiane, interviste, testimonianze: si chiama Kisan Ekta Morcha, è divenuta la grancassa del movimento.
Ai primi di dicembre il governo aveva offerto qualche emendamento alle leggi contestate, se i manifestanti avessero sgomberato le strade. Ma quando questi hanno rifiutato di tornare a casa prima di ottenere la revoca di quelle leggi, il governo li ha accusati di essere facinorosi, estremisti, “khalistani” – riferimento al movimento separatista armato che negli anni Ottanta si batteva per uno stato indipendente in Punjab, il Khalistan. Per questo tra i cartelli comparsi nei siti di protesta molti dicono «siamo coltivatori, non terroristi».
Il movimento dunque continua. È rimasto unito, e pacifico. La prima vittoria l’ha avuta quando, il 20 dicembre, la Corte Suprema ha chiesto al governo di sospendere l’applicazione delle leggi contestate e aprire il dialogo. Le foto dei primi incontri ritraggono i rappresentanti delle 40 organizzazioni rurali intorno a un lunghissimo tavolo, con i rappresentanti di tre ministeri del governo centrale (agricoltura, commercio, ferrovie). Da parte governativa però si sono presentati solo junior ministers, l’equivalente di sottosegretari, figure senza potere decisionale: non i ministri titolari e tantomeno il primo ministro. Benché incalzato da un nuovo intervento della Corte Suprema nella prima settimana di gennaio, il governo Modi continua a prendere tempo.

I “mercati regolamentati”: la posta in gioco

Cosa è in gioco? In estrema sintesi, il sistema di regolamentazioni statali che dagli anni Sessanta del secolo scorso offre qualche protezione ai coltivatori indiani.
La prima delle tre leggi contestate infatti permetterà di commercializzare la produzione agricola al di fuori dei mercati all’ingrosso statali (mandi), attualmente regolamentati dagli Agricultural Produce Market Committees, Apcm. Secondo il governo è una riforma che «aprirà nuove opportunità per tutti i coltivatori», perché moltiplica i possibili compratori per i loro raccolti e li “libera” dalla burocrazia e dagli intermediari. Ma non ha convinto gli agricoltori: i quali temono che sul “libero mercato” non saranno loro a fissare i prezzi, bensì i grandi acquirenti. Temono anche di perdere altri servizi essenziali oggi offerti dai mercati di stato, tra cui i silos e gli anticipi per le sementi.
Le altre leggi contestate aboliscono i limiti allo stoccaggio di derrate agricole, salvo casi di emergenza (era una norma antiaccaparramento): ma così, secondo i critici, i grandi traders potranno comprare derrate quando la produzione è abbondante e immagazzinarle per metterle sul mercato quando più conviene. La terza legge infine promuove la “coltivazione a contratto”, cioè la possibilità di stipulare contratti tra l’agricoltore e il futuro compratore. Il governo sostiene che questo darà sicurezza ai coltivatori, perché sapranno che il futuro raccolto è piazzato a un prezzo pattuito in anticipo. Molti agricoltori conoscono già questo sistema, e sono scettici.
Il punto è che i “mercati regolamentati” fanno parte del sistema che include il prezzo minimo di supporto (Msp), a sua volta funzionale al Sistema pubblico di distribuzione (Pds), con cui lo stato fornisce alimenti di base a prezzi calmierati a tutti gli indiani, in particolare ai più poveri. È un intero sistema creato negli anni Sessanta per garantire un prezzo equo ai produttori e allo stesso tempo assicurare l’accesso al cibo a tutti i cittadini. È questo che oggi è in gioco.

La crisi ecologica

La Rivoluzione verde è finita. Il Prezzo minimo è sorto con la rivoluzione agraria basata sulle varietà ibride “ad alto rendimento” di grano e poi di riso arrivate negli anni Sessanta e Settanta. In India la “rivoluzione verde” ha avuto successo grazie alla fertilità della pianura indogangetica e alle sue abbondanti riserve idriche sotterranee. Convinti dalle rese abbondanti, e dalla garanzia che lo stato avrebbe comprato i raccolti a un prezzo stabilito, gli agricoltori sono passati alle nuove sementi. In Punjab e Haryana grano e riso hanno rapidamente sostituito ogni altra coltura: da poco meno di metà della superficie coltivata nel 1970, a oltre l’80 per cento nel 2010. Già negli anni Novanta l’India era passata da importare cibo a esportarne.
Ormai però il suolo fertile e l’acqua abbondante sono esauriti. In Punjab la falda freatica cala in media di 33 centimetri l’anno, tanto che va cercata con pozzi sempre più profondi, ed è spesso inquinata da residui di fitofarmaci e concimi azotati. I suoli sono sempre meno produttivi. Eppure Punjab e Haryana restano il “granaio” dell’India, grazie alle pompe che estraggono l’acqua rimasta e un grande uso di concimi: nei quarant’anni trascorsi tra il 1978 e il 2019 la produzione di grano e riso in Punjab è aumentata del 134 per cento (da 126 a 285 milioni di tonnellate), ma il consumo di fertilizzanti è aumentato oltre il 600 per cento (da 4,2 a 27,2 milioni di tonnellate: riprendo i dati dall’economista Prem Shankar Jha).
La conseguenza è duplice. Da un lato, l’India produce grandi surplus alimentari che ha cominciato a esportare. Dall’altro però la monocoltura intensiva ha innescato una spaventosa crisi ecologica. E questo ha anche fatto calare la produttività e salire le spese di produzione.

Liberalizzazione vs insostenibilità?

I sostenitori della liberalizzazione argomentano che il prezzo minimo e i numerosi sussidi di stato ormai perpetuano un’agricoltura insostenibile, ha creato una classe di coltivatori dipendenti dalle sovvenzioni, disincentiva a diversificare le colture. Altri, tra cui Jha, fanno notare che molti coltivatori hanno già diversificato, anche in quelle regioni “granaio”, e coltivano ortaggi per il mercato urbano, o altre derrate: ma proprio per questo sanno già cosa significa essere in balia del “libero mercato”. Mentre nessun governo ha mai tenuto la promessa di investire in infrastrutture, magazzini refrigerati o altro a sostegno del mercato agricolo, e devono affidarsi a intermediari che hanno un potere spropositato.
Il sistema è insostenibile? Molti in India, anche tra gli oppositori alle leggi oggi contestate, concordano che il meccanismo dei mercati regolamentati va rivisto. Che quei Comitati di gestione (i succitati Agricoltural Produce Market Committees) in cui sono rappresentati enti locali e organizzazioni di agricoltori riflettono molti dei vizi della società più generale, dalle divisioni di casta e di classe, alle azioni di lobby di vari interessi, alla burocrazia. E però «non c’è dubbio che continuano a mitigare l’arbitrarietà dei prezzi e limitare le malversazioni ai danni dei coltivatori», osserva un editoriale di “Frontline”.

Il surplus di produzione tra esportazione e interessi privati

È anche vero che i silos della Food Corporation of India (ente di stato) straboccano di derrate: quasi 28 milioni di tonnellate di riso e 55 milioni di tonnellate di grano alla fine di giugno 2020, ben 42 milioni di tonnellate più di quelle che sono considerate riserve strategiche. Così l’India ha cominciato a esportare riso (12 milioni di tonnellate l’anno scorso) e grano (circa 6 milioni di tonnellate destinate a mangimi animali). Prem Shankar Jha osserva che, dai dati ufficiali, quel riso è stato venduto sul mercato internazionale a poco più di 7 miliardi di dollari, con un profitto di 4,18 miliardi di dollari rispetto al “prezzo mimino di supporto” che lo stato aveva pagato ai coltivatori. Fin troppo facile la conclusione: «Gli immediati beneficiari [della liberalizzazione] saranno i grandi esportatori a cui la Food Corporation venderà i suoi surplus» a poco più del prezzo minimo, conclude Jha. Tra i manifestanti è convinzione diffusa che tra questi i beneficiari abbiano un nome: le imprese di Mukesh Ambani e di Gautam Adani, due multimiliardari molto legati al primo ministro Modi (i quali smentiscono di avere interessi nel mercato agricolo). Non a caso in tutto il Punjab le proteste hanno preso di mira stazioni di benzina e ripetitori dei telefonini del gruppo Reliance (di Ambani), o i silos refrigerati del gruppo Adani.

La protesta attuale è solo una parte del problema

Forse è vero, la protesta di queste settimane rappresenta solo una parte del complesso mondo rurale indiano. Il sistema dei mercati regolamentati e del prezzo minimo in effetti riguarda solo riso e grano (il progetto di estenderlo ad altre derrate non è mai decollato), e non copre le zone più periferiche. Mentre la gran parte dei coltivatori – di cereali, cotone, ortaggi o altro – è già in balia del libero mercato: di intermediari che stabiliscono le regole; di grossisti che fissano prezzi e standard. Degli usurai a cui devono chiedere anticipi per comprare sementi e concimi. Delle oscillazioni dei mercati e del clima.
Senza contare che gran parte dell’India rurale, quella più marginale, coltiva per la sussistenza, non rientra nel computo economico, e dipende dall’uso delle terre comuni. È la parte più penalizzata dall’inarrestabile accaparramento di terre avvenuto negli ultimi trent’anni per permettere l’espansione di miniere, fabbriche e grandi imprese agro-industriali.
Gli agricoltori che assediano Delhi non hanno l’aspetto di “privilegiati”. Sono convinti che le tre leggi contestate siano il preludio ad abolire anche il Prezzo minimo e smantellare quel che resta del sistema di redistribuzione costruito negli anni postindipendenza: e allora sarà peggio non solo per loro ma per tutta l’India rurale. La posta in gioco è proprio questa.

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