Mohammed bin Salman Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/mohammed-bin-salman/ geopolitica etc Mon, 18 Sep 2023 20:48:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 G7 – G8 – G20 – G77+1… G8miliardi https://ogzero.org/g7-g8-g20-g771-g8miliardi/ Mon, 18 Sep 2023 20:48:14 +0000 https://ogzero.org/?p=11622 Le famose bande di ragazzini. C’è quello grande e grosso che si tira dietro i suoi e botte da orbi a chi li contrasta. In questa strada non ci dovete mettere piede! Una banda vicina invece l’attraversa, anche se di corsa. Il capo è meno corpulento, ma sa il fatto suo. Altri gruppetti sono incerti, […]

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Le famose bande di ragazzini. C’è quello grande e grosso che si tira dietro i suoi e botte da orbi a chi li contrasta. In questa strada non ci dovete mettere piede! Una banda vicina invece l’attraversa, anche se di corsa. Il capo è meno corpulento, ma sa il fatto suo. Altri gruppetti sono incerti, con chi stare? Un po’ con l’uno un po’ con l’altro. All’aria aperta la situazione è abbastanza caotica. Diversa da prima dove c’era la banda più forte e non ce n’era per nessuno. In più adesso succede che un giorno il sole è rovente e nessuno ha voglia di venir fuori dall’ombra. Un altro diluvia che appena ti affacci in strada quasi anneghi. Un disastro. Non si capisce più niente. Bisogna solo aspettare che i ragazzini, ragazzine incluse, crescano. Ma cresceranno?


Quando sarai grande…

Sì, diventeranno grandi. Anzi G(randi)20. Una specie di super banda che cerca di spartirsi le zone di influenza. Assenti XI Jinping e Putin. Presente! però Giorgia M. e questo ci rincuora.
Il padrone di casa, Modi si è indaffarato moltissimo, senza fare i pignoli su come per l’occasione ha ripulito le periferie di Nuova Delhi. Vuole che l’India sia chiamata Bharat, e su questo niente da dire. Sta già scritto nella Costituzione. Per noi di una certa età va anche meglio perché nel nostro immaginario gli indiani continuano a essere i nativi americani (stavo per scrivere i peller…).
Poi ha ufficialmente siglato la Global Biofuel Alliance a cui aderiscono Brasile, Stati Uniti, Bangladesh, Argentina, Sudafrica, Mauritius, Emirati Arabi e Italia, oltre a Bharat. Mi propongo a Giorgia come servitore della patria ai prossimi incontri nelle Mauritius. Ci tengo ai biocarburanti.

Non è passata inosservata la dichiarazione fatta da Stati Uniti e IBSA – India, Brasile, Sudafrica – sul potenziamento degli aiuti finanziari al Sud Globale.
La geografia sta slittando verso il meridione del mondo. Da un punto di vista delle aspirazioni geopolitiche, delle prese di parola, non può non piacere. Dirà l’avvenire se sarà un guadagno per la Terra e l’Umanità.

 

Nel quartiere c’è sempre qualcuno dei ben piantati che invece di farsi vivo in piazza con lo sguardo strafottente se ne sta non si sa dove. Perfino quelli della sua banda sono sconcertati. Cosa starà macchinando?


… saprai perché…

Xi Jinping perché non è venuto? Se ne fotte? Il suo ruolo se lo gioca nei Brics? Cioè Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica e prossimi Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Emirati arabi uniti e Arabia saudita. Augurandosi che non si trasformino in Bricsaeeieauas.  L’erede di Mao lascia intenzionalmente il G20 all’India? Sembrerebbe di sì.

Modi ha così organizzato gli accordi, fossero anche solo pacche sulle spalle, senza la Cina. Tutta questa sua agitazione sta in piedi? Amico di tutti e di nessuno? Putin ha fatto bene a starsene dov’è, deve salvare l’eterna anima russa con i carrarmati e questo disturba le calorose strette di mano.

Sta finalmente cambiando la faccia geopolitica del Mondo, detta anche multipolarismo, oppure sono solo geometrie variabili destinate ad essere ormai perennemente variabili? In altre parole, la novità è il movimento continuo e non la configurazione che assume?

… è un gioco strano: devi imparare…

L’IMEC è una prima risposta. Un baccanale di acronimi da imparare a memoria. India-Middle East-Europe Economic Corridor. Lo promuovono il principe saudita Mohammed bin Salman Al Saud, il presidente degli Emirati Arabi Uniti Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, la presidente dell’Unione Europea Ursula von der Leyen, la primo ministro italiana Giorgia Meloni, il capo della Banca Mondiale Ajay Banga e, ovviamente, Joe Biden e Narendra Modi. Treni, porti, fibre ottiche, pipeline, autostrade, ponti, hub.

Applausi a scena aperta.

Uno per tutti, quello di U.v.der Leyen: «È un ponte verde e digitale tra i continenti e le civiltà».

All’esterno del G20 un encomio altissimo.

Viene da Netanyahu: «Israele è al centro di un inedito progetto internazionale che unirà infrastrutture dall’Asia all’Europa, realizzerà una antica visione e cambierà il Medio Oriente, Israele, e influenzerà il mondo intero».

Coro stellare per un mondo a più facce? Risposta robusta, dieci anni dopo, alla Via della Seta cinese? Entusiasmo a buon mercato? Trionfalismo fuori posto?

… è un gioco strano: devi imparare…

Calma, dice la Cina: «Il tempo mostrerà la differenza tra un’iniziativa che abbraccia tutti con cuore aperto [la Belt and Road Initiative cinese] e una di idee ristrette che divide le nazioni. Noi speriamo che l’IMEC non diventi così».

Risposta secca e stizzita.

I giochi sono aperti e soprattutto il quadrante del mondo si è messo in moto. Una cosa è sicura, il Medio Oriente torna ad essere uno snodo delle politiche mondiali.

Se qualcuno poi, sprovveduto di finezze geopolitiche, osserva un po’ più da vicino i Grandi 20, presenti e assenti, il modo con cui governano i loro paesi e come fanno e disfanno le loro società, qualche brivido giù per la schiena gli corre. Allora il sempliciotto inesperto sceglie di chinarsi sulla minuteria storica e scopre, per esempio, che un treno merci con 36 vagoni container è partito dal sud della Russia, ha attraversato l’Iran, già nemico numero uno dell’Arabia Saudita, e poi dallo Stretto di Hormuz è stato travasato via mare a Gedda, in… Arabia Saudita. A fine agosto.

Oppure viene informato che a Ryad, capitale dell’Arabia Saudita, lo scorso 11 settembre grazie all’Unesco  era in visita ufficiale una delegazione del governo israeliano, anteprima di una possibile normalizzazione tra i due stati mediorientali. Il candido osservatore inoltre si stupirà vieppiù nel vedere che Erdoğan, il sultano turco, si sia subito scagliato contro il corridoio in questione proponendone uno di gamma superiore. Provvisoriamente definito – che strano! – corridoio turco.

… è tutto scritto, catalogato: ogni segreto, ogni peccato…

Non stanno mai fermi i Grandi, anche i Meno Grandi. Saltabeccano da un summit, da un vertice all’altro un po’ qua un po’ là. Finito uno, di corsa all’altro [Brics, 21/24 agosto, G20, 9/10 settembre, G77+Cina a Cuba, dal 15 settembre]. Gli farà bene tutto questo sbattimento? E se prendono aria? E se fanno indigestione? E se perdono l’orientamento? E il jet lag? Cos’è, fregola di contrasto alla depressione?
C’è un moto ondulatorio o sussultorio nella geopolitica? Preludio ad eventi tettonici più duri e consistenti?

Se scendo dai vertici e lo chiedo a una immigrata filippina a Ryad, a un palestinese di Nablus, a una giornalista kurdo-turca in carcere, mi guardano con un certo disincanto. Eppure.

… quando sarai grande, saprai perché

Qualcuno si perde, altri mettono su famiglia, qualcuno ricorda con nostalgia e parla male dei nuovi ragazzini di strada, certi fanno carriera.

Tutto il GMondo è paese.

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Etiopia Saudita. Fornire migranti usa-e-getta https://ogzero.org/etiopia-saudita-fornire-migranti-usa-e-getta/ Sun, 30 Apr 2023 11:33:24 +0000 https://ogzero.org/?p=10858 Qui Gianni Sartori offre un bello spaccato sui diritti a geometria variabile insiti nell’approccio alla filosofia ed economia politica dell’Arabia Saudita. Un mondo antropologicamente diverso retto da norme differenti, di cui  l’estensore del pezzo evidenzia le storture umanitarie, lo schiavismo e lo sfruttamento in particolare di genti etiopi. Motivo per cui l’articolo che proponiamo  è […]

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Qui Gianni Sartori offre un bello spaccato sui diritti a geometria variabile insiti nell’approccio alla filosofia ed economia politica dell’Arabia Saudita. Un mondo antropologicamente diverso retto da norme differenti, di cui  l’estensore del pezzo evidenzia le storture umanitarie, lo schiavismo e lo sfruttamento in particolare di genti etiopi. Motivo per cui l’articolo che proponiamo  è tutto sul filo del rapporto tra le due sponde del Mar Rosso. Il podcast dell’intervento di Laura Silvia Battaglia su Radio Blackout del 20aprile 2023, inserito a corredo del testo, inquadra la posizione nello scacchiere internazionale della Arabia Saudita in uno snodo epocale che con la rivoluzione di partnership operata da Mbs con il sua Vision2030 produrrà conseguenze per l’intero Medio Oriente e zone limitrofe… e al di là del Mar Rosso sono già evidenti con lo scardinamento della diarchia in Sudan, che di nuovo coinvolge l’Etiopia e il gioco di alleanze… e il cambio in ambito di diritti delle popolazioni locali non sta cambiando in meglio.

Il ruolo dell’Etiopia?

Serbatoio di mano d’opera docile e a buon mercato, disciplinata e addomesticata, per la borghesia saudita

Curioso. Solo un anno fa veniva siglato un accordo tra governo di Addis Abeba e Arabia Saudita per cui oltre centomila migranti etiopi dovevano venir espulsi dall’Arabia Saudita per essere riportati in patria (come poi sostanzialmente era avvenuto in questi ultimi mesi).
La notizia coincideva con l’arrivo (30 marzo 2022) nell’aeroporto di Addis-Abeba del primo migliaio (900 per la precisione, tra cui molte donne con figli), accolti e rifocillati dagli operatori dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim).

Per l’occasione un accorato appello veniva rivolto dal governo di Addis-Abeba alle Nazioni Unite e alle varie agenzie umanitarie affinché intervenissero per far fronte alle impellenti necessità.
Negli ultimi quattro anni l’Arabia Saudita ne aveva già rimandati in Etiopia oltre 350.000. Soprattutto persone con problemi di salute o comunque vulnerabili, in difficoltà: donne incinte, anziani, malati sia a livello fisico che mentale (applicando quindi una sorta di selezione poco “naturale”, ma funzionale al mercato del lavoro-sfruttamento).

Durante l’ultimo anno i programmi di rimpatrio si sono mantenuti, se non addirittura rinforzati per «garantire un rientro ordinato dei cittadini etiopi emigrati» (leggi: “non più funzionali alle esigenze delle classi dominanti saudite”).

Dal 12 novembre 2022 al 30 dicembre 2022 più di 20.000 etiopi sono rientrati in patria dall’Arabia Saudita

Per la cronaca, si calcola (presumibilmente per difetto) che attualmente siano almeno 750.000 i migranti etiopi presenti nel Reame (di cui circa 450.000 vi sarebbero giunti in maniera irregolare).
Così come previsto dal Piano regionale di sostegno ai migranti in situazioni di vulnerabilità e alle comunità di accoglienza nei Paesi del Corno d’Africa sulle rotte migratorie verso l’est (in genere con destinazione Arabia Saudita attraverso Gibuti e Yemen), erano intervenuti finanziariamente l’Ufficio dei rifugiati e delle migrazioni del Dipartimento di Stato americano (leggi: statunitense), l’Agenzia svedese  di cooperazione internazionale allo sviluppo e per le operazioni europee di protezione civile e di aiuto umanitario.

In controtendenza (ma solo apparente, se pensiamo che in realtà lo scopo è il medesimo: controllare i flussi migratori,  “addomesticarli” per renderli funzionali al sistema economico imperante) in questi giorni il governo regionale dell’Amhara ha annunciato un programma di reclutamento e formazione professionale (come donne di servizio nelle magioni dei benestanti sauditi) per migliaia di cittadine della regione. Garantendo che i loro salari in moneta straniera verranno depositato come moneta nazionale (birr) al tasso attuale del “mercato nero” e non a quello, sfavorevole, ufficiale.

Anche se questo sembra non turbare più di tanto le autorità etiopi (sia a livello regionale che nazionale), non si contano i casi di abusi sessuali subiti dalle donne di servizio di origine africana nei paesi del Golfo (ben sapendo che quelli denunciati o di cui comunque si viene a conoscenza, costituiscono solo la punta dell’iceberg). Per non parlare delle ricorrenti accuse di “trattamenti disumani” (torture, uccisioni…) nei centri di detenzione per migranti.

Come aveva denunciato Human Rights Watch «per anni l’Arabia Saudita ha arrestato e detenuto arbitrariamente migliaia di migranti etiopici in condizioni spaventose, incluse torture, pestaggi a morte e condizioni degradanti, deportandone a migliaia».

Stando a quanto riportava “Al Jazeera”, sarebbero almeno mezzo milione le donne (età compresa tra i 18 e i 40 anni) di cui si va pianificando il reclutamento per inviarle in Arabia Saudita come lavoratrici domestiche. Con una vera e propria campagna promozionale anche con cartelloni pubblicitari nelle maggiori città che invitano a registrarsi presso gli uffici governativi. Le donne verranno poi trasportate in aereo nel Golfo a spese del governo di Addis-Abeba.

Tutto questo, ripeto, mentre le organizzazioni umanitarie denunciavano il ritorno forzato in Etiopia di migliaia di donne e uomini vittime di abusi fisici e sessuali da parte dei loro datori di lavoro sauditi.

Questo il comunicato ufficiale dell’amministrazione dell’Amhara:
«In ragione dei forti legami diplomatici del nostro paese con l’Arabia Saudita, sono state rese disponibili opportunità di lavoro per 500.000 etiopiche, tra cui 150.000 dalla regione Amhara»

Il ruolo dell’Arabia Saudita?

Serbatoio di sfruttamento schiavista

Niente di nuovo sotto il sole naturalmente. Ricorda per certi aspetti quanto avveniva in Namibia quando era occupata dal Sudafrica (e sottoposta all’apartheid) con i lavoratori delle miniere di uranio rispediti a casa loro, nei villaggi, quando manifestavano i sintomi della malattia. O i migranti dai bantustan reclusi nei dormitori-prigioni (“ostelli” eufemisticamente), lontano dalle famiglie, forza lavoro a basso costo in condizioni di semischiavitù.

“L’epocale repentino cambiamento dei riferimenti sauditi”.
Volendo anche i nostri minatori in Belgio (previo accordo tra i governi dell’epoca) all’epoca di Marcinelle.

Coincidenza. Mentre avviava queste operazioni di ferreo controllo dei flussi migratori, il governo etiope procedeva allo smantellamento delle milizie regionali.

Stando a un comunicato del 6 aprile, si ripromette di «integrare le forze speciali regionali all’interno delle forze dell’esercito federale (Endf) e delle forze di polizia federale».

Allo scopo evidente di centralizzare il controllo sui gruppi armati e sminuire la relativa autonomia delle singole regioni.
La cosa non è risultata gradita proprio nello stato-regione dell’Amhara dove sono già scoppiate proteste e rivolte.

Quindi, per il governo centrale: Sì alla fornitura di forza-lavoro subalterna, ma No all’autodeterminazione regionale.

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Biden in Medio Oriente: le insidie che declinano la centralità Usa https://ogzero.org/biden-in-medio-oriente-le-insidie-che-declinano-la-centralita-usa/ Tue, 19 Jul 2022 14:48:13 +0000 https://ogzero.org/?p=8226 La disposizione delle pedine sulla scacchiera conduce a frenetiche consultazioni, vertici, summit, visite di rappresentanza e di scambi più o meno confessabili; la preparazione del confronto sull’egemonia o sulla oppositiva concezione tra multilateralismo e bipolarismo.  Inauguriamo con questa analisi di Eric Salerno sulle visite di Biden in Medio Oriente alcuni interventi estemporanei, di cui cercheremo […]

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La disposizione delle pedine sulla scacchiera conduce a frenetiche consultazioni, vertici, summit, visite di rappresentanza e di scambi più o meno confessabili; la preparazione del confronto sull’egemonia o sulla oppositiva concezione tra multilateralismo e bipolarismo. 
Inauguriamo con questa analisi di Eric Salerno sulle visite di Biden in Medio Oriente alcuni interventi estemporanei, di cui cercheremo di fare tesoro per arrivare a comprendere le strategie e gli schieramenti in alcune tappe. Cominciamo a proporre interventi o editoriali proprio oggi, quando si sta svolgendo l’incontro a Tehran tra i vecchi protagonisti degli incontri iniziati ad Astana con l’idea di comporre il conflitto siriano e poi proseguiti spartendosi ruoli e aree di influenza nel bacino mediterraneo, nella regione caucasica e nella penisola araba, come descritto da Antonella De Biasi in Astana e i 7 mari. Un percorso che passa anche attraverso il rifiuto del “paria” MbS alla richiesta di incrementare  la produzione al di là degli accordi Opec, che avrebbe segnato una precisa scelta di campo contro la Russia, con la quale i sauditi hanno sempre stabilito il prezzo del petrolio accordandosi sulla produzione.

Fin da subito in questo articolo viene evidenziato da Eric il punto principale: l’irreversibile declino degli Usa come unica potenza di riferimento, motivo del confronto globale che scuote il mondo.

Fin qui la presentazione di OGzero, la parola passa ora a Eric Salerno


Biden in Medio Oriente: «Ne valeva la pena?»

«Was it worth it?»

È la domanda che si pone il “Washington Post”, analizzando la visita del presidente Biden in Medio Oriente. Una domanda lecita da molti punti di vista, e non soltanto da chi guarda agli interessi Usa. La toccata – pugno contro pugno – tra il presidente americano e il principe della corona saudita Mohammed bin Salman – immagine scandalosa, per tanti, che ha fatto il giro del mondo – non è soltanto imbarazzante ma indicativo di un cambiamento profondo in corso nel mondo che sempre di più non considera gli Usa il punto di riferimento di ogni forma di sviluppo. E di gestione del futuro, sempre incerto, della Terra.

«Saudi Arabia can’t raise oil output more in the medium term»

È la risposta del “paria” Mbs.
Jamal Khashoggi, saudita critico del regime che governa il suo paese, era un collaboratore del quotidiano della capitale americana. I servizi segreti americani ritengono che la sua uccisione, avvenuta in Turchia, era stata autorizzata, o meglio commissionata da Mohammed bin Salman per eliminare uno dei personaggi più critici della monarchia. Biden aveva fatto della sua presunta-certa colpevolezza nella vicenda Khashoggi uno dei suoi cavalli di battaglia durante la campagna elettorale. Aveva giurato di osteggiare, punire Mbs (come è noto ormai a tutti, l’erede al trono dei Saud). Il pragmatismo, ci dicono i diplomatici, è un elemento fondamentale nelle scelte strategiche e in questo momento, con Russia e Cina e una parte considerevole del mondo su posizioni ben lontane da quelle Usa-Europa, il capo della Casa Bianca non aveva altra scelta per cercare di convincere i sauditi ad aumentare la produzione di petrolio (continuano a dire di no) e per cercare di riportarli sotto il controllo Usa mentre si fanno corteggiare con un certo successo da Pechino.
Con la guerra che infuria in Europa, le alleanze da guerra fredda che riaffiorano, l’economia mondiale in caduta libera,  e l’unica industria che tira come mai quella degli armamenti, c’è chi afferma che Biden non aveva altra scelta. E che comunque, tutto sommato, Bin Salman non è il primo tiranno-assassino con cui gli Usa o l’Europa fanno affari.

Visita elettorale a Tel Aviv

Se quel ragionamento tattico-strategico in Arabia Saudita può essere condiviso, diversamente non ci sono giustificazioni per il comportamento di Biden in Israele, la tappa precedente della sua visita regionale, se non quella di non turbare difficili equilibri interni americani a pochi mesi dalle elezioni parlamentari di mezzo termine. Le azioni del presidente sono in caduta libera e il leader democratico non può – e non vuole – rischiare di perdere il voto di chi sostiene da sempre e in maniera totalmente acritica lo stato d’Israele. Biden arrivando a Tel Aviv ha ripetuto il suo storico sostegno alla soluzione “due stati per due popoli” per poi mettere le mani avanti con un «ma i tempi non sono maturi per la ripresa dei negoziati».  Si è poi vantato di aver stanziato un miliardo di dollari per aiutare ad affrontare la fame in alcune parti del Medio Oriente e del Nordafrica. Soldi promessi, ricorda il quotidiano Usa, anche ai palestinesi per i quali il perpetuarsi dello status quo rafforza l’occupazione israeliana delle loro terre, ossia della Cisgiordania e della parte orientale di Gerusalemme.

«The only way to stop them is to put a credible military threat on the table»

È la pretesa di Yair Lapid rivolta a Biden dopo avergli chiesto soldi per l’Iron Beam, il sistema missilistico di difesa antiraniano.

Ci sono state, dopo questa visita di Biden, poche analisi e commenti. Si è accennato al contenzioso con l’Iran con cui continuano i negoziati per cercare di mettere insieme un altro accordo Jcpoa sul nucleare mentre Israele ribadisce che agirà militarmente (oltre agli attentati e assassini mirati di scienziati e militari di Tehran) se lo dovesse ritenere necessario per restare l’unico paese armato di ordigni nucleari in tutta la regi0ne. E qui, da osservatore impegnato da troppi anni a seguire il conflitto israelo-palestinese, appare doveroso chiedersi: «Ma è mai possibile che gli Usa e l’Europa non abbiano capito che Israele – governanti, politici, opinione pubblica – concorda e si è fissata su una valutazione assurda: “Uno stato palestinese indipendente sarebbe un pericolo esistenziale per lo ‘stato ebraico’”».

Armi di distruzione di etnie: curdi palestinesi saharawi

Israele è all’avanguardia nelle tecnologie militari del futuro; vende know-how a tutti (quasi); potrebbe “appiattire” una Palestina indipendente se fosse ostile in pochi minuti con gli stessi strumenti che minaccia di usare per distruggere il Libano se dalla frontiera settentrionale Hezbollah o altri alleati di Tehran dovessero attaccare. E allora? Forse è venuto il momento di capire che, salvo stravolgimenti difficili da prevedere oggi, della sofferenza dei palestinesi – tra Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est, campi profughi in Siria e Libano e Giordania, e una diaspora mondiale – si sentirà parlare a lungo, così come si parla del popolo curdo, se vogliamo restare nella stessa regione.

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Neom: The Red Sea Diving Resort https://ogzero.org/neom-ribolle-il-mar-rosso/ Tue, 24 Nov 2020 09:43:15 +0000 http://ogzero.org/?p=1837 Immersione nella barriera arabo-israeliana in dissoluzione Tra il virtuale e il reale, le due rive del mar Rosso sono in ebollizione. Non distante da dove, a ridosso di Port Sudan, anni fa, il Mossad aveva trasformato un fallito centro per subacquei in una base segreta per portare in Israele gli ebrei etiopici (falasha) in fuga, […]

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Immersione nella barriera arabo-israeliana in dissoluzione

Tra il virtuale e il reale, le due rive del mar Rosso sono in ebollizione. Non distante da dove, a ridosso di Port Sudan, anni fa, il Mossad aveva trasformato un fallito centro per subacquei in una base segreta per portare in Israele gli ebrei etiopici (falasha) in fuga, la marina russa sta per aprire una base navale e aggiungere la presenza dell’ex superpotenza a quella di numerosi altri contendenti per il controllo della regione. Dall’altro lato di quel lungo specchio d’acqua tra i più strategici del mondo, di fronte all’Africa più turbolenta, l’Arabia saudita ha avviato la creazione di un vasto comprensorio turistico di lusso (con un poco fortunato avvio per colpa del Covid) dove le regole più arcaiche del Corano non valgono mentre sulla stessa riva ma più a sud continua a seminare morte e devastazione nello Yemen.

Kryptonite SarsCov2 sul vertice G-20

Il 21 e il 22 novembre, su onde simili a quelli che consentono ai droni sauditi di colpire la splendida Sana’a, si sono esibiti a distanza di sicurezza imposta dalla pandemia i rappresentanti dei G20 nel loro vertice annuale presieduto per la prima volta da un paese arabo, proprio l’Arabia saudita. Con gli specialisti che ci continuano a raccontare che il mondo abbastanza presto farà a meno del petrolio e si servirà di altre risorse, meno inquinanti, per le sue molteplici esigenze di vita e che, comunque, i ricchissimi giacimenti di oro nero sotto le sabbie del grande deserto arabo stanno finendo, viene da chiedersi il significato dei giochi geopolitici e militari di quello scacchiere. Lasciamo le risposte complesse a un altro momento: è per molti più importante chiedersi oggi perché la presidenza, seppure di turno, di un sodalizio come il G20 e il vertice siano andati a finire in uno dei paesi più repressivi dei diritti umani del mondo e perché uno dei suoi massimi leader abbia potuto impunemente sfuggire all’accusa di omicidio per il brutale assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi e viene accolto da mezzo mondo come se nulla fosse accaduto nel consolato saudita in Turchia. Qui la risposta è meno complessa: dollari, euro e criptovalute, termine che fa venire alla mente la kryptonite di supereroica memoria. La ricchezza, come quel minerale, può dare potere ma anche mettere in difficoltà chi non sa come gestirla. Il Covid ha vanificato l’investimento dell’Arabia saudita e del suo reggente nel vertice: non c’è stata la foto di gruppo, non ci sono state le strette di mano o le confidenze bilaterali. E nemmeno le gite organizzate per mostrare agli illustri ospiti quella piccola parte del mondo saudita – il comprensorio di Neom – che potrebbe assomigliare al nostro mondo e distrarre l’attenzione dei presenti (delegati e stampa di passaggio) da quanto c’è di negativo in quel paese.

Neom, la ridefinizione dello spazio e metafora dei futuri rapporti mediorientali

Negli anni Ottanta dello scorso secolo quando la repressione dell’Intifada dei palestinesi aveva riportato in primo piano la loro causa, una giornalista, con cinque passaporti in tasca tra cui quelli italiani e israeliani, mi disse con convinzione, temo, che sarebbe stato meglio non criticare Israele. Farlo, sosteneva, avrebbe soltanto messo in difficoltà coloro che in quel paese volevano la pace. Oggi la questione palestinese non fa notizia se non per qualche intrusione non certo costruttiva del presidente americano. Da tempo, ormai, poche sono le critiche pubbliche da parte dei paesi che contano. Eppure i palestinesi non sono più vicini ad avere una patria indipendente. E sbaglia, oggi, chi ritiene che non criticare l’Arabia saudita e il suo relativamente giovane riformatore, l’erede al trono Mohammad bin Salman (MbS), per l’assassinio di Khashoggi o per l’aumento delle violazioni dei diritti umani negli ultimi anni, sia l’unico modo per consentire al regno di uscire dal suo medioevo islamico.

Il G-20 saudita non si boicotta, né risolve…

Per questo, Human Rights Watch e molte altre organizzazioni internazionali e anche saudite avevano sollecitato i capi di stato degli altri paesi del G-20 di ridurre il livello della loro rappresentanza al vertice. O di utilizzare l’incontro virtuale per mandare molto più di un segnale di disappunto al regime. Il sodalizio comprende l’Unione europea e 19 paesi: Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Germania, Francia, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea del Sud, Turchia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Molte realtà in comune; molte altre che li separano. Insieme, i membri del G20 rappresentano circa il 90 per cento del Pil mondiale, l’80 per cento del commercio mondiale e i due terzi della popolazione mondiale. E insieme, nel week-end di discorsi a distanza, non sono riusciti nemmeno a tirar fuori un impegno concreto – costo 28 miliardi di dollari – per garantire l’accesso al vaccino anti-Covid ai paesi poveri.

… investe in sogni di ricchezza…

Il presidente americano Trump, sempre sprezzante, ha parlato contro tutto e tutti e appena finito il solito intervento farneticante è andato a giocare a golf senza restare davanti al suo monitor per ascoltare gli altri interventi. Gli interessi economici sono il collante dei G-20 e il tema di fondo quest’anno era, giustamente, il fall-out economico del Covid. Con visioni divergenti e su come procedere di fronte a una delle crisi di crescita che vedrà i poveri diventare più poveri e molti ricchi diventare meno ricchi ci si poteva aspettare almeno una modesta donazione a favore dei più poveri se non altro per farli diventare Mercato utile alla crescita economica dei già ricchi. L’Arabia saudita punta alla modernizzazione e sta approfittando della crisi Covid. Cerca investitori e investe. Con i proventi del petrolio sta arraffando ciò che può nella speranza, secondo il piano dell’erede al trono, di arrivare al 2030 con un’economia non più sostenuta dai soli proventi del petrolio. Un progetto ambizioso che in tempi di magra piace alle economie avanzate in difficoltà. Persino le azioni dell’Eni hanno ripreso quota con la notizia che il fondo sovrano saudita ne ha acquistato un pacchetto.

… e in consumo di armi in Yemen

Abbiamo esaminato, recentemente, il peso del complesso militare-industriale americano sulla politica Usa. Purtroppo non è l’unica nazione del nostro mondo, diciamo “democratico”, a essere soggetta alle pressioni dei fabbricanti di armi. I paesi membri del G20 hanno venduto armi per più di 17 miliardi di dollari all’Arabia saudita da quando il regno è intervenuto nella guerra civile in Yemen. Una cifra di tre volte superiore agli aiuti umanitari forniti dagli stessi paesi ai trenta milioni di abitanti della più antica nazione della regione. Il disavanzo si allarga se si considera la vendita di armi e munizioni verso gli otto paesi che compongono la coalizione a guida saudita: il valore delle esportazioni sale a 31,7 miliardi di dollari.

I bombardamenti indiscriminati da parte saudita su ospedali, cliniche, pozzi e altre strutture civili sono stati condannati da molte organizzazioni internazionali e alla vigilia del vertice di Riad, l’organizzazione assistenziale Oxfam ha definito la politica dei paesi più ricchi del mondo “immorale e incoerente”.  Tra loro, sotto accusa c’è anche l’Italia. Giorni fa la Rete Italiana Pace e Disarmo, il Centro Europeo per i Diritti Costituzionali e Umani (Ecchr), e l’ong yemenita Mwatana per i Diritti Umani, hanno sottolineato in un evento online che il governo di Roma e i produttori italiani di armi potrebbero essere considerati corresponsabili dei crimini di guerra commessi nello Yemen esportando armi verso la coalizione militare guidata dall’Arabia saudita e dagli Emirati arabi uniti. Un anno fa, nel dicembre 2019, Amnesty International e numerose altre organizzazioni comprese quelle citate si rivolsero all’Ufficio del procuratore presso la Corte penale internazionale dell’Aja chiedendo un’indagine sulla responsabilità degli “attori aziendali e governativi in Italia, Germania, Francia, Spagna e Regno Unito”. La comunicazione descriveva ventisei attacchi aerei della coalizione saudita che, secondo le ricerche effettuate, potrebbero aver utilizzato bombe prodotte in Europa. L’Italia, come alcuni altri paesi europei, ha per ora bloccato le esportazioni dirette ai paesi belligeranti (anche se molti armamenti arrivano o arriveranno a loro attraverso paesi terzi). Nei primi mesi del 2020, gli attacchi aerei a guida saudita sono più che raddoppiati e le vittime civili della guerra sono aumentati vertiginosamente arrivando a oltre 20000 per gli oltre 64000 bombardamenti compiuti da quando la guerra cominciò nel 2015. Di fronte a questo quadro sempre più grave e deprimente, poche ore prima dell’inizio del vertice dei G-20, la International Rescue Committee, organizzazione non governativa con sede a Washington ha sollecitato Usa, Gran Bretagna e Francia a sospendere le loro vendite di armi alla coalizione saudita. Silenzio totale da parte dei paesi chiamati in causa.

L’abbraccio esiziale a Neom: MbS, Pompeo, Bibi

Con la scusa che l’Arabia saudita deve essere considerata una pedina importante per controllare “l’espansionismo iraniano” nella regione, l’anno scorso il presidente americano furbescamente ordinò la consegna di bombe e missili sofisticati a Riad per una cifra volutamente inferiore a quella che impone un’approvazione congressuale sulle vendite di armi. Giochi più volte ripetuti e più volte giustificati dalla Casa bianca (e sottoscritte dal parlamento) in quanto le vendite “creano lavoro” per gli americani. Nel 2017 Trump e i sauditi firmarono una lettera d’impegno per l’acquisto di armi per un valore di 110 miliardi di dollari subito e altri 350 miliardi di dollari entro dieci anni. Un accordo simile l’aveva firmato il deludente “premio Nobel per la pace” predecessore di Trump, Barack Obama.

Non sono soli i movimenti pacifisti a chiedersi cosa può fare l’Arabia saudita con tale quantità e qualità di armamenti se non garantirsi il sostegno dell’industria americana. Persino il Pentagono, nelle sue analisi, ammette che il regno dei Saud, poco popolato e con una maggioranza di sudditi poco incline a sostenere la famiglia reale, non sarebbe capace nonostante il suo arsenale crescente supersofisticato a vincere un confronto militare con un paese come l’Iraq, l’Iran o l’Egitto senza l’intervento diretto degli Stati Uniti. O di Israele. E a proposito della superpotenza mediorientale: mentre gli occhi dei rappresentanti del G20 erano più o meno concentrati sugli schermi che li collegavano, il premier israeliano, il capo del Mossad, Yossi Cohen e il bellicoso segretario di stato americano Mike Pompeo sono volati a Neom, la città del futuro – zona turistica e industriale – nel nord dell’Arabia saudita per il primo incontro ufficiale tra Netanyahu e Mohammed bin Salman. Non ci vuole molto per capire che si è trattato di un “consiglio di guerra”. Cosa fare prima dell’insediamento di Biden alla Casa Bianca per mettere i bastoni tra le ruote del neoeletto?

Quali spuntati argini “democratici” alla deriva bellica?

Il leader democratico ha più volte parlato di modificare la politica americana impostata da Trump rispetto a Mohammed bin Salman e all’Arabia saudita nel suo insieme. E ha più volte insistito sulla necessità di riprendere appena possibile il dialogo sul nucleare con l’Iran che Trump aveva interrotto nonostante le esortazioni non solo di molti consiglieri americani ma anche dei partner europei. Nei giorni scorsi il “New York Times” aveva rivelato che subito dopo il voto Trump aveva sollecitato, senza successo, i suoi generali a mettere in piedi un attacco alle istallazioni nucleari iraniane. Sarà ora Israele a colpire? Pochi a Tel Aviv pensano che una massiccia azione militare contro Teheran sia imminente. L’altro tema di fondo è la “questione palestinese”. L’avvicinamento tra Israele e Arabia saudita è un dato di fatto ma è ancora re Salman, non MbS, a decidere fino a dove arrivare e ha appena ribadito, frenando l’entusiasmo di Netanyahu, che la normalizzazione delle relazioni tra i due paesi aspetta il momento in cui sarà annunciata la creazione di uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come sua capitale.

Israele e il suo premier hanno ottenuto molto da Trump ma nel commentare il vertice trilaterale a Neom, Joshua Teitelbaum, storico ed esperto di affari sauditi e dei paesi del Golfo all’università Bar-Ilan (destra religiosa) ha ricordato al premier che anche «con i democratici Israele ha molta influenza a Washington» ma non deve troppo schierarsi con i sauditi contro le eventuali azioni di Biden, noto da sempre come sostenitore di Israele.

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Un complesso militar-industriale rinnovato e senza remore https://ogzero.org/nuovi-armamenti-e-suk-dell-usato-sicuro/ Thu, 12 Nov 2020 14:36:10 +0000 http://ogzero.org/?p=1722 A volte ritornano… le tangenti Lockheed Guerra e Pace. Pace e guerra. Distruzione e ricostruzione. Elementi fondamentali delle economie e delle contorte politiche mondiali. Appena incassati i cosiddetti “Accordi di Abramo” tra gli Emirati arabi e Israele, Donald Trump ha informato il Congresso della sua intenzione di vendere al piccolo stato arabo di fronte all’Iran […]

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A volte ritornano… le tangenti Lockheed

Guerra e Pace. Pace e guerra. Distruzione e ricostruzione. Elementi fondamentali delle economie e delle contorte politiche mondiali. Appena incassati i cosiddetti “Accordi di Abramo” tra gli Emirati arabi e Israele, Donald Trump ha informato il Congresso della sua intenzione di vendere al piccolo stato arabo di fronte all’Iran 50 caccia-bombardieri Lockheed Martin F-35-II, per una cifra che potrebbe aggirarsi attorno ai 10 miliardi di dollari (8421514000,00 euro). L’operazione ha bisogno dell’approvazione del Congresso e, indirettamente, di Israele che per bocca del suo premier Netanyahu, amico e complice del presidente uscente che farà i bagagli a fine gennaio, ha chiesto soltanto di far in modo che venisse mantenuto, come da accordi ormai consolidati dalla legislazione Usa, la superiorità militare del suo paese su tutte le altre nazioni arabe e del Vicino Oriente. E per mantenere questa superiorità serviranno nuove armi. Un funzionario della difesa israeliana ha atteso soltanto la conferma ufficiosa della sconfitta di Trump per dire al “Jerusalem Post” che non appena sarà possibile Tel Aviv vuole negoziare un nuovo pacchetto multimiliardario di assistenza militare da mettere in coda a quello stilato con Barak Obama e che scade nel 2027. Sicuramente dovrà tenere in considerazione la corsa degli arabi al F-35 e l’enorme quantità di armi acquistate dall’Arabia saudita negli ultimi anni. Sono stati che Israele considera alleati nella guerra all’Iran ma di cui si fida poco soprattutto per quanto riguarda la stabilità dei loro regimi. Stati clientelari per gli Usa che vi hanno basi militari importanti e che con i loro petro/gas-dollari continuano ad arricchire l’industria bellica americana. Spesso contro la volontà di una parte dell’establishment Usa, apparentemente incapace di contrastare la Casa bianca. Nel giugno di quest’anno l’Ispettore generale del Dipartimento di Stato (ossia il ministero degli esteri) fu licenziato su due piedi da Trump. Il presidente lo aveva scoraggiato dall’indagare sulla massiccia vendita di armi all’Arabia saudita portata avanti nonostante l’opposizione di una parte del Congresso. Il Regno era nel mirino dei parlamentari per il suo ruolo criminale nella guerra in Yemen; per l’assassinio del giornalista del “Washington Post” Jamal Khashoggi; e anche per i finanziamenti diretti o indiretti a organizzazioni islamiste collegate al terrorismo internazionale antioccidentale.

Nuovi armamenti sofisticati e suk dell’usato sicuro

È presto per capire cosa Joe Biden, sostenitore senza incertezze d’Israele, cambierà nella confusa politica Usa nei confronti di quella regione. È probabile un ritorno ai negoziati sul nucleare con l’Iran e forse ci sarà qualche passo per fermare l’idea – la “Abraham Peace” perorata da Trump e dal suo entourage di ebrei americani vicini a Netanyahu e alle sue idee estremiste – di mettere fine al conflitto arabo-israeliano, abbandonando completamente il popolo palestinese a un destino incomprensibile. Non è detto, però, che il Congresso bloccherà la vendita degli F-35 agli Emirati: non ha mai vietato una vendita già decisa al livello governativo. Di sicuro, se come probabile andrà avanti, favorirà una rinnovata corsa a nuovi più sofisticati armamenti da parte di tutti i giocatori, grandi e minuscoli, della regione. E con l’arrivo delle nuove armi, si movimenterà il solito grande suk dell’usato che come più di una volta in passato potrebbe portare armi “superate” ma più che efficienti nelle mani dei nemici degli Usa e dell’intero mondo occidentale.

Un filo di acciaio imbastisce l’industria bellica con la politica americana

Donald Trump, a differenza del suo predecessore Barak Obama, responsabile quanto meno della devastazione della Libia e, in qualche modo, anche della Siria, mantenendo le sue promesse pre-elettorali non ha avviato nuovi conflitti ma questo non significa che non abbia mantenuto quello stretto rapporto che da anni lega il mondo degli armamenti alla politica americana. E non solo americana. Oltre mezzo secolo dopo il famoso discorso-ammonimento d’addio dell’allora presidente Usa Dwight D. Eisenhower, i timori del generale passato alla politica sono diventati una realtà che influisce su tutti gli inquilini della sala ovale. E su chi aspira ad abitarci.

Dwight D. Eisenhower

Image from the broadcast of President Dwight D. Eisenhower and his farewell address to the nation on January 17, 1961, from the White House in Washington, D.C. (National Archives)

«Nei concili di governo dobbiamo guardarci dall’acquisizione di influenze che non diano garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro».

Ike didn’t like weapons?

Pochi allora vollero attribuire molta importanza a quelle parole di Eisenhower – il generale che aveva portato alla vittoria l’alleanza contro il nazifascismo – pronunciate il 17 gennaio 1961 nel momento in cui stava lasciando la Casa bianca. Era stato eletto nelle liste del Partito repubblicano, lo stesso di Donald Trump e di altri outsider alla politica come l’attore Ronald Reagan, di ben altro spessore grazie a una squadra di consiglieri più capaci. Ike, così era chiamato da tutti, era l’uomo più popolare degli Stati Uniti. Sei anni prima, il 17 giugno 1945, mia madre volle portarmi – avevo sei anni – dalla nostra casa nel Bronx fino a Manhattan per essere con i quattro milioni di americani che accolsero al suo ritorno negli Usa l’eroe della guerra. Indossavo orgoglioso una giacca “modello Ike” – di moda perché era stato adottato dal generale e da molte truppe – che la mamma aveva tagliato e cucito con le sue mani.

Per Eisenhower, furono sufficienti i due mandati, otto anni, alla Casa Bianca, per comprendere i rischi insiti in un’industria bellica capace di influenzare la politica di una grande potenza come erano diventati gli Stati Uniti. Voleva un’America in grado di difendersi dagli orrori che aveva visto con i suoi occhi in un’Europa devastata dalla ferocia delle menti e delle armi ma nutriva molto più di un sospetto sul mostro che era cresciuto in casa per combattere quei mali.

«Un elemento vitale nel mantenimento della pace sono le nostre istituzioni militari. Le nostre armi devono essere poderose, pronte all’azione istantanea, in modo che nessun aggressore potenziale possa essere tentato dal rischiare la propria distruzione…

Questa congiunzione tra un immenso corpo di istituzioni militari e un’enorme industria di armamenti è nuovo nell’esperienza americana. L’influenza totale nell’economia, nella politica, anche nella spiritualità è sentita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del governo federale. Riconosciamo il bisogno imperativo di questo sviluppo. Ma tuttavia non dobbiamo mancare di comprenderne le gravi implicazioni. La nostra filosofia ed etica, le nostre risorse e il nostro stile di vita sono coinvolti; la struttura portante della nostra società.

Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà o processi democratici. Non dobbiamo presumere che nessun diritto sia dato per garantito. Soltanto un popolo di cittadini allerta e consapevole può esercitare un adeguato compromesso tra l’enorme macchina industriale e militare di difesa e i nostri metodi pacifici e obiettivi a lungo termine in modo che sia la sicurezza che la libertà possano prosperare assieme».

Corruzione e finanziamenti nel traffico di armi

I rischi insiti nella politica degli armamenti Usa sono stati documentati e denunciati nel 2018 da uno studio approfondito di due ricercatori – A. Trevor Thrall e Caroline Dorminey – del Cato Institute: Risky Business: The Role of Arms Sales in U.S. Foreign Policy. Tra i pericoli illustrati e ampiamente documentati, le situazioni di guerra in cui le armi americane vendute a “paesi amici” finiscono nelle mani di nemici degli Usa e vengono usate contro le truppe americane. Il caso recente più clamoroso riguarda l’Iraq dove interi arsenali hanno armato gruppi di islamisti in lotta contro le forze occidentali in quel paese.

Tangenti Lockheed Martin nei decenni

Corruzione e finanziamenti sono all’ordine del giorno nel mondo degli armamenti. Per restare nella regione che ci interessa, Netanyahu e alcune personalità israeliane del mondo militare e civile sono sotto inchiesta per tangenti che sarebbero state pagate per un affare miliardario di sommergibili tedeschi. Qualcuno si chiederà se l’affare degli F-35 e le massicce vendite di armi all’Arabia saudita in questi ultimi anni sono servite a rafforzare economicamente le campagne elettorali del presidente uscente o di altri politici impegnati nelle lunghe costose campagne per presidenza, congresso e senato. Ipotesi basate su fatti avvenuti in passato. Gli stessi costruttori degli F-35 furono incriminati negli anni Settanta quando il Congresso americano accertò che la corruzione era un sistema diffuso da parte della Lockheed Corporation e della più piccola Northrop. Nel 1976 il “New York Magazine” scrisse che il senatore Church, capo della commissione d’inchiesta, «ha prove che la Lockheed ha pagato tangenti in almeno quindici paesi, e che in almeno sei paesi ha provocato gravi crisi di governo». L’Italia fu una di questi. Mario Tanassi, ministro della difesa, fu silurato per aver intascato una tangente di 50000 dollari su circa 2 milioni di dollari, destinati dalla Lockheed alla corruzione in Italia. Furono condannati anche il generale dell’aeronautica Duilio Fanali, il segretario di Tanassi Bruno Palmiotti, i faccendieri Ovidio Lefebvre e Antonio Lefebvre, e il presidente di Finmeccanica Camillo Crociani.

Nuovi armamenti e suk dell’usato sicuro

Torniamo in Vicino Oriente e dintorni. Non soltanto perché è il più grande mercato di armi di ogni tipo ma perché è il perfetto testing-ground, il terreno su cui le armi nuove possono essere sperimentate prima di finire sulla linea di produzione e poi sul mercato. Usa, Russia, Francia e Israele sono qui in prima linea. In tutti i sensi. Secondo una delle più recenti ricerche del Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), nella regione in guerra – dalla Siria, allo Yemen, dall’Iraq alla Palestina e poi al più distante Sud Sudan – le commesse sono aumentate del 61 per cento dal 2015 al 2019. Gli Usa sono in cima alla lista dei venditori lì e nel mondo: hanno ben 96 paesi-clienti. La Russia, ex superpotenza, ha perso una fetta importante del mercato dopo che l’India con un leader nazionalista di destra ha stretto rapporti con Israele dove ha trovato non soltanto una politica simile ma anche una delle più grandi, moderne e immorali delle industrie belliche pronte a vendere senza fare troppe domande. Nel maggio 2019 Amnesty International ha sottolineato che le armi israeliane vengono vendute a nazioni notoriamente colpevoli di violazioni dei diritti umani delle proprie popolazioni come Myanmar, Filippine, Sud Sudan e Sri Lanka. Negli ultimi mesi, bombe a grappolo israeliane, vietate dalle convenzioni internazionali, hanno seminato morte e feriti nella regione del Nagorno-Karabakh contesa tra Azerbaijan e Armenia. Grazie a testimonianze raccolte da giornalisti e analisi delle immagini dei bombardamenti nella capitale dell’autoproclamata repubblica dell‘Artsakh, Stepanakert, gli esperti di Amnesty hanno potuto confermare l’uso di bombe a grappolo di tipo M095 Dpicm, di fabbricazione israeliana. «Vecchi stock», hanno risposto da Tel Aviv per difendersi dalle critiche in uno scacchiere in cui le sue alleanze sono confuse. La guerra è guerra: la logica del potente apparato militare-industriale israeliano è strettamente controllato e gestito ai massimi livelli del governo.

Ma, ancora più importante della disponibilità a non fare domande o giudicare chi deve comprare, Israele offre (anche rispondendo a richieste specifiche quando possibile) di provare le armi nei conflitti dietro casa, da Gaza al Libano, alla Siria. Ci sono segnalazioni di richieste precise da parte di paesi acquirenti (gli Usa tra questi) perché certe armi sofisticate (come i droni e i loro armamenti ormai entrati in prima linea nelle moderne guerre) vengano usate in combattimento e approvate prima di finire sul mercato. La distruzione senza senso di abitazioni e altri edifici nella striscia di Gaza è spesso servita a questo scopo. E c’è chi – in Israele e fuori – vorrebbe assistere ad almeno uno scontro limitato con il meglio armato Hezbollah in Libano per mettere alla prova nuove generazioni di ordigni contro i bunker in profondità.

Nel 2017 le esportazioni di armi israeliane hanno raggiunto la cifra record di 9 miliardi di dollari. Questo non include il reddito delle società paramilitari che operano nel settore dell’informatica e della sicurezza. Un settore accusato di aver collaborato con regimi noti per i loro bassi voti nel rispetto dei diritti dei loro cittadini. E di spiare anche paesi amici.

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