migranti Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/migranti/ geopolitica etc Thu, 03 Feb 2022 07:53:44 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 n. 17 – Francia e Gran Bretagna: tra i due litiganti, il migrante muore https://ogzero.org/francia-e-gran-bretagna-tra-i-due-litiganti-il-migrante-muore/ Sun, 30 Jan 2022 18:08:12 +0000 https://ogzero.org/?p=6031 Prosegue la serie dedicata alle rotte dei migranti a cura di Fabiana Triburgo. Questo saggio evidenzia la natura fluida dei percorsi delle persone in movimento ed esamina una delle diramazioni battute, il Canale della Manica, dopo che hanno percorso le rotte principalmente attraversate, in arrivo da lontano, su una rete che si dipanerà sotto i […]

L'articolo n. 17 – Francia e Gran Bretagna: tra i due litiganti, il migrante muore proviene da OGzero.

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Prosegue la serie dedicata alle rotte dei migranti a cura di Fabiana Triburgo. Questo saggio evidenzia la natura fluida dei percorsi delle persone in movimento ed esamina una delle diramazioni battute, il Canale della Manica, dopo che hanno percorso le rotte principalmente attraversate, in arrivo da lontano, su una rete che si dipanerà sotto i nostri occhi e che dimostra quanto le politiche europee siano miopi rispetto ai meccanismi innescati da blocchi e respingimenti, e quanto siano pesanti le conseguenze, soprattutto tenendo conto – come sottolinea l’autrice – che questi eventi non si registrano nell’ambito di rapporti bilaterali tra una potenza occidentale europea e un paese terzo nel quale non viene di fatto assicurato il rispetto dei diritti fondamentali della persona, come la Libia o la Turchia, ma tra due potenze internazionali quali Francia e Gran Bretagna che da secoli si ergono a paladine della tutela dei diritti della persona, principio che hanno posto oltretutto come uno dei pilastri fondanti dei propri sistemi costituzionali.


La rotta migratoria, avente quale punto di partenza alcune città della Francia settentrionale, quali – per citare le più rilevanti – le aree intorno alla città di Calais, Boulogne e Dunkerque e come punto di arrivo la città di Dover nel Regno Unito è caratterizzata dalla presenza del canale della Manica che si frappone tra le località francesi e quella inglese che distano circa 40 chilometri tra loro o – se si considera la tratta marittima – circa 20 miglia. La rotta quindi se può essere indubbiamente definita “breve”, allo stesso tempo deve essere considerata altamente mortifera, non solo nell’ipotesi in cui venga percorsa mediante l’attraversamento marittimo, a causa delle forti correnti che contraddistinguono il canale della Manica, ma anche nel caso in cui i migranti optino per la percorrenza della via terrestre attraverso l’Eurotunnel. Molti infatti sono i migranti rimasti uccisi nel corso degli ultimi trent’anni nel tratto di autostrada che unisce Francia e Gran Bretagna, sia per asfissia nei tir, nei quali erano nascosti, sia per essere stati investiti dagli automobilisti nel disperato tentativo di chiedere un passaggio fino alla Gran Bretagna (come si legge su questo approfondimento di InfoMigrants).

È necessario pertanto soffermarsi su tale fenomeno per il dato – di non poco rilievo – secondo il quale lo scorso anno sono stati circa 28.000 i migranti arrivati nel Regno Unito percorrendo tale rotta, con un altrettanto elevato numero di dispersi al quale è doveroso aggiungere quello delle persone decedute durante l’attraversamento del canale.

Francia e Gran Breatagna

I resti di un naufragio nelle acque della Manica (fonte Notizie.it).

Francia e Gran Bretagna: la difesa di quali diritti?

Gli sbarchi nel solo 2021 sono triplicati rispetto all’anno precedente e pertanto occorre analizzare le ragioni sottese a tale mutamento. Ciò su cui occorre preliminarmente riflettere, con riferimento alla questione migratoria, è che in tale rotta – come vedremo – gli accordi, i milioni spesi per i finanziamenti per la “gestione” dei flussi migratori, i controlli alle frontiere, le violentissime repressioni perpetrate dalle forze di polizia e i respingimenti non si registrano nell’ambito di rapporti bilaterali tra una potenza occidentale europea e un paese terzo nel quale non viene di fatto assicurato il rispetto dei diritti fondamentali della persona, come la Libia o la Turchia, ma tra due potenze internazionali quali Francia e Gran Bretagna che da secoli si ergono a paladine della tutela dei diritti della persona, principio che hanno posto oltretutto come uno dei pilastri fondanti dei propri sistemi costituzionali.

La rotta per di più – è bene ricordarlo – non è da annoverarsi tra quelle di recente determinazione: essa nasce intorno agli anni ’90, più specificatamente durante la guerra nell’ex Jugoslavia.

Fino al 2015 Calais, la città francese contraddistinta ancora oggi da un basso tasso demografico e da un’alta percentuale di povertà tra i residenti, era l’unica città nella quale stazionava la quasi totalità dei migranti – centinaia ogni anno – che tentavano di raggiungere il Regno Unito e che venivano chiamati dalla popolazione locale “i kosovari”. Erano i tempi della cosiddetta Jungle di Calais, nella quale i migranti, stipati prevalentemente nei containers o nelle tende, “beneficiavano” comunque dell’accoglienza francese in attesa di compiere il tanto agognato viaggio verso la Gran Bretagna. Tra il 2015 e il 2016 la situazione cambiò repentinamente per cui, in esito allo scoppio della guerra in Siria e con la crescente instabilità politica di alcuni paesi del Medio Oriente e in ragione del peggioramento di alcuni scenari legati a perduranti conflitti in Africa, i migranti a Calais raggiunsero le oltre 10.000 unità. Per dirla secondo le parole del noto regista cinematografico e scrittore francese Emmanuel Carrère, autore del libro A Calais, uscito a seguito del reportage che realizzò recandosi personalmente nella cittadina francese nel 2016, la popolazione locale si preoccupò per l’ingente arrivo di quelli che definivano i “siberiani” – ossia, per dirlo in modo corretto, i siriani. Non è difficile immaginare la reazione di ostilità della popolazione locale rispetto a tale aumento dei migranti nella città che già versava in uno stato di sofferenza per la situazione economica e che– è giusto il caso di dirlo visto il richiamo a Carrère “come da copione”, cominciò a manifestare comportamenti fortemente razzisti e xenofobi, percependo l’aumento della presenza dei migranti come simbolo di un ormai precipitato dramma sociale locale.

 

È questo il periodo in cui la Jungle cominciò a essere smantellata attraverso gli sgombri violenti dei migranti da parte dei CRS, gli agenti antisommossa francesi, mediante la distruzione dei containers e delle tende (come riportato anche dai quotidiani italiani e da Amnesty International).

Vi è da questo momento in poi infatti una svolta tragica di questa rotta che finora non si è mai arrestata e rispetto alla quale si rimanda al recente rapporto di Human Rights Watch che analizza le condizioni in cui versano i migranti che stazionano nel nord della Francia e i trattamenti disumani ai quali sono sottoposti.

La Manica, la rotta secondaria

Gli agenti della polizia francese cominciarono dunque in questo periodo a impegnarsi costantemente nella distruzione degli accampamenti informali dei migranti, nella confisca delle tende, in retate notturne che li costringono ancora oggi a scappare più volte all’alba con le tende “sotto braccio”, al lancio di gas lacrimogeni e al disboscamento delle aree intorno a Dunkerque per impedire ai migranti di nascondersi, sottoponendoli così a una tortura psicologica assimilabile a quella già analizzata nell’articolo relativo alla rotta balcanica. Non è casuale tale richiamo poiché la rotta della Manica si contraddistingue per un altro aspetto ovverosia quello di essere una “rotta secondaria”. Infatti, prima di giungere nel Nord della Francia – essendo difficilmente la Francia un paese di primo arrivo – i migranti hanno già percorso altre rotte, prevalentemente quella del Mediterraneo centrale – recentemente analizzata su questo sito – e appunto quella balcanica, per cui arrivano in territorio francese in esito a viaggi estenuanti protratti per molti mesi, se non per anni, e molto tempo dopo aver lasciato il proprio paese di origine. In particolare, se la Francia, come visto, nel 2016 cominciò lo smantellamento dei campi governativi a Calais, dall’altra parte la Gran Bretagna nel 2018 – stanziando circa 2,7 milioni di euro – ha concluso la costruzione di un muro di cemento alto 4 metri e lungo 1 chilometro in prossimità dell’autostrada che unisce i due paesi (si occupò dell’argomento l’Atlante delle Guerre).

Francia e Gran Bretagna

Demolizione della Jungle di Calais nell’ottobre 2016 (foto Edward Crawford / Shutterstock).

Il Trattato di Le Touquet: durata illimitata

Come si registrò in molti altri paesi europei gli accordi per il contenimento dei flussi proliferarono dal 2015 e ciò avvenne anche per la corrente migratoria lungo la Manica ma in questo caso la sottoscrizione di un atto internazionale tra il paese di partenza, comunemente la Francia, e quello di arrivo, la Gran Bretagna, fu siglato già nel 2003 con il Trattato di Le Touquet (il testo, qui), a oggi ancora in vigore.

Prima di analizzare il trattato e gli effetti che su di esso ha avuto l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea mediante la Brexit, entrata in vigore il primo gennaio del 2021, è naturale interrogarsi su quale sia la ragione per la quale i migranti presenti in questa rotta, a oggi prevalentemente curdi iracheni, sudanesi ed eritrei, decidano in modo ostinato di rimanere sulle coste del Nord della Francia per giungere nel Regno Unito. I migranti invero prediligono tale destinazione poiché lì si trovano i familiari di precedenti generazioni a loro volta emigrate diversi anni fa: questo avviene soprattutto nel caso di migranti minori stranieri non accompagnati provenienti da paesi di origine interessati da conflitti di vecchia data. In altri casi la ragione è da rinvenirsi nel fatto che il migrante che risiede stabilmente in Gran Bretagna non ha comunque il reddito sufficiente per avanzare la domanda di ricongiungimento familiare, per cui l’unico modo per raggiungere il familiare è quello di tentare l’impresa lungo la Manica. Inoltre, non è da sottovalutare la conoscenza della lingua inglese che i migranti che transitano in tale rotta possiedono più di quella francese e infine la maggiore coesione tra i gruppi etnici nel Regno Unito rispetto alla Francia.

Il Trattato di Le Toquet del 4 febbraio 2003 tra Francia e Gran Bretagna costituisce la base normativa in conformità della quale sono state istituite strutture nazionali di controllo delle frontiere comuni ai due paesi nei porti marittimi della Manica e nel Mare del Nord destinate al transito delle persone oltre a quello dei veicoli e delle merci. Sono stati autorizzati pertanto gli agenti di polizia dei rispettivi paesi a svolgere le proprie funzioni in modo reciproco, ossia non solo nel territorio di propria appartenenza, ma anche sul territorio dell’altro stato. Il trattato è a favore prevalentemente del Regno Unito: più specificatamente con riferimento ai flussi migratori le norme dello stato di arrivo – principalmente la Gran Bretagna – relative ai controlli di frontiera, sono applicabili oltre che nel proprio territorio anche nelle zone di controllo di frontiera dell’altro stato. Ne discende che le violazioni delle medesime norme, pur se rilevate nel paese di partenza, vengono sanzionate ai sensi della legge dello stato di arrivo come se fossero commesse su tale territorio. È chiaro dunque che lo scopo del Trattato è quello di scoraggiare le partenze verso la Gran Bretagna. Oggetto delle verifiche effettuate da parte dello stato di arrivo nelle zone di frontiera istituite in Francia è la sussistenza, relativamente alle persone che vi transitano, delle condizioni e del rispetto degli obblighi previsti dallo stato di arrivo per il controllo delle frontiere. Gli agenti dello stato di arrivo infatti possono arrestare, trattenere e interrogare le persone che transitano nelle zone comuni debitamente preposte nello stato di partenza, prevalentemente la Francia, per effettuare controlli sull’immigrazione o nell’ipotesi in cui vi siano fondati motivi per ritenere che il migrante abbia violato una norma relativa ai controlli di frontiera.

La gestione del controllo

Nessun individuo tuttavia può essere trattenuto in tale aeree di controllo per un periodo superiore alle 24 ore prorogabile solo eccezionalmente per ulteriori 24. Tutti i controlli alla frontiera da parte dello stato di partenza normalmente devono essere effettuati sempre prima di quelli dello stato di arrivo. Per quanto attiene alla domanda di asilo o di altra forma di protezione internazionale il trattato stabilisce che, qualora venga presentata nel corso dei controlli effettuati dallo stato di arrivo ma nei luoghi di controllo delle frontiere dello stato di partenza, dovrà essere esaminata comunque dalle autorità di quest’ultimo, al quale oltretutto viene attribuita la responsabilità dell’allestimento delle strutture, degli alloggi di servizio e delle attrezzature per l’attuazione delle zone di controllo. Infine, è necessario sottolineare che il presente Trattato ha una durata illimitata con la facoltà per ciascuna delle parti di recedervi con notifica scritta all’altra parte in qualsiasi momento: in tal caso gli effetti del recesso decorreranno due anni dopo dalla data della notifica.

Dal 2021 con l’entrata in vigore del Brexit, in seguito al referendum del 2016 – a sua volta diretta conseguenza del referendum consultivo della Scozia del 2014 relativamente all’indipendenza dal Regno Unito – la maggiore preoccupazione del governo francese è che la dogana relativa all’attraversamento della Manica ritorni esclusivamente in territorio inglese lasciandolo da solo nella gestione dei controlli dei migranti presenti nel Nord del paese.

Allo stesso tempo la Gran Bretagna però, essendo uscita dall’Unione europea, non può più ricorrere al Regolamento Dublino (n. 604 del 2013). Il Regolamento – che come già detto fissa i criteri di individuazione dello stato membro competente a trattare le domande di protezione internazionale – è, secondo la gerarchia delle fonti (qui informazioni sull’ordinamento giuridico), norma di rango superiore rispetto alla legge interna di ratifica di un trattato internazionale, per cui fino al primo gennaio del 2021 le norme del Regolamento Dublino prevalevano su quelle del Trattato di Le Touquet, in special modo in merito alle richieste d’asilo. Sulla base di ciò la Gran Bretagna spesso ricorreva al Regolamento Dublino per rimandare indietro i migranti in Francia in virtù del presupposto che questi, prima di arrivare nel Regno Unito, avessero transitato sul territorio di un altro stato membro, ossia quello francese. Per questo motivo, sulla base del Trattato di Le Touquet, il Regno Unito nel 2021 una volta uscito dall’Unione ha promesso circa 62 milioni di euro alla Francia per il controllo dei flussi migratori lungo la Manica che tuttavia alla del fine 2021 non risultavano ancora versati. Quindi ad ottobre dello scorso anno il ministro degli Interni francese Darmanin ha invitato il Regno Unito a stanziare i fondi promessi e a negoziare con l’UE un trattato sull’immigrazione, appello che non ha avuto alcun seguito da ambo le parti (come si legge qui).

Infatti con la Brexit, oltre a essere aumentato notevolmente il costo del viaggio per i migranti, si sono inaspriti i rapporti tra i due paesi che si sono accusati reciprocamente: per quanto riguarda Il Regno Unito di non adempiere ai controlli dovuti e per quanto riguarda la Francia di procedere con i respingimenti senza valutare nel merito le domande d’asilo.

Fonte: Ispi.

Asilo impossibile

A peggiorare tale situazione è intervenuto il Sovereign Borders Bill, la proposta di legge sulla cittadinanza e sul diritto d’asilo nel Regno Unito, in conseguenza della Brexit, presentata dal ministro degli Interni britannico Priti Patel a luglio del 2021 dopo la concessione da parte di Westminster, nel novembre del 2020, di poteri legislativi eccezionalmente ampi al ministro degli Interni. Secondo tale proposta non solo l’ingresso nel territorio del Regno Unito – sprovvisti di documenti – integrerebbe una fattispecie di reato punita con la reclusione da 6 mesi a 4 anni, ma è previsto il maggior conferimento di poteri alla polizia di frontiera che potrà bloccare i migranti in mare e forzare i respingimenti – intensificando proprio quelli verso la Francia, qualora i migranti arrivino con barconi provenienti dalla Manica, nonché il rimpatrio per chi più genericamente arriva nel Regno Unito  transitando per paesi definiti “sicuri”. A tutto ciò va aggiunta la previsione del confinamento per i richiedenti asilo sprovvisti di documenti di ingresso nel Regno Unito su isole lontanissime come Ascension Island, a ben 6000 miglia da Londra o su piattaforme petrolifere fuori uso, in attesa che si decida in merito alla loro domanda d’asilo o sul loro respingimento. È chiaro quindi che se tale proposta di riforma venisse approvata dal Parlamento inglese diverrebbe quasi impossibile presentare la domanda d’asilo nel Regno Unito. Inoltre, la ministra degli Interni paradossalmente figlia di immigrati ma autrice di questo agghiacciante quadro normativo, si è spinta oltre prevedendo altresì la possibilità di creare centri di detenzione – sul modello australiano – in Papa Nuova Guinea, Marocco o Moldavia, ipotesi fortunatamente respinta dal ministro degli Esteri poiché ritenuta eccessivamente onerosa. Ciò che risulta oltremodo allarmante in ogni caso, anche se non stupisce particolarmente, è che tali politiche – pur essendo la Gran Bretagna uscita dall’Unione Europea – siano perfettamente in linea con quelle esplicitate nel nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo proposto della Commissione europea e con quelle di buona parte degli stati membri: in particolare vale la pena citare la Danimarca che, come noto, recentemente ha approvato una nuova legge che le consente di trattare le domande d’asilo fuori dal territorio dell’Unione (un approfondimento qui).

Benvenuti al Nord

Si arriva dunque al drammatico naufragio del 24 novembre 2021 che ha avuto un’eco internazionale (qui il report di Ispi) non soltanto per il numero dei migranti morti nella traversata nella Manica, 27 per la precisione con tre superstiti – tra le vittime sette donne, un adolescente e un bambino di sette anni – ma per le modalità del naufragio, essendo stati ritrovati i migranti a bordo di una piscina gonfiabile distrutta (dopo la lungimirante decisione di Decathlon, probabilmente su pressione del governo francese, di non vendere più le proprie canoe ai migranti) e per il comportamento probabilmente adottato dalle autorità di Francia e Gran Bretagna anche in questa circostanza come in passato che – quando contattate dai migranti nel Canale – hanno portato avanti un ridicolo e deplorevole teatrino di rimpallo di responsabilità.

Una volta arrivati al punto di non ritorno ossia alla strage di vite umane hanno dunque messo in atto la solita pantomima di cordoglio per quanto accaduto senza mancare anche in questa circostanza di sottolineare le responsabilità dell’altro stato. Francia e Gran Bretagna sono state prontamente richiamate per iscritto dal commissario del Consiglio d’Europa Mijatovic ma anche questo non ha impedito loro di continuare a battibeccare sulla questione migratoria.

Per cui dalle dichiarazioni sconcertanti del ministro degli Interni francese che ha sostenuto – rispetto a quanti hanno lamentato la presenza immobile dei soccorritori francesi mentre i migranti naufragavano – che i funzionari francesi in quel momento erano minacciati dagli stessi migranti di lanciare i bambini in mare se li avessero riportati indietro, si arriva alla “seria” comunicazione diplomatica su Twitter (?!) di rimprovero del presidente Boris Johnson – attualmente del tutto in panne a livello politico – rivolta al presidente Macron in merito all’accaduto.

Grazie a tale lettera “istituzionale” è stato ritirato dalla Francia l’invito alla ministra Patel al vertice con le istituzioni europee organizzato con alcuni paesi membri quali Belgio, Olanda e Germania per affrontare la questione dei flussi migratori nel canale della Manica e nel corso del quale c’è stata un’evidente sensibilizzazione sul tema, dato che è stata raggiunta la proposta “rivoluzionaria” di mandare quotidianamente dal 1 dicembre un aereo di Frontex a pattugliare giorno e notte il canale!

Inoltre, Londra a quel punto ha cercato e ottenuto un’intesa con il Belgio con il quale a fine novembre 2021 ha siglato un accordo di cooperazione con riferimento ai flussi migratori.

Quindi pur distaccandosi la Gran Bretagna dall’Unione ha portato comunque con sé la peggiore delle eredità delle sue politiche e qualora Westminster approvi il famigerato Bill di luglio si porrà in una posizione xenofoba in materia alla pari di alcuni dei paesi membri dell’UE appartenenti al gruppo di Visegrad. E la Francia? Purtroppo, nonostante i suoi ancestrali principi di libertà, fraternità, e uguaglianza difficilmente taglierà qualsiasi rapporto diplomatico con il Regno Unito per via della questione migratoria, rappresentando questo l’unico modo per controbilanciare nell’UE la posizione della Germania divenuta ancora maggiormente “ingombrante” dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea.

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n. 16 – Rotta del Mediterraneo centrale: lo sbocco marino delle piste libiche https://ogzero.org/il-mediterraneo-centrale-la-rotta-delle-piste-libiche/ Wed, 22 Dec 2021 23:02:41 +0000 https://ogzero.org/?p=5605 Il Mediterraneo centrale è il palcoscenico che maggiormente è stato emblematico del fenomeno migratorio per l’Europa. Fabiana Triburgo prende spunto per occuparsi di Libia dalla evanescenza della data delle elezioni fissate un anno fa al 24 dicembre destinata a venire disattesa, poiché non è in agenda delle potenze locali, né per Mosca, né per Ankara […]

L'articolo n. 16 – Rotta del Mediterraneo centrale: lo sbocco marino delle piste libiche proviene da OGzero.

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Il Mediterraneo centrale è il palcoscenico che maggiormente è stato emblematico del fenomeno migratorio per l’Europa.

Fabiana Triburgo prende spunto per occuparsi di Libia dalla evanescenza della data delle elezioni fissate un anno fa al 24 dicembre destinata a venire disattesa, poiché non è in agenda delle potenze locali, né per Mosca, né per Ankara che occupano militarmente il territorio. Ma la situazione viene dipanata nel suo articolo cercando di cogliere le pieghe giuridiche che potranno impostare rapporti con la futura entità istituzionale libica, se mai ci potrà essere; e dunque anche dalla sua esperienza personale si analizzano i meccanismi geopolitici alla base di questa rotta aperta con il crollo del regime di Gheddafi.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


La costa dell’insieme di regioni composite chiamato Libia

Nell’imminenza del rinvio delle elezioni previste in Libia – se e quando riusciranno a tenersi – sembra inevitabile chiedersi se (quando si formeranno i nuovi assetti istituzionali) saranno in grado di fare emergere figure con le quali l’Unione europea e in particolare l’Italia saranno in grado di improntare rapporti diplomatici diversi rispetto alla questione migratoria, svincolati dai concetti di invasione e di sicurezza di cui ormai sembra intrisa tutta la narrazione della politica estera dei paesi europei, gli stessi che hanno disegnato a forza confini reali solo nell’immaginario occidentale.

L’area libica: risorse, campi, infrastrutture, pozzi, etnie

Protagonisti in campo

Necessario tra tutti un superamento di patti, intese e accordi bilaterali, finora strumenti per mezzo dei quali si è realizzato un sistema aberrante nel quale in un’ottica di contenimento dei flussi migratori gli individui vengono utilizzati come merce di scambio per la soddisfazione degli interessi economici, in Libia principalmente legati all’estrazione del greggio.

Turchia, Russia, Cina

Molteplici sono infatti gli attori regionali e internazionali in gioco in questa porzione di area del mondo chiamata Mediterraneo centrale nella quale tutti i “partecipanti” vogliono ritagliarsi un ruolo: dalla Turchia che cerca di affermare la proiezione del proprio espansionismo geopolitico in queste acque, poiché ostili risultano quelle dell’ Egeo – blindate dagli accordi internazionali – che pongono la Grecia in una posizione di sovranità marittima nella quale difficilmente riesce a dimenarsi; alla Russia che cerca di recuperare in quest’area una contropartita per contrastare l’avanzamento delle forze Nato verso quella “nuova Cortina di ferro” rispetto alla quale gli stati-cuscinetto (Ucraina e Bielorussia) destano maggiori preoccupazioni che l’inserirsi di paesi baltici, Polonia e Romania; alla Cina che tenta di crearsi uno sbocco commerciale rilevante attraverso “le nuove vie della seta”.

Stati Uniti, Unione europea

Ancora: gli Stati Uniti che si sono ben resi conto di essersi disinteressati troppo a lungo di questa porzione di mare, chiamata non semplicemente Mediterraneo centrale, ma Medio Oceano. Infatti è posto nel mezzo tra Pacifico e Atlantico nei quali gli Stati Uniti hanno molto da perdere se continua ad affermarsi la posizione di Cina e Russia – ossia dei loro antagonisti per antonomasia – facendo stridere quell’immagine di baluardo di potenza egemone indiscussa sul piano militare e geopolitico alla quale gli Usa tengono molto.

Sono inoltre da non sottovalutare anche le potenze europee, prime tra tutte Italia e Francia, che a causa degli interessi confliggenti legati alle compagnie petrolifere Eni e Total hanno impedito la determinazione di una politica estera comune dell’Unione nel conflitto libico per molto tempo.

Potenze regionali: Tunisia, Algeria

Occorre infine citare le potenze regionali quali Tunisia e Algeria che al momento sono in una tensione diplomatica senza precedenti e che hanno risentito molto della prossimità geografica rispetto alla Libia.

Già, perché è proprio la Libia a rappresentare la sintesi di questo caleidoscopio marittimo di strategie e di tattiche regionali e non, ma di queste – già analizzate in parte negli approfondimenti precedenti relativi ai paesi del Nordafrica – quello che interessa in questo articolo è la questione giuridica al fine di comprendere con serietà come si sia arrivati a questa tragedia migratoria e soprattutto cosa si possa fare in concreto per cambiare queste dinamiche politiche malate.

Riflettori improvvisati spenti sui morti di Guerre ibridate

La questione non ha necessità di essere trattata perché fa tendenza come sta avvenendo negli ultimi mesi per la crisi migratoria al confine polacco/bielorusso o lungo la rotta balcanica, anche perché in questa logica come abbiamo visto per la situazione in Afghanistan i riflettori si spengono velocemente, ma perché invece questi scenari sono gravemente mortiferi: si parla di individui deceduti ogni giorno in mare e in terra (più specificatamente nel deserto del Sahara, nel caso di questa rotta) a causa di politiche assurde.

 

Si ricorda che nella prima parte del 2021 circa 1146 persone sono morte nel mar Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa, un numero molto più elevato di quello registrato nei due anni precedenti.

Libia 2011

Intorno al 2011 in prossimità della caduta del regime di Gheddafi quello che mi sorprendeva durante gli ascolti legali dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana, transitati in Libia prima di arrivare in Italia, era il fatto che si trovassero in questo paese del Nordafrica da molti anni e in conseguenza del conflitto libico avevano dovuto lasciare un impiego stabile in Libia – spesso nell’edilizia – che fino a quel momento gli aveva consentito di condurre una vita dignitosa e di mantenere il proprio nucleo familiare. La Libia per molto tempo aveva rappresentato per i profughi provenienti principalmente dall’Africa subsahariana e dal Corno d’Africa una sorta di vicino Eldorado nel quale avevano trovato “rifugio” rispetto alle situazioni di conflitto o di instabilità nel proprio paese di origine.

Quindi molti di loro erano in realtà migranti forzati anche se apparentemente economici poiché avevano da tempo un lavoro in Libia ma non avevano potuto beneficiare dello status di rifugiato in quanto la Libia non è firmataria della Convenzione di Ginevra.

Protezione per i migranti sostenitori  di Gheddafi

Va precisato che Gheddafi aprì, durante la ribellione, le carceri nelle quali erano stati rinchiusi i passeur e offrì loro denaro per fare arrivare i migranti in Europa, considerata – non a torto – responsabile del capovolgimento della dittatura. Le ragioni di tutto questo vanno ricercate nelle radici storiche della politica panafricana di Gheddafi che dalla fine degli anni Novanta fino ai primi anni 2000 aveva creato un paese di accoglienza, aprendo le frontiere principalmente a chi proveniva dal resto del continente, in quanto l’offerta di mano d’opera straniera era molto elevata nel paese grazie soprattutto alla presenza di giacimenti petroliferi e anche perché i cittadini libici potevano contare su stipendi pubblici. Tra i migranti che arrivavano in Libia solo una parte più esigua proseguiva il proprio viaggio verso l’Italia.

La “formidabile” idea di cambiare questa politica di integrazione arrivò al dittatore libico soprattutto grazie al trattato di amicizia Gheddafi-Berlusconi del 2008 quando si registrò un “picco di arrivi” nel nostro Paese, ossia circa 37.000 migranti. L’Italia berlusconiana ha la colpa di aver fatto da apripista alla logica delle politiche di esternalizzazione: in quel caso la cooperazione, oltre al miraggio di avere un canale privilegiato al petrolio legittimato dalle ancestrali quanto disastrose radici coloniali che legano Tripoli a Roma, ebbe come snodo centrale la necessità che il governo libico respingesse verso le coste i migranti che tentavano di attraversare il Mediterraneo centrale.

Cadaveri sulle coste libiche (fonte Adif, 2018)

Così alla stregua della legge Bossi-Fini ossia la n. 94 del 2009, la Libia nel 2010 approvò una legge che criminalizzava l’immigrazione clandestina prevedendo la detenzione per tale reato.

È importante scrivere ciò perché è proprio sulla base di questi accordi che si cominciarono a creare i centri detentivi libici, quei famigerati Lager che oggi rappresentano il simbolo più crudele di quanto l’essere umano possa macchiarsi di comportamenti atroci. Anche in questo caso vennero trasferiti fondi alla dittatura libica (5 miliardi di dollari in venti anni come risarcimento per gli orrori del colonialismo), insieme a quattro motovedette italiane per il pattugliamento delle coste libiche in collaborazione con la Guardia costiera italiana nei respingimenti collettivi dei migranti vietati, come già detto, secondo l’art. 4 del Protocollo n. 4 della Cedu. Così nel 2010 gli arrivi in Italia calarono del 90 per cento.

I respingimenti sono a priori illegali

Questa attività deplorevole come noto andò avanti per anni fino a che intervenne la cosiddetta sentenza Hirsi Jamaa e altri contro Italia. Con tale sentenza l’Italia venne condannata nel 2012 dalla Corte di Strasburgo per essersi resa responsabile del respingimento collettivo di alcuni migranti nel 2009: in quella circostanza i migranti intercettati dal personale delle imbarcazioni italiane vennero trasferiti su queste per essere riportati in Libia e consegnati alle autorità libiche.

Ecco, forse quello era il momento di fermarsi ma non è stato così vedendo cosa è accaduto qualche anno dopo, a parte la breve parentesi dell’operazione Mare Nostrum, con il Memorandum d’intesa Italia-Libia del febbraio del 2 febbraio 2017 – che richiama nel testo proprio il precedente trattato di amicizia italo-libico firmato a Bengasi nel 2008 – redatto su iniziativa dell’ex ministro dell’Interno Minniti e siglato dall’allora primo ministro Gentiloni e dal presidente libico al-Serraj, all’epoca a capo del governo di Unità nazionale sostenuto dall’Italia e, ironia della sorte, dalle Nazioni Unite.

Il problema era questo: come si potevano respingere i migranti senza essere responsabili legalmente in modo da non essere condannati di nuovo? Semplice, delegando il “lavoro sporco”, ossia i respingimenti collettivi, direttamente ai libici previo pagamento, e ovviamente sempre nel perseguimento di fini umanitari (!?) per contrastare “il traffico di esseri umani” e garantire “la riduzione dei flussi migratori illegali”, addestrando la guardia costiera libica e fornendole armamenti e di nuovo motovedette italiane.

Vacanza governativa: accordi capestro e respingimenti illegali

Non essendoci più un governo unitario in Libia al momento dell’accordo del 2017 la sedicente guardia costiera libica era soltanto espressione di una delle tante milizie armate presenti nel paese e capeggiata oltretutto da un ricercato dal Tribunale penale Internazionale, tale Bija (nome d’arte o meglio di guerra) sulla cui vicenda si richiama il lavoro eccellente svolto dal giornalista di “Avvenire” Nello Scavo autore di un’attività giornalistica di inchiesta che è riuscita a far luce su questioni completamente nascoste all’opinione pubblica italiana.

Secondo Idos nei primi mesi del 2021 la guardia costiera libica ha intercettato in mare 11.891 migranti riportandoli indietro sulle spiagge libiche e sottoponendoli – secondo Amnesty International – a sparizioni, detenzioni arbitrarie indefinite in luoghi ufficiali e non, a torture, a lavoro forzato ed estorsione, nonché a violenza sessuale. Soffermiamoci dunque sull’aspetto legale perché è sempre da lì che si deve partire per non portare avanti discussioni fini a sé stesse: l’accordo del 2017 è un accordo da considerarsi illegittimo.

La Open Arms lascia il porto di Barcellona diretta in Libia (2018, foto Marco Pachiega / Shutterstock)

Gli accordi internazionali, come già sottolineato nell’articolo giuridico sulla rotta balcanica di questa serie con riferimento al discusso accordo posto alla base delle riammissioni della Slovenia dall’Italia, devono essere presentati dal governo al parlamento italiano e approvati da parte di quest’ultimo tramite legge di ratifica ai sensi dell’art. 80 della Costituzione. A chi contesta che il memorandum del 2017 non si debba annoverare tra quelli previsti dall’articolo 80 basta leggerne il contenuto per rendersi conto che esso soddisfa già prima facie tutti i parametri definiti dal medesimo articolo che chiarisce la necessità di ratifica da parte delle Camere dei trattati di natura politica che “importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di legge”. È noto infatti che all’accordo del 2017 seguì la definizione di una zona SAR libica rispetto ad acque che prima erano definite internazionali e nelle quali quindi l’Italia era chiamata al soccorso e che sono stati stanziati milioni di euro dall’Italia alla Libia per finalizzare questo accordo influendo sul bilancio dello stato e che con questo sistema sono state violate indirettamente diverse normative. In particolare è opportuno citare l’art.10 della Costituzione italiana, la Convenzione di Ginevra e più specificatamente il principio contenuto all’art. 33 della Convenzione ossia il principio del non refoulement, le norme sul soccorso in mare, nonché quelle stabilite dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo. Inutile poi dire che la Libia, paese non sicuro dove stupri e torture sono sistemiche, non è firmataria della maggior parte delle Convenzioni internazionali, tra le quali come detto quella di Ginevra, quindi la garanzia della presenza di Organizzazioni Internazionali in questo accordo è irrilevante e le pone in una posizione di ambiguità. Rispetto ai respingimenti si segnala la recente sentenza emessa dalla VI sezione della Corte di Cassazione n. 12/2021. Qualche mese dopo la firma dell’accordo inoltre l’ex ministro Minniti negoziava un codice di condotta con le ong che prestavano soccorso in mare che provocava il rallentamento delle operazioni di soccorso.

Palesi violazioni

Giunti a questo punto appare necessario richiamare alcuni degli strumenti giuridici impiegati per contrastare tali politiche. In primo luogo, occorre menzionare, oltre alla Missione d’inchiesta delle Nazioni Unite sulla Libia, per la violazione del diritto internazionale e dei diritti umani, il caso della nave Asso 29 che si affianca alla recente condanna del Tribunale di Napoli nei confronti del comandante della nave Asso 28 per aver ricondotto in Libia centinaia di persone soccorse in mare: entrambe le navi sono appartenenti all’Augusta Off-Shore uno spedizioniere marittimo con sede a Napoli.

Il 13 ottobre il Tribunale di Napoli ha condannato il comandante di una nave privata, la Asso 28 della compagnia Augusta Offshore, per aver ricondotto in Libia oltre cento persone soccorse in mare.

Rispetto a tale vicenda risalente al 2018 cinque cittadini eritrei hanno presentato ricorso al Tribunale di Roma – ivi ancora pendente – chiamando in giudizio oltre alla nave Asso 29 – in servizio presso una piattaforma petrolifera di una società partecipata di Eni – anche lo stato italiano più specificatamente il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Mediante il ricorso, partendo dal caso specifico, viene ben delineato come si determina in concreto questo sistema dei respingimenti collettivi verso le coste libiche ossia attraverso l’attività di intercettazione dei migranti da parte della cosiddetta guardia costiera libica. Ciò che desta maggiore preoccupazione tuttavia è che la regia di questo sistema provenga dall’Unità centrale di soccorso di Roma, organo dipendente a sua volta dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti italiano e che nell’intercettazione dei migranti siano coinvolte delle navi legate a compagnie petrolifere.

Inutile dire quanto sia complicato l’accesso ad atti che potrebbero essere utili per la ricostruzione dei fatti avendo lo stato italiano posto su essi il segreto per motivi di sicurezza perché riguardanti operazioni militari o di politica estera, la cui rivelazione potrebbe essere pregiudizievole per le relazioni interazionali con Malta e con la Libia.

Inoltre, va ricordato tra gli strumenti giuridici l’esposto presentato da diverse associazioni – tra cui Arci – per l’accertamento delle responsabilità del naufragio del 22 aprile del 2021 nel quale sono morte 130 persone nel Mediterraneo centrale.

Come dunque si è arrivati a tutto ciò? È importante preliminarmente sottolineare che l’accordo del 2017 viene rinnovato tacitamente ogni tre anni come stabilito nello stesso testo, come è avvenuto nel 2020, e che il 15 luglio di quest’anno è stato rinnovato il rifinanziamento della guardia costiera libica con 361 voti a favore, 34 contrari e 22 astenuti.

Scarico di responsabilità

Un risultato agghiacciante essendo tutti ormai a conoscenza di quanto avviene nei centri detentivi libici grazie al denaro italiano ed europeo. L’unica modifica che si è riusciti ad approvare a luglio di quest’anno è che dal 2022 la missione in Libia dovrebbe passare sotto la diretta responsabilità dell’Unione Europea. Ciò, anche se appare come un modo per lavarsene le mani – finché ancora si può –, ha un senso dato che tutto è iniziato dagli accordi della Valletta del 2015 e dall’Agenda Europea dello stesso anno in occasione della quale l’Unione si è concentrata sul ruolo strategico dei paesi terzi-con i quali poi ha stretto accordi sul rafforzamento delle frontiere dell’Unione e fuori dall’Unione – vedi Frontex – nonché sulla necessità di aumentare il numero dei rimpatri. In seguito, si è aggiunto l’ormai noto accordo Ue-Turchia del 2016, all’indomani del quale le milizie libiche si sono adoperate per mostrare la capacità di imprigionare i profughi, speranzose di ottenere anche loro un lauto riconoscimento economico per il loro “lavoro” come la creazione del nuovo Centro di detenzione libico di Tarik Al Sikka.

La campagna #notonourborderwatch lanciata dal Consiglio Olandese per i Rifugiati, BKB, Sea-Watch Legal Aid Fund, Jungle Minds e Prakken D’Oliveira Human Rights Lawyers, sostenuta dall’ASGI assieme ad altre ONG di tutta Europa

Detto fatto: è stato stanziato denaro dall’UE attraverso il fondo Africa – circa 140 milioni di euro – che solo in minima parte ha sovvenzionato i progetti di cooperazione allo sviluppo (5 %) poiché destinato prevalentemente al controllo e alla gestione delle frontiere per opera dei paesi terzi (61 %).

Tuttavia, anche relativamente a tale Fondo, la questione è stata riportata puntualmente sul piano giuridico per cui sia Arci che Asgi nel 2020 hanno presentato un esposto alla procura presso la Corte dei Conti europea.

Il ruolo del Niger

Sempre per comprendere come le norme siano in grado di cambiare le rotte migratorie occorre ricordare il ruolo fondamentale del Niger nel mutamento della rotta terrestre per arrivare in Libia al fine di attraversare il Mediterraneo centrale. Il Niger infatti è stato uno dei primi paesi beneficiari di un altro fondo, il Fondo Fiduciario europeo di emergenza per L’Africa, avendo presentato all’Unione già nel 2015 un piano d’azione per attrarre gli investimenti europei. All’epoca il paese, uno dei più poveri al mondo, si trovava in piena campagna elettorale all’esito della quale nel 2016 era stato rieletto Mahamadou Issoufou (presidente del Niger in carica dal 2011 al 2021) importante interlocutore per l’Unione rispetto ai flussi migratori verso le sponde del Mediterraneo centrale, nel momento in cui la Libia non solo non aveva più un unico leader ma oltretutto si trovava in una situazione di conflitto civile con presenze regionali e internazionali a complicare lo scenario. Va precisato che in seguito ai conflitti etnici civili in Niger negli anni Novanta e negli anni Duemila si tentò il reinserimento dei tuareg nella società nigerina e più nello specifico nell’apparato militare. Un’altra parte di loro, tuttavia, cominciò a svolgere – con il bene placido delle autorità nigerine – l’attività di passeur attraverso il deserto del Sahara del quale sono i principali conoscitori.

Nella maggior parte dei colloqui legali i migranti provenienti dall’Africa subsahariana riferivano di essere giunti in Libia passando attraverso il Niger in particolare per Agadez attraversando il deserto a bordo di pick-up nei quali venivano stipate decine di persone con due tre corse al giorno.

Tuttavia in Niger sulla base di tali concertazioni con i paesi dell’Ue, con la legge 2015/36 è stato introdotto per la prima volta nell’ordinamento giuridico nigerino il reato di attraversamento irregolare delle frontiere (Relative au trafic illicite de migrants) che entrò in vigore solo all’inizio del 2016 con la rielezione di Issoufou: da quel momento vennero arrestati gli ex combattenti tuareg che prima agevolavano il transito dei migranti e dei quali vennero confiscati anche i mezzi di trasporto. In seguito alla criminalizzazione di tale attività i dati del flusso dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana e diretti dal Niger alla Libia dal 2017 al 2019 si riducevano dunque in modo drastico.

Profughi iniziano il loro viaggio nel Deserto del Sahara dalla città di Agadez in Niger per giungere in Libia fe poi in Europa (2019, Catay / Shutterstock)

In conseguenza di tale norma, solo tra il 2016 e il 2017, l’Oim ha registrato una diminuzione dei flussi in uscita dal Niger equivalente a meno del 70% rispetto al 2015. Quindi il blocco dei migranti in Niger, in prossimità di Agadez e Seguedine, e quello determinato con il memorandum italo-libico del 2017 hanno spinto i migranti subsahariani a optare negli ultimi anni per altre rotte marittime ossia principalmente attraversando l’Atlantico per raggiungere le isole Canarie, rotta della quale si è già ampiamente discusso nella parte precedente di questo saggio. I dati ufficiali del Ministero dell’Interno rivelano che nel 2020, le persone sbarcate dopo aver attraversato il Mediterraneo centrale provenivano principalmente dalla Tunisia, tanto che nello stesso anno l’attuale Ministro degli Esteri ha dichiarato – constatando un aumento dei flussi migratori in tale area – che se la Tunisia non avesse bloccato le partenze avrebbe tagliato i fondi della cooperazione stanziati a favore del paese nordafricano.

La professionalizzazione dei trafficanti in Libia e Niger

La gravità di tali politiche sta nel fatto che anche in Libia, così come in Niger, prima del 2017 vi era un rapporto di reciproca consensualità tra il migrante e i passeurs mentre oggi questi sono divenuti tutti trafficanti di professione. Quindi il paradosso è che gli ufficiali della guardia costiera libica che sulla base del Memorandum avrebbero dovuto combattere il traffico dei migranti sono divenuti loro stessi trafficanti. Inoltre, nelle maglie di un sistema sprovvisto di un governo stabile e unitario da più di dieci anni, quale quello libico, si è inserita la criminalità organizzata di Sudan e Nigeria personalmente riscontrata nei colloqui legali tenuti con le donne vittime di tratta detenute e abusate in Libia nelle Connection Houses simbolo della mafia nigeriana che tra l’altro propaga i suoi effetti fino in Italia attraverso i canali della prostituzione.

Tutto ciò finora esposto lascia intendere quanto sia pericoloso continuare con tali tipi di politiche il cui intento è apparso indiscusso con il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, sul quale ci soffermeremo in seguito, solo dopo aver analizzato le soluzioni emergenziali e – come tali limitate – che si stanno strutturando nel mentre della sua approvazione, ossia i corridoi umanitari e le molteplici attività di soccorso dei migranti per opera della società civile, spesso sottoposte a procedimenti penali.

L'articolo n. 16 – Rotta del Mediterraneo centrale: lo sbocco marino delle piste libiche proviene da OGzero.

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I contorni geopolitici della crisi polacco-bielorussa https://ogzero.org/nuova-fase-di-squilibrio-in-europa/ Sun, 05 Dec 2021 15:40:59 +0000 https://ogzero.org/?p=5526 Mentre i media mainstream hanno già distolto lo sguardo dal confine polacco-bielorusso, i problemi aperti (che in buona parte sono ancora lì!) dall’ammassamento di migliaia di migranti provenienti da diverse regioni dell’Asia in cerca di approdo in Germania restano squadernati e rimandano alla nuova fase di squilibrio in Europa apertasi ai confini della Russia, prima […]

L'articolo I contorni geopolitici della crisi polacco-bielorussa proviene da OGzero.

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Mentre i media mainstream hanno già distolto lo sguardo dal confine polacco-bielorusso, i problemi aperti (che in buona parte sono ancora lì!) dall’ammassamento di migliaia di migranti provenienti da diverse regioni dell’Asia in cerca di approdo in Germania restano squadernati e rimandano alla nuova fase di squilibrio in Europa apertasi ai confini della Russia, prima con la guerra nel Donbass nel 2014 e poi con le manifestazioni antiregime in Bielorussia nell’estate del 2020.


Il menu dei telegiornali russi di queste ultime settimane rappresentano, da questo punto di vista, l’altra faccia della propaganda polacca della “guerra ibrida” che sarebbe stata scatenata da Alexander Lukashenko (con il pieno sostegno di Putin) ai confini occidentali della Bielorussia.

I programmi d’informazione della Federazione, va da sé, continuano a battere quasi su un solo tasto: esiste un tentativo di aggressione e di isolamento della Russia che usa tutti gli strumenti di intimidazione. La portavoce del ministero degli Esteri russo Marya Zacharova, per sottolineare questo aspetto ha persino fatto un po’ di pubblicità a la Repubblica definendo una “deliziosa sciocchezza” un articolo di Maurizio Molinari intitolato senza troppe metafore Carri armati e migranti: la morsa di Putin sull’Europa. Secondo Zacharova, nel valutare la situazione al confine tra Russia e Ucraina, Molinari si concentra solo sulle “fobie americane” senza impegnarsi nel fact-checking. Non ci vuole un gran impegno per mettere in luce le rozzezze geopolitiche del direttore de la Repubblica e così la diplomatica russa ha spiegato che «non c’è nessuna base», non ci sono «basi militari in Russia», ma «c’è solo un dispiegamento di unità delle forze armate russe sul suo territorio nazionale», che «è strettamente il nostro diritto sovrano, non viola i requisiti degli obblighi internazionali e si riferisce, come piace dire alla Nato tra gli altri, alle “attività di routine”». D’altro canto, il governo russo, vestiti i panni improbabili dei difensori dei diritti dei  migranti e tolta dalla naftalina dell’era sovietica la retorica antimperialista ha “consigliato” la UE «di cercare le vere cause della crisi migratoria […] vecchie dichiarazioni dei leader della coalizione anti-irachena e anti-Libia, i capi di stato e di governo di quei paesi hanno stimolato la Primavera Araba e si sono impegnati  a destabilizzare per 20 anni l’Afghanistan».

Bruxelles e Varsavia: benzina sul fuoco

La Bielorussia, ormai legatasi mani e piedi alla Russia, ha forse cinicamente cercato – facendo atterrare a Minsk grazie a compagnie aeree bielorusse compiacenti migliaia di improbabili turisti afgani e iracheni come ha voluto sottolineare Igor Stankevich sul portale di “Open Democracy” – di buttare altra benzina sul fuoco dei già difficili rapporti tra Bruxelles e Varsavia ma l’operazione, alla fine dei conti, non sembra riuscita. Se la Bielorussia ha deliberatamente deciso di portare i rifugiati dal Medio Oriente in Europa per imporre di riaprire i cieli del Vecchio Continente alla Belavia (la compagnia aerea di stato bielorussa che sta subendo gigantesche perdite per le sanzioni), l’operazione è fallita.

Su questo terreno non c’era possibilità di trattativa o di scambio ed è strano che Lukashenko abbia potuto illudersi.

E come sempre… il North Stream 2 è centrale

Angela Merkel – ancora per ora cancelliera in attesa che si formi il nuovo gabinetto tedesco – ha tentato in tutti i modi di disinnescare la crisi dichiarandosi perfino disponibile ad assorbire, in diversi municipi tedeschi che si erano detti disponibili all’accoglienza, i migranti al confine bielorusso-polacco, ma è stata frenata non solo dal fronte dei paesi di Visegrad e baltici ma soprattutto dagli Usa. Le ragioni tedesche erano evidenti: si vuole ancora tentare di condurre in porto la messa in opera del gasdotto North Stream 2 aggiungendo qualche migliaio di rifugiati alle decine di migliaia che raggiungono il paese durante l’anno seguendo le più diverse rotte. Che la partita energetica possa essere motivo di scambio politico tra Mosca e Berlino lo ha da sempre chiaro il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki. Non è un caso che quest’ultimo, bypassando Merkel, abbia fatto appello al possibile cancelliere della Germania, il leader dei socialdemocratici, Olaf Scholz. «Nord Stream 2 deve essere fermato», ha chiesto il premier polacco a Spd. I migranti puzzano sì, ma di gas: basterà rammentare che il regolatore tedesco ha sospeso la certificazione della Nord Stream in un quadro in cui i futures sul gas in Europa stanno continuando ad aumentare e hanno superato  più di una volta in novembre la soglia critica di 1200 dollari per 1000 metri cubi.

Una dinamica in cui la Bielorussia dopo la crisi politica interna del 2020 non può più giocare il ruolo che le piaceva di più: acquistare dalla Russia idrocarburi a prezzi sussidiati e rivenderli in Europa, Polonia e Ucraina tra le altre.

Fonte Agi

Il ruolo dell’Ucraina

Già l’Ucraina. Nella crisi polacco-bielorussa il suo ruolo sembra marginale (anche se forse parte dei migranti sembra essere giunto in Bielorussia via terra anche da lì) ma così non è.

Ben pochi osservatori internazionali hanno mostrato di voler intendere cosa sta succedendo di strategicamente importante nelle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, ormai da 7 anni fuori dal controllo giurisdizionale di Kiev. Il presidente russo, lo scorso 17 novembre, ha firmato il decreto che gli abitanti delle due repubbliche autoproclamate dell’Ucraina orientale  aspettavano da diversi anni. La Russia ha aperto completamente i suoi mercati ai beni prodotti nel Donbass, il che la aiuterà a invertire il suo degrado economico e la fuga della popolazione verso la vicina Rostov sul Don. Si tratta di un evento storico perché si tratta del passo definitivo de facto di incorporazione delle Repubbliche “ribelli” alla Russia. Un de facto che viene discussa apertamente nei think-thank internazionali. Nikolaus von Twickel, per esempio, uno degli autori del libro Beyond the Frozen Conflicts. Scenarios of Separatist Conflicts in Eastern Europe, crede che il Donbass sia stato annesso dalla Russia nello stesso modo in cui sette anni fa fu annessa la Crimea. Von Twickel è anche l’autore di un rapporto che analizza gli eventi relativi al conflitto nell’Ucraina orientale nel 2020 e nel 2021 intitolato per l’appunto Verso l’annessione di fatto.

Donetsk e Lugansk: l’economia dei documenti

Nel 2017, la Russia aveva riconosciuto molti documenti emessi nelle repubbliche di Donetsk e di Lugansk, dalle carte d’identità ai diplomi scolastici dal 2019; è stato reso facilissimo ai residenti del Donbass acquisire la cittadinanza russa e quindi il passaporto, mantenendo formalmente quello ucraino. Ora, nel 2021, le imprese locali saranno uguali a quelle russe dal punto di vista giuridico. In primo luogo, saranno riconosciuti i certificati per i prodotti fabbricati nelle Repubbliche. In precedenza, questi certificati, presentati alla dogana e ad altre autorità della Federazione Russa, dovevano essere ucraini – ovvero del “paese d’origine” ufficiale. In secondo luogo, con poche eccezioni, le quote sulle esportazioni verso la Federazione Russa saranno abolite per le imprese di Donetsk e Lugansk. In terzo luogo, i produttori del Donbass saranno collegati al sistema di approvvigionamento statale, cioè uno dei clienti per loro sarà lo stesso stato russo. Difficilmente, come alcuni sognano, ci sarà uno sviluppo significativo dell’economia di quelle regioni (che continuano a essere legate alla produzione di carbone e di altri settori economici “decotti” per il mercato mondiale).

Tuttavia il significato politico è chiaro: si tratta di un addio alle trattative basate sui protocolli di Minsk e del Formato Normandia, nella cui adozione, guarda caso, proprio Lukashenko aveva giocato il ruolo di pacere tra “fratelli slavi” nel 2014.

Tamburi di guerra sulla frontiera ucraina

Lo stesso giorno il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov con una mossa senza precedenti e violando il protocollo diplomatico ha pubblicato parte della corrispondenza recente tra diplomazie russe, tedesche e francesi a proposito delle trattative per giungere a un nuovo incontro per ottenere la pace in Ucraina orientale. Da cui emerge – in particolare dalle missive franco-tedesche ai russi – la volontà di non voler coinvolgere direttamente le repubbliche autoproclamate nella trattativa. Difficile dire cosa succederà a breve ma lo Stato maggiore ucraino sostenuto in particolare dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti sta battendo da mesi i tamburi di guerra e innervosendo sempre di più la Russia. Il 22 novembre scorso il ministro della Difesa russo Sergey Shoigu ha denunciato che recentemente c’è stato un marcato aumento dell’attività dei bombardieri strategici dell’aeronautica statunitense vicino ai confini della Russia. Secondo il capo della Difesa russa, circa 30 sortite di aerei della Nato ai confini della Russia sono state registrate nell’ultimo mese, ovvero 2,5 volte di più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Sarebbe questo aumento dell’attivismo della Nato ad aver spinto ad ammassare 90-100.000 soldati russi non lontano dalla frontiera ucraina: ormai un confronto armato nel Sudest Europa che coinvolga la Russia non è più fantascienza e in tale disgraziata ipotesi, è certo che la Bielorussia giocheerebbe un ruolo non marginale.

Immagini scattate il 9 novembre e pubblicate dal Center for Strategic and International Studies: mezzi e truppe russe in continuo aumento fuori dalla città russa di Yelnya.

La posta in gioco

In un editoriale in occasione di uno dei tanti anniversari della nascita della Russia imperiale (2 novembre 1721: incoronazione di Pietro I dopo la vittoria delle “Guerra del Nord”) su “Rossijskaja Gazeta”, Fyodr Lukyanov uno dei politologi oggi più vicini al presidente russo, ha sostenuto che

«la particolarità della Russia è quella di aver ricevuto uno shock molto recente per gli standard storici. In effetti, l’anniversario coincide quasi con un altro – il trentesimo anniversario della scomparsa dell’Urss – considerata da alcuni come l’ultima incarnazione veramente imperiale nella storia russa [si potrebbe discutere]. La freschezza del trauma della disintegrazione aggiunge amarezza e impulsività alla politica da un lato, ma dall’altro rende il paese e il popolo più resiliente di fronte ai nuovi shock inevitabili su scala globale, dato che l’intero quadro internazionale sta cambiando. E in questo senso, l’ultimo sopravvissuto ha più “anticorpi” per la prossima ondata di cataclismi».

La Russia sicuramente è uno dei paesi più coscienti della posta in gioco (la sua sopravvivenza in primis) e sta cercando disperatamente di prepararsi al futuro. Ma è una corsa contro il tempo in cui la forza di volontà putiniana ha solo un peso relativo.

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n. 15 – Rotta atlantica: patti scellerati e muri invalicabili https://ogzero.org/rotta-atlantica-patti-scellerati-e-muri-invalicabili/ Thu, 18 Nov 2021 16:28:22 +0000 https://ogzero.org/?p=5362 Il Mediterraneo occidentale è il teatro naturale della rotta atlantica, via percorsa dai migranti obbligati a sfidare l’Oceano Atlantico invece del Mediterraneo per approdare alle sponde europee da accordi economico-politici tra l’Europa e i loro paesi. Dal Plan de Canarias agli Accordi di Abramo, sulla pelle dei migranti si consuma il crimine dei potenti che […]

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Il Mediterraneo occidentale è il teatro naturale della rotta atlantica, via percorsa dai migranti obbligati a sfidare l’Oceano Atlantico invece del Mediterraneo per approdare alle sponde europee da accordi economico-politici tra l’Europa e i loro paesi. Dal Plan de Canarias agli Accordi di Abramo, sulla pelle dei migranti si consuma il crimine dei potenti che erigono muri invalicabili e respingono, confinano e segregano, calpestando i diritti umani, approfittando della povertà e dell’instabilità politica dei paesi africani con cui stipulano scellerati trattati bilaterali.

Fabiana Triburgo analizza i meccanismi geopolitici alla base di questa rotta riaperta negli ultimi due anni prima di spostare lo sguardo, prossimamente, sull’ultimo percorso che riguarda le sponde europee, il Mediterraneo centrale.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Vecchi e nuovi approdi del Mediterraneo occidentale

L’espressione ripetuta più volte nel 2020 e nel 2021 “riapertura della rotta atlantica” nasconde fenomeni molto complessi sul piano geopolitico rispetto ai quali la questione migratoria è soltanto la loro inevitabile propagazione. Invero la riapertura di tale rotta non è semplicemente legata alle dinamiche politiche che hanno interessato negli ultimi anni le altre rotte, come quella dell’Egeo, del Mediterraneo centrale o ancor di più, come vedremo, quella del Mediterraneo occidentale, ma il gioco forza di rilievo internazionale, nel quale sono protagonisti Spagna, Marocco, Unione Europea, Algeria, Stati Uniti e diversi paesi dell’Africa subsahariana tra cui Senegal, Mauritania e Gambia, per citarne alcuni. La rotta venne attraversata per la prima volta nel 1994 da due migranti provenienti dal Sahara occidentale ma viene ricordata ancora oggi, negli ambienti competenti in materia di migrazione, per la grande crisi umanitaria dei “cayucos” –  le piccole imbarcazioni dei pescatori simili a canoe – a bordo delle quali, tra il 2005 e il 2006, circa 36.000 migranti provenienti dall’Africa, nello specifico dal Senegal e dalla Mauritania, cercarono di raggiungere le isole Canarie.

Le ragioni di ieri rispetto a tale flusso migratorio sono quelle di oggi, almeno in parte.

In quella circostanza le politiche nazionali, fortemente repressive rispetto al fenomeno migratorio – portate avanti all’inizio del 2000 tramite il Sive – ossia il Servizio Integrale di Vigilanza Esterna dell’esecutivo spagnolo dotato di radar e di strumenti tecnologici avanzati per l’identificazione dei migranti – vennero dispiegate soprattutto sulla rotta del Mediterraneo occidentale che ha ancora oggi come tappe di transizione/destinazione le enclavi spagnole di Ceuta e Melilla distanti rispettivamente 182 e 270 chilometri da Malaga, al confine con il Marocco. Esse sono le uniche frontiere terrestri dell’UE in Africa. Tra il 1995 e il 2005 di fatti si iniziò la progettazione delle prime due barriere terrestri, alte circa tre metri ciascuna a protezione delle due enclavi, finalizzate all’impedimento di ogni spinta migratoria indirizzata verso le medesime.

I primi muri

Tali barriere vennero successivamente innalzate fino a 7 metri grazie ai finanziamenti dell’Europa, sostituendo le lame alla sommità, con un’ulteriore barriera di cemento. Vale la pena sottolineare che i due muri furono i primi a essere eretti dopo la caduta del muro di Berlino, dimostrando come la storia spesso conceda spazi di regressione più avanzati di quelli di evoluzione che tra l’altro sembrano non avere argine, dato che nel 2020 si è giunti al terzo innalzamento dei muri fino a 10 metri ossia alla creazione della recinzione più alta al mondo che circonda Ceuta per 8 km e Melilla per 12 km ipocritamente annunciata come un mezzo per eliminare l’odioso filo spinato.

Peccato che al suo posto è stato previsto un cilindro di acciaio che rende impossibile la presa da parte dei migranti, il tutto costato soltanto 17 milioni di euro!

Proprio in tale ultimo dato è da rinvenirsi, come si accennava, una delle cause della cosiddetta riapertura della rotta atlantica: la decisione dei migranti di attraversare un’area marittima molto più pericolosa ossia quella dell’Oceano Atlantico – sottoposta a numerose quanto imponenti correnti – in luogo del Mar Mediterraneo, non è certo spontanea. Questa infatti è stata imposta dalla chiusura pericolosa talvolta mortifera, ostinata e triplicemente rinnovata, con l’innalzamento dei muri da gli anni Novanta del Novecento al 2020, in prossimità del percorso più sicuro al confine con il Marocco nel quale le enclavi di Ceuta e Melilla sarebbero più che luoghi di destinazione dei migranti – pur essendo territorio spagnolo a tutti gli effetti – meri punti di transito per accedere alla penisola iberica, mediante l’attraversamento dello stretto di Gibilterra.

Va registrato poi il fenomeno delle “porteadoras de Melilla” (le donne-mulo), che camminano per giorni e aspettano in fila con grosse merci caricate sulle spalle senza potersi sedere ne accedere ai servizi igienici e vengono fatte passare a Ceuta e Melilla in ragione delle merci che interessano alla Spagna

Patti scellerati

Da menzionare inoltre è anche la repressione attuata nella rotta denominata “El Corredor”, corridoio del Mar Mediterraneo tra l’Algeria occidentale e la penisola iberica, percorso prevalentemente da algerini nel quale si registra una attività di criminalizzazione del fenomeno migratorio e di intercettazione da parte delle autorità algerine. Non è solo questo tuttavia ad aver lasciato ai migranti come ultima sponda tra le rotte marittime quella più ad ovest per il raggiungimento dei confini europei ma anche la chiusura sancita nel 2016 della rotta dell’Egeo e soprattutto quella del Mediterraneo centrale bloccata dall’accordo Italia-Libia del 2017.

Anche la rotta del Mediterraneo occidentale tuttavia, in una logica di pericolosa emulazione, registra un’importante recente chiusura, come se già non fosse stata sufficientemente blindata – determinata da un ulteriore accordo, uno dei tanti presumibilmente siglato a dicembre del 2020 tra Marocco e Spagna, in base al quale la monarchia magrebina di Mohamed VI si sarebbe impegnata a riammettere dalla Spagna circa 80 persone a settimana tramite l’Air Maroc Royal. A tale accordo vanno aggiunti quelli siglati con la Mauritania disposta ad accogliere i migranti rimpatriati dalla Spagna non solo mauritani ma cittadini di qualsiasi altro paese dell’Africa subsahariana e occidentale. Infine, si registrano accordi bilaterali tra Spagna e Senegal. Come è facilmente intuibile anche in questo caso le riammissioni vengono implicitamente legittimate sulla base della nozione di paese terzo sicuro assegnata ai paesi africani come lo stesso Marocco.

Tale importante e “prestigioso” titolo di riconoscimento assegnato alla Libia per il Mediterraneo centrale e alla Turchia per l’Egeo è solo uno stratagemma politico per non entrare in contrasto con la propria coscienza almeno davanti all’opinione pubblica.

Un po’ di numeri

Si arriva così all’impressionante numero di 23.000 persone che tentano di raggiungere le isole Canarie nel 2020 rispetto ai 2557 arrivi registrati nel 2019. Per il 2021 i dati sono in ulteriore peggioramento: nei primi 6 mesi sono circa 7000 le persone che hanno già tentato di raggiungere le Canarie e 50 i morti ufficiali, con un gran numero di dispersi senza nome ottenibile soltanto grazie alle testimonianze dei familiari dei naufraghi. Occorre inoltre tener presente che, secondo i dati relativi al 2020 e al 2021, la rotta presenta specifiche caratteristiche: è percorsa da uomini, adulti o minori stranieri non accompagnati principalmente provenienti da Marocco, Mauritania, Senegal, Gambia.

Dai molteplici punti di partenza si riesce dunque a intuire come il viaggio lungo l’oceano Atlantico possa durare 24 ore come 10 giorni.

Oltre tuttavia alla blindatura delle rotte del Mediterraneo occidentale e del Mediterraneo centrale, in ragione della quale i migranti pur di non soffocare nelle sabbie del deserto del Sahara in Niger o per non finire nei lager libici, sono stati costretti a deviare verso le coste del Senegal o della Mauritania, nelle quali è comunque quasi sempre presente Frontex accanto alla Guardia Civil, vi è un’ulteriore concausa della riapertura della rotta atlantica ossia quella della pandemia. Con la diffusione del virus da Covid-19 è stata adottata da quasi ogni paese la chiusura delle frontiere terrestri, marittime e aeroportuali per cui i migranti si sono diretti dove minori erano i controlli ossia verso le coste dei paesi dell’Africa occidentale dai quali con delle imbarcazioni di fortuna hanno cercato di raggiungere le isole Canarie. A ciò deve essere aggiunto l’effetto collaterale della crisi economica determinata dalla pandemia – in ragione delle misure di lockdown e di distanziamento sociale – che ha messo ulteriormente in ginocchio paesi africani già a basso reddito e caratterizzati da una forte instabilità politica che hanno subito anche il forte crollo delle rimesse provenienti dall’estero. Infine, non si può ignorare l’accordo sulla pesca tra Senegal e Unione europea in vigore dal 1979 e costantemente rinnovato che ha tolto ancor di più lo scorso anno un mezzo di sussistenza essenziale, quale quello del mercato ittico, al paese già in una drammatica situazione di indigenza economica. Alla depredazione delle risorse derivanti dalla pesca nelle acque e dei fondali senegalesi si ricorda anche la partecipazione della Cina.

Punto d’arrivo: il molo di Arguineguìn

A partire da agosto fino a novembre del 2020, la situazione degli sbarchi nelle isole Canarie diventa esponenziale: nello specifico nel molo di Arguineguìn, nell’Isola di Gran Canaria, nell’estate del 2020 sono giunti in un campo allestito dalla Croce Rossa, destinato ad accogliere 400 persone, 2600 migranti senza l’applicazione di alcuna forma di distanziamento sociale o di controllo dell’eventuale trasmissibilità del virus mediante tamponi.

Successivamente i migranti sono stati trasferiti in strutture alberghiere preesistenti e ivi trattenuti per oltre 72 ore contrariamente a qualsiasi normativa nazionale, europea e internazionale, in merito alla libera circolazione delle persone.

La risposta dell’esecutivo spagnolo in conseguenza di tale scenario è stata, oltre come detto alla sigla di un accordo a fine dicembre dello scorso anno con il Marocco, il dispiegamento del Plan Canarias il terzo piano di accoglienza applicato nel contesto della migrazione attraverso l’Atlantico da parte della Spagna. Ecco che in tale sistema organizzato, ritroviamo il medesimo approccio riscontrato nella rotta dell’Egeo con un confinamento illegittimo dei migranti nelle isole e con la conseguente impossibilità di giungere alla piattaforma continentale, in quel caso quella ellenica in questo quella iberica.

Hotspot = centri detentivi

Come se ciò non bastasse si sono messe in atto vere e proprie politiche discriminatorie nella zona di transito aeroportuale dell’isola di Gran Canaria con impedimento a raggiungere la Spagna continentale per coloro che non fossero turisti o comunque dotati di un passaporto comunitario. Ciò sarebbe avvenuto in conseguenza di un’istruzione da parte del ministero degli Interni spagnolo che ha stabilito che nessuna persona migrante, anche dotata di passaporto, presente nell’isola potesse proseguire il proprio viaggio liberamente verso altre città spagnole. Con il Plan Canarias del 2020 dunque si conferma la politica sistemica dell’Unione e dei paesi che ne fanno parte della creazione di grandi hotspot nelle isole europee che, per modalità assomigliano a veri e propri centri detentivi, schermati dietro la dizione di “Centri temporanei di accoglienza” e strategicamente accompagnati all’intenzione, semplicemente dichiarata e mai attuata, di trasformarli in “Centri di integrazione”. Tali centri – in spagnolo detti Cate – previsti dal Plan Canarias, sono come al solito sottoposti a un costante controllo poliziesco, situati in luoghi di difficile accesso, con limitazione della libertà di movimento e dei diritti di assistenza legale e sanitaria, in ambienti gravemente insalubri come ha testimoniato Human Rights Watch in un recente rapporto. I centri a Gran Canaria quasi tutti ricavati da ex strutture carcerarie o da basi militari e riconvertiti in centri di accoglienza sono: il “Canaria 50”, il “Collegio Leon”, il Cate di “Barranco Seco” e quello di “Bankia” ricavato da un ex poligono. Per quanto riguarda Tenerife invece i Cate sono quello di “Las Raíces” e “Las Canteras” mentre a Fuerteventura si registra la presenza di un solo Cate quello di “El Matorral”.

Al proposito una testimonianza di Mirca Leccese, attivista di Un ponte per Moria, in questo novembre 2021 complice proprio a Tenerife delle persone “custodite” nei campi delle Canarie:

“Lo snodo di Tenerife sulla rotta atlantica”.

Soccorso in mare militarizzato

A peggiorare ulteriormente la situazione in tale rotta è il mutamento del sistema di salvataggio in mare nel 2018, anno in cui con l’istituzione del comando unico in Spagna sì è passati a una militarizzazione del soccorso in mare. Infatti, prima del 2018 l’attività di soccorso marino veniva ordinata da un pubblico impiegato o da un vice delegato del governo ossia da un civile, mentre con l’istituzione del comando unico al vertice delle attività di salvataggio vi è un organismo che dipende dalla Guardia Civil che è un corpo militarizzato dipendente a sua volta dal ministero degli Interni che coordina tutte le operazioni di soccorso in mare. Tale comando unico pur includendo al di sotto, come con il comando civile – secondo un ordine gerarchico il capitano di marina, una torre di controllo e l’imbarcazione di salvataggio – non prevede più la localizzazione fisica del barcone sul quale transitano i migranti e quindi, l’attività di salvataggio non parte secondo gli stessi tempi di allora.

Attualmente infatti, occorrono circa quattro ore per raggiungere i migranti in mare quando prima invece si riusciva a raggiungere i naufraghi in 30/40 minuti: è agevole intuire come il tempo abbia un ruolo determinante in tale attività rappresentando la maggiore rapidità dei soccorsi una maggiore probabilità che delle vite vengano salvate.

Occorre dunque ora analizzare alcuni aspetti geopolitici alla base della dura repressione della rotta del Mediterraneo occidentale che, come detto, impone ai migranti di optare per la mortifera rotta atlantica. il Marocco infatti viene comunemente definito il gendarme di Europa per l’impedimento imposto ai migranti dell’Africa occidentale e subsahariana ad accedere al territorio delle enclavi di Ceuta e Melilla ma non possiamo ignorare l’evento eccezionale avvenuto a Ceuta nel maggio scorso, quando circa 8000 migranti sono stati fatti passare nel territorio spagnolo dell’enclave senza alcuna forma di controllo da parte delle forze di polizia marocchina.

Il dossier del Sahara occidentale

Per capire le ragioni di tale insolito approccio della monarchia è necessario far riferimento al dossier del Sahara occidentale: su tale territorio dopo il cessate il fuoco del 1991 il Marocco ha sempre rivendicato la propria autorità nazionale, mentre il Fronte Polisario che invece rivendica con la Rasd l’indipendenza della Repubblica araba democratica dei Sahrawi, appoggiata dall’Algeria e sostenuta dalle risoluzioni delle Nazioni Unite si oppone a tale posizione di forza da parte del Marocco.

Le terre del Sahara occidentale interessano al Marocco perché il territorio è ricco di fosfati allo stesso tempo per l’Algeria l’alleanza con il Fronte Polisario garantisce quell’eventuale sbocco sull’oceano Atlantico che geograficamente, diversamente dal Marocco, non detiene.

Quando dunque la monarchia di Mohamed VI è venuta a conoscenza che la Spagna ad aprile del 2021, su pressione dell’Algeria, suo principale fornitore di gas, ha accolto il leader del Fronte Polisario Ghali “per ragioni umanitarie”, in quanto malato di cancro e contagiato dal Covid-19 in una forma grave, il Marocco per ritorsione ha deciso di aprire il “rubinetto dei migranti”.  Va specificato in ogni caso che la pretesa di un riconoscimento da parte della Spagna e dell’Europa tutta della propria sovranità da parte del Marocco sui territori del Sahara occidentale, giunge all’indomani del riconoscimento concesso in tal senso da parte dell’amministrazione Trump, in esito alla firma degli Accordi di Abramo nel 2020, con i quali Rabat ha sancito il proprio sostegno allo Stato di Israele. La questione migratoria è stata rapidamente risolta come al solito con un accordo tra Marocco e Spagna nel 2021 con il quale si è stabilito il rimpatrio di circa 40 migranti stranieri ogni due ore al giorno, per cui nei giorni successivi allo sbarco degli 8.000 migranti, 5.000 già erano stati rimpatri in Marocco.

Madrid. Manifestazioni in favore del popolo saharawi (foto Valentin Sama-Rojo / Shutterstock)

Marocco: il ricatto sulla pelle dei migranti

Tuttavia, anche nel 2018 il Marocco – che in realtà vorrebbe la sovranità sulle due enclavi o comunque una cogestione delle stesse con la Spagna – ha fatto pressione strumentalizzando i migranti facendo salire il numero degli sbarchi nella penisola iberica a circa 56.000 mediante proprio il passaggio nelle due enclavi. In quel caso infatti la Monarchia marocchina consapevole dell’accordo UE-Turchia e del pagamento a favore di quest’ultima di 3 miliardi di euro per la gestione dei flussi migratori del levante e dei circa 130 milioni elargiti alla Libia nell’anno successivo da parte dell’UE (per la gestione di quelli del Mediterraneo centrale) ha preteso, alla stregua di un ricatto, un ingente finanziamento dall’Europa che non ha tardato ad arrivare:

il Marocco si è aggiudicato così la cifra di 140 milioni di euro nel 2018 per il confinamento e la segregazione dei migranti perfino di quelli con cittadinanza marocchina.

È facile dunque intuire come il Marocco in Africa rispetto alla questione migratoria si stia atteggiando come la Turchia in Medio Oriente, facendo leva però sull’appoggio degli Stati Uniti e sugli ottimi rapporti di partenariato con quasi tutti i paesi dell’Africa subsahriana, nonché del ruolo fondamentale che detiene, data la propria posizione geopolitica come potenziale freno degli intenti terroristici provenienti dalla parte sud del continente africano. Tutto ciò fa emergere come l’area del Maghreb sia tutt’altro che unita, se si fa riferimento al rapporto di forte opposizione che intercorre tra Marocco e Algeria, dovuto non solo al dossier del Sahara occidentale ma anche al ruolo delle due potenze rispetto al Mediterraneo. Si ricorda in tal senso che, con la recente rivendicazione unilaterale della propria Zee nel Mediterraneo, l’Algeria è arrivata a sfiorare anche le coste marocchine. Vale la pena inoltre ricordare che lo scorso 3 novembre vi è stato un presunto assalto delle autorità marocchine a mezzi di trasporto algerini che transitavano in Mauritania dopo che, qualche mese prima, l’Algeria aveva dichiarato ufficialmente e unilateralmente chiusi i rapporti diplomatici con il Marocco.

Il rapporto Algeria-Libia

Ciò è particolarmente rilevante rispetto al conflitto libico – momentaneamente sospeso – e dagli effetti che esso propaga sulla questione migratoria, con i lager e le morti nel Mediterraneo centrale. Vale la pena ricordare come l’Algeria infatti si sia sempre posta, rispetto al conflitto libico, come paese non allineato astenendosi innanzitutto dall’appoggio all’intervento Nato che ha portato alla caduta del regime di Gheddafi. D’altra parte l’Algeria che confina con la Libia rappresenta la prima potenza militare africana, armata dalla Russia che invece in Libia ha un ruolo rilevante nella regione della Cirenaica in cui da anni – come già analizzato in precedenza – foraggia la presa di potere sull’intero territorio libico da parte di Haftar. Analizzeremo come tutto ciò abbia un effetto sull’(in)stabilità del governo ad interim libico e sulla questione migratoria addentrandoci nell’ultima delle rotte marittime che coinvolgono il territorio dell’Unione.

L'articolo n. 15 – Rotta atlantica: patti scellerati e muri invalicabili proviene da OGzero.

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