Mosul Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/mosul/ geopolitica etc Tue, 22 Jun 2021 11:17:42 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 n. 9 Iraq: Il Destino comune dei paesi mesopotamici. (I) La fine dello stato e il settarismo https://ogzero.org/una-mobilitazione-costante-in-iraq-il-destino-comune-dei-paesi-mesopotamici/ Tue, 22 Jun 2021 10:41:18 +0000 https://ogzero.org/?p=3949 Lo spazio dedicato alla sezione irachena non a caso cade a ridosso delle puntate siriane nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria. Intanto evidenziamo come a completamento dell’area si assista agli stessi meccanismi condivisi tra Siria, Libano e Iraq, la cui frazione nella serie […]

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Lo spazio dedicato alla sezione irachena non a caso cade a ridosso delle puntate siriane nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria. Intanto evidenziamo come a completamento dell’area si assista agli stessi meccanismi condivisi tra Siria, Libano e Iraq, la cui frazione nella serie di articoli si compone di due interventi strettamente correlati. Anche in Iraq ovviamente mordono ancora i danni della divisione Sykes-Picot e infatti l’Isis simbolicamente si manifestò sul confine tirato senza criterio dalle potenze coloniali per spartirsi i territori dell’impero ottomano al suo crollo.

L’autrice ha dapprima analizzato nel presente articolo il settarismo religioso che ha visto la presa del potere sciita alla caduta di Saddam e le conseguenti proteste sunnite, veicolo della rivendicazione dei diritti civili, espresse in Libano in modo ecumenico con il Movimento popolare e in Siria con l’insurrezione contro al-Assad; tra la protesta repressa da al-Maliki e quella dei movimenti giovanili del 2019 l’Isis scorrazzò per ampia parte del territorio iracheno, sgozzando e perseguendo le minoranze religiose, in particolare gli yazidi; a corollario di ciò l’autrice analizza i risvolti geopolitici degli incontri interreligiosi promossi da Bergoglio.

Nel successivo articolo si occuperà delle tribù curde nel Kurdistan iracheno e della presenza del Pkk sui monti di  Kandil e della conseguente aggressione turca.


n. 9, parte I

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Non c’è pace a 30 anni dalla Guerra del Golfo

Quest’anno ricorre il trentennale della prima guerra del Golfo ma la situazione geopolitica che oggi si riscontra in Iraq è fortemente diversa da quella di allora. Gli elementi peculiari sui quali occorre soffermarsi sono attualmente: il settarismo religioso, la questione curda con l’ingerenza della Turchia nel territorio iracheno, la recrudescenza dello Stato Islamico, l’ingerenza iraniana nel paese, gli scontri tra gli Stati Uniti e l’Iran nonché la mobilitazione costante della popolazione civile contro l’esecutivo al potere. L’Iraq che raggiunse l’indipendenza dal colonialismo inglese nel 1932 e nel 1968 vide l’ascesa del Partito socialista unico (Ba’at). E già si notano le rilevanti “contaminazioni” con gli altri paesi del Medioriente riscontrate nel corso dell’analisi geopolitica del Libano e della Siria, poi fortemente manifestate con le primavere arabe: infatti, nell’instaurazione dell’esecutivo baatista in Iraq non si può ignorare che nello stesso periodo, all’inizio degli anni Settanta, anche in quella Siria geograficamente prossima, il medesimo partito si impose con veemenza e diede inizio al regime degli al-Assad, con Hafiz padre dell’attuale presidente siriano. Nel contesto iracheno baatista però si stagliò in seguito la dittatura di Saddam Hussein salito al potere nel 1979. Da questo momento in poi la storia irachena seguì per alcuni anni un iter peculiare: dapprima lo scontro con l’Iran nel 1980 terminato solo nel 1988, dal quale il paese uscì fortemente indebolito, e successivamente l’invasione del Kuwait, a causa dell’abbassamento dei prezzi del petrolio, nel 1990, alla quale seguì lo scoppio della Prima guerra del Golfo del 1991.

una mobilitazione costante in Iraq

Colin Powell durante il Consiglio di Sicurezza dell’Onu sventola la prova falsa di una provetta di antrace, accusando Saddam di guerra chimica e scatenando la Seconda guerra del Golfo

Tale ultimo conflitto, su iniziativa statunitense e su legittimazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che vide il coinvolgimento dell’intervento armato di numerose potenze occidentali e che ebbe un’eco mediatica mai riscontrata fino a quel momento, fu totalmente diverso dall’intervento militare del 2003 per opera di Stati Uniti e Regno Unito – questa volta fortemente osteggiato dal Consiglio di Sicurezza – sulla base dell’esistenza di presunte armi di distruzioni di massa in Iraq, invero mai rinvenute. A ogni modo, ciò che è rilevante notare è che alla destituzione del regime di Saddam Hussein, individuato dalle truppe statunitensi nello stesso anno e impiccato nel 2006, si determinò l’instaurazione di un governo ad interim: un esecutivo basato sulla coalizione curdo-sciita guidato dal premier Nouri al-Maliki. Quando però quest’ultimo incentrò su di sé tutti i poteri con l’ossessivo controllo della popolazione irachena, nel 2011 il suo governo vacillò – come in Siria avvenne per Bashar al-Assad – per cui si pensò a una “primavera irachena”.

La protesta sunnita

In Iraq però la protesta popolare in quegli anni non si accese tanto sulla base della mancanza di riconoscimento delle libertà e dei diritti civili della popolazione come in Siria, quanto piuttosto sulla reazione violenta dei sunniti – stanchi della continua discriminazione religiosa subita dall’esecutivo sciita – che tuttavia non sfociò in un conflitto civile ma in una violentissima repressione del popolo sunnita da parte del governo centrale e alla quale seguì nuovamente la vittoria, nel corso delle elezioni provinciali del 2012, del premier Nouri al-Maliki. La storia irachena ritrova comunanza con la Siria per l’ascesa del sedicente Stato Islamico in entrambi i paesi e così, come in Siria Putin, anche Haydar al-Abadi in Iraq il 9 dicembre del 2017 dichiarò la sconfitta dell’IS in conseguenza dell’intervento armato da parte dell’esercito iracheno, delle milizie sciite e dei peshmerga (“combattenti fino alla morte”) curdi che in quell’anno riconquistarono la città di Mosul, la prima città a essere assediata in Iraq dal sedicente Stato Islamico. Gli anni seguenti, dopo la nomina nel 2018 di un’economista a primo ministro (Adil Abdul Mahdi), si caratterizzarono prevalentemente per una commistione con la situazione socioeconomica libanese. In particolare, nel 2019, così come in Libano, l’Iraq registrò una rovinosa discesa del Pil: venne reso noto dall’esecutivo un deficit economico di più di 50 miliardi di dollari, si attuarono tagli al settore pubblico – nel quale era impiegata il 40% della popolazione – e, infine, si determinò una riduzione dell’export iracheno. Le proteste popolari – delle quali simbolo è l’irachena piazza Tahrir – iniziate il 1° ottobre contro il governo, a causa della situazione economica, della corruzione e della disoccupazione nel paese, vennero promosse principalmente dal leader sciita Muqtada al-Sadr e portarono alle dimissioni a novembre del 2019 di Abdul Mahdi, come in Libano si dimise il primo ministro Saad Hariri in seguito alle proteste del 19 ottobre. Sia in Iraq che in Libano infatti a protestare contro la situazione di indigenza della popolazione e il governo furono prevalentemente i giovani, tuttavia la polizia e le milizie sciite estremiste filoiraniane in Iraq – i c.d. “squadroni della morte” – così come l’esercito libanese, furono sguinzagliati a soffocare la rivolta popolare giovanile con il terrore e con una repressione sanguinaria. Amnesty International intervenne in merito dichiarando che queste sono costate la vita ad almeno 300 iracheni. Al riguardo c’è da dire che il leader sciita Muqtada al-Sadr a capo del partito sadrista se in un primo momento si schierò con i manifestanti, istituendo una forza paramilitare per proteggere i civili scesi in piazza, successivamente utilizzò la medesima forza militare per reprimere le proteste. Tuttavia, nel mese scorso, dopo una momentanea riduzione della mobilitazione popolare, dovuta principalmente alla diffusione del Covid 19, le proteste dei giovani della “rivoluzione di ottobre” contro la corruzione e il regime settario nel paese sono tornate a infiammarsi e con esse anche le violente repressioni della polizia irachena e delle milizie armate sciite fondamentaliste.

una mobilitazione costante in Iraq

Autunno 2019, squadroni della morte di militanti sciiti filoiraniani attaccano e massacrano i giovani manifestanti antisistema a Kerbala e Najaf

La crisi dell’idea di stato condiziona lo scenario geopolitico mediorientale

Mustafa al-Kadhimi – ex capo dell’intelligence irachena, nominato premier nel maggio del 2020 – dopo cinque mesi di stallo politico seguito alle dimissioni di Abdul Madhi – pur dimostrando forti aperture verso le istanze delle proteste popolari e chiedendo che fossero giudicati tutti coloro che si macchiarono della violenta repressione; e oggi è in realtà a capo di un esecutivo  fortemente depotenziato allo stesso modo di quello libanese che, in seguito alle proteste del 2019, subì le dimissioni di tre premier nell’arco di un anno. Tuttavia la necessità dell’immutabilità e della stabilità degli attuali governi è resa esplicita dalle continue conflittualità e dalle ingerenze degli attori regionali e delle potenze internazionali presenti e riscontrata anche in altri paesi dell’area mediorientale, primo tra tutti quello siriano come precedentemente analizzato. Così come in Siria, quest’anno il prossimo 10 ottobre in Iraq sono previste le elezioni fortemente reclamate dai giovani manifestanti già dallo scorso anno, ma proprio come nella repubblica guidata da Bashar al-Assad, la popolazione civile non spera più che queste possano condurre a una svolta politica e sociale nel paese. Rimangono evidenti le difficoltà del presidente di gestire le tensioni politiche tra sunniti, sciiti filoiraniani e sciiti antiraniani. Nel 2021 la centralità dello stato iracheno è messa in discussione da numerosi fattori: tra questi tuttavia, rispetto all’obiettivo che tale sezione del saggio si propone, saranno analizzati soltanto quelli rilevanti perché realmente o potenzialmente induttivi del fenomeno migratorio forzato.

Il settarismo religioso ed etnico in Iraq. Le persecuzioni contro le principali minoranze religiose

Nel periodo della transizione “democratica” del paese dal 2003 al 2013, dopo la caduta di Saddam Hussein, seguì un esecutivo guidato da Nouri al-Maliki con funzioni prevalentemente securitarie che non solo provocò una crescente marginalizzazione della componente sunnita nel paese, ma anche continue intimidazioni nei confronti delle minoranze etnico religiose tra cui quella cristiana. A tale periodo seguì poi quello dell’occupazione del territorio iracheno da parte del sedicente Stato Islamico che aggravò ulteriormente la situazione ponendo in essere violenze generalizzate contro tutte le popolazioni appartenenti alle minoranze locali, in particolare contro i cristiani e gli yazidi ritenuti “infedeli”.

Queste azioni provocarono lo sfollamento di una moltitudine di persone appartenenti alle suddette minoranze dalla piana di Ninive (al confine con la Siria) verso le zone del Nord, in particolare quelle del vicino Kurdistan iracheno. Tale situazione agevolò, infatti, un rilevante aumento degli sfollati interni: più di tre milioni nel 2018 ma, essendo tale provincia autonoma un territorio considerato diverso da quello guidato dall’autorità centrale di Baghdad, gli Idp (Internally displaced persons) dovettero seguire, per vedersi riconosciuta una legittimazione della loro presenza sul territorio, procedure e iter burocratici simili a quelli ai quali sono sottoposti i richiedenti asilo. La costituzione approvata nel 2005 invero non ha mai ovviato alla frammentarietà, al settarismo e alla fragilità del sistema istituzionale del paese nel quale sono prevalenti le comunità sciite, sunnite e curde. Il 95 per cento della popolazione irachena infatti appartiene a due gruppi etnici: gli arabi – che costituiscono circa l’80 per cento della popolazione locale – e i curdi iracheni che costituiscono circa il 15/20 per cento della popolazione; tuttavia entrambi i gruppi sono prevalentemente musulmani: il 65 per cento sono sciiti mentre circa il 30 per cento sunniti.

Distinzioni etno-religiose

Gli sciiti sono quasi totalmente arabi mentre i sunniti comprendono arabi, curdi ma anche azeri e turkmeni. Il restante 5 per cento della popolazione irachena è costituito da cristiani, yazidi, kakai, sabeani, bahai, turkmeni – iracheni, turco-circassi, beduini, shabak, armeni, iracheni neri e romani. Cristiani– il cui luogo di origine è la piana di Ninive – sono i caldei (80 per cento dei cristiani presenti nel paese), i siriaci, gli armeni, gli assiri e gli arabi. In particolare, i caldei sono in comunione con la Chiesa cattolica di Roma, mentre gli assiri fanno parte di una chiesa sorella a quella cattolica di Roma ossia la Chiesa assira d’Oriente del quale patriarcato negli anni Quaranta si trasferì negli Stati Uniti mentre negli ultimi anni ha di nuovo ristabilito la sua sede a Erbil, capoluogo della provincia autonoma curda. A partire dal 2014, ossia dalla dominazione di buona parte del territorio iracheno dal sedicente Stato Islamico, i cristiani hanno subito deportazioni e massacri. Le comunità cristiane tuttavia vennero perseguitate, in ragione del proprio credo, già prima del 2014 quando 1,4 milioni di cristiani fuggirono dall’Iraq e oggi – pur costituendo una minoranza – continuano a essere perseguitate dalle comunità arabe presenti nel paese, soppiantate spesso dal ripopolamento delle tribù sciite nei loro “luoghi storici” e il cui ritorno in tali territori viene reso impossibile dal costante intervento delle diverse milizie arabe presenti nel paese.

Diplomazia pontificia: marzo 2021, Bergoglio incontra al-Sistani

In questo contesto di persecuzione delle minoranze cristiane in Iraq si inserisce la visita di Jorge Bergoglio del 5-8 marzo 2021: tale accadimento ha un valore non solo dal punto di vista religioso ma anche una forte rilevanza politico sociale. Sotto il primo profilo vi è da sottolineare che Bergoglio ha presenziato a una celebrazione nella Piana di Ur luogo nel quale è nato il profeta Abramo più precisamente nella regione meridionale irachena di Dhi Qar. L’evento si riveste di un’importanza religiosa non indifferente se pensiamo che una delle definizioni maggiormente impiegate per le tre religioni monoteistiche è quella di “religioni abramitiche”: Cristianesimo, Ebraismo e Islam condividono tutte la fede nel profeta Abramo anche se la vita e la storia del profeta è ricostruita in modo differente dall’Islam rispetto a quanto riportato nel Vecchio Testamento. In particolare, i musulmani non credono che Abramo appartenga a una delle tre religioni monoteiste ma che debba essere considerato piuttosto come “amico di Dio” e per questo padre di tutti i profeti che si sono succeduti nella storia compreso lo stesso Maometto. Il viaggio del Pontefice svolto con l’intento di ripercorrere le “tappe di Abramo” rievoca l’intenzione manifestata nella terza enciclica del 2020 Fratelli tutti. L’espressione va intesa in tale specifico scenario geopolitico anche nel senso di parità di diritti per ogni individuo a prescindere dall’appartenenza a una determinata etnia, comunità religiosa, politica nazionale o regionale, lasciando intendere anche la necessità di riconsiderare il ruolo delle milizie repressive nel paese nei confronti dei civili. Secondo il patriarca dei caldei in Iraq il termine fratellanza è nominato dal pontefice con l’intento di superare gli scontri religiosi tra le comunità sunnite e sciite da un lato, cristiane e musulmane dall’altro e infine quelli etnici tra arabi e curdi. Secondo aspetto rilevante del viaggio di Bergoglio è quello dell’incontro a Najaf con l’ayatollah sciita Ali al-Sistani, considerato la guida internazionale, spirituale e politica per eccellenza dell’Iraq e in contrasto con la Guida Suprema della rivoluzione iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, guida sciita della rivoluzione iraniana. Sistani, grato agli Usa per l’aiuto per la lotta contro Saddam Hussein ma sempre in opposizione all’ingerenza americana nel paese, nel 2014 legittimò l’uso delle armi da parte dei civili iracheni sotto la sua autorità – fatti confluire all’interno delle forze istituzionali di “Mobilitazione Popolare” – per difendersi dagli attacchi del sedicente Stato Islamico contro i principali luoghi sciiti iracheni. L’ayatollah Ali Sistani caldeggiò inoltre le sopraccitate mobilitazioni popolari del 2019 contro la corruzione e le politiche economiche e occupazionali del governo e lo strapotere delle milizie armate. Tale visita ha quindi una rilevanza maggiormente politica rispetto alla celebrazione liturgica compiuta nella piana di Ur essendo il pontefice ben consapevole che le proteste popolari sono state portate avanti negli ultimi anni non solo dai giovani iracheni ma anche da quelli libanesi, algerini e tunisini. Infine, sempre in tale ottica politico-sociale il papa ha visitato anche Erbil, Qaraqosh e Mosul città violentemente dominata dal sedicente Stato Islamico dal 2014 al 2017. Già a Ur il pontefice aveva detto: «Noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione».

Gli yazidi, ma soprattutto le yazide

una mobilitazione costante in Iraq

Premio Sackarov 2016: Nadia Murad e Lamiya Aji Bashar, due donne yazide vittime dell’Isis sono insignite del premio europeo per chi lotta per i diritti umani

Altra famiglia oggetto di persecuzione nel paese è quella degli yazidi, tribù indigena nei territori del Sinjar. Lo yazidismo inoltre è una religione più antica delle tre religioni abramitiche e i suoi seguaci vennero perseguitati e uccisi perché ritenuti dagli arabi musulmani adoranti il “diavolo”. La loro lingua è il Kurmanji ossia una variante della lingua curda. Quando nel 2014 l’Isis invase i territori del Sinjar molti membri furono uccisi, sfollati e ridotti in schiavitù, circa 7000 persone, principalmente per entrare a combattere tra le milizie del sedicente Stato Islamico o di quelle curde. Nel dicembre del 2014 tuttavia le unità irachene di “Mobilitazione Popolare”, i peshmerga e le stesse milizie yazide determinarono la sconfitta dell’Isis nella stessa zona del Sinjar. Gli Yazidi sfollati nei campi del Kurdistan iracheno si trovano tuttora in campi periferici alle principali città del Kurdistan ma questo non ha impedito un fenomeno di eccezionale ed esemplare peculiarità: diverse donne sfollate interne – nonostante molte di loro siano state in passato rapite e siano divenute oggetto di abusi da parte degli uomini del sedicente Stato Islamico nel periodo dal 2014 al 2017 – hanno ottenuto in tale dimensione autonomia e opportunità che non avrebbero mai avuto nei loro villaggi grazie a progetti educativi – anche sulla sessualità – nonché di alfabetizzazione che gli assistenti sociali nel paese hanno garantito a tutti gli sfollati interni nel Kurdistan. Diversi sono stati i corsi dedicati in particolar modo alle donne non solo di formazione professionale ma anche sull’uguaglianza di genere, sulla genitorialità e più in generale quelli d’informazione sui loro diritti tra cui quello sulla possibilità di denunciare le violenze domestiche.

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n. 9 Iraq: Il Destino comune dei paesi mesopotamici. (II) I curdi iracheni https://ogzero.org/guerre-civili-e-per-procura-e-invadenza-neo-ottomana-in-iraq/ Tue, 22 Jun 2021 10:40:56 +0000 https://ogzero.org/?p=3951 Lo spazio dedicato alla sezione irachena non a caso cade a ridosso delle puntate siriane nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria. Intanto evidenziamo come a completamento dell’area si assista agli stessi meccanismi condivisi tra Siria, Libano e Iraq, la cui frazione nella serie […]

L'articolo n. 9 Iraq: Il Destino comune dei paesi mesopotamici. (II) I curdi iracheni proviene da OGzero.

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Lo spazio dedicato alla sezione irachena non a caso cade a ridosso delle puntate siriane nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria. Intanto evidenziamo come a completamento dell’area si assista agli stessi meccanismi condivisi tra Siria, Libano e Iraq, la cui frazione nella serie di articoli si compone di due interventi strettamente correlati. Anche in Iraq ovviamente mordono ancora i danni della divisione Sykes-Picot e infatti l’Isis simbolicamente si manifestò sul confine tirato senza criterio dalle potenze coloniali per spartirsi i territori dell’impero ottomano al suo crollo.

Questo secondo articolo si occupa delle tribù curde nel Kurdistan iracheno e della presenza del Pkk sui monti di Kandil e della conseguente aggressione turca, collegata con gli anni di al-Baghdadi e l’Isis a Mosul. Analizzando gli stessi eventi riproposti sotto nuova ottica in questo pezzo complementare al precedente in cui l’autrice aveva analizzato il settarismo religioso che ha visto la presa del potere sciita alla caduta di Saddam e le conseguenti proteste sunnite, veicolo della rivendicazione dei diritti civili, espresse in Libano in modo ecumenico con il Movimento di popolo e in Siria con l’insurrezione contro al-Assad; tra la protesta repressa da al-Maliki e quella dei movimenti giovanili del 2019 l’Isis scorrazzò per ampia parte del territorio iracheno, sgozzando e perseguendo le minoranze religiose, in particolare perpetrando un genocidio della popolazione yazida.


n. 9, parte II

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il Kurdistan di Barzani stringe accordi, tradendo i fratelli turchi

Il 9 ottobre 2020 è stato siglato un accordo tra Baghdad ed Erbil per cooperare in modo congiunto all’espulsione delle cellule del Pkk: la presenza del partito in Iraq rappresenta anche la legittimazione dell’intervento della Turchia nei territori iracheni. In conclusione, la diversità etnica e religiosa di tali due minoranze, come delle altre, pur essendo riconosciuta a livello costituzionale non è adeguatamente tutelata nelle sue garanzie previste per legge venendo escluse queste comunità da qualunque processo decisionale a livello politico, condizione ulteriormente aggravata proprio a causa del precedente dominio del sedicente Stato Islamico nell’area. La situazione di un pluralismo di etnie e religioni che caratterizza il territorio iracheno determina lo scontro interetnico costante non garantendo il governo iracheno un’effettiva decentralizzazione del potere a livello amministrativo locale che invece consentirebbe un’esistenza pacifica tra le diverse etnie, facilitando l’inclusione sociopolitica tra le comunità per il governo dei territori in cui esse sono presenti. Ciò, come già accennato, deve essere ricondotto alla formulazione della Costituzione del 2005 redatta a seguito della caduta di Saddam Hussein soprattutto dai partiti sciiti con l’ausilio dell’Iran interessato al fatto che l’Iraq non acquisisse più lo stesso potere che ebbe durante la dittatura di Saddam Hussein.

L’etnia curda e i conflitti nel Kurdistan iracheno

La semplice cooperazione tra Erbil e Baghdad prevista in Costituzione determina una difficile attribuzione dei ruoli e dei poteri. Con riferimento al popolo curdo – vittima nel 1988 del genocidio di al-Anfal, ordito da Saddam Hussein con l’utilizzo di armi chimiche – la disputa sulla governance investe non più solo attori interni ma anche potenze regionali estere quali la Turchia, l’Iran o internazionali come gli Stati Uniti. Le operazioni militari nel Nord del paese – presenti ancora oggi – hanno provocato trent’anni di vittime, di sfollamenti e di distruzione. Nei mesi scorsi il Christian Peacemaker Team – Iraqi Kurdistan, l’Iraqi Civil Society Iniziative, e il Kurdistan Social Forum hanno chiesto pubblicamente a tutte le organizzazioni locali e internazionali di aderire alla campagna per la fine dei bombardamenti nel Kurdistan iracheno riferendosi in particolar modo a quelli compiuti negli ultimi anni dalla Turchia e dall’Iran.

Il genocidio di al-Anfal fu perpetrato con armi chimiche da Saddam Hussein nel 1988

L’invadenza neo-ottomana

L’auspicio è quello di un cessate il fuoco completo tra le due potenze regionali nel territorio iracheno e l’immediato smantellamento di tutte le basi militari straniere dalla provincia autonoma curda, chiedendo ai governi di Ankara, Tehran, Baghdad, Erbil e alle Nazioni Unite di innescare un processo diplomatico per porre fine ai combattimenti. Negli ultimi mesi si sono verificati diversi attacchi armati che hanno coinvolto la provincia autonoma. Nel giugno del 2020 la Turchia diede inizio all’operazione militare “Artiglio di Tigre”, è considerata la più lunga delle invasioni di Ankara del territorio iracheno, condotta contro il Pkk sostenuto dalla popolazione nel Sudest della Turchia ma attivo anche nel Kurdistan iracheno. L’obiettivo della Turchia è quello di colpire i membri del Partito dei lavoratori in Kurdistan e le loro roccaforti nelle aree irachene. Baghdad ha perciò più volte accusato Ankara di violare la sovranità del territorio curdo chiedendo il ritiro delle proprie truppe e la cessazione delle aggressive attività militari di Ankara. Le milizie turche hanno infatti preso di mira anche i campi profughi nelle città di Makhumar e Sinjar. In particolare, a Sinjar nella provincia settentrionale di Ninive, il governo iracheno ha esortato i membri del Pkk a lasciare la regione senza successo: Ypg/Ypj han preso il controllo della regione nel 2014 in seguito all’intervento a protezione della comunità yazida contro lo Stato Islamico. A febbraio del 2021 è stata decretata la fine dell’operazione turca “Artiglio di Tigre 2” che ha causato la morte di 50 combattenti del Pkk. Ciò nonostante, anche dopo il 14 febbraio, sono continuati i bombardamenti nel Nord dell’Iraq in territorio curdo: 2 aprile 2021 caccia turchi attaccano postazioni militari del Pkk.

guerre civili e per procura

Posto di blocco di resistenti Ypg/Ypj a Kandil nel 2013.

Il 30 aprile Ankara si è detta pronta a ristabilire una propria base militare a Nord dell’Iraq e il ministro della Difesa turco ha annunciato la continuazione di due nuove operazioni militari nel Nord del paese. Secondo Erdoğan: «Non c’è posto per il gruppo separatista terroristico nel futuro della Turchia, dell’Iraq o della Siria» e ha aggiunto «continueremo a combattere fino a quando queste bande criminali che causano solo lacrime e distruzione non verranno sradicate». Infine, nel mese di maggio in particolare il ministro degli Esteri iracheno ha espresso risentimento per la visita del ministro della Difesa turco a una base militare nella provincia di Sirniak senza essersi prima coordinato con l’Iraq che ha nuovamente denunciato: «Continue violazioni della sovranità e dell’inviolabilità del suo territorio e del suo spazio aereo da parte delle forze militari turche». Nella regione curda inoltre, risparmiata dalle proteste popolari che coinvolsero l’intero paese nel 2019, si sono verificate mobilitazioni giovanili a partire dalla fine del 2020 e continuate nel 2021, pur essendo comunque represse nel sangue da parte delle milizie irachene.

Guerre civili e per procura in Kurdistan

In tale ottica si evidenzia il problema storico della necessità della riforma delle forze di sicurezza dei peshmerga e dell’intelligence che non sono organizzazioni ufficiali di polizia della provincia autonoma, ma rispondono piuttosto a partiti di tendenza opposta al Pkk e questo potrebbe innescare una guerra civile e indebolire e dividere il popolo curdo. Inoltre il Kurdistan come il resto del territorio iracheno è il campo sul quale si fronteggiano le forze militari iraniane e quelle statunitensi: il 14 aprile 2021 si è registrato un attacco della sconosciuta milizia sciita “Guardiani del sangue” contro l’aeroporto militare di Erbil e la base della Coalizione internazionale a guida Usa sempre nel capoluogo del Kurdistan; evidenziando come la sicurezza della provincia autonoma sia continuamente esposta all’intensificarsi degli attacchi iraniani contro obiettivi statunitensi.

Il conflitto tra Usa e Iran sul territorio iracheno

Cosi come tra regime turco e Pkk nel Kurdistan iracheno, anche i violenti scontri militari tra Usa e Iran sull’intero territorio dell’Iraq sono una costante. Già nel maggio del 2019 l’allora segretario di stato Mike Pompeo chiese all’allora presidente iracheno Mahdi rassicurazioni sul disarmo delle varie milizie sciite vicine a Tehran (Forze di mobilitazione popolare in Iraq – Pmf), nate in risposta alla richiesta del jihad da parte dell’ayatolllah Ali al-Sistani contro lo Stato islamico, dopo la caduta di Mosul, e successivamente unitesi alle milizie iraniane dell’al-Quds ossia il “braccio armato” dei Guardiani della rivoluzione dell’Iran a capo delle quali vi era il generale Qasem Soleimani. Gli Stati Uniti inoltre vollero rassicurazioni anche in merito alla condizione di sicurezza di circa 6000 militari americani presenti in Iraq e dunque cominciarono a inviare navi da guerra sul territorio. Tale escalation di tensione tra Usa e Iran avvenne in seguito alla visita del presidente iraniano Rohani il 6 marzo 2019 quando incontrò figure politiche militari e religiose irachene ponendo le basi per una collaborazione tra Iran e Iraq in più settori. La situazione tra Stati Uniti e Iran peggiorò con l’uccisione all’aeroporto di Baghdad del generale iraniano Qasem Soleimani il 3 gennaio 2020 – in seguito sostituito da Esmail Ghani – e di altre importanti personalità militari e di sicurezza sciite filoiraniane come Abu Mahdi al-Muhandis, vicecomandante delle Forze di mobilitazione popolare che in passato avevano anche coordinato nel paese i combattimenti contro l’Isis. Dopo questo omicidio il parlamento iracheno votò e approvò una mozione che richiedeva il ritiro immediato delle truppe statunitensi. La decisione dell’uccisione del generale Soleimani – giustificata come misura proporzionata di autodifesa preventiva nel rispetto del diritto internazionale delle Nazioni Unite – venne adottata dall’allora presidente Trump, su consiglio del Pentagono, dopo essersi consultato anche con l’allora segretario di stato Mike Pompeo in seguito all’assalto all’ambasciata statunitense in Iraq condotto dai miliziani iracheni collegati all’Iran. Da allora si ripeterono diversi e violenti attacchi missilistici dell’Iran contro basi militari irachene a Erbil e Ain al-Asad nelle quali erano presenti soldati americani. Il 27 marzo 2020 gli Stati Uniti annunciarono di aver ordinato ai propri impiegati dell’ambasciata americana in Iraq e ai funzionari del consolato di Erbil di lasciare il paese. Gli Stati Uniti decisero di evitare d’inasprire la propria forza militare contro la milizia filoiraniana delle falangi di Hezbollah, pur se particolarmente ostile alle milizie americane e annunciarono di voler ritirare 2000 dei circa 5000 militari statunitensi presenti in Iraq.

In tale scenario occorre menzionare anche il leader sciita di origine libanese Muqtada al-Sadr leader del movimento sadrista del partito Sairoon che vanta una discendenza diretta con il profeta Maometto: le sue milizie furono protagoniste dell’insurrezione armata contro le truppe di occupazione americane nel 2003, ma volendosi ora mostrare distante da Tehran lo scorso anno dichiarò: «L’occupazione americana si combatte in parlamento e non con la violenza, attaccando sedi di cultura e ambasciate». Dopo pochi mesi, tuttavia, ritornò nel quadro delle milizie filoiraniane. Rispetto alla continua attività di belligeranza in Iraq tra le due potenze il nuovo premier Mustafa al-Kadhimi – nominato su comune intesa di Iran e Stati Uniti e considerato il “premier di tutti e di nessuno” – non ha preso una vera posizione, principalmente concentrato su questioni securitarie. Infatti l’attuale premier nonostante abbia dichiarato in più occasioni di voler contrastare l’impunità delle milizie filoiraniane, non ha di fatto mai avviato alcuna attività politica in tal senso. Il 15 febbraio 2021 una dozzina di razzi lanciati da gruppi sciiti sostenuti dall’Iran – come Kata’ib Hezbollah – hanno preso di mira le forze della coalizione a guida Usa fuori dall’aeroporto Internazionale di Erbil.

Il 1° marzo del 2021 Joe Biden ha ordinato un attacco sulla base operativa di un gruppo di miliziani sciiti vicini all’Iran, due giorni dopo diversi missili iraniani hanno colpito nuovamente la base di Ain al-Asad della coalizione anti-Isis a guida statunitense e impiegata altresì dalle truppe britanniche stanziate in Iraq nel governatorato occidentale di Anbar. Le notizie di continui attacchi contro obiettivi statunitensi ancora sono state riportate il 16 e il 29 marzo 2021 così come nel mese di aprile e di maggio sempre a opera di gruppi armati affiliati all’Iran. In tale situazione di continua belligeranza va sottolineata la dichiarazione congiunta di Washington e Baghdad ad aprile: le truppe da combattimento statunitensi, impiegate contro la lotta allo Stato Islamico, abbandoneranno l’Iraq. Le forze Usa tuttavia continueranno a fornire consulenza e addestramento all’esercito iracheno mentre la presenza italiana nella Missione Nato nel paese continua ad aumentare.

I continui attentati nel paese da parte del sedicente Stato Islamico

Con la fine del regime di Saddam nel 2003, lo scioglimento e l’immediata ricostruzione delle forze di difesa statali condussero all’espansione di al-Qaeda in Iraq in particolare a Mosul e Falluja tra i sunniti – in precedenza unitisi nel gruppo dei Fratelli Musulmani – che temevano sia la crescita del potere sciita sia le conseguenti rappresaglie della popolazione curda. Il governo ad interim guidato da Ayad Allawi nel 2004 infatti si impegnò per il rafforzamento sia delle forze armate irachene, con l’inclusione delle unità dei peshmerga, sia delle forze di polizia sciite, in modo da aver un maggiore controllo della città di Mosul. Nel 2005 i sunniti tuttavia boicottarono le elezioni provinciali e ciò portò alla vittoria del Partito democratico del Kurdistan nel Consiglio provinciale alla quale seguì la violenta protesta sciita. Intanto l’anno successivo mentre diminuiva la presenza militare irachena e statunitense proprio a Mosul si faceva già strada quello che sarebbe divenuto il leader del sedicente Stato Islamico Abu Bakr al-Baghdadi. La politica anticurda successivamente portata avanti dal premier Maliki – coincidente questa volta con la volontà della comunità sunnita – determinò l’allontanamento della comunità curda da molti territori di appartenenza e la conseguente vittoria dei sunniti nel 2009 i quali ottennero la maggioranza dei seggi nel Comitato provinciale.

Mappa demografica delle etnie curde in Mesopotamia (tratto da Curdi, a cura di Antonella De Biasi, Rosenberg & Sellier, 2018).

Nel 2011 il rapporto tra il governo centrale e quello locale si deteriorò con un conseguente aumento delle forze federali a scapito di quelle locali e così, quando nel 2012 scoppiò la guerra civile nella vicina Siria, l’Isis ebbe la possibilità di strutturarsi meglio per poi attaccare le forze di sicurezza del paese assediando la città di Mosul dal 2014 al 2017. Dopo la conquista di Mosul nacquero le cosiddette Forze di mobilitazione popolare in Iraq (Pmf) unitesi in seguito alle milizie iraniane del Quds che con i peshmerga e le truppe americane riconquistarono la città nel 2017 dichiarando la sconfitta dell’Isis. Già a partire dal 2019, nonostante l’annuncio degli Stati Uniti dell’uccisione di al-Baghdadi, i funzionari dell’intelligence curda segnalavano che l’Isis fosse tutt’altro che sconfitto e che doveva essere considerato piuttosto come un’organizzazione terrorista risorgente. Nonostante la cattura lo scorso 3 maggio del governatore dell’Isis a Fallujah, Abu Ali al-Jumaili a opera dei servizi segreti iracheni l’Iraq oggi non può considerarsi ancora al sicuro dalla minaccia terroristica dello Stato Islamico che negli ultimi mesi del 2021 ha notevolmente intensificato gli attacchi nel paese.

L’Iraq non è un paese sicuro

In conclusione, oggi l’Iraq non può essere considerato un paese sicuro, tradendo l’attuale esecutivo di al-Kadhimi forti difficoltà a mantenere quei propositi securitari posti all’inizio del suo mandato, stante l’attuale impossibilità di un effettivo contenimento delle milizie filoiraniane, degli attacchi dello Stato Islamico, così come delle continue proteste della popolazione locale. Fallisce in questo modo, mentre si avvicinano le nuove elezioni nel paese, l’idea di un recupero della centralità e dell’influenza dello stato e dell’esercito iracheno che invece risulta sempre maggiormente dipendente dall’aiuto militare esterno locale e internazionale proprio come riscontrato in Siria.

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Siria, Iraq: la “terra tra i due fiumi” ha sete https://ogzero.org/siria-iraq-la-terra-tra-i-due-fiumi-ha-sete/ Sun, 29 Mar 2020 21:24:33 +0000 http://ogzero.org/?p=61   Dal primo decennio di questo secolo una siccità devastante affligge il Vicino Oriente, la regione che va dalle coste orientali del Mediterraneo fino all’altopiano iranico: dalla Siria all’Iran, passando per Iraq e Giordania. È probabilmente la più grave ondata di siccità registrata dei tempi moderni, da quando esistono strumenti scientifici per misurare le condizioni […]

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Dal primo decennio di questo secolo una siccità devastante affligge il Vicino Oriente, la regione che va dalle coste orientali del Mediterraneo fino all’altopiano iranico: dalla Siria all’Iran, passando per Iraq e Giordania. È probabilmente la più grave ondata di siccità registrata dei tempi moderni, da quando esistono strumenti scientifici per misurare le condizioni climatiche. Ha cause diverse, in parte naturali ma in gran parte attribuibili alle attività umane. E ha conseguenze drammatiche.

Qui cerchiamo di mettere a fuoco i due paesi dove le implicazioni sia ambientali, sia soprattutto sociali e umane della crisi idrica sono più profonde: la Siria e l’Iraq, cioè le terre tra i fiumi Tigri ed Eufrate che costituiscono la storica «mezzaluna fertile». 

Siria, il granaio va in polvere

Oggi non è azzardato dire che la siccità, con la profonda crisi sociale che ha innescato in Siria, è una delle cause soggiacenti alle proteste scoppiate nel 2011 e sfociate molto presto in una guerra civile che nell’autunno 2016 sembra ancora lontana da una soluzione. 

Tra il 2006 e il 2010 oltre il 60 per cento del territorio siriano è stato colpito da una siccità acuta. Sono state particolarmente colpite le province nordorientali del paese solcate dall’Eufrate, considerate il tradizionale «granaio» del paese: in particolare i governatorati di Aleppo e Hassakeh, che da soli fanno più di metà della produzione di grano nazionale, e quelli di Idlib, Homs, Dara. 

Nei due anni peggiori, il 2007 e il 2008, le piogge sono state appena il 66 per cento della media calcolata sul lungo termine. Un anno dopo l’altro, gli agricoltori hanno perso gran parte dei raccolti e nel settembre del 2009 nel sistema delle Nazioni unite circolavano notizie allarmanti: quell’anno la produzione di grano era stata appena il 55 per cento del normale; tre quarti delle famiglie avevano perso i raccolti a ripetizione, gli allevatori avevano perso fino all’85 per cento del bestiame, e si calcolava che 800 000 persone avessero perso i mezzi di sostentamento. Un’annata cattiva si può superare, ma nel 2009, dopo la terza annata consecutiva di disastro, il ministero siriano dell’agricoltura stimava che 60 000 famiglie, o circa 250 000 persone, avessero abbandonato la terra per trasferirsi in città. E la crisi si prolungava: nel 2010 fonti delle Nazioni Unite stimavano che solo in quell’anno altre 50 000 famiglie fossero migrate in città. 

Insomma: in pochi anni almeno un milione e mezzo di siriani sono emigrati dalle campagne alle aree urbane. La Siria contava allora 22 milioni di abitanti, e circa la metà viveva di agricoltura. In pochi anni la mancanza d’acqua aveva devastato una grande regione  e messo in crisi la sua economia agricola, innescando un esodo di massa. Una migrazione così massiccia non sarebbe indolore in nessun paese al mondo.

La siccità, un disastro creato dagli umani 

Per capire la portata del disastro dobbiamo fare un passo indietro. A cavallo del secolo la Siria era uno dei grandi produttori agricoli della regione. Fin dagli anni Ottanta, durante il regime di Hafez al Assad, padre dell’attuale presidente siriano, Damasco aveva investito molto nello sviluppo dell’agricoltura con l’obiettivo di dare al paese l’autosufficienza alimentare. Con l’incoraggiamento del governo, nuove terre sono state arate. Tra la metà degli anni Ottanta e il Duemila la superficie coltivata è raddoppiata: da circa 600 000 a oltre 1,2 milioni di ettari. L’espansione è continuata; ancora nel 2006, alla vigilia della grande siccità, il governo ormai guidato da Bachar al Assad pianificava di aumentare ancora la produzione agricola.

Il risultato visibile è che la Siria ha non solo raggiunto l’autosufficienza (mentre gran parte dei paesi del Vicino Oriente spendono milioni di dollari per importare cereali e altri prodotti alimentari), ma fino al 2007 ha anche esportato grano verso la Giordania e l’Egitto. 

A ben guardare però uno sfruttamento agricolo così intenso ha avuto altri risultati, meno visibili nell’immediato ma dalle conseguenze nefaste. Il primo è stato di prosciugare le falde idriche. Nella grande espansione agricola sono state arate anche terre semiaride, dove fino ad allora l’agricoltura era bandita a favore della pastorizia. Per sostenere una tale espansione il governo aveva fatto scavare nuovi pozzi, che sono raddoppiati di numero tra gli anni Ottanta e il Duemila. Ma questo ha contribuito a far crollare il livello dell’acqua di falda. Quando le piogge hanno cominciato a mancare gli agricoltori hanno cercato di supplire pompando acqua dai pozzi, come avevano sempre fatto nei momenti di siccità: ma stavolta hanno trovato che l’acqua non c’era più o era diventata troppo salina. Come vedremo più avanti, nel frattempo anche l’Eufrate era sotto stress.

Insomma, se la siccità è un evento naturale, qui uno sviluppo agricolo insostenibile ha contribuito a trasformarla in catastrofe. Senza contare che neppure le cause della siccità sono del tutto naturali. Il Vicino Oriente ha sempre visto alternarsi periodi più o meno secchi, ma alcuni studiosi ormai sostengono che una crisi così acuta e prolungata sia ben oltre la naturale variabilità. Uno studio pubblicato nel marzo 2015 dall’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti conclude che la siccità registrata nell’ultimo decennio nel Vicino Oriente è legata alle «influenze umane sul clima». Gli studiosi qui osservano la tendenza delle precipitazioni, delle temperature e della pressione atmosferica al livello del mare nel corso dell’ultimo secolo. Il calo delle precipitazioni in Siria, spiegano, è legato all’aumento della pressione media sul Mediterraneo orientale; venti più deboli portano meno aria carica di umidità dal mare sulla terraferma, mentre l’aumento della temperatura media ha accelerato l’evaporazione dai terreni. Questo combacia con le simulazioni computerizzate su come la regione risponde all’aumento della concentrazione di gas «di serra» nell’atmosfera. 

Il catalizzatore della crisi

Chiara Cruciati intervenne su Radio Blackout il 16 novembre 2018 sulla desertificazione dello Shatt-al-Arab, con la moria dei pesci a valle del Tigri e dell’Eufrate per la moltiplicazione delle dighe a monte, in territorio turco, siriano e del Kurdistan iracheno

La siccità ha avuto un effetto catalizzatore sulla crisi sociale e politica in Siria. Nel 2011 la produzione nazionale di grano era dimezzata. Buona parte del bestiame era morto o era stato venduto sottocosto e macellato nell’impossibilità di nutrirlo; i silos erano esauriti. Due o tre milioni di persone erano ridotte in povertà, e almeno un milione e mezzo aveva abbandonato la terra.

Gran parte dei migranti dalle zone rurali è andato verso le città di Damasco, Aleppo e Hamah. Le città siriane però erano già in situazione di stress per il grande afflusso di rifugiati venuti dal vicino Iraq dopo l’invasione guidata dagli Stati Uniti nel 2003. Dunque un numero crescente di persone senza grandi mezzi per vivere si è trovato a competere per il poco lavoro disponibile e per servizi e infrastrutture urbane già carenti. Intorno a città come Aleppo o la stessa Damasco sono cresciuti grandi slum, con una popolazione per lo più giovane, con poche chances di trovare un’occupazione, e con addosso una grande frustrazione. 

La gestione della crisi da parte del governo non ha aiutato. Nel maggio 2008, dopo la prima annata di raccolti falliti, il governo del presidente Bachar al Assad ha tagliato drasticamente le sovvenzioni sul prezzo del diesel (usato per azionare le pompe e i macchinari agricoli). Sarà una coincidenza ma le zone roccaforte dei ribelli, in particolare Aleppo, Deir al Zour e Raqqa (divenuta poi la «capitale» dello Stato islamico), sono proprio quelle più devastate dalla siccità.

«Il ruolo di comunità urbane destituite e sotto stress nei movimenti di opposizione è stato significativo», osservavano due studiosi in una analisi sull’impatto del cambiamento del clima nella regione (pubblicato nel febbraio del 2012, il loro è stato il primo di una serie di analisi sul nesso tra siccità, crisi sociale e conflitto). «Negli ultimi anni una serie di cambiamenti sociali, economici, ambientali e climatici in Siria hanno eroso il contratto tra cittadini e governo», contribuendo alla perdita di legittimità del regime.

Una devastazione immane

Nel sesto anno di conflitto, in Siria alla crisi idrica si somma ormai la devastazione della guerra. A partire dal 2012 la superficie coltivata si è ridotta. Le zone una volta più fertili sono teatro della competizione tra gruppi armati, e andare nei campi è un rischio costante. E poi i sistemi di irrigazione, acquedotti e altre infrastrutture sono danneggiati, colpiti dai bombardamenti o semplicemente negletti, in abbandono.

Un monitoraggio congiunto di due agenzie dell’Onu (la Fao, Organizzazione per l’agricoltura e l’alimentazione, e il Pam, Programma alimentare mondiale) nel 2015 ha constatato che la Siria ha prodotto 2445 milioni di tonnellate di grano: è il 40 per cento in meno rispetto alla produzione prima del conflitto, eppure è un terzo di più del raccolto 2014, e meglio anche del 2013. Infatti nel 2012-2013 la siccità aveva di nuovo colpito gran parte del paese, mentre l’inverno 2014-2015 è stato relativamente piovoso: e questo ha in parte aiutato a mitigare l’impatto devastante della guerra. Nel settembre 2016 non abbiamo ancora consuntivi sull’ultimo raccolto: sappiamo però che nell’inverno 2015-2016 poco più di un milione di ettari è stato coltivato a grano (contro 1,5 milioni di ettari nel 2011). La principale zona coltivata è stata quella di Hassakeh, che ha registrato un buon livello di precipitazioni invernali; non così le zone di Aleppo, Idlib e Homs, che restano nella morsa della siccità oltre che del conflitto. 

Anche un raccolto relativamente incoraggiante come quello del 2015 però rappresenta ancora un buco di 800 000 tonnellate rispetto al fabbisogno. Per chi vive oggi in Siria la situazione è insostenibile; il prezzo del pane è triplicato rispetto al 2011 ed è aumentato in particolare proprio nel corso del 2015. Il sistema di distribuzione è crollato, coloro che coltivavano sono fuggiti, il commercio è nel caos. La combinazione di siccità e guerra sta letteralmente cancellando parte del paese. Ormai interi villaggi sono abbandonati, città spopolate dalla violenza, infrastrutture distrutte – senza contare la desolazione e l’odio accumulati in anni di violenza. Anche quando la guerra sarà finita, la ricostruzione non sarà facile.

La portata d'acqua dei due fiumi mesopotamici a confronto nel tempo: evidente desertificazione dello Shatt al Arab
La portata del Tigri e dell’Eufrate nel progressivo inaridimento fino alla foce, grafico tratto da Curdi, di Antonella De Biasi, Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

Nella “terra dei due fiumi” l’acqua è un obiettivo strategico

Uno dei primi obiettivi presi di mira dai miliziani dello Stato Islamico (noto anche come Isis, o Daesh nell’acronimo arabo), quando hanno cominciato la loro fulminea avanzata tra la Siria settentrionale e l’Iraq nell’estate del 2014, sono state alcune dighe sui fiumi Tigri e Eufrate. Non deve stupire: in Mesopotamia, la “terra dei due fiumi”, il controllo dell’acqua può diventare perfino più importante di quello del petrolio. Un’occhiata alla carta geografica può chiarire perché. 

L’Iraq dipende per intero dal Tigri e dall’Eufrate, i fiumi che hanno plasmato la storia umana in questa regione. Acqua potabile per gli abitanti, per alimentare i sistemi di irrigazione e quindi per coltivare, per rifornire le industrie, per produrre energia idroelettrica: in Iraq il 98 per cento dell’acqua dolce superficiale viene da quei due fiumi.

Sia l’Eufrate che il Tigri nascono dai monti dell’Anatolia sudorientale, in Turchia, e scendono tra valli e gole montane. L’Eufrate, 2700 chilometri, compie un lungo giro e attraversa la Siria nordorientale, prima di entrare in Iraq nella provincia di Anbar; nel suo corso verso sudest bagna poi le città di Ramadi, Falluja, Nassiriya. Il Tigri, 1850 chilometri, entra in Iraq nella provincia di Ninive e procede quasi parallelo all’Eufrate, bagnando Mosul, Tikrit, Samarra, la capitale Baghdad. I due fiumi si uniscono nell’ultimo tratto, formando un unico corso d’acqua chiamato Shatt al-Arab, prima di sfociare nel Golfo Persico nel governatorato di Bassora (negli ultimissimi chilometri lo Shatt al-Arab segna il confine tra l’Iraq e l’Iran; in persiano è chiamato Arvand). Sommati, e con i loro affluenti, il Tigri e l’Eufrate formano un bacino di oltre 850 000 chilometri quadrati nei tre paesi. 

Oggi però il bacino mesopotamico è in crisi, e lo era ben prima che la Siria precipitasse nel conflitto o che entrassero in scena i ribelli dello Stato islamico. La portata del Tigri e dell’Eufrate è in declino in parte a causa della siccità e del cambiamento del clima, ma soprattutto per l’effetto di decenni di sovrasfruttamento, della crescita della popolazione umana, dell’inquinamento, dello sviluppo disordinato e non coordinato tra i tre paesi rivieraschi. Già: parte del problema è che il 90 per cento della portata annua dell’Eufrate e quasi metà di quella del Tigri hanno origine in Turchia. E questo significa che la «sicurezza idrica» e alimentare di una popolazione stimabile sui 60 milioni di persone in Siria e in Iraq dipende in larga parte dal vicino locato più a monte. 

Turchia, Siria e Iraq in competizione per l’acqua

Nella seconda metà del Novecento diverse dighe sono state costruite sul Tigri e sull’Eufrate, sia in Iraq che in Siria e in Turchia. Ma è la Turchia che negli ultimi decenni ha avviato i progetti più ambiziosi, pianificando una serie di impianti idroelettrici e di irrigazione nelle sue province sudorientali (come vedremo infra §3.4.4). La prima diga sull’Eufrate in territorio turco risale agli anni Sessanta; cinquant’anni dopo le dighe sui due fiumi sono oltre 140, e altre sono in costruzione o in progetto. Questo ha suscitato non poche controversie con i vicini a valle. 

In particolare le dighe Karakaya (completata nel 1988) e Atatürk (completata nel 1992), entrambe sull’Eufrate, hanno ridotto di circa un terzo il flusso d’acqua che arriva in Siria e poi Iraq. Queste due dighe, tra le maggiori al mondo, fanno parte del Progetto dell’Anatolia sudorientale (in turco Güney Doğu Anadolu Projesi, Gap), promosso del governo turco con lo scopo dichiarato di promuovere l’economia della regione, produrre energia, sviluppare l’agricoltura, creare lavoro. Il progetto Gap include 22 sbarramenti e 19 impianti idroelettrici, tra cui le dighe di Ilisu e di Cizre, sul Tigri. Di fronte a un progetto così grandioso però è chiaro che non si tratta solo di gestione delle risorse idriche; è in gioco anche il potere e il controllo sulla regione, che coincide quasi perfettamente con quella storicamente abitata da popolazione kurda. 

La diga di Ilisu ne è la prova. La costruzione è cominciata nel 2006, tra grandi contestazioni, ed è quasi terminata. Quando sarà completata, la diga sarà alta 135 metri e avrà creato un invaso capace di contenere 10,4 chilometri cubi d’acqua; il nuovo lago sommergerà quasi completamente l’antica città di  Hasankeyf, con numerosi siti storici, e costringerà ottantamila residenti a spostarsi. In pieno Kurdistan, il progetto di Ilisu è stato accompagnato da controversie e pressioni internazionali tali da convincere i finanziatori europei del progetto (Austria, Germania e Svizzera) a ritirare le garanzie di stato al credito. Ma questo ha solo ritardato i lavori; il governo turco ha trovato finanziamenti alternativi. Se non entro il 2016 come inizialmente previsto, l’inaugurazione della nuova diga sembra comunque imminente. Facile prevedere che la diga di Ilisu e quella di Cizre, poco più a monte, saranno un ulteriore elemento di opposizione e di conflitto nella regione kurda.

Quando il progetto Gap sarà completato permetterà di irrigare in territorio turco 1,2 milioni di ettari supplementari, e grazie a questo la Turchia spera di triplicare l’esportazione di prodotti agricoli. Ma ridurrà ulteriormente la quantità d’acqua disponibile a valle. Si stima potrebbe ridurre fino all’80 per cento il flusso d’acqua dell’Eufrate che arriva in Iraq, e di un ulteriore 50 per cento la portata del Tigri.  

Ma anche se il progetto anatolico non fosse completato, già gli impianti fin qui costruiti hanno alterato in modo profondo la natura dei due fiumi. Basti pensare che negli anni Settanta, prima della costruzione delle citate grandi dighe, la portata media dell’Eufrate quando entrava in Iraq era di 720 metri cubi al secondo; oggi è circa 260 metri cubi al secondo. Naturalmente in questo conta anche la situazione generale di siccità, di cui pure l’Anatolia sudorientale ha sofferto (benché in modo meno acuto della Siria). Sta di fatto che le dighe attualmente operanti in territorio turco hanno una capacità di immagazzinare acqua di gran lunga superiore a tutte quelle esistenti a valle.

Così l’acqua è un costante elemento di tensione tra la Turchia e i paesi a valle. Anche perché i meccanismi di negoziazione tra i tre paesi rivieraschi sono sempre stati fragili, e sono tanto più fragili in un periodo di conflitto. Solo in rare occasioni, negli anni Ottanta e Novanta, si sono riuniti comitati tripartiti per discutere la suddivisione delle risorse idriche, per lo più con la mediazione di potenze esterne. Il principale accordo oggi in vigore è quello firmato nel 1998 tra Siria e Turchia, il Trattato di Adana, secondo cui l’Eufrate dovrebbe portare in territorio siriano in media 500 metri cubi al secondo, di cui il 46 per cento dovrebbe poi arrivare in Iraq. Un accordo tra tutti i paesi rivieraschi non esiste. È difficile immaginare negoziati e cooperazione in pieno conflitto; eppure è chiaro che trovare un accordo sulla condivisione dei due fiumi è urgente, e sarà un elemento essenziale di qualunque sforzo per pacificare e ricostruire la regione.

La guerra delle dighe e del grano

Certo è che in Iraq la crisi idrica è potenzialmente esplosiva. Rivolte e guerre hanno aggravato la situazione, mettendo a repentaglio infrastrutture essenziali alla gestione della risorsa idrica – e proprio mentre a causa del conflitto la regione deve far fronte a grandi movimenti di sfollati.

Non stupisce dunque che le dighe sui due fiumi siano diventate obiettivi strategici. L’Eufrate entra in Iraq nella provincia di Anbar; il Tigri nella provincia di Ninive: queste due regioni sono state tra le prime conquistate dallo Stato islamico nella sua avanzata. Da allora lunghi tratti dei due fiumi (ma in particolare dell’Eufrate), e delle regioni agricole circostanti, sono passate e ripassate sotto il controllo di diverse forze, in particolare dello Stato islamico, e restano teatro di guerra anche quando, nell’estate 2016, le fortune militari dell’organizzazione ribelle sembrano diminuire.

In questo contesto le dighe sono allo stesso tempo obiettivo di conquista e arma di guerra. La diga di Nuaimiyah, sull’Eufrate, 5 chilometri a sud di Falluja, provincia di Anbar, ne è un esempio. Quando i ribelli l’hanno conquistata, all’inizio di aprile 2014, hanno sbarrato le chiuse: così a valle, nelle città di Kerbala, Najaf e giù fino a Nassiriya, milioni di persone sono rimaste a secco mentre a monte la città di Abu Ghraib è stata allagata. In seguito lo Stato islamico ha preso la diga di Samarra, sul Tigri (ma non è riuscito a prendere quella di Haditha, sull’Eufrate, che produce circa un terzo dell’energia elettrica del paese e soprattutto rifornisce la capitale Baghdad). Ma il colpo più clamoroso dei miliziani ribelli è stato prendere la città di Mosul e soprattutto l’omonima diga, il 7 agosto 2014. 

La diga di Mosul è la più grande del paese e il suo impianto idroelettrico, con una potenza installata di 1052 megawatt, ha garantito al Kurdistan iracheno rifornimenti costanti di energia elettrica anche quando il resto dell’Iraq viveva con continui blackout. Per questo è stata difesa fino all’ultimo dai peshmerga, i combattenti curdi (di fatto l’esercito della regione autonoma del Kurdistan). E per questo le forze governative si sono lanciate quanto prima a riconquistarla (il 17 agosto 2014 le forze peshmerga e dell’esercito iracheno, con il decisivo appoggio aereo dell’aviazione statunitense, hanno ripreso la diga di Mosul).

Dall’estate del 2014 dunque i ribelli dello Stato islamico hanno tenuto il controllo, sia pure a “macchie”, di gran parte del bacino di Tigri ed Eufrate tra Iraq e Siria. Acqua significa grano: i ribelli hanno preso numerosi depositi governativi di grano nelle zone di Ninive, Kirkuk e Salaheddin, ovvero la regione più fertile del paese, che produce circa il 40 per cento del grano dell’Iraq. Nell’estate 2014 in quei silos si trovavano circa 1,1 milioni di tonnellate di grano che il governo aveva comprato dagli agricoltori della regione, pari a circa un quinto del fabbisogno annuale dell’Iraq: grazie a quelle riserve l’Isis è stato in grado di distribuire farina agli abitanti delle zone che ha conquistato, ormai tagliate fuori dal Sistema di distribuzione pubblica governativo (da cui più di metà della popolazione irachena dipende per sopravvivere). Tra l’altro le ostilità hanno creato una gran massa di sfollati: al dicembre 2015 le Nazioni unite ne contavano circa 3,2 milioni all’interno del paese, di cui quasi due milioni costretti a partire dal gennaio 2014 (cioè da quando lo Stato islamico ha cominciato la sua avanzata).

Dunque anche la produzione di cereali è rimasta ostaggio del conflitto. Nel 2015 l’ente statale che compra i cereali dai produttori (Iraqi Grain Board) aveva comprato dagli agricoltori 3,2 milioni di tonnellate di grano al prezzo sovvenzionato di 600 dollari la tonnellata. È un raccolto inferiore a quello del 2014 (3,4 milioni di tonnellate), ma migliore della media dei cinque anni precedenti: e questo grazie a una buona stagione di piogge. Questo è però ancora molto al di sotto del fabbisogno nazionale. Inoltre, nell’inverno 2015-2016 alcune zone agricole sono state devastate da piogge torrenziali, che hanno messo in pericolo le coltivazioni. Sta di fatto che l’Iraq ha importato 4,4 milioni di tonnellate di grano nel 2014-15 e prevede di importarne 4,5 nel 2015-16. Una larga parte della regione produttrice di cereali resta sotto il controllo diretto del Isis, o è in zone contese, teatro di ostilità, cosa che rende difficile procurarsi sementi e fertilizzanti, e in molti casi perfino rischioso coltivare. Le fonti governative non dichiarano dati sulle zone fuori dal suo controllo; secondo alcune stime, 1,6 milioni di tonnellate di grano sono state raccolte nelle zone sotto il controllo dello Stato islamico nel 2015. 

La diga che riporta l’Italia in Iraq

La diga di Mosul intanto continua a preoccupare le autorità irachene, e non solo per le mire dei ribelli. Il problema è che la diga stessa ha debolezze strutturali che la rendono un potenziale pericolo. 

Alta 113 metri e lunga 3,4 chilometri, la diga è stata costruita tra il 1981 e il 1986 da un consorzio italo-tedesco guidato da Hochtief Aktiengesellschaft. Ha un impianto idroelettrico da 1052 megawatt;  fornisce acqua ed elettricità alla città di Mosul (1,7 milioni di abitanti) e a gran parte della regione. È la diga più grande in Iraq e la quarta del Vicino Oriente, misurata per la capacità del suo invaso artificiale (11,1 chilometri cubi) che immagazzina acqua proveniente dalle montagne della Turchia, appena 110 chilometri a nord. È costruita però su fondamenta carsiche, e questo è il suo difetto originario.

Il problema strutturale è emerso già pochi anni dopo che la diga era entrata in funzione. Grandi crepe, come «buchi», hanno cominciato ad aprirsi sulla roccia permeabile alla base della diga; per questo è necessaria una manutenzione continua, che consiste nel riempire i “buchi” con cemento liquido. Crepe sono state notate negli anni Novanta, poi ancora nel 2003 e nel 2005. Tra il 1986 e il 2014 oltre 350 000 tonnellate di cemento sono state iniettate nelle crepe che si sono via via aperte. Nel settembre 2006 un rapporto del Genio militare degli Stati Uniti (Us Corps of Engineers) avvertiva che «in termini di erosione interna delle fondamenta, la diga di Mosul è la più pericolosa al mondo» e che un improvviso crollo, anche solo parziale, travolgerebbe in poco più di un’ora la città di Mosul con un muro d’acqua alto fino a 20 metri, e in seguito Baghdad con una piena di oltre 4 metri. Sarebbe una catastrofe assicurata. Anzi, l’ultimo studio è ancora più pessimista. Condotto dal Joint research centre (Jrc) dell’Unione Europea, e pubblicato a metà aprile 2016, afferma che se cedesse anche solo un quarto del fronte della diga la città di Mosul sarebbe investita nel giro di un’ora e mezza da un muro d’acqua di un’altezza media di 12 metri che potrebbe arrivare fino a 25; l’ondata travolgerebbe poi Tikrit e Samarra a raggiungerebbe Baghdad dopo tre giorni e mezzo, con una piena alta tra i due e gli otto metri. Lo studio del 2006 parlava di almeno mezzo milione di morti, ma altri hanno parlato anche di un milione o un milione e mezzo.

Il problema strutturale è innegabile (c’è da chiedersi chi e perché scelse il luogo dove costruire lo sbarramento, e perché da allora non siano state individuate delle responsabilità, visto che il problema è noto da circa trent’anni). È vero però che nel corso del tempo sono stati messi accenti più o meno drammatici sul rischio di un crollo. Di recente l’ex ingegnere capo della diga, Nasrat Adamo, ha fatto notare al quotidiano britannico “The Guardian” che a causa del difetto di concezione, l’impianto richiede un continuo lavoro a riempire le crepe alla sua base. Il punto è che la manutenzione era stata interrotta durante l’occupazione dello Stato islamico e anche quando le forze governative hanno ripreso il controllo non tutto il personale è tornato: su trecento addetti ne restano una trentina, diceva Adamo, e i macchinari sono stati rubati o danneggiati. Ripresa la diga, i genieri statunitensi hanno messo 1200 sensori sull’impianto, attivando un monitoraggio continuo; ne hanno concluso che l’impianto resta ad altissimo rischio. 

Nell’ottobre 2015 dunque il governo iracheno ha lanciato una gara d’appalto internazionale per lavori di manutenzione e consolidamento della diga di Mosul. E qui entra in scena l’Italia. Poco tempo dopo, il 15 dicembre, il primo ministro italiano Matteo Renzi ha dichiarato che l’Italia era  pronta a mandare circa 450 soldati in Iraq, oltre ai 700 che vi si trovavano, per garantire la sicurezza della diga; con l’occasione ha annunciato che una ditta italiana, la Trevi s.p.a., aveva vinto la commessa per i lavori. La notizia di un accordo per la difesa non ha avuto immediato riscontro a Baghdad; anzi, è stata decisamente smentita da un portavoce del governo iracheno il 21 dicembre.

Il 22 dicembre la ministra della difesa Roberta Pinotti, nel corso di un’audizione presso il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) ha dichiarato che il lavoro sarebbe stato affidato a una società italiana, dando la notizia come cosa fatta, ma ha precisato che «prima ci dovrà essere l’assegnazione formale della commessa», e solo allora «ci sarà la pianificazione per l’invio di 450-500 militari italiani chiamati a presidiare il cantiere», ovviamente in accordo con il governo iracheno. A Baghdad però sembra che non tutte le componenti del governo fossero favorevoli alla rafforzata presenza militare italiana. 

Intanto sono circolati nuovi allarmi. Nel febbraio del 2016 l’ambasciata degli Stati Uniti a Baghdad ha diffuso una nota dai toni drastici: paventava il grave rischio di un collasso “improvviso” della diga, e suggeriva di preparare piani d’evacuazione per le città a valle. L’ambasciata ha anche diffuso una scheda in cui si diceva che in caso di crollo della diga una popolazione tra 500 000 e un milione e mezzo di iracheni non sarebbero sopravvissuti, a meno di evacuare le immediate vicinanze del fiume a valle lungo 480 chilometri. La nota sulla diga che sta per crollare è stata ampiamente ripresa dalla stampa internazionale. Si potrebbe pensare che ciò sia servito a indurre un senso di urgenza e “convincere” il governo iracheno ad accelerare l’appalto: ma naturalmente è solo una illazione.

Sta di fatto che il 2 marzo 2016 il governo iracheno ha infine firmato il contratto con la Trevi s.p.a., parte del Gruppo Trevi, azienda specializzata nell’ingegneria del sottosuolo per fondazioni speciali. Un comunicato emesso dall’azienda precisa che il contratto, per 273 milioni di euro, non è stato assegnato per gara ma per «procedura d’urgenza per via della situazione critica della diga». In effetti non è chiaro se la gara sia mai avvenuta, o se Trevi fosse l’unico concorrente. 

Fondato nel 1957 a Cesena da Davide Trevisani, tutt’ora controllato dalla famiglia fondatrice (attraverso Trevi Holding), il Gruppo Trevi è quotato in borsa ed è diventato un nome importante nel settore. Nel 2015 ha fatturato 1,3 miliardi di euro, con una tendenza in crescita da parecchi anni. Il gruppo ha una filiale negli Stati Uniti, Treviicos, e ha lavorato per il Genio militare americano fin dal 2001. 

Nonostante la struttura di gruppo privato, addirittura a conduzione familiare, il Gruppo Trevi è anche in parte un’impresa controllata dallo stato attraverso la Cassa Depositi e Prestiti (Cdp). Infatti nel luglio 2014 la società Fondo Strategico Italiano (Fsi) con la sua controllata Fsi Investimenti, compagnie di investimento di capitale di rischio appartenenti a Cdp, sono entrate nel capitale sociale di Trevi finanziaria con circa 101 milioni di euro, pari a circa il 16 per cento del capitale. Insomma, il secondo azionista del Gruppo Trevi è lo Stato italiano. 

Questo mette in tutt’altra luce il contratto per la diga di Mosul: lo stato ha attivamente promosso una commessa internazionale per un’azienda di cui è azionista, allo stesso tempo impegnando truppe italiane e quindi denaro del contribuente per la sua difesa (molte imprese private lavorano in scenari di rischio, ma certo non tutte hanno il privilegio di una scorta militare).

L’epilogo di questa storia è ancora aperto. Dopo un primo sopralluogo nell’aprile 2016, in giugno sono arrivati presso la diga di Mosul i primi tecnici dell’azienda per preparare l’insediamento(tra le opere preparatorie c’è una caserma per ospitare i bersaglieri italiani). I lavori veri e propri era previsto cominciassero nell’autunno 2016.

In settembre intanto le forze governative e gli alleati occidentali preparavano un’offensiva per riprendere il controllo della città di Mosul e togliere allo Stato islamico la sua seconda roccaforte in territorio iracheno. Il fronte di guerra è dunque molto vicino alla diga. Nei primi giorni di settembre alla stampa italiana sono arrivate indiscrezioni, da fonti di intelligence, secondo cui lo Stato islamico preparerebbe un attacco su vasta scala contro l’impianto. La notizia, considerata dai più come un «allarme di routine» e in qualche modo ovvio e forse perfino esagerato, ha però fatto riemergere diversi interrogativi sulla missione: è il preludio a un maggiore coinvolgimento dell’Italia nell’offensiva contro lo Stato islamico? Per ora è stato precisato che le truppe italiane non partecipano all’offensiva per la città di Mosul e non hanno altro compito che la difesa del cantiere per salvare la diga. Ma la ministra Pinotti aveva pur detto, in quell’audizione parlamentare, che l’Italia si candida a diventare il secondo contingente militare straniero in Iraq, dietro quello degli Stati Uniti. Sembra proprio che la diga di Mosul ne abbia fornito l’occasione.

L’immagine è di Kamal Chomani.

L'articolo Siria, Iraq: la “terra tra i due fiumi” ha sete proviene da OGzero.

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