Minusma Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/minusma/ geopolitica etc Fri, 18 Feb 2022 09:21:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Le divergenze parallele nei piani sino/russi per l’Africa https://ogzero.org/le-divergenze-parallele-nei-piani-sino-russi-per-lafrica/ Fri, 18 Feb 2022 09:21:43 +0000 https://ogzero.org/?p=6384 I rapporti tra le potenze globali s’improntano alla “differenziazione” a seconda degli svariati livelli di confronto e a seconda della complementarietà dell’offerta e della richiesta della zona interessata alle manovre sociali, economiche, politiche, culturali… Il continente africano è sempre più complesso e gli attori in commedia sono sempre di più; e le comunità non sono […]

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I rapporti tra le potenze globali s’improntano alla “differenziazione” a seconda degli svariati livelli di confronto e a seconda della complementarietà dell’offerta e della richiesta della zona interessata alle manovre sociali, economiche, politiche, culturali… Il continente africano è sempre più complesso e gli attori in commedia sono sempre di più; e le comunità non sono rappresentabili con la logora narrativa neocoloniale. Gli osservatori più attenti ritengono che in Africa l’intento cinese è quello di cementare il proprio ruolo di partner a lungo termine e di principale protagonista del suo sviluppo. Per esempio a Lusaka si sta completando una delle 4000 infrastrutture costruite dalla Cina dal 2020: un centro per conferenze in tempo per ospitare il summit dei capi di stato africani. Come riferito da Andrea Spinelli Barrile la Cina ha investito più del doppio in infrastrutture africane (23 miliardi di dollari) rispetto al resto del mondo; e anche i prestiti cinesi sono un quinto di tutti quelli erogati al mondo.

Mentre altrove gli interessi sino-russi possono stridere, in Africa, come nell’area eurasiatica la cooperazione in funzione antioccidentale può raggiungere buoni risultati, offrendo servizi diversi: la Russia si propone come fornitrice di armi, mercenari e addestratori e il Sahel appare come l’area più sensibile da accogliere quel tipo di sicurezza che 9 anni di Barkhane e Takuba non hanno saputo o voluto risolvere: infatti la popolazione di Mali e Burkina hanno cominciato a pensare che gli europei avessero interesse a non debellare definitivamente le milizie jihadiste, pur di avere un pretesto per occupare militarmente la zona. Altro impegno russo è quello applicato all’estrattivismo delle molte risorse africane.

Mentre “Deutsche Welle” dà conto di un summit tra Unione europea e Unione africana per proporre il Global Gateway Project su investimenti (300 miliardi in 7 anni), salute, sicurezza e migrazione in alternativa alla Belt and Road cinese nel momento in cui la Russia diventa riferimento principale della sicurezza per gli stati del Sahel, approfittiamo di un saggio scritto da Alessandra Colarizi per l’e-book numero 10 di China Files su questi argomenti per aggiungere suggestioni a integrazione dell’articolo di Angelo Ferrari, scritto a caldo a commento dell’annuncio parigino con il G5 del Sahel del ritiro delle missioni militari.


Semplici amici, avversari, alleati? Come altrove, anche in Africa, le relazioni tra Cina e Russia sfuggono all’imposizione di categorie precostituite. Rivali al tempo della Guerra Fredda, durante la crisi sino-sovietica i due giganti sostennero partiti e movimenti di liberazione nazionale, aiutando le fazioni alleate nelle guerre civili in Zimbabwe, Angola e Mozambico. Poi nel corso dei decenni Pechino e Mosca si sono spartite ruoli e competenze, seguendo un copione già utilizzato in Asia centrale.

Belt and Road cinese: finanziatori

La Cina, fedele al principio cardine della non ingerenza, si è perlopiù dedicata agli affari economici: primo partner commerciale del continente dal 2009, è da oltre dieci anni il principale investitore nella regione subsahariana. Una tendenza rafforzata dal lancio della Belt and Road, la strategia di politica estera con cui Pechino sostiene la penetrazione internazionale delle aziende statali cinesi attraverso la costruzione di grandi vie di comunicazione marittime e terrestri in Eurasia, e presto estesa all’Africa.

Armi e mercenari russi: risolutori

Mosca, invece, dopo la dissoluzione dell’Urss ha riacquistato il terreno perso grazie alla sua industria bellica: ha continuato a supportare le capitali africane con la vendita di armamenti e altre forme di assistenza militare; complice la minaccia del terrorismo islamico. Nel 2018, cinque paesi dell’Africa subsahariana – Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania – hanno fatto esplicitamente appello a Mosca per ottenere sostegno nella guerra contro Isis e al-Qaeda. In Libia, l’appoggio fornito dai mercenari russi al generale Khalifa Haftar (affiancato militarmente nell’assedio di Tripoli), anziché al governo riconosciuto dalla comunità internazionale – come spiega il Csis –, ha permesso di rafforzare “la posizione geostrategica e l’influenza diplomatica russa” nel Nordafrica, rendendo Mosca un interlocutore imprescindibile in qualsiasi tentativo di soluzione al conflitto.

Spartizione delle risorse africane

Negli ultimi tempi però, pur partendo da percorsi opposti, gli interessi dei due giganti hanno intrapreso traiettorie convergenti. Gli scambi commerciali tra la Russia e il continente sono raddoppiati nel giro di sei anni. Adocchiando ulteriori potenzialità economiche, nel novembre 2019 la città di Soči ha ospitato il primo forum russo dedicato all’Africa, di cui la seconda edizione è prevista per quest’anno. La nascita delle prime piattaforme istituzionali è stata accompagnata dalla fioritura parallela di canali informali.

Secondo Heidi Berg, direttore dell’intelligence presso il United States Africa Command Africom (Africom), «l’impegno militare russo e l’uso di contractor militari privati in Mozambico sono progettati per aumentare l’influenza [di Mosca] nell’Africa meridionale e per consentire l’accesso russo alle risorse naturali locali, inclusi gas naturale, carbone e petrolio».

Qualcosa di simile sta avvenendo nella Repubblica Centrafricana, dove militari russi sono stati nominati consiglieri per la sicurezza nazionale del presidente Faustin-Archange Touadéra, e il governo sta vendendo diritti minerari per oro e diamanti a una frazione del loro valore in cambio di armi.

Riposizionamento olimpionico: colmare un vuoto con un sodalizio a tutto campo?

Da parte sua, dopo aver privilegiato per tre decenni le sinergie economiche, la Cina sente necessità esattamente opposte. Sente di dover difendere i propri asset strategici nel continente e ricoprire un ruolo più proattivo in materia di sicurezza, come si addice a una superpotenza. Nel 2017 il porto di Gibuti, nel Corno d’Africa, è stato scelto come sede della prima base militare cinese all’estero.  La recente nomina di un inviato speciale per il Corno d’Africa sembra confermare questa nuova vocazione cinese per il mantenimento della stabilità, oltre il tradizionale impegno nelle operazioni internazionali di peacekeeping e lotta alla pirateria. Notizia che certamente non rallegrerà Mosca: secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), il continente è diventata una delle prime destinazioni dell’export di armi cinesi, pari al 17% delle forniture ottenute dalle capitali africane tra il 2012 e il 2017 e il 55% in più rispetto ai cinque anni precedenti.

È lecito, quindi, chiedersi se questo reciproco riposizionamento avvicinerà ancora di più o finirà invece per dividere Pechino e Mosca. Se anche in Africa, come nei rispettivi cortili di casa, i due vecchi rivali saranno capaci di muoversi in sincrono. Se, insomma, saranno semplici amici, avversari, o alleati. Entrambi i giganti stanno beneficiando della rapida perdita di influenza delle vecchie potenze imperialiste, di cui il ritiro francese dal Sahel è il segno più lampante. Alla vigilia delle Olimpiadi invernali di Pechino, Putin ha rimarcato come gli sforzi di Cina e Russia siano tesi alla promozione di una democratizzazione delle relazioni internazionali basata sui valori di “eguaglianza e inclusività”. Un messaggio che strizza l’occhio al Sud globale, sempre più emarginato dai sodalizi occidentali tra “like-minded country”. Siamo di fronte a un “gran plan”? Difficile a dirsi. Negli Stati uniti però i recenti sviluppi hanno già alzato il livello di allarme.

Secondo il senatore dell’Oklahoma, Jim Inhofe: «Cina e Russia stanno usando l’Africa per espandere la loro influenza [internazionale] e la loro estensione militare».

Il vantaggio di Pechino si misura in decenni di investimenti

“L’unione fa la forza”, dicevano gli antichi. D’altronde, l’arrivo tardivo dei capitali russi difficilmente rappresenterà una minaccia per gli interessi cinesi. Con venti anni di vantaggio, oggi la presenza del gigante asiatico beneficia della messa a sistema di una strategia di soft power che spazia dagli investimenti nei media, all’assistenza sanitaria passando per gli scambi people-to-people. Nei piani africani del Cremlino non sembra esserci nulla di lontanamente paragonabile.

Allo stesso tempo, sebbene le operazioni mercenarie di Mosca rischino di destabilizzare ulteriormente il continente, la preannunciata apertura di basi militari russe nella regione (ben sei) potrebbe persino tornar utile alla Cina. Come ammesso nell’ultimo libro bianco sulla Difesa pubblicato dal Consiglio di stato, l’esercito cinese non è ancora in grado di proteggere pienamente gli interessi nazionali oltremare a causa delle carenze logistiche e dell’insufficienza dei mezzi difensivi navali e aerei. Secondo il documento, alcuni di questi impedimenti sono aggirabili coltivando rapporti sinergici con altri paesi. Dalla crisi di Crimea, Cina e Russia hanno cementato le relazioni bilaterali con un focus militare molto forte. Sebbene dagli anni Ottanta Pechino rifugga le alleanze in senso proprio, il partenariato con Mosca sembra un gradino sopra le usuali consorterie cinesi per uniformità di interessi e visione globale.

La partnership competitiva, ma globale… dunque anche africana

L’instabilità politica in Africa apre uno spiraglio per la definizione di una “strategia” di sicurezza sino-russa nei paesi terzi. Un segno in questa direzione arriva dalla risposta concertata di Mosca e Pechino in sede Onu alla crisi del Tigray, così come ai colpi di stato in Sudan e Mali.

Dopo il ritiro americano in Afghanistan il coordinamento militare con Putin è diventato sempre più centrale per Xi. Lo è anche nel continente oltre l’Oceano indiano, dove Mosca può mettere a frutto l’esperienza militare maturata in Medio Oriente, un’area con profondi legami economici e culturali all’Africa. Le manovre aeree e marittime eseguite congiuntamente dai due giganti nell’Indopacifico, nel Mediterraneo e nel Mar arabico, costituiscono un precedente duplicabile nei teatri africani. Ma fino a che punto? Samuel Ramani, ricercatore della Oxford University, evidenzia diversi ostacoli: la storica diffidenza reciproca, la sovrapposizione tra interessi regionali spesso contrastanti, e la mancanza di un coordinamento sul campo ancora limitato ai tavoli multilaterali. È indicativo che, posizionati su fronti opposti in Libia e Sudan, Pechino e Mosca non abbiano mai tenuto colloqui bilaterali specifici sul continente. Nemmeno il tema del terrorismo è riuscito a ispirare una reazione pianificata in tandem.

Sono tutti aspetti che sommati compongono una sagoma dai contorni sfumati. Quella che Ramani definisce una “partnership competitiva” tra aspiranti grandi potenze. Non semplici amici, né avversari e nemmeno alleati. Almeno per ora.

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Costa d’Avorio: partita a scacchi con quarto incomodo https://ogzero.org/costa_davorio_partita_a_scacchi_con_quarto_incomodo/ Fri, 09 Oct 2020 15:33:58 +0000 http://ogzero.org/?p=1451 Manca poco meno di un mese al primo turno delle presidenziali in Costa d’Avorio e i giochi rimangono più che mai aperti. Non solo e non tanto perché un favorito c’è e non c’è. Le candidature sono state depositate. Alassane Ouattara, presidente uscente, si ricandida per un terzo mandato, con non poche polemiche e contestazioni […]

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Manca poco meno di un mese al primo turno delle presidenziali in Costa d’Avorio e i giochi rimangono più che mai aperti. Non solo e non tanto perché un favorito c’è e non c’è. Le candidature sono state depositate. Alassane Ouattara, presidente uscente, si ricandida per un terzo mandato, con non poche polemiche e contestazioni che sono sfociate in violenza con morti, feriti e arresti. Non proprio il clima ideale per affrontare la campagna elettorale.

A sfidare il 78enne Ouattara ci saranno i suoi rivali storici Henri Konan Bédié, 86 anni, e Laurent Gbagbo, 75 anni, candidato dai suoi supporter senza una sua dichiarazione in tal senso. Tutte e tre ex presidenti che rappresentano la gerontocrazia del paese.

E il cambio generazionale?

Lo sperato e inizialmente voluto cambio generazionale non c’è stato. Sullo sfondo, tuttavia, rimane la candidatura di Guillaume Soro – 48 anni – anch’essa, come quella di Gbagbo, presentata in contumacia, visto che vive in Francia per sfuggire a una condanna a 20 anni di carcere comminata da un tribunale ivoriano. Ma le cose potrebbero cambiare. L’ex potenza coloniale, la Francia, è molto preoccupata per il clima di tensione nel paese, che non accenna a diminuire, anzi sta crescendo facendo aleggiare i fantasmi del 2010, quando la crisi postpresidenziali, sfociò in una guerra civile con oltre 3000 morti e una nazione allo stremo. La Costa d’Avorio, negli ultimi dieci anni, è stata relativamente stabile ed è cresciuta costantemente negli anni, salvo la frenata di quest’anno dovuta al coronavirus. Abidjan, inoltre, ha rappresentato un punto stabile al confine di una regione estremamente turbolenta, il Sahel, che non trova pace per l’imperversare delle forze jihadiste dove la Francia, appunto, è impegnata nel contrasto al terrorismo con 5000 uomini, ma che, nonostante la potenza di fuoco, non riesce a venirne a capo.

La Francia occupata su più fronti non vuol perdere la Costa d’Avorio

Il colpo di stato in Mali, ha aggravato ulteriormente lo scenario regionale. Tuttavia, proprio durante le cerimonie per il sessantesimo anniversario dell’indipendenza del paese, il colonnello Assimi Goita, capo della giunta al potere in Mali, ha chiesto ai suoi concittadini di sostenere le forze alleate straniere presenti in Mali, citando in particolare la forza francese Barkhane, le forze di pace Minusma (Onu) e quella europea Tabouka. La presenza in Mali, da sette anni, dei soldati francesi e della missione Onu è stata però oggetto di contestazioni da parte dell’opinione pubblica. È del tutto evidente che per la Francia perdere una base solida e stabile come la Costa d’Avorio sarebbe una sciagura. Paese oltretutto già toccato dal terrorismo e i cui confini con Mali e Burkina Faso sono permeabili al jihadismo.

L’incontro privato parigino

Molti osservatori, proprio per questo, attendevano i risultati della visita di Ouattara a Parigi, visita privata, compreso un incontro con Emmanuelle Macron, che si è rivelato una bomba. Secondo le indiscrezioni riportate da “Jeune Afrique”, il presidente francese – preoccupato per le tensioni socio-politiche provocate dal terzo mandato del presidente ivoriano – durante una colazione di lavoro, il 4 settembre, avrebbe chiesto a Ouattara di “rimandare le elezioni”, ritirare la sua candidatura, così da permettere anche il ritiro di quelle di Bédié e di Gbagbo. Secondo Macron questo scenario potrebbe facilitare l’apertura di un dialogo con i principali oppositori del presidente ivoriano e trovare un successore condiviso per arrivare a “un cambiamento generazionale”, inizialmente promesso. Ouattara, sempre secondo le indiscrezioni di “Jeune Afrique”, avrebbe rifiutato.

Di certo l’intervento di Macron è un’esplicita e diretta – non gradita da molti – interferenza negli affari interni di un paese sovrano. Se la notizia fosse vera – e non c’è da dubitarne vista l’autorevolezza di “Jeune Afrique” – rivoluzionerebbe lo scenario politico ivoriano. Il rifiuto di Ouattara alla proposta di Macron potrebbe essere letto come un volere “prendere tempo” e verificare le intenzioni di Bédié e di Gbagbo, proprio perché non vuole rimanere con il cerino in mano. Oppure in una risposta di facciata più funzionale alla sua immagine interna. E, poi, c’è l’attivismo di Soro, molto popolare sui social in patria e anche in Francia, dove concentra la sua campagna contro la condanna in contumacia in patria, senza la presenza dei suoi avvocati. Da lui ritenuta una condanna politica.

Il pericolo della deriva etnica

E, poi, a distanza di poco più di un mese, arrivano le dichiarazioni del presidente del Fronte popolare ivoriano (Fpi, all’opposizione), Pascal Affi N’Guessan, che ha chiesto il rinvio di tre mesi delle elezioni presidenziali o l’avvio di una fase di transizione di almeno 12 mesi. La richiesta sarebbe stata avanzata in occasione di un incontro con una missione congiunta della Communauté économique des états de l’Afrique de l’Ouest (Cedeao), dell’Union africaine e delle Nazioni Unite. Insomma qualcosa, su questo fronte si muove. Bédié, invece, a tal proposito, non ha detto nulla. L’iniziativa della diplomazia francese, evidentemente, è stata a tutto campo e ha coinvolto, con molta probabilità, tutte le parti coinvolte nell’intricato puzzle ivoriano. La notizia, inoltre, rivela la forte preoccupazione del presidente francese su una possibile degenerazione del clima socio-politico del paese. In particolare la deriva etnica che potrebbe diventare predominante nella campagna elettorale.

Un dibattito in punta di diritto

L’opposizione punta il dito contro il presidente uscente invocando la Costituzione del paese che prevede solo due mandati presidenziali. L’opposizione si aggrappa a questo, ed è comprensibile. Dal canto suo Ouattara e la maggioranza di governo, sostengono che un terzo mandato sia possibile proprio perché la nuova Costituzione del 2016 ha rinnovato l’intera architettura istituzionale del paese e non può quindi essere considerata in continuità con la precedente. La candidatura di Ouattara, sostengono, è legittima; addirittura potrebbe candidarsi per un quarto mandato. Tutti si augurano che la vicenda si risolva in punta di diritto, anche se sembra molto difficile che accada. La confusione politica nel paese è alta, non solo nel partito di maggioranza, ma anche tra i ranghi dell’opposizione. Fragilità istituzionale e politica che si evidenziano guardando, semplicemente, all’età dei candidati forti alla presidenza: Ouattara, 78 anni; Henri Konan Bédié, 86 anni, anch’egli ex presidente e Gbagbo, 75 anni.

Alleanze e strategie incrociate

Il presidente uscente, nel marzo scorso, aveva annunciato la volontà di non ricandidarsi per lasciare «spazio alle nuove generazioni» e successivamente aveva designato il suo primo ministro, Amadou Gon Coulibaly (61 anni), come successore e candidato alle presidenziali. La malattia e la morte del premier, l’8 luglio, hanno rimescolato le carte, gettando nel caos il Rassemblement des Houphouëtistes pour la democratie et la paix (Rhdp), partito di governo. L’unica scelta possibile, a quel punto, era riproporre la candidatura di Ouattara, l’unico in grado di ricompattare il partito, anche dopo la defezione dell’ex ministro degli Esteri, Marcel Amon-Tanoh, ex braccio destro del presidente, che ha deciso di candidarsi e di fondare un suo partito.

La sfida elettorale si giocherà, comunque, tra Ouattara e il suo rivale Henri Konan Bédié, presidente del Parti Démocratique de la Côte d’Ivoire (Pdci), all’opposizione, che ha promesso di istituire “un governo di salute pubblica, aperto a tutte le principali sensibilità politiche” del paese, se verrà eletto alle presidenziali del 31 ottobre. Bédié ha anche definito “illegale” una candidatura di Ouattara per un terzo mandato. Bédié chiede, inoltre, il ritorno nel paese dell’ex presidente Laurent Gbagbo, con il quale ha annunciato di aver raggiunto un accordo per una possibile alleanza elettorale al secondo turno: un’alleanza tra ex presidenti, a cui si unirebbe anche Guillaume Soro – nonostante la condanna a 20 anni non ha rinunciato alla candidatura alle presidenziali, anche se è costretto a vivere all’estero per evitare il carcere – che si è detto d’accordo a fare fronte comune in un eventuale ballottaggio contro Ouattara, per scongiurarne la vittoria.

Cherchez la femme: Simone Gbagbo

Ad accendere la miccia delle proteste, tuttavia, è stata l’ex first lady ivoriana, Simone Gbagbo, rompendo il suo tradizionale silenzio e definendo la candidatura di Ouattara “irricevibile”, sostenendo che un capo di stato «non può dire una cosa e smentirsi immediatamente dopo. Soprattutto di fronte alla nazione. Il rispetto per la propria parola deve essere più che mai osservato in politica». Le proteste, infatti, sono scoppiate proprio a Bonoua, cittadina d’origine dell’ex first lady. Una manifestazione di protesta, che si è tenuta nonostante il divieto imposto dalle autorità, è sfociata in violenze dopo l’intervento delle forze dell’ordine e l’uccisione di un giovane, sembra morto in seguito agli spari della polizia. Il commissariato è stato incendiato, mentre alcuni dimostranti si sono rivoltati contro gli agenti e contro lo stesso commissario. Anche nella capitale economica Abidjan alcuni sostenitori dell’opposizione hanno sfidato il divieto di manifestare. La tensione è cresciuta pure a Daoukro, caposaldo di Bédié. Anche ad Abidjan hanno cominciato a circolare giovani armati di mazze e machete che parrebbero in combutta con la polizia, in particolare nel quartiere di Yopougon.

Simone Gbagbo, inoltre, ha chiesto al presidente Ouattara di riconsiderare la condanna a 20 anni di carcere del marito come gesto di “riappacificazione nazionale”, chiedendo «al capo dello stato di approvare una legge sull’amnistia per rendere nuovamente eleggibile il signor Laurent Gbagbo. Lo invito a rilasciargli un passaporto diplomatico. È una questione di diritto. E lo invito a liberare tutti i prigionieri della crisi postelettorale e a facilitare il ritorno di migliaia di esiliati». Tuttavia, non è ancora chiaro se Gbagbo, che risiede in Belgio, accetterà la richiesta del proprio partito, il Front populaire ivoirien, di tornare in patria dopo essere stato assolto dall’accusa di crimini di guerra dalla Corte penale internazionale lo scorso anno.

Bonoua, inoltre, è sempre stato teatro di proteste. C’è solo da sperare che sia un episodio sporadico e non l’inizio di proteste più diffuse.

Niente colpi di mano…

I fantasmi del passato, infatti, continuano ad aleggiare sulla Costa d’Avorio. Il paese ricorda ancora la crisi del 2010 quando si scatenò una vera e propria guerra civile, ci furono più di 3000 morti. Sono molti gli analisti che non credono che si possa ripresentare uno scenario come quello del 2010, di sicuro ci sarà un inasprimento del clima politico – come già sta avvenendo.

Non ci sono avversari che possano approfittare della fragilità istituzionale e politica per mettere in atto un colpo di mano. Il Front populaire non ha la forza e la capacità di mettere in atto uno scenario di questo tipo. Il partito di Bédié, il Pdci, non ha nel dna questo tipo di soluzione. Nel paese non ci sono soggetti che possano dare una spallata a un’architettura istituzionale seppur fragilizzata. Non si intravedono, inoltre, le condizioni né regionali né internazionali perché uno scenario simile a quello del 2010 si possa ripetere. Una Costa d’Avorio fragile e instabile non è nei piani di nessuno. Basti pensare che – nei mesi precoronavirus – il porto di Abidjan movimentava il 40 per cento delle merci della regione, oltre che la metà della massa monetaria.

Non è un caso, infatti, che la decisione di mettere fine al franco Cfa, la cosiddetta moneta coloniale, sia stata annunciata dal presidente francese, Emmanuel Macron, proprio durante la sua ultima visita ad Abidjan, durante una conferenza stampa congiunta con il capo di stato ivoriano, Ouattara, anche se l’entrata in vigore della moneta unica, Eco, è stata rinviata di almeno cinque anni.

… ma non esiste un mediatore politico

Rimane, e forte, l’incognita etnica. Il rischio è che i falchi, di tutte le parti politiche, facciano leva sullo scontro/confronto etnico e comunitario e questo non sarebbe un bene per il paese. E i segnali che ciò possa accadere ci sono tutti. E le vicende etniche non si risolvono in punta di diritto – come la questione del terzo mandato –, ma attraverso la mediazione politica.

Non c’è, per ora, un soggetto autorevole e sopra le parti che possa condurre questa mediazione. Molto dipenderà dal partito al potere, ma anche dall’opposizione. Non è ancora chiaro se questa riuscirà a trovare una composizione, uscendo anch’essa dalla confusione. L’iniziativa di Macron si inserisce proprio in questo contesto. Una Costa d’Avorio fragile e instabile non è nei piani della Francia.

 

 

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