Miguel Díaz-Canel Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/miguel-diaz-canel/ geopolitica etc Thu, 14 Jul 2022 14:10:09 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 La Cumbre de los pueblos: il non vertice visto dall’interno https://ogzero.org/il-non-vertice-delle-americhe-di-los-angeles/ Sun, 10 Jul 2022 08:44:29 +0000 https://ogzero.org/?p=8170 Diego Battistessa ha partecipato in presenza ai lavori del vertice delle Americhe a Los Angeles, in qualità di Coordinatore regionale per l’America Latina e i Caraibi di Every Woman Treaty. E quindi ci ha potuto dare conto di prima mano dei lavori ufficiali, quelli che hanno dato dimostrazione che il cortile di casa non è […]

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Diego Battistessa ha partecipato in presenza ai lavori del vertice delle Americhe a Los Angeles, in qualità di Coordinatore regionale per l’America Latina e i Caraibi di Every Woman Treaty. E quindi ci ha potuto dare conto di prima mano dei lavori ufficiali, quelli che hanno dato dimostrazione che il cortile di casa non è più considerabile tale a tutti gli effetti, e delle attività parallele del Forum della società civile, rappresentata da quelle ong i cui interessi collidono con le conclusioni antimigratorie formulate dal vertice organizzato malamente da Biden, che come unico intento aveva quello di sancire la chiusura degli Usa (e di conseguenza per imitazione dell’intero Occidente) a qualsiasi forma di immigrazione.


L.A. Cumbre: America non è (solo) Usa

Dal 6 al 10 giugno si è celebrato a Los Angeles (California) il nono Vertice della Americhe. Un incontro regionale che si realizza ogni quattro anni dal 1994 (prima edizione a Miami e unica negli Usa fino a quella del mese scorso) e che riunisce capi di governo, imprese private e delegazioni della società civile del continente americano. L’ultimo vertice di questo genere fu quello di Lima nel 2018 (Trump non aveva partecipato inviando il vicepresidente Mike Pence al suo posto) e questo è stato dunque il primo dell’era Covid-19.

L’amministrazione di Joe Biden non è certamente arrivata all’appuntamento nel migliore dei modi: infatti sia problemi di politica interna (economia, sicurezza e tema migratorio), che l’instabile situazione geopolitica mondiale (guerra in Ucraina) hanno deviato l’attenzione dall’importante vertice continentale abbassandone il “tono”. In quanto anfitrioni, gli Usa hanno dettato le regole e fin da subito hanno fatto sapere che non sarebbero stati invitati i presidenti di Nicaragua, Cuba e Venezuela (Daniel Ortega, Miguel Diaz-Canel e Nicolas Maduro): etichettati dal governo di Biden come regimi antidemocratici dove si violano massivamente e sistematicamente i diritti umani. Una posizione condivisibile o discutibile a seconda dei punti di vista (quella del non invito) che però ha generato un’ondata di protesta regionale che forse  il presidente statunitense non si aspettava. Questa posizione unilaterale e monolitica degli Usa ha infatti portato al rifiuto di partecipare ai lavori del vertice a Los Angeles da parte del presidente del Messico (Andrés Manuel Lopéz Obrador), di quello della Bolivia (Luis Arce) e di quello dell’Honduras (Xiomara Castro). Come se non bastasse neanche Nayib Bukele e Alejandro Giammattei, rispettivamente presidenti del  Salvador e del Guatemala,  sono andati in California perché in aperto conflitto con Biden, mentre il presidente dell’Uruguay, Luis Lacalle Pou, ha dovuto rinunciare al viaggio perché positivo al Covid-19. Insomma, uno scenario tutt’altro che allettante e che ha rischiato di aggravarsi con la minaccia di Jair Bolsonaro (presidente del Brasile) di non partecipare al vertice delle Americhe, se Biden non gli avesse concesso un incontro bilaterale al margine dei lavori dell’evento continentale.

Il presidente Usa ha subito negato questa possibilità e Bolsonaro, in cerca di visibilità per le elezioni presidenziali che si svolgeranno a ottobre  2022 (e che lo vedono in svantaggio nei sondaggi di fronte a Lula) ha quindi palesato il rifiuto al viaggio in California.

Questa situazione di tensione si è manifestata apertamente quando proprio l’8 giugno, con il discorso del presidente Biden al “Microsoft Theater” di Los Angeles si sono aperti ufficialmente i lavori diplomatici del nono vertice delle Americhe Costruire un futuro Sostenibile, Resiliente ed Equo. Il presidente USA ha parlato alla platea di suoi pari accorsi per l’occasione, tra i quali mancava (oltre ai 9 già segnalati in precedenza) proprio il presidente del Brasile. La sera dell’8 giugno però il colpo di scena: Biden viste le numerose assenze (25 presenti su 35 possibili) chiama Bolsonaro, accetta la proposta di riunione bilaterale. E così venerdì 10 giugno, nei discorsi ufficiali di chiusura del nono vertice delle Americhe vediamo apparire un gaudente presidente del Brasile (giunto la sera prima a Los Angeles), che pontifica su futuri accordi e sulle relazioni Usa-Brasile. Un discorso , quello di Bolsonaro, nel quale si fa menzione anche alle ricerche del giornalista britannico Dom Phillips e dell’indigenista Bruno Pereira Araujó, scomparsi il 5 giugno in Amazzonia (verranno poi ritrovati morti il 15 giugno).

Quello con Jair Bolsonaro non è stato però l’unico retroscena di Realpolitik messo in atto da Biden. Non è da meno infatti il gioco di funambolismo che ha legittimato il presidente Usa a inviare una delegazione a parlare con Nicolas Maduro (non riconosciuto ufficialmente dagli Usa come presidente in carica del Venezuela) a pochi giorni dal vertice, per risolvere la questione petrolio viste le sanzioni imposte alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina.
Quindi da un lato il Venezuela non è stato invitato ufficialmente ma dall’altro, proprio in prossimità di questo grande evento continentale, gli Usa negoziavano con il regime di Maduro per esplorare vie di riattivazione di un’industria petrolifera che nel paese sudamericano della rivoluzione bolivariana è ormai ai minimi termini. Ma dov’era Juan Guaidó in tutto questo? Il presidente dell’Assemblea nazionale venezuelana (esautorata da Maduro), riconosciuto da più di 50 stati della comunità internazionale (tra cui gli Usa) come il legittimo presidente del Venezuela, non è stato invitato al nono vertice delle Americhe da Biden. A lui è stata dedicata però una telefonata di circa 8 minuti partita dall’Air Force One proprio mentre Biden stava viaggiando per arrivare a Los Angeles. Il presidente USA ha rinnovato l’appoggio del paese nordamericano a Guaidó, ribadendo la politica di tolleranza zero contro i delitti del regime di Nicolas Maduro e sottolineando che l’Assemblea Nazionale del 2015 è l’ultimo organo eletto democraticamente in Venezuela riconosciuto dagli Stati Uniti d’America.  Guaidó però dunque non ha calcato il red carpet del vertice in quanto ospite “complicato da gestire”, la cui presenza avrebbe potuto appesantire ancora di più la tensione dei lavori a Los Angeles.

Il tema migratorio

Lavori che per l’amministrazione Biden sembra avessero un unico grande scopo. Infatti, al margine delle magniloquenti dichiarazioni dei giorni anteriori al vertice, che parlavano di necessari e urgenti accordi su temi quali stabilità democratica della regione, sicurezza, energie rinnovabili, clima, salute e diritti umani, il tutto si è ridotto al tema migratorio. Si perché se un documento importante è uscito da questo vertice è proprio la “Dichiarazione di Los Angeles” . Un testo che progetta una migrazione coordinata e ordinata, che vuole trovare una soluzione alla crisi migratoria che attraversano gli Usa e che riguarda la maggior parte dei paesi centroamericani: paesi i cui presidenti non erano però presenti al vertice. «Nessun paese dovrebbe assumere da solo il peso dei flussi migratori», ha detto Biden, mentre presentava il testo della dichiarazione di Los Angeles insieme a i suoi pari del continente. «Dobbiamo fermare le dinamiche pericolose e illegali con le quali le persone stanno migrando. La migrazione illegale non è accettabile e metteremo al sicuro i nostri confini», ha poi aggiunto. Mentre risuonavano queste parole nel Centro di Convenzioni nel downtown di Los Angeles arrivava però la notizia di una nuova enorme carovana, circa 7000 persone, composta principalmente da venezuelani, che aveva iniziato la marcia dal Sud del Messico (Chiapas) per arrivare alla sua frontiera settentrionale con gli Usa. Inoltre la dichiarazione di Biden non può non essere letta anche in chiave di politica interna, visto e considerato che proprio la sua amministrazione aveva provato nel maggio scorso a mandare in pensione il Titolo 42. Un articolo che risale al 1944 e che fu reinterpretato da Donald Trump al fine di utilizzare l’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 come vero e proprio scudo per respingere i migranti della frontiera meridionale con il Messico, senza considerare i trattati internazionali vigenti in materia. Una norma che ha portato all’espulsione di milioni di persone alla frontiera tra Messico e Usa e la cui eliminazione costituiva per Biden una battaglia di civiltà. Battaglia però momentaneamente persa, visto che dopo l’annuncio della fine del Titolo 42 i governi repubblicani degli stati dell’Arizona, della Louisiana e del Missouri hanno chiesto a un tribunale federale di fermare la decisione e continuare con il divieto di ingresso per motivi sanitari: richiesta accolta dal giudice Robert Summerhays, del distretto occidentale della Louisiana, che con un ordine dell’ultima ora ha sospeso l’eliminazione del Titolo 42 da parte dell’amministrazione Biden.

Insomma un tema quello migratorio che sembra essere tutt’altro che risolto e che continua a essere materia divisiva tra Repubblicani e Democratici negli Usa. Non va però dimenticato che anche la posizione di Biden rispetto alla migrazione “illegale” è stata fin da subito chiara. Infatti, nello stesso giorno in cui veniva trionfalmente annunciato che sarebbe stato sospeso il Titolo 42, la ormai ex portavoce della Casa Blanca, Jen Psaki, aveva chiarito di avere una posizione tutt’altro che “accogliente” verso i migranti.

«Do not come!» (non venite!): un messaggio che richiama quello della vicepresidentessa Kamala Harris (originaria proprio della California), che aveva detto le stesse parole nel suo primo viaggio internazionale a giugno 2019 in Messico e in Guatemala.

“La Cumbre e gli interessi nel cortile di casa”.

Il flop di Biden e lo scenario latinoamericano

Il nono vertice delle Americhe è stato anche un banco di prova per la compattezza di un nuovo blocco socialista-progressista che ricalca in America Latina quanto successo nei primi anni Duemila con la cosiddetta marea rosa. Il vertice si è infatti celebrato mentre in Colombia, storico alleato Usa nella regione, era in corso una serrata campagna elettorale per il ballottaggio presidenziale celebrato il 19 giugno. Un ballottaggio che vedeva la destra uribista (quella del presidente uscente Duque) fuori dai giochi e che per la prima volta apriva la porta a un governo di sinistra nel paese sudamericano: circostanza confermatasi poi con la storica vittoria di Gustavo Petro sull’outsider Rodolfo Hernánez.


Adesso dunque con l’arrivo di Petro alla presidenza della Colombia possiamo dire che la maggioranza della popolazione dell’America Latina (circa 350 milioni di persone su 630) è governata dalla sinistra giacché diventeranno (Petro si insedierà ad agosto) ben 10 i paesi appartenenti alla sfera socialista / progressista. Qui un breve ripasso:

  • Dal 2007 il presidente del Nicaragua è Daniel Ortega, ex comandante della rivoluzione sandinista che affrontò la dittatura di Somoza;
  • Dal 2013 il presidente del Venezuela è il delfino di Hugo Chvez, Nicolas Maduro;
  • Dal 2018 il presidente di Cuba è Miguel Diaz-Canel che ha preso il timone dell’isola dopo i fratelli Castro;
  • Sempre dal 2018, il presidente del Messico è il socialista Andrés Manuel Lopéz Obrador;
  • Dal 2019 il presidente dell’Argentina è Alberto Fernandez che governa in coppia con Cristina Kirchner;
  • Dal 2020 il presidente della Bolivia e Lusi Arce, ex ministro di Evo Morales;
  • Dal 2021 il presidente del Perù è Pedro Castillo, professore contadino che ha sorpreso tutta la comunità internazionale con la sua vittoria contro Keiko Fujimori.
  • Da gennaio scorso la presidentessa dell’Honduras è Xiomara Castro, ex moglie del presidente Manuel Zelaya deposto da un colpo di stato nel 2009;
  • Da marzo scorso, il presidente del Cile è Gabriel Boric, giovane leader studentesco che ha catalizzato l’onda di protesta arrivando al Palacio de la Moneda;

In un’altra epoca questo avrebbe fatto tremare le pareti della Casa Bianca a Washington ma non oggi, perché possiamo osservare come gli interessi geopolitici e geoeconomici abbiamo sparigliato le carte e creato scenari alquanto particolari. Dentro questo gruppo di paesi di “sinistra” (o autodichiaratisi tali, visto che molti considerano Cuba, Nicaragua Venezuela semplici dittature che usano la maschera del socialismo) esistono “amici” del governo Usa o quantomeno soci d’affari, mentre tra i governi di centrodestra o destra arrivano spesso critiche o “spallate” al vicino nordamericano. Questo nuovo blocco al quale si unisce la Colombia non è però così coeso e sono forti le critiche mosse per esempio contro Venezuela, Nicaragua e Cuba da Gabriel Boric in Cile, che rappresenta una sinistra più giovane e progressista, meno incline a giustificare violenza, soprusi e violazioni massive dei diritti umani (infatti Boric ha partecipato al vertice delle Americhe non allineandosi con Messico, Bolivia e Honduras).

La società civile presente al vertice delle Americhe

L’evento di Los Angeles è iniziato in realtà il 6 giugno con la due giorni del forum della società civile promossa dalla segreteria dell’organizzazione degli Stati Americani (Oea in spagnolo), che ha favorito i tavoli di lavoro e discussione tra le decine di Ong arrivate in California, intorno ai pilastri di questo organismo multilaterale regionale (democrazia, diritti umani, sicurezza e sviluppo) e tematiche oggi cruciali come genere, digitalizzazione, energia pulita e cambio climatico. Numerosi anche gli eventi paralleli che hanno toccano i principali temi dell’agenda che è stata poi discussa dai capi di stato arrivati sulla costa ovest degli Usa.

La zona del downtown di Los Angeles da lunedì 6 giugno ha visto quindi l’arrivo di centinaia di attivisti e attiviste, accademici e accademiche, diplomatici, giornalisti e artisti: come il cubano Yotuel, che ha lanciato nel 2021 (insieme a Gente de Zona, Decemer Bueno, Manuel Osorbo e El Funky) la canzone “Patria y vida” che critica apertamente il governo di Cuba.

Trattato globale per sradicare la violenza contro le donne: Every Woman Treaty

La società civile delle Americhe ha giocato dunque un ruolo importante (con delegazioni anche dei paesi esclusi politicamente dal vertice), presentando petizioni coordinate ai rappresentanti diplomatici degli stati del continente americano su temi cruciali quali sono le sfide del cambio climatico e l’uguaglianza di genere tra gli altri. In questo senso una delle grandi petizioni che ha fatto breccia e che ha trovato l’avvallo e l’appoggio del presidente della Colombia Iván Duque e del segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani, Luis Almagro, riguarda la creazione di un nuovo trattato globale per sradicare la violenza contro donne e bambine. Al vertice infatti ha partecipato anche una delegazione dell’alleanza Every Woman Treaty: una coalizione globale di oltre 1700 attiviste per i diritti delle donne, provenienti da 128 paesi diversi e appoggiate da 840 organizzazioni. Un’alleanza internazionale che lavora dal 2013 per raggiungere uno standard globale vincolante sull’eliminazione della violenza contro donne e bambine e che dopo anni di consultazioni e lavoro di attivismo, nel novembre 2021 ha lanciato una bozza di trattato, che rappresenta un punto di partenza per gli stati per discutere e approvare un nuovo quadro giuridico globale vincolante in materia. L’appello, come detto, è stato raccolto da Iván Duque, che durante il suo discorso di chiusura, venerdì 10, ha dichiarato:

«Oggi voglio fare riferimento alla difesa illimitata dei diritti umani, e in particolare accogliere tutte le voci che chiedono a gran voce che venga adottato questo trattato internazionale per respingere ogni forma di violenza contro le donne e le bambine. Lì si concentra uno dei più grandi drammi della nostra regione…».

Anche Luis Almagro ha sottolineato che

«Abbiamo la responsabilità di promuovere e proteggere i diritti fondamentali delle donne e delle bambine in tutta la loro diversità, il diritto di ogni individuo a essere libero da ogni forma di violenza […] Dobbiamo impegnarci a promuovere urgentemente un nuovo trattato globale autonomo per porre fine alla violenza contro donne e bambine».

Dalle Americhe dunque, in uno scenario di grande simbolismo, queste due importanti voci si uniscono a quelle dei premi Nobel per la Pace Jody WilliamsShirin Ebadi e Tawakkol Karman, a quella della ex relatrice speciale dell’Onu per la violenza contro le donne Rashida Manjoo e dei presidenti della Repubblica democratica del Congo, Félix Tshisekedi, e della Nigeria, Muhammadu Buhari. Un movimento globale e plurale che chiama a una azione urgente per arrestare la violenza contro donne e bambine, una violenza che UN Women chiama “shadow pandemic” (pandemia nell’ombra) e che l’Oms cataloga come “devastantemente generalizzata”. Basti pensare che i dati dell’Onu dicono che una donna su tre nel mondo soffre violenza e che solo nel 2020, ben 81.000 donne e bambine sono state assassinate: una ogni 6 minuti e mezzo.

Proteste e attività parallele in Latinoamerica

Ovviamente non sono però mancate le proteste. Da un lato proprio di fronte al centro di convenzioni di Los Angeles, molte persone hanno manifestato contro la politica migratoria degli Usa e contro le difficoltà per ottenere i permessi di residenza nel paese nordamericano. Dall’altro alcune delegazioni della società civile dei paesi esclusi dal vertice hanno voluto far sentire il loro dissenso denunciando le politiche imperialiste degli Usa al suono di canzoni simbolo come Latinoamerica

e This is not America (il videoclip di quest’ultima canzone ha vinto un premio a Cannes 2022).

Importante inoltre segnalare che mentre si svolgevano i lavori delle delegazioni politiche e delle Ong ufficialmente accreditate per partecipare al nono vertice delle Americhe, sempre a Los Angeles è stato lanciato un vertice parallelo, sotto il nome di Vertice dei popoli per la Democrazia. Un evento critico con il “vertice dell’esclusione” di Joe Biden (così chiamato dai partitari dei governi di Cuba, Venezuela e Nicaragua). Rispetto a questo, Manolo de los Santos, rappresentante dell’Assemblea Internazionale dei Popoli (Aip), ha dichiarato a Telesur che

«in realtà, non vediamo il vertice dei popoli per la democrazia solo come un vertice opposto, ma come il vero vertice a cui parteciperanno gli esclusi, che non sono solo Cuba, Venezuela e Nicaragua, ma che sono anche i milioni di persone che all’interno degli Stati Uniti d’America non hanno il diritto di partecipare ai processi politici in atto».

 

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Gli spartiacque delle comunità latinoamericane – 1 https://ogzero.org/gli-spartiacque-delle-comunita-latinoamericane-1/ Thu, 30 Dec 2021 17:22:22 +0000 https://ogzero.org/?p=5695 L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano. L’idea di usare i molti appuntamenti elettorali del 2021, in prosecuzione nel 2022, per incardinare in un unico flusso i rivolgimenti elettorali a consuntivo dell’anno che sta finendo e in continuità nella prospettiva […]

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L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano.

L’idea di usare i molti appuntamenti elettorali del 2021, in prosecuzione nel 2022, per incardinare in un unico flusso i rivolgimenti elettorali a consuntivo dell’anno che sta finendo e in continuità nella prospettiva dell’anno che verrà, è sorta dalla consueta attenta osservazione di Diego Battistessa sui fenomeni che avvengono nel continente. Abbiamo punteggiato questo rapido excursus individuando le tappe più significative con podcast sugli aspetti che lungo l’anno ci avevano incuriositi e che confermano le scelte di Diego per proporre un’analisi posta anche in dialettica con una parallela esposizione del punto di vista di Alfredo Somoza, focalizzata sull’individuazione delle due sinistre latinoamericane: quella populista-autoritaria e quella trasparente, popolare perché nata dalle pulsioni all’emancipazione dei popoli – anche e soprattutto latinos – e dai Movimenti di rivolta al neoliberismo, che sono al centro della critica all’involuzione del Capitalismo compresa in Siamo già oltre?


Il 2021 elettorale in America Latina e nei Caraibi:
un ritorno della regione a quale sinistra?

Con la vittoria di Gabriel Boric Font le elezioni presidenziali in Cile, la cui seconda tornata elettorale si è svolta il 19 dicembre scorso, chiudono un anno elettorale turbolento nella regione. Cerchiamo di fare il punto di quanto successo e di ciò che ci aspetta per il 2022 prossimo venturo.

L’anno che si sta per concludere è iniziato con un primo importante appuntamento con le elezioni presidenziali in Ecuador, celebratesi il 7 febbraio. L’uscente Lenin Moreno godeva del più basso consenso regionale e i suoi anni di governo si erano caratterizzati per un duro scontro con colui che fu il suo padrino politico: Rafael Correa (ex presidente ecuadoregno 2007-2017). A disputarsi la presidenza del paese andino sono stati il banchiere e imprenditore Guillermo Lasso, il leader indigeno Yaku Pérez e l’economista Andrés Arauz, nuovo delfino di Correa, la cui condanna per corruzione gli ha impedito di candidarsi alla vicepresidenza. La prima tornata elettorale, nella quale si votava anche per il parlamento, ha visto la vittoria schiacciante di Arauz che però non ha superato il 50 per cento dei consensi e ha dovuto quindi affrontare il ballottaggio con Guillermo Lasso: arrivato secondo dopo un polemico testa a testa con Yaku Pérez. L’11 aprile la votazione finale ha ribaltato i pronostici e ha dato la vittoria al banchiere conservatore Lasso, in un voto che si è concentrato principalmente sul correismo o anticorreismo, polarizzando il contesto politico e sociale.

Nel Salvador le elezioni legislative e municipali del 28 febbraio hanno visto la schiacciante vittoria del partito Nuevas Ideas, facente capo al presidente in carica, Nayib Bukele.

Alfredo Somoza ce ne fece un ritratto, mentre i salvadoregni si ribellavano al presidente populista

Ottenendo 56 seggi su 84 in gioco nel Congresso e 152 consigli municipali su 262, Bukele si è assicurato il totale potere politico nel paese centroamericano. Le azioni che hanno seguito a questo nuevo accentramento dei poteri dello stato hanno provocato però duri scontri interni e la critica della comunità internazionale nei confronti del “presidente millenial” del Salvador.

Alfredo Somoza evidenzia le radici comuni di Bukele e Ortega in quell’altra sinistra latinoamericana, riprendendo i fili della insurrezione della popolazione salvadoregna impoverita dal populismo
“Corsi e ricorsi nella storia del Mesoamerica”.

 


La sinistra paternalista delle Ande

Il 7 marzo nella Bolivia del presidente Luis Alberto Arce Catacora, si è votato per le elezioni subnazionali nelle quali la popolazione veniva chiamata a votare per i 9 dipartimenti che compongono lo stato plurinazionale della Bolivia e 336 comuni. Il Mas (Movimiento al Socialismo), partito dell’attuale presidente – e dell’ex presidente Evo Morales –, ha ottenuto la vittoria solo in 3 dipartimenti (Cochabamba, Oruro e Potosí) ma si è affermato in più di due terzi dei comuni: ben 240.

In aprile la scena politica regionale viene accaparrata dal Perù dove, dopo anni di terremoto sociale e politico, si cerca di ritornare a una normalità democratica. Tra i numerosi candidati che si presentano alla sfida presidenziale, sono due persone che rappresentano poli opposti che arrivano al ballottaggio. Si tratta di Keiko Fujimori (figlia dell’ex presidente Alberto Fujimori) del partito di destra Fuerza Popular e del candidato Pedro Castillo, un “signor nessuno” membro del partito di sinistra Perú Libre. Poi il 6 giugno nonostante la dura campagna mediatica contro Castillo, maestro elementare delle zone rurali, portata avanti da Keiko e dai settori conservatori del paese, la sinistra vince. Il Perù rimane con il fiato sospeso perché il risultato ufficiale tarda ad arrivare. Giorni di tensione, ricorsi, frustrazione fino al 19 di luglio, quando finalmente anche Keiko Fujimori si deve arrendere e riconoscere Pedro Castillo come nuovo presidente eletto del Perù.

Del tema dell’estrattivismo peruviano avevamo parlato con Matteo Tortone

 

 

Sempre nel mese di aprile (il 19) il Partito Comunista di Cuba – Pcc conferma il presidente Miguel Díaz-Canel come primo segretario, segnano la fine di un’epoca. Il 16 dello stesso mese infatti, Raúl Castro (89 anni) si era dimesso dalla carica del partito per dare spazio a una nuova generazione di rivoluzionari che potessero portare avanti lo spirito del castrismo. L’isola, ancora sotto embargo, è però oggi scossa dalle proteste di numerosi Artivisti che lottano per ottenere libertà di espressione e contro la repressione politica e sociale del partito unico.


La sinistra costituente spinta dai Movimenti popolari

Aprile avrebbe dovuto essere inoltre il mese storico per le votazioni che in Cile dovevano portare il popolo a scegliere i membri dell’Assemblea costituente ma per l’emergenza Covid-19 il processo elettorale è stato spostato al 15 e 16 maggio. Nella stessa data si sono svolte inoltre le elezioni municipali e quelle dei governatori regionali, previste inizialmente per il 20 ottobre 2020 e rimandate per ben 4 volte. Il risultato è stato un plebiscito per le eterogenee forze politiche della sinistra che hanno ottenuto più di due terzi dei seggi dell’Assemblea e risultati storici come la vittoria della giovane comunista Irací Hassler: eletta sindaco della capitale Santiago.

 Anche in questo caso possiamo affidare al commento di Alfredo Somoza il compiacimento per la svolta cilena:
“Chile despertó y entierra Pinochet”.

Giugno ci porta alle elezioni federali e statali in Messico dove Morena, il partito dell’attuale presidente Andrés Manuel Lopez Obrador (Amlo) ha mantenuto il controllo del Congresso (grazie alle alleanze), perdendo però la maggioranza assoluta. L’obiettivo di Amlo di ottenere una maggioranza qualificata insieme al Pt e al Partito dei Verdi si è vista dunque frustrata chiudendo le porte alle riforme costituzionali che erano l’obiettivo di Morena per i prossimi tre anni di presidenza.

A luglio si è tornato a votare in Cile per le primarie presidenziali e per la prima volta è apparso il nome di Boric, ma soprattutto la regione è stata sconvolta da ciò che succede a Haiti. Nella notte tra 6 e 7 luglio, un commando di 28 persone prende d’assalto la residenza del presidente Jovenel Moïse nel quartiere Pelerin, a Pourt-au-Prince, la capitale del paese. Sette uomini armati entrano nella casa sparando 16 colpi al presidente e ferendo anche sua moglie (che si è finta morta per sopravvivere all’attacco). Il magnicidio fa piombare il paese ancora più nel caos e scopre trame e interessi internazionali che intrecciano Colombia, Ecuador, Usa e il piccolo paese caraibico. Le elezioni presidenziali previste per novembre sono state spostate a data da destinarsi e nel frattempo Ariel Henry, membro del partito Inite (centro sinistra) funge da presidente provvisorio.

Diego Battistessa proprio a luglio commentava così la deriva haitiana:

 


La sinistra populista, dinastica e totalitaria

Il 12 di settembre in Argentina più di 34 milioni di persone sono state chiamate a votare alle primarie aperte simultanee e obbligatorie (Paso) per definire le liste dei candidati che si sarebbero sfidati a novembre per rinnovare metà della Camera dei deputati (127 dei 257 seggi) e più di un terzo del Senato (24 dei 54 seggi). In questo contesto l’opposizione è riuscita ad assestare un duro colpo al partito del presidente Alberto Fernández, vincendo nella provincia di Buenos Aires, principale roccaforte della coalizione di governo, Frente de Todos. La tendenza delle Paso è stata poi confermata nelle elezioni del 14 novembre dove la coalizione dell’opposizione Juntos por el Cambio ha vinto in 13 province, includendo i cinque distretti più popolosi del paese: la provincia di Buenos Aires, la Città Autonoma di Buenos Aires, Córdoba, Santa Fe e Mendoza. In generale, al livello nazionale l’opposizione è riuscita a staccare di ben 9 punti percentuali la colazione di governo, ottenendo quasi il 42% dei voti contro il 33% del Kirchnerismo.

Nel frattempo però, a ottobre si sono tenute le elezioni municipali nei 261 distretti territoriali del Paraguay: elezioni che erano previste per il 2020 ma che causa coronavirus furono rimandate. Il risultato più importante (e anche il più discusso) è stata la rielezione di Óscar Rodríguez, membro del partito di governo (Partido colorado) nella capitale Asunción, nonostante gli scandali di corruzione che lo hanno visto protagonista.

 

Il  7 novembre ci sono state inoltre le elezioni “farsa” in Nicaragua che hanno dato ancora una volta una vittoria “schiacciante” a Daniel Ortega e alla vicepresidente (sua moglie) Rosario Murillo. Dietro questo apparente plebiscito (con dati di astensionismo che si aggirano intorno all’80%) ci sono infatti molteplici violazioni dei diritti umani: una repressione senza precedenti, l’incarcerazione arbitraria (iniziata a maggio 2021) di 39 persone identificate dal regime come opposizione, tra queste sette aspiranti alla presidenza.

Diego Battistessa ci aveva già fatto a luglio un parallelo tra due situazioni di quell’altra sinistra simile a quello descritto da Alfredo Somoza tra Bukele e Ortega, questa volta la incredibile dinastia nicaraguense era posta a confronto con l’eredità castrista

“Las revoluciones desencantadas y socavadas”.

Il 21 dello stesso mese si è tornato a votare in Venezuela, in una votazione dove l’opposizione, anche se ancora frammentata, ha deciso di partecipare (prima volta dal 2018). Il Partito Socialista Unito del Venezuela – Psuv (partito di governo) ha vinto 20 dei 23 governi locali in ballo. All’opposizione invece la vittoria negli stati di Cojedes, Nueva Esparta e Zulia. Ancora una volta queste votazioni hanno suscitato non poche polemiche, anche per le irregolarità registrate dalla delegazione degli osservatori elettorali dell’UE presente sul territorio fin dal 14 ottobre e tornata in Venezuela dopo 15 anni di assenza. I delegati dell’UE sono stati chiamati spie e nemici del popolo venezuelano dallo stesso Maduro, che come se non bastasse, ha invalidato la vittoria del candidato dell’opposizione Freddy Superlano nello stato di Barinas. Qui infatti Superlano, della Mud (Mesa de la Unidad Democrática) ha affrontato sconfiggendolo, il fratello del defunto Hugo Chávez, ovvero Agernis Chávez. Barinas però è anche lo stato che ha dato i natali a Chávez ed è dunque un simbolo trascendentale per la rivoluzione bolivariana. In questo senso, accogliendo il diktat di Maduro, il Tribunal Supremo de Justicia (Tsj) ha informato a fine novembre che le elezioni a Barinas sono state invalidate e che si ripeteranno il 9 gennaio 2022: Superlano non potrà partecipare visto che su di lui esiste un processo amministrativo che gli impedisce di ricoprire cariche pubbliche.


Novembre ha visto poi la prima tornata elettorale delle presidenziali cilene che ha determinato la definizione del ballottaggio tra Boric e Kast, con il quale abbiamo iniziato questo veloce excursus, ma anche le storiche elezioni in Honduras: elezioni che hanno portato alla vittoria della leader di centrosinistra Xiomara Castro. Con una partecipazione del 70% degli aventi diritto, il paese centroamericano ha messo fine a 12 anni di neoliberismo (iniziato dopo il colpo di stato del 2009), dando la presidenza a una donna e sancendo la vittoria dei movimenti sociali e delle organizzazioni che si battono per la difesa dei territori e dei beni comuni.

Su queste due elezioni avevamo fatto il punto con Davide Matrone:

“Cile e Honduras: motivi sociali per confrontare responsi elettorali”.

Il mese si è concluso con un altro avvenimento epocale, ovvero la cerimonia attraverso la quale una giurista, Sandra Mason, è diventata la prima presidente della recente nata Repubblica delle Barbados. La cerimonia attraverso la quale l’isola caraibica ha cambiato il suo status da Monarchia Costituzionale (sotto il Regno di Elisabetta II) a Repubblica è avvenuta il 30 novembre. Un passaggio di consegne che ha coinciso con il 55esimo anniversario dell’indipendenza dell’isola caraibica, avvenuta nel 1966 ma che fino a fine novembre aveva continuato a essere legata alla Corona inglese.

Cosa ci aspetta nel 2022?

Se il 2021 è stato “senza tregua”, anche il 2022 ha davvero molto da offrire in termini di elezioni e processi elettorali.

Come già detto il calendario elettorale vedrà nuovamente a gennaio le elezioni nello stato di Barinas in Venezuela dove, senza troppa immaginazione, verrà dichiarato governatore Agernis Chávez. Il 6 febbraio si sposterà in Costa Rica per le elezioni legislative e presidenziali con una eventuale seconda tornata elettorale prevista per il 3 aprile. Ancora da definire poi le date delle elezioni “comarcali” a Panama ma soprattutto quelle del plebiscito nazionale in Cile per l’approvazione della nuova Costituzione. Inoltre il 2 ottobre si tornerà ancora una volta a votare in Perù per le elezioni regionali e municipali, sempre e quando le azioni di “spodestamento” di Pedro Castillo da parte dell’opposizioni non vadano a buon fine e non aprano la strada a nuovi e incerti scenari politici.

I due appuntamenti salienti però riguardano Colombia e Brasile dove due visioni diverse di società e di mondo si daranno battaglia per la presidenza.

In Colombia quest’anno siamo andati molte volte dapprima, a febbraio, con Ana Cristina Vargas, che poi è intervenuta in voce descrivendo l’insurrezione antiuribista di maggio:

e poi ci ha accompagnato anche Tullio Togni nei suoi vari interventi dal territorio, a giugno e dicembre
“Differenti protagonisti della rivolta colombiana. La necropolitica uribista”.

In Colombia, paese segnato da un processo di Pace che non decolla, da una disuguaglianza sociale in aumento e da interminabili casi di corruzione, violenza e impunità; l’Uribismo (movimento ideologico conservatore che segue la linea del’ex presidente Alvaro Uribe Vélez) dovrà cercare di frenare la sinistra in aumento di consenso. Il presidente uscente, l’uribista Ivan Duque, è stato indicato come il principale colpevole del fallimento degli accordi di Pace siglati da Juan Manuel Santos con le Farc e le proteste iniziate il 28 aprile 2021 hanno sancito la frattura definitiva con il popolo. La credibilità di Duque e la sua popolarità hanno subito dei duri colpi, anche a livello internazionale per i report delle ong e anche dell’Onu, sulle violazioni dei diritti umani perpetrate dagli squadroni antisommossa (Esmad) durante le proteste. In questo senso neanche i successi militari come la cattura del narcotrafficante Otoniel sono serviti a ridare smalto alla figura di Duque che milita nel partito Centro democratico, fondato da Uribe nel 2013.  Dall’altro lato la lista dei precandidati presidenziali continua ad ampliarsi favorendo una frammentazione del voto: a sinistra spicca il senatore Gustavo Petro che proverà per la terza volta a diventare presidente. Le elezioni si svolgeranno il 29 di maggio (prima tornata) con il ballottaggio previsto per il 19 giugno. Prima di quella data ci sarà un altro appuntamento elettorale che servirà per avere il polso della situazione, ovvero le elezioni legislative del 13 marzo.


In Brasile la situazione non solo è complessa ma è anche molto tesa. L’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, una volta superati i “problemi giudiziari” non ha nascosto la volontà di candidarsi per le presidenziali che si svolgeranno in prima istanza il 2 ottobre, con il ballottaggio previsto per il 30 ottobre. Da un lato la sua popolarità è in crescita e dall’altro Jair Bolsonaro, l’attuale presidente cerca di correre ai ripari dopo anni di politiche aggressive, escludenti e negazioniste nei confronti del Covid-19 e dei relativi vaccini. La popolarità di Bolsonaro non gode di buona salute ma nel frattempo il 30 novembre scorso lo stesso Bolsonaro si è affiliato al Partido liberal (destra), pensando a una ricandidatura per il periodo 2022- 2026.

Altre figure di rilievo nel paese hanno annunciato la loro volontà di candidarsi e tra queste spicca sicuramente il nome di Sergio Moro. Moro infatti a novembre scorso si è affiliato al partito di centro Podemos, in vista della partecipazione alle elezioni del 2022, presentandosi come una terza via per il Brasile. La possibile candidatura a presidente di questo ex giudice di 49 anni ha sollevato però non poche polemiche visto che proprio lui aveva diretto in modo non imparziale la mega operazione anticorruzione conosciuta come “Lava Jato” che aveva portato alla carcerazione di Lula. La non imparzialità di Moro, sostenuta a più riprese da molte voci della sinistra brasiliana, è stata sancita in modo definitivo dalla Seconda sezione della Corte suprema del Brasile, che ha dichiarato martedì 23 marzo 2021 che l’ex giudice non ha agito con “imparzialità” in uno dei processi contro l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, le cui sentenze erano già state annullate in precedenza.

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