missili Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/missili/ geopolitica etc Sun, 11 Apr 2021 14:54:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Il Kgb: dalla bionda (atomica) di 007 agli anarchici dei Caraibi https://ogzero.org/kgb-da-ian-fleming-alla-realta/ Sun, 28 Mar 2021 13:31:03 +0000 https://ogzero.org/?p=2725 Pubblichiamo il secondo articolo di Yurii Colombo dedicato alla storia delle spie e dei servizi segreti russi. Come il primo, sarà accompagnato da una videointervista di approfondimento all’autore trasmessa in diretta streaming l’11 aprile sui nostri profili social. Questa nuova puntata focalizza l’attenzione sul periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale ai primissimi […]

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Pubblichiamo il secondo articolo di Yurii Colombo dedicato alla storia delle spie e dei servizi segreti russi. Come il primo, sarà accompagnato da una videointervista di approfondimento all’autore trasmessa in diretta streaming l’11 aprile sui nostri profili social. Questa nuova puntata focalizza l’attenzione sul periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale ai primissimi anni Sessanta, quel tempo storico che fu oggetto di sceneggiature e romanzi in cui la Russia progettava il proprio programma nucleare e che sancì il passaggio dall’Nkvd al famigerato Kgb. Ed ecco gli anni della famosa “linea rossa” diretta tra Usa e Urss, del controspionaggio, dei doppiogiochisti americani e della crisi dei missili a Cuba.


Da Ian Fleming alla realtà e viceversa

Nel 1963 la versione cinematografica del romanzo di Ian Fleming Dalla Russia con amore, il giallo che narra la vicenda di una avvenente spia sovietica desiderosa di passare con l’Occidente (la Tatiana Romanova interpretata dall’italiana Daniela Bianchi), ebbe un enorme successo di pubblico in tutto il mondo. Si era in piena Guerra Fredda e l’idea che un’ingenua ragazza russa non anelasse altro che finire tra le braccia di un agente dei servizi di Sua Maestà, piacque agli spettatori del “mondo libero”.

La corsa all’atomo con gli Usa

La Guerra Fredda era iniziata 18 anni prima – prima ancora delle celebri frasi di Churchill sulla cortina di ferro – quando il presidente americano Harry Truman aveva deciso di far esplodere due bombe atomiche sul Giappone. Stalin ne fu profondamente colpito e mise nelle mani del fidato Lavrentij Berija il progetto di costruire la propria atomica socialista. Berija era a capo della Nkvd e tale posizione gli dava la possibilità di mobilitare la forza-lavoro del GULag per quel progetto (forza-lavoro manuale per la costruzione dei centri di ricerca e sperimentazione e scientifica, e forza-lavoro intellettuale, spesso anch’essa detenuta nei GULag, per la ricerca e la sperimentazione). Inoltre attraverso i servizi il tecnocrate georgiano tentò – con successo – di ottenere preziose informazioni segrete dagli Stati Uniti che accelerassero la corsa militare all’atomo. Secondo il professor Igor Golovin «a quel tempo le capacità direttive di Berija erano evidenti per tutti noi. Aveva un’energia fuori del comune. Le riunioni non si protraevano per ore; tutto veniva deciso molto in fretta. Avevamo un unico pensiero in mente: che cosa dovevamo fare per finire il lavoro al più presto possibile, prima che la bomba atomica americana ci cadesse sulla testa. La paura di una nuova guerra nucleare era più importante di tutto il resto; può confermarlo chiunque abbia vissuto quel momento», ha ricordato ancora il fisico.

Malenkov, Berija e Stalin

Il controspionaggio americano

Malgrado sia stato riconosciuto recentemente che l’Urss giunse in gran parte con le proprie forze a creare la Bomba H, il contributo della rete di spie e informatori in America velocizzarono la ricerca. La spia Harry Gold controllata dall’agente Semyon Semyonov riuscì a ottenere dei rapporti nell’industria chimica americana, ma le informazioni più sensibili giunsero da due scienziati americani che avevano lavorato al Manhattan Project a Los Alamos.

Nel 1950 i russi ammettono di possedere la bomba atomica

Inoltre Klaus Fuchs e Theodore Hall, due fisici teorici, con l’assistenza di Lona Cohen (una spia comunista americana poi emigrata in Urss) e dell’ingegnere elettronico Oscar “Godsend” Seborer, fornirono importanti indicazioni e notizie che permisero agli scienziati russi di velocizzare i loro studi. Seborer confesserà di aver aiutato i russi solo alla fine degli anni Novanta, non perché guidato da ideali comunisti ma perché riteneva pericoloso il monopolio americano della bomba atomica. Fuchs, invece, scoperto dall’intelligence americana sarà poi condannato a 14 anni di reclusione negli Usa. La vicenda ebbe come ricaduta secondaria l’esplosione del caso Rosenberg: nel clima da caccia alle streghe i due coniugi comunisti vennero condannati alla sedia elettrica ma la querelle sulla loro colpevolezza è arrivata fino ai giorni nostri (la tesi più accreditata oggi è che i coniugi avessero realmente collaborato con i sovietici ma non in relazione alla bomba atomica fornendo informazioni su radar difensivi e dispositivi di artiglieria). Nello smantellamento dell’attività di spionaggio atomico sovietico giocò un ruolo importante il cosiddetto Venona Project una collaborazione sistematica organizzata tra Cia e MI5 per sventare i tentativi di interferenza sovietica in Occidente che proseguì fino al 1980.

Julius e Ethel Rosenberg (foto di Roger Higgins – Library of Congress Prints and Photographs Division, New York)

La grande trasformazione: nasce il Kgb

Nel marzo del 1954 la Sicurezza di Stato sovietica subì la sua più importante riorganizzazione postbellica. L’Nkvd fu trasformato in Comitato per la Sicurezza dello Stato, Kgb (Komitet Gosurdarstvennoij Bezopasnosti), il quale venne posto formalmente alle dipendenze del Consiglio dei ministri, nel tentativo di tenere sotto controllo politico la struttura dopo la dipartita di Stalin. Il primo capo del Kgb divenne il quarantanovenne generale Ivan Serov, noto soprattutto per la brutale efficienza con cui aveva eseguito in tempo di guerra le deportazioni dal Caucaso e schiacciato l’opposizione anticomunista negli stati baltici e nell’Europa orientale.

La mano pesante di Serov a Tblisi e Budapest

I primi avvenimenti che Serov dovette affrontare non furono proprio di ordinaria amministrazione. Nel 1956, pochi giorni dopo la denuncia dei crimini di Stalin da parte di Nikita Khruscev durante la sessione chiusa del XX Congresso del Pcus, scoppiò una sommossa a Tblisi a difesa dell’onore perduto del dittatore georgiano. La rivolta – in buona parte giovanile e nazionalista – preoccupò non poco i vertici del Kgb che mandarono in loco un gruppo di agenti. Filipp Bobkov – che allora era un agente in erba del Comitato – racconta nelle sue memorie che il loro intervento una volta appurato che le manifestazioni non avevano obiettivi direttamente politici e non erano state alimentate da governi stranieri, evitò un’inconsulta repressione e calmò gli animi. Restarono comunque uccisi 150 dimostranti.

Qualche mese dopo, in autunno, la mano del Kgb, guidata da Ivan Serov (chiamato dalla stampa occidentale “il macellaio”) sarà assai più pesante quando lavorerà sottotraccia prima per isolare il primo ministro ungherese, il riformatore Imre Nagy, e poi per gestire l’ondata repressiva contro gli insorti di Budapest.

La Finlandia di Kekkonen in bilico tra Occidente e Oriente

Sempre nel 1956 quando fu eletto presidente della Finlandia Urho Kaleva Kekkonen, esponente politico del partito agrario finlandese, a Mosca pensarono di aver vinto alla lotteria. Infatti Kekkonen non solo incontrava regolarmente un agente del Kgb ma accettava di buon grado i consigli che gli venivano dati dall’ambasciata sovietica a Helsinki, al punto tale che Khruscev lo considerava un “suo uomo”. Qualche volta accettò di inserire nei propri discorsi le “tesi” preparate dalla Divisione Internazionale del Comitato Centrale del Pcus recapitate tramite il residente russo nella capitale finlandese. Restò alla presidenza del suo paese per ben 18 anni, fino al 1982, e nella commedia degli equivoci, l’Urss pensò di aver avuto per quasi un ventennio un ammiccante capo di stato disposto a qualsiasi concessione e posizione filorussa compreso il rifiuto di accettare gli aiuti del piano Marshall. In realtà, come ha dimostrato ampiamente la storiografia finlandese l’obiettivo di Kekkonen era esplicitamente quello di salvare l’indipendenza del suo paese dagli artigli dell’Orso sovietico. Nel gioco doppio, triplo e quadruplo di ogni relazione diplomatica e informativa, il piccolo paese nordeuropeo riuscì così a cavarsela, restando in bilico tra Occidente e Oriente.

Il presidente finlandese Urho Kekkonen all’arrivo negli Stati Uniti, accolto da J.F. Kennedy, ottobre 1961.

Castro, all’altro capo del mondo

All’altro capo del mondo Fidel Castro che diventerà negli anni Sessanta la punta di lancia della geopolitica sovietica internazionale, neanche tanto paradossalmente, fu visto a lungo dal governo russo e dal Kgb come un elemento inaffidabile, troppo indipendente e alla testa di un movimento nazionalista poco controllabile.

Il Secondo Dipartimento (quello del Kgb per l’America latina) dei servizi esteri colse per primo la potenzialità di Castro. Il primo a rendersene conto fu un giovane ufficiale, Nikolai Leonov, che conosceva la lingua spagnola, distaccato negli anni Cinquanta nell’ufficio di Città del Messico. Castro che era stato due anni in carcere per avere organizzato l’attacco a una caserma, quando fu liberato, trascorse un anno in esilio nel Messico, e si rivolse all’ambasciata sovietica chiedendo armi per la guerriglia contro Batista. Le armi gli furono rifiutate, ma Leonov era rimasto immediatamente impressionato dal carisma e dalla determinazione di Castro come capo guerrigliero.

Il Cremlino e gli “anarchici dei Caraibi”

Nell’autunno del 1959, quando la rivoluzione aveva già vinto, una delegazione cubana diretta da Raúl Castro si recò a Praga per discutere la possibilità di un’assistenza militare cecoslovacca. Raúl piacque ai cechi che diedero a Khruscev il via libera per stringere relazioni più strette con “gli anarchici dei Caraibi” come venivano chiamati ironicamente al Cremlino.

Una delle prime spericolate azioni organizzate dal Kgb nel dicembre 1959 fu quella di far volare a L’Avana due crittografi americani Bernon F. Mitchell e William H. Martin con in tasca importanti informazioni top secret. I due fuggirono poi definitivamente a Mosca nel settembre 1960 portandosi con sé molte informazioni sensibili. In una conferenza stampa che fece storia e che provocò l’imbarazzo di tutte le cancellerie mondiali, denunciarono che la Cia decifrava le comunicazioni di diversi alleati americani tra cui, a detta di Martin, figuravano anche «l’Italia, la Turchia, la Francia, gli Emirati Arabi, l’Indonesia, l’Uruguay». Sempre nello stesso periodo a libro paga del Kgb venne posto Jack E. Dunlap, un ufficiale Usa di basso rango che lavorava alla base militare di Fort Meade. Dunlap che aveva il vizio delle roulette e delle belle donne, in cambio di danaro, nel giro di tre anni fornì ai sovietici manuali d’istruzioni e di riparazione, modelli matematici, disegni costruttivi delle più segrete macchine di crittografazione degli Stati Uniti. Ebbe anche accesso alle valutazioni della Cia sugli effettivi sovietici e delle loro forze missilistiche in Europa orientale, soprattutto quelle collocate nella Repubblica Democratica Tedesca (Ddr). Nel 1963 però, dopo essere stato sottoposto alla macchina della verità, Dunlap, si suicidò.

Fidel Castro e Nikita Khrushev si fanno strada tra la folla, 1960 (foto di Herman Hiller – World-Telegram & Sun Photograph Collection – Library of Congress).

Gli avventurieri dei primi anni Sessanta

In quel periodo il Kgb, non potendo più contare come negli anni Trenta e Quaranta su agenti fedeli agli ideali del socialismo come erano stati Trepper o a suo modo anche Philby, iniziò ad affidarsi ad avventurieri di ogni tipo. Come Robert Lee Johnson già ufficiale americano in attività a Berlino Ovest con il vizietto della bottiglia e delle scommesse clandestine, il quale una volta rientrato negli Usa iniziò a rendere i suoi servigi all’ambasciata russa. Il 15 dicembre 1961, Johnson entrò per la prima volta in una camera blindata dell’agenzia di sicurezza americana, riempì una borsa da viaggio dell’Air France di sacchetti sigillati contenenti materiale crittografico e documenti top-secret, e la portò nel luogo dove lo attendeva l’agente Felix Ivanov, che consegnò poi il tutto alla residenza del Kgb presso l’ambasciata di Parigi. Una squadra di tecnici, già in attesa, tolse i sigilli, fotografò i documenti, li rimise nei sacchetti e ripristinò i sigilli. Nel giro di meno di un’ora la borsa Air France era di nuovo in viaggio verso Johnson, che rimise il contenuto nella camera blindata molto prima dello scadere del proprio turno di guardia. A fine aprile 1962 Johnson aveva consegnato ben 17 borsoni pieni di documenti ai sovietici che comprendevano dati sul sistema di decifrazione americano, l’ubicazione delle testate nucleari Usa in Europa, i piani difensivi della Nato e degli Stati Uniti, al Kgb. Johnson riuscirà infine a scappare a Mosca dove visse il resto dei suoi giorni da nababbo sovietico.

Non tutto però filò lisciò in quel periodo. Almeno 3 agenti sovietici passarono armi e bagagli al nemico: Nikolay Koklov, Anatolij Golitsyn e soprattutto Bohdan Stashynsky autore dell’uccisione in Germania Ovest del capo della destra collaborazionista ucraina Stepan Bandera durante la Seconda guerra mondiale. Stashynsky fu processato a Karlsruhe nell’ottobre 1962 e condannato a otto anni di carcere per complicità in omicidio. In seguito a queste “disconnessioni” furono licenziati o retrocessi 17 ufficiali del Kgb secondo quanto riportato da Golitsyn nelle sue memorie.

Golitsyn, Koklov e Stashynsky

I missili a Cuba e la “linea rossa” tra Kennedy e Khrushev

Ma il momento in cui le strutture dei servizi russi furono messe più a dura prova fu durante la crisi dei missili a Cuba nell’estate del 1962 dopo il fallimentare tentativo americano dell’anno precedente di invadere l’isola rivoluzionaria alla Baia dei Porci. Quando i tecnici sovietici cominciarono a costruire a Cuba le rampe di lancio per missili nucleari uno dei compiti principali affidati al Kgb fu quello di costruire informazioni che potessero filtrare in ambienti ben introdotti tra i Kennedy, installare un canale privato per i contatti con la Casa Bianca dove diffondere false informazioni mentre a Cuba venivano piazzati i missili sovietici. L’addetto incaricato di ciò fu Georgy Bolshakov, un ufficiale del Kgb che operava a Washington sotto la copertura di giornalista. Per più di un anno, già prima della crisi dei missili, Bolshakov si trovò a fungere da “linea rossa” – come lui la definiva – e da “canale di comunicazione segreto” tra John Kennedy e Nikita Khruscev. Bolshakov era un uomo di punta dei servizi russi all’estero, tanto è vero che era stato utilizzato l’anno prima a Berlino quando Khruscev aveva deciso di costruire il muro. Presentato da un giornalista americano a Robert Kennedy, nel maggio 1961, cominciò ad avere con lui regolari incontri quindicinali. Bolshakov convinse Robert Kennedy che poteva aggirare il ponderoso protocollo della diplomazia ufficiale e conoscere direttamente le opinioni di Khruscev e «parlare in modo diretto e aperto senza ricorrere alle battute propagandistiche di repertorio usate dai politicanti». Secondo Bolshakov, «entrambe le parti fecero largo uso» del canale di comunicazione da lui fornito.

29 ottobre 1962: Riunione dell’Executive Committee of the National Security Council (foto di Cecil Stoughton, White House, John F. Kennedy Presidential Library and Museum)

Malgrado ciò la scommessa di Khruscev si concluse con un mezzo fallimento e fu costretto a desistere dall’installare i missili nell’isola caraibica proprio perché la Cia convinse Kennedy che quello del leader sovietico non era altro che un bluff, seppure ben congegnato. Secondo alcuni fu allora che entrò in scena Lee H. Oswald…

Bibliografia consigliata:

Vladimir Antonov, Vladimir Karpov – Taynje Informatory Kremlja. Očerki o sovietskich razvedčikach, Moskva, Veče, 2011.

Christopher Andrew, Oleg Gordievskij – La storia segreta del Kgb, Milano, Rizzoli, 2017.

Christopher Andrew, Vasili Mitrokhin – The Mitrokhin Archive: The KGB in Europe and the West, London, Penguin, 2018.

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Usa e Iran: “Missiles will be on the table” https://ogzero.org/strategie-per-accordi-epocali-sugli-armamenti-in-iran/ Mon, 01 Mar 2021 10:25:23 +0000 https://ogzero.org/?p=2521 Pubblichiamo un articolo che Lorenzo Forlani ha scritto per OGzero a breve distanza dal primo bombardamento ordinato da Biden su postazioni missilistiche sciite in Siria come segnale nei confronti dell’Iran, all’interno di un cambio di strategie Usa per raggiungere accordi epocali sul programma nucleare iraniano che coinvolgono anche gli armamenti missilistici di Teheran. Nel ridimensionamento […]

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Pubblichiamo un articolo che Lorenzo Forlani ha scritto per OGzero a breve distanza dal primo bombardamento ordinato da Biden su postazioni missilistiche sciite in Siria come segnale nei confronti dell’Iran, all’interno di un cambio di strategie Usa per raggiungere accordi epocali sul programma nucleare iraniano che coinvolgono anche gli armamenti missilistici di Teheran. Nel ridimensionamento delle potenze regionali (il contenimento di Bin Salman e la spregiudicatezza di Erdoğan non più tollerabile), collegabile al cambio di strategia dell’amministrazione americana, il negoziato sul nucleare – in cui è anche incluso il programma missilistico iraniano – si trova a un punto delicatissimo e nel panorama mediorientale (e con gli ultimi eventi di Erevan) torna alla ribalta il fallimento dei nuovi equilibri che si erano insinuati negli spazi lasciati vuoti da Trump durante gli Accordi di Astana, al punto che la Turchia rientra nell’alveo della Nato con un regalo “balistico”, condividendo con gli Usa la tecnologia del missile russo Pantsir, catturato sull’ambiguo fronte libico, emblematico della svolta nel dopo Trump.


Quanto può essere alzata la posta?

Esiste una porzione della società e dell’arena politica americana convinta che l’amministrazione guidata da Donald Trump, con la sua strategia della “massima pressione” sull’Iran, abbia lasciato a Joe Biden una preziosa eredità, mettendolo in condizione di “alzare la posta” in un nuovo possibile negoziato sul nucleare. E nelle stanze del potere statunitense, quando si parla di “alzare la posta” sul dossier iraniano, si fa riferimento a due dimensioni: quella delle milizie filoiraniane in Medio Oriente, e soprattutto quella del programma missilistico iraniano. Non solo una parte dei repubblicani ma anche un segmento dei democratici – oltre agli alleati americani nella regione, cioè Israele, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita – spinge per inserire soprattutto quest’ultimo nei nuovi colloqui sul nucleare. «Missiles will be on the table», ha detto recentemente Jack Sullivan, National Security Advisor di Joe Biden.

Si tratta di un aspetto molto delicato, potenzialmente anche in grado di far fallire un accordo di massima sul nucleare, perché il programma missilistico costituisce per l’Iran una linea rossa, un pilastro della sua capacità di difesa asimmetrica. I missili, è noto, sono armamenti facili da occultare e relativamente difficili da intercettare: per Teheran, che rispetto ai suoi rivali regionali ha una tecnologia meno avanzata e una minore capacità militare complessiva – riflesso di spese militari annuali in rapporto al Pil che mediamente, dal 1990 al 2012, ammontano a un terzo di quelle saudite e alla metà di quelle israeliane –, i missili sono un vitale strumento di deterrenza, in una regione nella quale il fronte antiraniano – ulteriormente rafforzato dalla firma degli “Accordi di Abramo” tra Israele e una serie di Paesi arabi, soprattutto nel Golfo – è sempre più compatto.

Potenza e potenzialità degli arsenali

Non sorprende, quindi, che quella iraniana sia la flotta missilistica più eterogenea e ricca in termini numerici nella regione. Nel marzo 2020 si stimava attorno ai 2500-3000 la somma di missili balistici iraniani, ai quali va aggiunto un numero imprecisato di missili Cruise. I missili balistici si dividono in quattro classi: a raggio corto (fino a 1000 km di gittata), medio (da 1000 a 3000), intermedio (da 3000 a 5500) e intercontinentale (da 5500 in su).

Missili iraniani nel Museo della Difesa di Teheran (Foto di Elena Odareeva)

L’arsenale iraniano è composto da missili a corta gittata (Tondar, Fateh, Shabab 1 e 2) e soprattutto da missili a gittata media (Shabab 3, Zolfaghar, Qiam 1, Burkhan 2h, , Sejil, Emad e Ghadr), mentre a oggi la Repubblica islamica non sembra avere le capacità – ma forse neanche l’interesse, considerando la natura regionale delle sue preoccupazioni in politica estera e di sicurezza – di sviluppare missili intercontinentali (Icbm), in grado di raggiungere l’Europa, sebbene al dipartimento della Difesa americana si registri una certa inquietudine rispetto ai progressi fatti da Teheran nella realizzazione di veicoli di lancio spaziale (Slv), con cui sono stati mandati dei satelliti in orbita (il primo fu il Sina-1, satellite iraniano mandato in orbita nell’ottobre 2005 dalla Russia). Secondo il Worldwide Threat Assessment realizzato dall’intelligence americana nel 2019: «I progressi dell’Iran con gli Slv diminuiscono i tempi per arrivare agli Icbm, poiché Icbm e Slv usano tecnologie simili».

40 anni di Repubblica islamica fondata sui sistemi di difesa

L’Iran ha maturato la decisione di sviluppare un programma missilistico autonomo durante la Guerra con l’Iraq (1980-1988). Il programma missilistico precedente, nato con lo shah, era stato interrotto da Khomeini, per via della avviata collaborazione con Israele e dei sospetti che pendevano sugli ufficiali delle Forze armate, specie dopo il tentato golpe del 1980 (il golpe di Nojeh).

L’indisponibilità di gran parte della comunità internazionale a fornire a Teheran i missili con cui rispondere agli attacchi di Saddam Hussein sulle città iraniane convinse in realtà già nel 1985 l’allora presidente del Parlamento e membro del Consiglio di guerra, Ali Akbar Rafsanjani, a ottenere i missili Scud da Corea del Nord e Libia, per poi produrre localmente, nel 1990, il primo missile a corto raggio (il Mushak, probabilmente con l’assistenza cinese).

Reazioni difensive meccaniche introiettate e…

Ciò è utile a ricordare una postura non più molto familiare in Occidente: a torto o a ragione, sin dalla fine della guerra con l’Iraq, Teheran attribuisce una natura esistenziale alle minacce che affronta, fronteggiamenti che rendono il mantenimento di un programma missilistico fuori discussione. Ciò si spiega anche con quella che i politologi chiamano la path dependance (dipendenza dal percorso): una concezione interiorizzata, per cui piccoli o grandi eventi del passato, anche se non più rilevanti (l’Iraq oggi non è più un paese ostile come con Saddam), possono avere conseguenze significative in tempi successivi, che l’azione economica può modificare in maniera limitata, anche perché i costi di una regressione da un cammino intrapreso sono alti.

Nel caso iraniano, il motivo contingente alla base della decisione di dotarsi di missili fu l’aggressione di Saddam Hussein: una motivazione che non sussiste più ma che è stata “riempita” con le minacce di strike da parte di Israele. Spesso nel Parlamento iraniano è stato citato il caso di Libia e Iraq per mettere in guardia da qualunque concessione sul programma missilistico: sia la Libia che l’Iraq, infatti, furono invasi dopo aver accettato alcune limitazioni al proprio programma missilistico. Diverse componenti politiche in Iran, in sostanza, si chiedono: a che prezzo porre limitazioni al principale deterrente contro un regime change? Chi garantisce che non sia la premessa per ulteriori restrizioni militari?

… quali priorità nelle riduzioni degli arsenali?

Se in molti, sia in Occidente che nei paesi del Medio Oriente riconducibili al blocco antiraniano, spingono in diverse sedi e modalità per porre un freno al programma missilistico dell’Iran, in pochi sembrano in grado di entrare nel dettaglio, rispondendo anzitutto alla domanda: cosa limitare? La capacità iraniana di trasporto delle testate nucleari? Il numero di missili (a prescindere dalla capacità di trasporto nucleare) prodotti e impiegati dall’Iran? Il dispiegamento di nuovi e più avanzati sistemi? È difficile trovare delle risposte elaborate a questi punti.

Vista la diffidenza diffusa nella regione, qualunque accordo sul dossier missilistico – con limitazioni anche per gli altri paesi regionali – dovrebbe essere sostenuto da adeguati meccanismi di verifica, che a oggi sono impossibili da implementare, non esistendo peraltro alcun framework internazionale per il controllo dei programmi missilistici (per cui l’Iran percepirebbe l’eccezionalità del controllo esclusivo sul suo programma, in una riedizione del dossier nucleare). Privare l’Iran degli strumenti e dei sistemi per trasportare armi nucleari è inverosimile, poiché i missili Shabab 3 e Ghadr – utilizzabili anche a questo scopo – costituiscono soprattutto il cuore della capacità iraniana di rispondere a eventuali attacchi israeliani; limitare il numero dei missili prodotti e impiegati richiederebbe ispezioni intrusive e approfondite alle basi militari e ai centri di produzione militare iraniani, difficili da accettare per l’Iran, specie in assenza del framework menzionato.

Il fatto che a oggi Teheran non sia interessata agli Icbm è in parte dimostrato dal fatto che, a fronte di enormi progressi in campo missilistico negli ultimi 20 anni, Teheran non abbia mai effettuato nemmeno dei test con missili a lungo raggio, in grado di raggiungere gli Stati Uniti, e che abbia ristretto volontariamente la gittata massima dei suoi missili a 2000 km. Se da una parte l’unico aspetto “controllabile”, senza essere eccessivamente intrusivi, è la capacità iraniana di trasporto di testate nucleari, per la quale potrebbero essere introdotte restrizioni ai test di volo, è bene anche ricordare che eventuali pressioni o ricatti sui missili da parte dell’Occidente potrebbero spingere le autorità iraniane a inaugurare per rappresaglia proprio i test sui missili a lungo raggio.

Strategie per accordi epocali

In conclusione, anche a prescindere dal raggiungimento in tempi brevi di un nuovo accordo sul nucleare, appare chiaro come le richieste unilaterali all’Iran di cessazione o limitazione al proprio programma missilistico siano destinate a non funzionare. Ne consegue che l’eventuale tentativo americano di inserire modifiche al programma missilistico iraniano come precondizione a un rientro degli Stati Uniti nel nuclear deal sarebbe rovinoso: nel più roseo dei casi ne uscirebbe un accordo “vuoto”, e delle limitazioni che non soddisferebbero nessuno. Sarebbe forse più utile aprire discussioni di lungo termine – e allargate alla regione – sui missili intercontinentali, come ricordano gli studiosi Fabian Hinz e Sahil Shah.

Ex ambasciata degli Stati Uniti a Teheran (Foto di Fotokon)

Con i presupposti attuali, una ipotesi – comunque complessa da percorrere – potrebbe essere quella di accordare all’Iran il rafforzamento della flotta di missili a medio raggio (con la attuale soglia massima di 2000 chilometri) in cambio di limitazioni all’uso di tecnologie militari nel programma spaziale di Teheran e/o al trasferimento di missili Cruise e balistici ad attori non statali sostenuti da Teheran (come gli houthi in Yemen). A ogni modo, così come sul dossier nucleare, anche sul programma missilistico sarebbe profondamente sbagliato guardare all’Iran con il “prisma” libico, nella convinzione quindi che Teheran ceda se messa sotto pressione. Se non altro, perché Teheran è sotto pressione dal 1979.

Lo sforzo empatico non sarebbe tanto una concessione ma anzitutto una operazione funzionale all’inquadramento del problema: tenere conto della percezione delle minacce – le strategie israeliane, i paesi del Golfo, le formazioni jihadiste perlopiù antisciite e antipersiane, le basi militari americane in tutti i paesi confinanti… – da parte dell’Iran, e in particolare della convinzione che la sua sicurezza, in una regione polarizzata e instabile, dipenda dalla sofisticazione del suo arsenale missilistico. Le lezioni della Guerra fredda possono essere d’aiuto, ma fino a un certo punto: se è infatti vero che la limitazione delle capacità militari sovietiche non avvenne grazie alle sanzioni, ma mediante l’istituzione dei meccanismi di controllo e concessioni accompagnate da leveraging militare, è anche bene ricordare che in Medio Oriente la citata scarsa fiducia diffusa sussista non tra due ma tra un numero consistente di attori regionali, mossi da agende quasi inconciliabili.

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