Medio Oriente Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/medio-oriente/ geopolitica etc Mon, 18 Sep 2023 20:48:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 G7 – G8 – G20 – G77+1… G8miliardi https://ogzero.org/g7-g8-g20-g771-g8miliardi/ Mon, 18 Sep 2023 20:48:14 +0000 https://ogzero.org/?p=11622 Le famose bande di ragazzini. C’è quello grande e grosso che si tira dietro i suoi e botte da orbi a chi li contrasta. In questa strada non ci dovete mettere piede! Una banda vicina invece l’attraversa, anche se di corsa. Il capo è meno corpulento, ma sa il fatto suo. Altri gruppetti sono incerti, […]

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Le famose bande di ragazzini. C’è quello grande e grosso che si tira dietro i suoi e botte da orbi a chi li contrasta. In questa strada non ci dovete mettere piede! Una banda vicina invece l’attraversa, anche se di corsa. Il capo è meno corpulento, ma sa il fatto suo. Altri gruppetti sono incerti, con chi stare? Un po’ con l’uno un po’ con l’altro. All’aria aperta la situazione è abbastanza caotica. Diversa da prima dove c’era la banda più forte e non ce n’era per nessuno. In più adesso succede che un giorno il sole è rovente e nessuno ha voglia di venir fuori dall’ombra. Un altro diluvia che appena ti affacci in strada quasi anneghi. Un disastro. Non si capisce più niente. Bisogna solo aspettare che i ragazzini, ragazzine incluse, crescano. Ma cresceranno?


Quando sarai grande…

Sì, diventeranno grandi. Anzi G(randi)20. Una specie di super banda che cerca di spartirsi le zone di influenza. Assenti XI Jinping e Putin. Presente! però Giorgia M. e questo ci rincuora.
Il padrone di casa, Modi si è indaffarato moltissimo, senza fare i pignoli su come per l’occasione ha ripulito le periferie di Nuova Delhi. Vuole che l’India sia chiamata Bharat, e su questo niente da dire. Sta già scritto nella Costituzione. Per noi di una certa età va anche meglio perché nel nostro immaginario gli indiani continuano a essere i nativi americani (stavo per scrivere i peller…).
Poi ha ufficialmente siglato la Global Biofuel Alliance a cui aderiscono Brasile, Stati Uniti, Bangladesh, Argentina, Sudafrica, Mauritius, Emirati Arabi e Italia, oltre a Bharat. Mi propongo a Giorgia come servitore della patria ai prossimi incontri nelle Mauritius. Ci tengo ai biocarburanti.

Non è passata inosservata la dichiarazione fatta da Stati Uniti e IBSA – India, Brasile, Sudafrica – sul potenziamento degli aiuti finanziari al Sud Globale.
La geografia sta slittando verso il meridione del mondo. Da un punto di vista delle aspirazioni geopolitiche, delle prese di parola, non può non piacere. Dirà l’avvenire se sarà un guadagno per la Terra e l’Umanità.

 

Nel quartiere c’è sempre qualcuno dei ben piantati che invece di farsi vivo in piazza con lo sguardo strafottente se ne sta non si sa dove. Perfino quelli della sua banda sono sconcertati. Cosa starà macchinando?


… saprai perché…

Xi Jinping perché non è venuto? Se ne fotte? Il suo ruolo se lo gioca nei Brics? Cioè Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica e prossimi Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Emirati arabi uniti e Arabia saudita. Augurandosi che non si trasformino in Bricsaeeieauas.  L’erede di Mao lascia intenzionalmente il G20 all’India? Sembrerebbe di sì.

Modi ha così organizzato gli accordi, fossero anche solo pacche sulle spalle, senza la Cina. Tutta questa sua agitazione sta in piedi? Amico di tutti e di nessuno? Putin ha fatto bene a starsene dov’è, deve salvare l’eterna anima russa con i carrarmati e questo disturba le calorose strette di mano.

Sta finalmente cambiando la faccia geopolitica del Mondo, detta anche multipolarismo, oppure sono solo geometrie variabili destinate ad essere ormai perennemente variabili? In altre parole, la novità è il movimento continuo e non la configurazione che assume?

… è un gioco strano: devi imparare…

L’IMEC è una prima risposta. Un baccanale di acronimi da imparare a memoria. India-Middle East-Europe Economic Corridor. Lo promuovono il principe saudita Mohammed bin Salman Al Saud, il presidente degli Emirati Arabi Uniti Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, la presidente dell’Unione Europea Ursula von der Leyen, la primo ministro italiana Giorgia Meloni, il capo della Banca Mondiale Ajay Banga e, ovviamente, Joe Biden e Narendra Modi. Treni, porti, fibre ottiche, pipeline, autostrade, ponti, hub.

Applausi a scena aperta.

Uno per tutti, quello di U.v.der Leyen: «È un ponte verde e digitale tra i continenti e le civiltà».

All’esterno del G20 un encomio altissimo.

Viene da Netanyahu: «Israele è al centro di un inedito progetto internazionale che unirà infrastrutture dall’Asia all’Europa, realizzerà una antica visione e cambierà il Medio Oriente, Israele, e influenzerà il mondo intero».

Coro stellare per un mondo a più facce? Risposta robusta, dieci anni dopo, alla Via della Seta cinese? Entusiasmo a buon mercato? Trionfalismo fuori posto?

… è un gioco strano: devi imparare…

Calma, dice la Cina: «Il tempo mostrerà la differenza tra un’iniziativa che abbraccia tutti con cuore aperto [la Belt and Road Initiative cinese] e una di idee ristrette che divide le nazioni. Noi speriamo che l’IMEC non diventi così».

Risposta secca e stizzita.

I giochi sono aperti e soprattutto il quadrante del mondo si è messo in moto. Una cosa è sicura, il Medio Oriente torna ad essere uno snodo delle politiche mondiali.

Se qualcuno poi, sprovveduto di finezze geopolitiche, osserva un po’ più da vicino i Grandi 20, presenti e assenti, il modo con cui governano i loro paesi e come fanno e disfanno le loro società, qualche brivido giù per la schiena gli corre. Allora il sempliciotto inesperto sceglie di chinarsi sulla minuteria storica e scopre, per esempio, che un treno merci con 36 vagoni container è partito dal sud della Russia, ha attraversato l’Iran, già nemico numero uno dell’Arabia Saudita, e poi dallo Stretto di Hormuz è stato travasato via mare a Gedda, in… Arabia Saudita. A fine agosto.

Oppure viene informato che a Ryad, capitale dell’Arabia Saudita, lo scorso 11 settembre grazie all’Unesco  era in visita ufficiale una delegazione del governo israeliano, anteprima di una possibile normalizzazione tra i due stati mediorientali. Il candido osservatore inoltre si stupirà vieppiù nel vedere che Erdoğan, il sultano turco, si sia subito scagliato contro il corridoio in questione proponendone uno di gamma superiore. Provvisoriamente definito – che strano! – corridoio turco.

… è tutto scritto, catalogato: ogni segreto, ogni peccato…

Non stanno mai fermi i Grandi, anche i Meno Grandi. Saltabeccano da un summit, da un vertice all’altro un po’ qua un po’ là. Finito uno, di corsa all’altro [Brics, 21/24 agosto, G20, 9/10 settembre, G77+Cina a Cuba, dal 15 settembre]. Gli farà bene tutto questo sbattimento? E se prendono aria? E se fanno indigestione? E se perdono l’orientamento? E il jet lag? Cos’è, fregola di contrasto alla depressione?
C’è un moto ondulatorio o sussultorio nella geopolitica? Preludio ad eventi tettonici più duri e consistenti?

Se scendo dai vertici e lo chiedo a una immigrata filippina a Ryad, a un palestinese di Nablus, a una giornalista kurdo-turca in carcere, mi guardano con un certo disincanto. Eppure.

… quando sarai grande, saprai perché

Qualcuno si perde, altri mettono su famiglia, qualcuno ricorda con nostalgia e parla male dei nuovi ragazzini di strada, certi fanno carriera.

Tutto il GMondo è paese.

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Biden in Medio Oriente: le insidie che declinano la centralità Usa https://ogzero.org/biden-in-medio-oriente-le-insidie-che-declinano-la-centralita-usa/ Tue, 19 Jul 2022 14:48:13 +0000 https://ogzero.org/?p=8226 La disposizione delle pedine sulla scacchiera conduce a frenetiche consultazioni, vertici, summit, visite di rappresentanza e di scambi più o meno confessabili; la preparazione del confronto sull’egemonia o sulla oppositiva concezione tra multilateralismo e bipolarismo.  Inauguriamo con questa analisi di Eric Salerno sulle visite di Biden in Medio Oriente alcuni interventi estemporanei, di cui cercheremo […]

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La disposizione delle pedine sulla scacchiera conduce a frenetiche consultazioni, vertici, summit, visite di rappresentanza e di scambi più o meno confessabili; la preparazione del confronto sull’egemonia o sulla oppositiva concezione tra multilateralismo e bipolarismo. 
Inauguriamo con questa analisi di Eric Salerno sulle visite di Biden in Medio Oriente alcuni interventi estemporanei, di cui cercheremo di fare tesoro per arrivare a comprendere le strategie e gli schieramenti in alcune tappe. Cominciamo a proporre interventi o editoriali proprio oggi, quando si sta svolgendo l’incontro a Tehran tra i vecchi protagonisti degli incontri iniziati ad Astana con l’idea di comporre il conflitto siriano e poi proseguiti spartendosi ruoli e aree di influenza nel bacino mediterraneo, nella regione caucasica e nella penisola araba, come descritto da Antonella De Biasi in Astana e i 7 mari. Un percorso che passa anche attraverso il rifiuto del “paria” MbS alla richiesta di incrementare  la produzione al di là degli accordi Opec, che avrebbe segnato una precisa scelta di campo contro la Russia, con la quale i sauditi hanno sempre stabilito il prezzo del petrolio accordandosi sulla produzione.

Fin da subito in questo articolo viene evidenziato da Eric il punto principale: l’irreversibile declino degli Usa come unica potenza di riferimento, motivo del confronto globale che scuote il mondo.

Fin qui la presentazione di OGzero, la parola passa ora a Eric Salerno


Biden in Medio Oriente: «Ne valeva la pena?»

«Was it worth it?»

È la domanda che si pone il “Washington Post”, analizzando la visita del presidente Biden in Medio Oriente. Una domanda lecita da molti punti di vista, e non soltanto da chi guarda agli interessi Usa. La toccata – pugno contro pugno – tra il presidente americano e il principe della corona saudita Mohammed bin Salman – immagine scandalosa, per tanti, che ha fatto il giro del mondo – non è soltanto imbarazzante ma indicativo di un cambiamento profondo in corso nel mondo che sempre di più non considera gli Usa il punto di riferimento di ogni forma di sviluppo. E di gestione del futuro, sempre incerto, della Terra.

«Saudi Arabia can’t raise oil output more in the medium term»

È la risposta del “paria” Mbs.
Jamal Khashoggi, saudita critico del regime che governa il suo paese, era un collaboratore del quotidiano della capitale americana. I servizi segreti americani ritengono che la sua uccisione, avvenuta in Turchia, era stata autorizzata, o meglio commissionata da Mohammed bin Salman per eliminare uno dei personaggi più critici della monarchia. Biden aveva fatto della sua presunta-certa colpevolezza nella vicenda Khashoggi uno dei suoi cavalli di battaglia durante la campagna elettorale. Aveva giurato di osteggiare, punire Mbs (come è noto ormai a tutti, l’erede al trono dei Saud). Il pragmatismo, ci dicono i diplomatici, è un elemento fondamentale nelle scelte strategiche e in questo momento, con Russia e Cina e una parte considerevole del mondo su posizioni ben lontane da quelle Usa-Europa, il capo della Casa Bianca non aveva altra scelta per cercare di convincere i sauditi ad aumentare la produzione di petrolio (continuano a dire di no) e per cercare di riportarli sotto il controllo Usa mentre si fanno corteggiare con un certo successo da Pechino.
Con la guerra che infuria in Europa, le alleanze da guerra fredda che riaffiorano, l’economia mondiale in caduta libera,  e l’unica industria che tira come mai quella degli armamenti, c’è chi afferma che Biden non aveva altra scelta. E che comunque, tutto sommato, Bin Salman non è il primo tiranno-assassino con cui gli Usa o l’Europa fanno affari.

Visita elettorale a Tel Aviv

Se quel ragionamento tattico-strategico in Arabia Saudita può essere condiviso, diversamente non ci sono giustificazioni per il comportamento di Biden in Israele, la tappa precedente della sua visita regionale, se non quella di non turbare difficili equilibri interni americani a pochi mesi dalle elezioni parlamentari di mezzo termine. Le azioni del presidente sono in caduta libera e il leader democratico non può – e non vuole – rischiare di perdere il voto di chi sostiene da sempre e in maniera totalmente acritica lo stato d’Israele. Biden arrivando a Tel Aviv ha ripetuto il suo storico sostegno alla soluzione “due stati per due popoli” per poi mettere le mani avanti con un «ma i tempi non sono maturi per la ripresa dei negoziati».  Si è poi vantato di aver stanziato un miliardo di dollari per aiutare ad affrontare la fame in alcune parti del Medio Oriente e del Nordafrica. Soldi promessi, ricorda il quotidiano Usa, anche ai palestinesi per i quali il perpetuarsi dello status quo rafforza l’occupazione israeliana delle loro terre, ossia della Cisgiordania e della parte orientale di Gerusalemme.

«The only way to stop them is to put a credible military threat on the table»

È la pretesa di Yair Lapid rivolta a Biden dopo avergli chiesto soldi per l’Iron Beam, il sistema missilistico di difesa antiraniano.

Ci sono state, dopo questa visita di Biden, poche analisi e commenti. Si è accennato al contenzioso con l’Iran con cui continuano i negoziati per cercare di mettere insieme un altro accordo Jcpoa sul nucleare mentre Israele ribadisce che agirà militarmente (oltre agli attentati e assassini mirati di scienziati e militari di Tehran) se lo dovesse ritenere necessario per restare l’unico paese armato di ordigni nucleari in tutta la regi0ne. E qui, da osservatore impegnato da troppi anni a seguire il conflitto israelo-palestinese, appare doveroso chiedersi: «Ma è mai possibile che gli Usa e l’Europa non abbiano capito che Israele – governanti, politici, opinione pubblica – concorda e si è fissata su una valutazione assurda: “Uno stato palestinese indipendente sarebbe un pericolo esistenziale per lo ‘stato ebraico’”».

Armi di distruzione di etnie: curdi palestinesi saharawi

Israele è all’avanguardia nelle tecnologie militari del futuro; vende know-how a tutti (quasi); potrebbe “appiattire” una Palestina indipendente se fosse ostile in pochi minuti con gli stessi strumenti che minaccia di usare per distruggere il Libano se dalla frontiera settentrionale Hezbollah o altri alleati di Tehran dovessero attaccare. E allora? Forse è venuto il momento di capire che, salvo stravolgimenti difficili da prevedere oggi, della sofferenza dei palestinesi – tra Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est, campi profughi in Siria e Libano e Giordania, e una diaspora mondiale – si sentirà parlare a lungo, così come si parla del popolo curdo, se vogliamo restare nella stessa regione.

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n. 6 – Primavere, rivolte e rivoluzioni: dieci anni di utili contaminazioni https://ogzero.org/l-eredita-delle-primavere-arabe-e-le-rivoluzioni-di-oggi/ Sun, 02 May 2021 09:50:35 +0000 https://ogzero.org/?p=3244 Questo articolo introduce una sezione nuova della raccolta di articoli di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria: analizzeremo le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medioriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe, e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative […]

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Questo articolo introduce una sezione nuova della raccolta di articoli di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria: analizzeremo le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medioriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe, e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti.


n. 6

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Correnti umane da un Medio Oriente interconnesso

L’area del Medio Oriente è particolarmente rilevante per l’analisi delle situazioni di instabilità politica o di perdurante conflitto dei paesi d’origine dei migranti che sfociano o che potrebbero presto sfociare, come nel caso del Libano, in correnti umane lungo la rotta dell’Egeo e lungo quella balcanica, per approdare in prossimità dei confini europei.

Dalla Rivoluzione dei Gelsomini alla fuga di Saleh

Al riguardo occorre sottolineare che difficilmente la precarietà istituzionale o gli episodi di violenza presenti in uno dei paesi mediorientali non va a dispiegare i propri effetti su un altro paese appartenente alla medesima area, anche se in modalità diverse e con diversa intensità. Se è vero, tuttavia, che l’onda propulsiva degli eventi che interessano i paesi del Medio Oriente è caratterizzata dalla contaminazione di un paese con l’altro, va altresì riconosciuto che l’area nell’ultimo decennio ha subito il contraccolpo degli effetti politici e sociali che dieci anni fa si sono generati mediante le cosiddette Primavere arabe – termine coniato dai media occidentali – a loro volta conseguenza delle proteste popolari contro le autorità dittatoriali allora detentrici del potere. Infatti, nel dicembre 2010 un venditore ambulante in Tunisia, Mohamed Bouazizi, si diede fuoco davanti al municipio della città di Sidi Bouzid come tragico simbolo di protesta contro il perdurante eccesso dell’impiego della violenza e della repressione delle forze di polizia fedeli al regime di Zine El-Abidine Ben Ali, a quel tempo da 23 anni al potere, nei confronti della popolazione civile. Nel caso specifico di Mohamed Bouazizi la polizia tunisina aveva sequestrato arbitrariamente il suo banco di vendita del pesce dinanzi all’assoluta indifferenza delle autorità. Da quel momento la Tunisia s’incendiò in tumulti popolari definiti come la “Rivoluzione dei Gelsomini” che portarono il presidente-dittatore all’esilio e al primo innesto di un processo democratico nel paese. Invece il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh fuggì in esilio in Arabia Saudita rassegnando le dimissioni e lasciando il paese in una situazione di completa instabilità. Le immagini di tale gesto di immolazione in Tunisia arrivarono negli altri paesi del Medio Oriente grazie all’emittente Al-Jazeera. Nel corso di qualche mese l’ondata di proteste si dispiegò in altri paesi dell’area del Nord Africa e in alcuni del Medio Oriente che progressivamente videro i vari regimi crollare uno a uno come le tessere di un domino: ciò avvenne in primo luogo in Egitto con le celebri proteste del 25 gennaio 2011 in piazza Tahrir. Non solo, se monarchie quali Giordania, Marocco resistettero a tali tumulti attraverso concessioni alle richieste del popolo grazie a esigue modifiche delle rispettive costituzioni, in altri paesi le proteste mutarono rapidamente in sanguinosi conflitti civili non ancora del tutto risolti, come avvenne in Siria contro il regime di Bashar al-Assad, in Libia durante la dittatura di Gheddafi e infine nello Yemen contro Ali Abdullah Saleh che nel 2012 lasciò il potere.

L'eredità delle Primavere arabe

Campo di ribelli della coalizione anti-Gaddafi, Ajdabiya in Libia, aprile 2011 (foto Rosen Ivanov Iliev).

In tutti i paesi interessati da tali reazioni popolari sono rintracciabili tre elementi comuni qualificabili quali: il disagio economico, la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi individui, quasi in una sorta di oligarchia economica ravvisabile in particolar modo nella cerchia di soggetti affiliati al regime di Ben Ali in Tunisia o quello di Bashar al-Assad in Siria e, infine, il controllo fortemente repressivo e autoritario della vita pubblica.

Le Primavere arabe sono davvero fallite?

Ad ogni modo, guardando alla situazione attuale degli stessi stati, tra cui l’Egitto retto oggi dal presidente dittatore Abdel Fattah al-Sisi, paese nel quale dieci anni fa i poteri autoritari erano stati sovvertiti dal popolo, si parla spesso di un fallimento di tali “primavere” e dell’incompiutezza del sistema democratico al quale esse stesse miravano attraverso l’affermazione di principi di libertà e di uguaglianza e la rivendicazione dei diritti civili, ma è realmente così?

Il dubbio tuttavia che un fenomeno importante – seppur incompiuto – si determinò a partire dalla fine del 2010 attraverso le cosiddette Primavere arabe, proviene proprio dall’analisi dei movimenti  di protesta che si sono dispiegati nel decennio successivo allo scoppio delle rivolte e che da ultimo, nel 2019,  hanno condotto alle dimissioni il presidente dell’Algeria Abdelaziz Bouteflika, e alla destituzione di Omar Hasan Ahmad al-Bashir in Sudan, nonché l’ondata di disperate proteste iniziate negli scorsi anni da parte della popolazione irachena e di quella libanese.

Ascolta “Lo stallo ad Algeri e la resistenza del movimento Hirak: un sistema da sovvertire” su Spreaker.

In particolare, in Libano gli scontri nell’ottobre del 2019 si sono verificati contro l’élite politica da sempre contraddistinta per la sua corruzione ed emersa con evidenza con la dichiarazione da parte del governo del default finanziario nel marzo del 2019 del quale ci occuperemo più specificamente in seguito. Con riferimento a tali paesi oggi si parla più che di “primavere” di vere e proprie “rivolte arabe” o di “rivoluzioni arabe”. Le proteste in Iraq e in Libano si muovono oltretutto in modo più maturo e consapevole dimostrando capacità di resistenza popolare alle provocazioni istituzionali durante gli scontri, nonché capacità dei manifestanti di riorganizzarsi e di essere costantemente presenti nonostante le misure anti-Covid-19 imposte dal governo, e purtroppo spesso da questo strumentalizzate con un fine chiaramente repressivo volto al mantenimento del proprio status quo.

Cosa quindi possiamo dire si sia generato con quelle controreazioni del popolo rispetto agli abusi dei poteri istituzionali, cosa è andato rompendosi in modo definitivo allora, nonostante dalle macerie ancora oggi non risorga in quei paesi la fenice di uno stato democratico?  Occorre fare una riflessione preliminare: i moti di protesta detti Primavere arabe, non sono altro che un fenomeno che rappresenta solamente la punta dell’icerberg di un malessere profondo e generalizzato per anni covato negli animi della popolazione civile di diversi paesi impossibilitata a vivere in stati non rispettosi dei propri diritti e delle proprie libertà non riconosciute a causa dei regimi totalitari presenti in essi.

Prestiti in cambio di una politica liberista

I primi accenni del malcontento popolare in realtà si devono ricercare nel fallimento economico degli anni Ottanta e Novanta che ha interessato molti paesi arabi. I sistemi di questi paesi negli anni Settanta si contraddistinguevano per essere delle economie socialiste mentre nei decenni successivi sono passati a un sistema di libero mercato che non ha avvantaggiato la popolazione ma esclusivamente l’élite al potere. Negli anni Ottanta in particolare si determinò la crisi del sistema economico e iniziarono le proteste da parte del popolo che non beneficiava del medesimo benessere e che invece veniva ostentato dalla classe politica. I paesi arabi negli anni accumularono infatti ingenti debiti pubblici che li portarono a negoziare nuovamente con la Banca mondiale i fondi internazionali ricevuti, promettendo in cambio un approccio neoliberista delle proprie economie che come detto determinò una disparità sociale con un peggioramento della condizione popolare. Ciò avvenne in primo luogo in Algeria nel 1988 con il crollo dei prezzi del petrolio. Ci si rese ben presto conto tuttavia che le egemonie allora al potere in molti paesi arabi non avevano alcun interesse alla promozione di un sistema democratico che resta ancora oggi un’utopia in quest’area. La società invece era retta sempre da un sistema di forte repressione e di controllo della popolazione civile. L’errore in quel caso fu anche da parte dell’Occidente, illuso di poter negoziare con gli autoritarismi arabi, dandone per scontata la stabilità politica e la loro condizione di immobilismo, preoccupati dell’instaurazione di un sistema di privatizzazione economica da parte dei regimi islamici.

Il popolo anestetizzato e oggetto passivo della politica

Nel 2011 la natura dei poteri contestati dalla popolazione furono monarchie come Marocco, Giordania e Arabia Saudita che legittimano il loro potere nell’appartenenza a clan familiari o le repubbliche nazionaliste dittatoriali come l’Egitto che dichiaravano di assicurare una sorta di welfare generalizzato dei servizi pubblici per la popolazione, tuttavia senza mai dotarsi di un apparato per la loro erogazione. La narrazione infatti da parte delle autorità politiche delle repubbliche nazionaliste in questo caso si concentrò sulla costante minaccia di qualche potere esterno finalizzata al rafforzamento politico interno della loro condizione e anestetizzando il popolo con tale retorica per diversi anni rispetto a quanto stava realmente accadendo. Infine, il Libano invece costituiva in quegli anni un unicum rispetto al sistema statale, essendo contraddistinto da un sistema confessionale del potere al quale passò anche l’Iraq dopo il 2003.  A crollare, come detto sopra, nel 2011 furono soprattutto le egemonie nazionaliste venendo messo in discussione per la prima volta in modo propulsivo il patto sociale tra la popolazione civile e le autorità al potere. Infatti, a parte le specificità di ogni singolo paese, ciò che emerse già negli anni Ottanta e Novanta così come nei primi anni del Duemila fu la volontà del popolo arabo di affermare la propria cittadinanza attiva che si manifestò proprio in quei paesi nei quali il potere non investiva sul protagonismo e sulla volontà popolare come in Algeria o in Egitto. In questi paesi, già allora e successivamente mediante le primavere arabe, e ancora oggi, il popolo richiede il riconoscimento da parte delle istituzioni della società da esso costituita e contraddistinta e di tutte le sue articolazioni, stanco ormai di essere mero oggetto passivo della politica. A distanza di anni, proprio alla luce di valutazioni che affermano il fallimento di tali moti rispetto al processo di democratizzazione, si deve dunque riflettere se semplicemente nel 2011 non sia stata maturata la capacità di operare una precisa e corretta individuazione, da parte del popolo, della causa della mancanza di riconoscimento delle libertà civili e dei diritti politici. Infatti, come si comprende meglio dopo dieci anni, tale mancanza di riconoscimento non è tanto da rinvenirsi nelle figure autoritarie, allora al potere, come per esempio Hosni Mubarak e Abdelaziz Bouteflika, quanto piuttosto nel sistema a esse sottostante, ossia quello di regimi che come vediamo non sono mutati ma piuttosto peggiorati.

Non a caso, nonostante il colpo di stato, ancora oggi, con la salita al potere del presidente al-Sisi, l’Egitto rimane oggetto di numerose contestazioni popolari alle quali il governo risponde con l’applicazione di una forza militare altamente repressiva. Di fatti i manifestanti egiziani oggi dirigono le loro proteste non più verso lo stato civile quanto piuttosto contro il regime militare.

I malcontenti sono gli stessi…

Tornando poi al malcontento popolare, manifestato più specificamente dal 2018 al 2020 in Algeria, Iraq e Libano, vi è da sottolineare che le primavere arabe dispiegarono i loro effetti in parte, senza essere sovversive del sistema politico allora al potere, o per nulla in questi paesi, diversamente da quanto avvenne in altri, sia del Nord Africa che del Medio Oriente, come già evidenziato sopra. In Libano, in Iraq o in Algeria sono emersi comunque oggi gli stessi malcontenti di allora: in Algeria ancora una volta contro il presidente Abdelaziz Bouteflika, costretto a dimettersi il 2 aprile del 2019.

L'eredità delle Primavere arabe

Algeri, 5 aprile 2019: Rachid Nekkaz, attivista fondatore del Mouvement de Jeune et Changement (MJC), dopo la cacciata di Bouteflika (foto Soheib Mehdaoui). Si trova in isolamento in carcere dal dicembre 2019.

Migliaia di manifestanti tunisini, algerini, come in passato e iracheni e libanesi per la prima volta, sono scesi negli ultimi anni in strada accusando le forze di sicurezza e l’élite al potere di corruzione e di gravi violazioni dei diritti umani. Questo aiuta a comprendere oggi come alcuni fenomeni rimandino più all’idea che le Primavere arabe furono la manifestazione di una “malattia cronica” e non “semplicemente acuta”. I ragazzi che oggi manifestano hanno vissuto la dittatura durante la loro infanzia e vivono la condizione di una democrazia sospesa, a questo va aggiunto il ruolo delle forze del sedicente Stato Islamico che hanno portato un aggravio di situazioni sociali e politiche già logorate.

L'eredità delle Primavere arabe

Proteste a Beirut (foto alichehade).

… ma è aumentata la povertà

Si può dunque ipotizzare che le primavere del 2011 abbiano cambiato solo la facciata dei sistemi politici allora al potere, ma ne sono rimaste per decenni intatte le loro dinamiche. Inoltre, con riferimento ai recenti tumulti che hanno interessato Algeria, Iraq e Libano va detto che la pandemia diffusasi nello scorso anno non ha fatto altro che accelerare ed esacerbare tali dinamiche legate ai poteri di sempre e che portano tuttora i giovani a manifestare per l’acquisizione degli stessi diritti, ma in una condizione di povertà senza precedenti.

In conclusione, quindi si può affermare che anche se le richieste politiche economiche e sociali sono ancora disattese – nonostante le Primavere arabe e le rivoluzioni arabe verificatesi negli ultimi anni – occorre forse che trascorra ancora del tempo affinché tali istanze civili possano effettivamente determinarsi con un conseguente cambiamento del sistema politico e del ruolo della società civile. Sarà tuttavia il popolo capace di resistere ancora una volta?

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La sfida dei curdi è una sfida per l’umanità https://ogzero.org/la-sfida-anarchica-del-rojava/ Mon, 14 Dec 2020 22:17:21 +0000 http://ogzero.org/?p=2071 Prendiamola larga. Riguardo all’annoso dilemma se sia nato prima l’uovo o la gallina, dopo accurate ricerche storico-paleontologiche, propendo decisamente per l’uovo. L’uovo, naturalmente, di qualche piccolo dinosauro ricoperto di piume e penne che – gradualmente o con un improvviso “salto evolutivo” – produsse quello da cui nacque l’antenato ancestrale della gallina. Ovviamente si può dissentire. […]

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Prendiamola larga. Riguardo all’annoso dilemma se sia nato prima l’uovo o la gallina, dopo accurate ricerche storico-paleontologiche, propendo decisamente per l’uovo. L’uovo, naturalmente, di qualche piccolo dinosauro ricoperto di piume e penne che – gradualmente o con un improvviso “salto evolutivo” – produsse quello da cui nacque l’antenato ancestrale della gallina. Ovviamente si può dissentire.

Parimenti, sull’altra sofferta questione se sia nato prima il capitalismo o lo sfruttamento, le gerarchie sociali… propendo – come mi pare sostenga anche Öcalan – per assegnare la primogenitura alla gerarchia, al potere.

Ma – così come le galline disseminano di uova il pollaio e le immediate vicinanze – così il capitalismo ha diffuso a pioggia l’oppressione nelle sue svariate e molteplici forme.

Esiste tuttavia qualche differenza sostanziale. Personalmente (in quanto vegetariano, ma non solo) non appenderei mai una gallina al lampione.

10-100-1000… Rojava?

Il Rojava, un enigma sospeso tra mille buone ragioni e qualche “effetto collaterale” magari indesiderato.

Tra la guerra e l’autogestione, la resistenza e l’ecologia, il rifiuto delle gerarchie e la necessità dell’autodifesa, la rivoluzione delle donne e le milizie in armi…

Un “groviglio” non indifferente.

Per capirci qualcosa di più, abbiamo consultato la mappa realizzata da Norma Santi e Salvo Vaccaro. Un paziente lavoro di documentazione dell’avventuroso, audace esperimento sociale intrapreso dai curdi e dagli altri popoli presenti nella regione considerata, il Rojava. Un testo che analizza – criticamente – soprattutto il versante libertario, la componente “anarchica” (in senso lato).

In La sfida anarchica nel Rojava (pubblicato da “La Biblioteca Franco Serantini”), risulta particolarmente stimolante e chiarificatore  – oltre a quelli di Salvo Vaccaro, Norma Santi e Debbie Bookchin – l’intervento di Raul Zibechi. Essenziale, direi.

Acutamente, risolve una – solo apparente – contraddizione. Ossia, il fatto che tali accadimenti («…il popolo in armi, il ruolo di spicco delle donne, l’autogoverno…») sembrano attendere, per manifestarsi adeguatamente, i tempi duri, le condizioni difficili, se non addirittura disperate («…durante una guerra, in una situazione estremamente critica per la sopravvivenza»). Come avvenne del resto in Ucraina nel 1921 e in Catalunya nel 1936.

Dopo una breve ricostruzione storica delle essenziali vicende (accordi segreti Sykes-Picot del 1916, Dichiarazione Balfour, Trattato di Sèvres del 1920, Trattato di Losanna del 1923, Trattato di Residenza Forzata imposto dalla Turchia nel 1930, le numerose – una trentina – rivolte tra il 1920 e il 1940, l’insurrezione di Dersim nel 1938, la repressione turca degli anni Ottanta e Novanta…), lo scrittore uruguayano spiega come proprio dalla sostanziale evaporazione delle strutture  statali nel Nord della Siria (2011) sgorgasse sia la necessità che la possibilità di formare le Unità di Protezione del Popolo (Ypg) e le Unità di Difesa delle Donne (Ypj), le milizie che l’anno dopo avrebbero liberato Kobane e altre città consentendo al Pyd (Partito dell’Unione Democratica) e al Knc (Consiglio Nazionale Curdo) di amministrare in base ai principi del Confederalismo democratico (ossia del municipalismo libertario). E in seguito – nel gennaio 2013 – ai cantoni di Jazira, Efrin e Kobane di proclamare la loro autonomia. Tra le macerie della guerra civile, i curdi avevano cercato e individuato la «loro strada attraverso l’autogoverno». Un esempio di possibile convivenza pacifica tra curdi, arabi, aramaici, armeni, turcomanni, ceceni…

Zibechi sembra poi voler polemizzare – se pur garbatamente – con l’inveterata abitudine di attribuire sempre e comunque «l’adozione del Confederalismo democratico alla prigionia di Abdullah Öcalan e all’influenza del pensatore  e militante statunitense Murray Bookchin». In fin dei conti, sostiene, «si tratta di una visione colonialista». Invece «la popolazione curda, come gli indigeni latinoamericani, si costituisce attorno a comunità contadine che determinano la loro  identità e la loro cultura». E la proposta del Confederalismo democratico sarebbe quindi «ancorata al recupero delle tradizioni della Mesopotamia». Quelle che altrove definisce «tradizioni libertarie del popolo curdo».

E proprio il nuovo orientamento del Pkk, precedente alla carcerazione di Apo, costituì un elemento che doveva scatenare la «reazione furibonda  degli Stati Uniti e dei loro alleati che decisero di definirlo terrorista e di perseguire il suo dirigente Abdullah Öcalan». I fatti successivi sono tristemente noti. Espulso dalla Siria, poi anche dalla Russia, dopo un breve soggiorno in Italia (pare che in un primo momento D’Alema avesse garantito a Bertinotti l’asilo politico per il leader curdo perseguitato), Öcalan venne catturato – in un’operazione attribuita alla Cia e al Mossad – mentre dall’ambasciata greca in Kenya si recava in Sudafrica (su invito di Nelson Mandela).

Per Zibechi il Pkk costituirebbe un serio problema per l’imperialismo in quanto «ora possiede una proposta  per tutti i popoli del Medio Oriente». Esprimendo le note “quattro critiche”  allo stato-nazione (in sintesi: qualsiasi stato si fonda sul dominio di una classe, presuppone il dominio di un gruppo etnico o religioso sopra gli altri, tutti gli stati si appoggiano sul patriarcato, lo stato ha necessità di una economia produttivistica che porta alla distruzione della madre Terra).

Per cui «non si può farla finita con il capitalismo senza eliminare lo stato e non possiamo liberarci dello stato senza liberarci del patriarcato».

Di passaggio l’autore rimprovera ai partiti della sinistra turca, anche a quelli della sinistra rivoluzionaria, l’evidente inadeguatezza di fronte alla questione curda. A tale riguardo andrebbe evidenziato come invece, proprio le esperienze di resistenza e autogoverno dei curdi sia in Rojava che – per quanto umanamente possibile – in Bakur, abbiano risvegliato – “ringiovanito” – la sinistra turca, rimasta parzialmente “tetanizzata” dopo il golpe del 1980*.

Contributi statunitensi

Tra i vari contributi, numerosi  – prevalenti direi – quelli di autori statunitensi (Debbie Bookchin, Paul Z. Simons, Janeth Biehl, Marcel Cartier*, David Graeber, il sito itsgoingdown).

Non è detto (pensando alla storia della sinistra d’oltreoceano) che siano sempre i più indicati per comprendere tali dinamiche.

È possibile infatti che La Commune, Kronstadt, la Maknovicina, le collettivizzazioni in Catalunya e Aragona del 1936-1937… (fonte di ispirazione, se non addirittura propedeutiche, per quella analoga del Rojava) siano esperienze riconducibili alla tormentata, secolare storia delle classi subalterne europee**. Per qualche autore, niente di più e niente di meno che la «prosecuzione con altri mezzi» delle jacqueries del 1300, delle guerre contadine e delle insorgenze ereticali. Non certo al «turbinio di cattivo acido, al mandarino, di amore libero e della famiglia Manson» che – come doveva ammettere il compianto Paul Z. Simon – contraddistinse le “comuni” nordamericane.

Murray Bookchin: ripensare l’etica, la natura e la società 

Senza fare però di ogni erba un fascio e sottolineando che comunque ci sono nordamericani e nordamericani.

Significativo e importante conoscere – attraverso la testimonianza della figlia – l’origine del rapporto tra il pensatore anarchico – statunitense, ma di origine russa – Murray Bookchin (che molti di noi ricordano, basco in testa, a Venezia nel 1984) e Öcalan.

Racconta la giornalista Debbie Bookchin, esponente dell’Institute for Social Ecology, di quando Murray le rivelò – in modo casuale e disinvolto – che «apparentemente i curdi hanno letto il mio lavoro e stanno cercando di mettere in pratica le mie idee». Un corpo di idee che il filosofo e storico aveva denominato «ecologia sociale». In quei giorni (aprile 2004) Bookchin padre aveva ricevuto una lettera da un intermediario (un traduttore tedesco, Reimar Heider) che scriveva a nome del militante curdo imprigionato a Imrali.

Comprensibile un certo iniziale stupore, visto e considerato che fino ad allora nulla dell’ideologia del fondatore del Pkk «sembrava in alcun modo assomigliare a quella di mio padre». Invece, come spiegò Heider, «Öcalan stava leggendo le traduzioni turche dei libri di mio padre in carcere e si considerava un suo bravo studente»***. Libri che Öcalan aveva potuto ottenere in carcere in quanto necessari alla preparazione di una strategia legale per la propria difesa durante il processo per tradimento. Individuando nella formazione e sviluppo dello stato-nazione (a partire dalle prime espressioni conosciute in Mesopotamia, in contemporanea con la nascita dell’agricoltura, dell’allevamento, della schiavitù, dell’oppressione delle donne…) le origini storiche del conflitto turco-curdo ed elaborando una soluzione democratica per ristabilire un rapporto di reciproco rispetto e di convivenza. Non solo tra curdi e turchi, ma fra tutti i popoli del Medio Oriente.

Il cammino intrapreso dal Pkk (fino ad approdare – nel 1998 – al Confederalismo democratico) era iniziato nei primi anni Novanta (quindi prima della cattura di Öcalan) in coincidenza con la caduta del socialismo reale. Una nuova strategia che rifletteva – tra l’altro – i cambiamenti demografici avvenuti nella società curda. Dei tredici milioni di abitanti di Istanbul, ricorda la giornalista «sei milioni sono curdi» e altri quattro milioni sarebbero i curdi emigrati in Europa. Al punto che ormai, secondo Debbie Bookchin «la maggior parte dei curdi non vive in Kurdistan». Ne consegue pertanto che «la lotta principale non  è più nazionale, ma sociale».

In qualche modo “più attraente” anche per tutti quei soggetti oppressi e sfruttati, umiliati e offesi che – senza esser curdi – subiscono comunque il tallone di ferro dell’imperialismo e dei vari regimi.

Purtroppo le circostanze sfavorevoli non consentirono un incontro di persona tra i due. Bookchin era già anziano e con problemi di salute, Öcalan in carcere, spesso sottoposto a lunghi periodi di isolamento. Per cui i loro contatti si limitarono a uno scambio epistolare. Nell’ultima lettera aveva scritto: «La mia speranza è che il popolo curdo possa un giorno essere in grado di creare una società libera e razionale che permetta al loro splendore ancora una volta di prosperare. Hanno la fortuna di avere un leader del talento di Öcalan per guidarli».

Alla morte di Bookchin (30 luglio 2006), il Pkk lo volle ricordare con una dichiarazione – presumibilmente dettata dallo stesso Öcalan – di due pagine in cui lo definiva «uno dei più grandi scienziati sociali del ventesimo secolo».

E aggiungeva: «Ci ha introdotti al pensiero dell’ecologia sociale, e per questo verrà ricordato con gratitudine dall’umanità. […]  Ci impegniamo a far vivere Bookchin nella nostra lotta. Metteremo questa promessa in pratica come la prima società che stabilisce un tangibile Confederalismo democratico».

Altrettanto meritevoli di attenzione altri contributi internazionali e internazionalisti: latino-americani (l’uruguayano Raul Zibechi, già nominato), turchi (l’intervista a Devrimci Anarsiste Faaliyet) italiani (Norma Santi, Salvo Vaccaro, Eleonora Corace), curdi (Dilar Dirik, Hawzhin Azeer – citata in “Rivoluzionari o pedine dell’Impero?”), tedeschi e – presumibilmente – francesi (G.D. & T.L.).

Per la rivoluzione, non per il martirio e nemmeno per farsi pubblicità

Esaurienti e significative le interviste a chi materialmente “si è sporcato le mani”, i militanti integrati nelle Ypg, Ypj e Irpgf.

In Non per il martirio (a cura di CrimethInc), oltre a spiegare le diverse motivazioni che possono aver spinto giovani turchi, europei, statunitensi a combattere con i curdi, non si lesina qualche critica a certi atteggiamenti e comportamenti. Per esempio di quelli che «provano un enorme piacere a mostrare i loro volti, posano con le armi in pugno e gongolano dei loro successi». Spiegando che – purtroppo – non sono mancati i casi di volontari che «hanno usato il conflitto nel Rojava come veicolo per farsi pubblicità, che fa un po’ parte della logica dell’età del selfie e dei social media». Questo ha permesso ad alcuni di loro (comunque una «piccola percentuale dei combattenti internazionali, in nessun modo rappresentativi delle motivazioni e delle azioni della maggior parte») di «guadagnare piccole fortune scrivendo libri e usando la rivoluzione per i loro guadagni personali». E questa, lo dicono fuori dai denti «è la peggior forma di avventurismo e di opportunismo».

Anche per rispetto a tutti gli internazionalisti morti combattendo contro il califfato (Daesh) o contro l’esercito turco. Tra cui molte compagne: Barbara Kistler, Andrea Wolf, Ivana Hoffman, Ayse Deniz Karacagil, Anna Campbell, Alina Sanchez…

E nel  suo “Poscritto” Norma Santi ricorda in particolare i compagni anarchici caduti: Michael Israel, Robert Grodt, Haukur Hilarsson, Anna Montgomery Campbell (già ricordata), Sehid Sevger Ara Makhno, Lorenzo Orsetti.

Senza dimenticare altri cinque anarchici (Alper Sapan, Evrim Deniz Erol, Caner Delissu, Serat Devrim, Medali Barutcu) uccisi nella strage jihadista di Suruc (20 luglio 2015) costato la vita a 33 giovani turchi e curdi (membri della Federazione delle Associazioni dei Giovani Socialisti) che intendevano portare aiuti ai civili evacuati da Kobane.

Un libro da consultare – si diceva – da studiare. Non solamente, pare ovvio, dagli anarchici o aspiranti tali. Uno spaccato a 360 gradi (o quasi) della complessa situazione (il famoso “groviglio”) del Rojava (ma nel libro si parla anche del Bakur – i territori curdi sotto amministrazione-occupazione turca – e dei monti Qandil).

Qualche ulteriore osservazione senza intenti polemici

Tra le righe de La sfida anarchica nel Rojava si coglie una preoccupazione ricorrente (e comunque legittima per chi se la vuol porre). Ossia quanto siano veramente “rivoluzionari” i compagni curdi. Quanto realmente “anticapitalisti”. E anche quanto realmente “libertari”, se non proprio anarchici.

Preoccupazione legittima – si diceva – ma forse talvolta eccessiva. Dato che non abbiamo a che fare soltanto con una o più organizzazioni (Ypg, Jpg, Pkk…), ma anche – soprattutto – con un popolo. Un popolo che – come altre comunità minoritarie o minorizzate (in quanto separate da artificiosi confini statali) presenti in quei territori – rischia periodicamente, se non il vero e proprio genocidio, quantomeno l’etnocidio o l’assimilazione (forzata e non).

Quindi direi che – forse – non è il caso di cercare, sempre e comunque, il pelino nell’uovo (ancora!).

Ritengo che per i curdi rimanga prioritario il fatto di resistere, sopravvivere. Sia agli eserciti statali che alle milizie parastatali, così come alle squadre della morte… talvolta anche ad altri curdi, più o meno collaborazionisti (vedi, talvolta, il Pdk).

Viceversa, andrebbe apprezzato – e molto – il fatto che in un contesto come quello mediorientale – e di questi tempi poi – qualcuno (se non un intero popolo, almeno una sua componente significativa)  si autorganizzi mettendo radicalmente in discussione le gerarchie consolidate (di stato, di classe, di genere… perfino l’antropocentrismo talvolta).

 

  • * a parziale conferma di quanto sostenuto – la minor adeguatezza degli statunitensi nel comprendere i processi rivoluzionari – e non solo quelli –  riporto quanto scrive Cartier. Senza nemmeno – almeno apparentemente – un filo di ironia: «Sembra il paradosso dei paradossi. Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali sono impegnati in una guerra spietata e implacabile contro il governo siriano di Damasco, proprio questi cosiddetti difensori della democrazia e della libertà che sostengono una delle più spregevoli organizzazioni terroristiche e reazionarie mai viste nella storia recente…». Dove appare alquanto disdicevole (e lo è ovviamente) la copertura data – almeno in una certa fase – a Daesh dagli Usa. Mentre appare – o almeno così sembra, potrebbe sembrare – assai meno disdicevole l’attacco imperialista alla Siria (fermo restando il giudizio negativo su Assad). Messa giù così – senza contestualizzare – si potrebbe anche pensare (è una domanda la mia) che in fondo gli Usa non sbagliano nel sentirsi autorizzati, legittimati a intervenire militarmente contro chi non corrisponde ai loro parametri o si frappone ai loro intenti predatori… o no?
  • ** Per quanto siano state esperienze finora sostanzialmente fallimentari,  rimangono – a mio avviso – non solo valide, ma generalizzabili e applicabili ovunque in futuro dovessero crearsene le condizioni. Con maggior fortuna ci si augura.
  • *** Oltre che da Bookchin, Öcalan sarebbe stato influenzato dal pensiero di Braudel, Wallerstein, Mies, Foucault. Presumibilmente anche dal Comandante Marcos, a sua volta influenzato dal situazionismo di Guy Debord che – lo ricordava la figlia – fu tra coloro (cita anche Herbert Marcuse, Daniel Cohn-Bendit, Huey Newton…) che ebbero con Bookchin uno scambio proficuo di idee e di reciproche contaminazioni.

Abbiamo proposto qui un articolo dal taglio insolito per OGzero: solitamente non pubblichiamo recensioni di libri ma Gianni Sartori in questo caso ha intessuto un legame tra i saggi citati e i temi che ci sono più cari (resistenza, autogoverno, rifiuto delle gerarchie e del patriarcato…) rendendo il “groviglio” mediorientale un paradigma rintracciabile in molte delle vicende che su questo sito cerchiamo di narrare. Inoltre si tratta di portare l’attenzione su un dibattito che riguarda l’atteggiamento rivoluzionario di esperimenti sociali alternativi al modello capitalistico a livello globale – quindi geopolitico – tanto nell’attuale situazione, quanto a livello diacronico.

La foto in copertina è di Kamal Chomani e raffigura un gruppo di curdi che tentano di passare il confine sui monti tra Iraq e Iran.

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Oltre il califfato https://ogzero.org/oltre-il-califfato/ Mon, 15 Jun 2020 14:40:27 +0000 http://ogzero.org/?p=241 «Gli arabi, i nostri vicini, ci hanno pugnalato alle spalle», mi aveva detto sul fronte di Makmur il generale dei pīs mergah Abdul-Wahab al-Saadi per giustificare in parte la débâcle dei suoi soldati. La realtà è che in molti erano rimasti inerti o pericolosamente attivi in questi anni a scrutare l’orizzonte di un Medio Oriente […]

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«Gli arabi, i nostri vicini, ci hanno pugnalato alle spalle», mi aveva detto sul fronte di Makmur il generale dei pīs mergah Abdul-Wahab al-Saadi per giustificare in parte la débâcle dei suoi soldati. La realtà è che in molti erano rimasti inerti o pericolosamente attivi in questi anni a scrutare l’orizzonte di un Medio Oriente che si sta inabissando. E anche un breve sguardo al passato ci può aiutare a comprendere: magari non può suggerire al presente soluzioni politiche ma racconta una storia da conoscere.

Quella dell’Iraq e della Siria appartiene a un intreccio complesso tra strategie coloniali britanniche e francesi, contesti geopolitici legati al petrolio e ai movimenti nazionalisti che hanno contribuito a disegnare la mappa del Medio Oriente conosciuto fino a oggi. Già allora comparvero sulla scena movimenti fondamentalisti islamici e rivolte di massa di cui l’ultima con effetti dirompenti si è avuta nel 2011.

Ci fu un tempo in cui l’idea del califfato diventò una soluzione politica anche per l’Occidente. Ricordarlo oggi di fronte alle atrocità dell’Isis può apparire una bestemmia. Ma fu esattamente quanto fece il ministro delle Colonie Winston Churchill: con l’espediente politico dei califfati e degli sceicchi mise a capo degli stati sotto mandato britannico i monarchi arabi del clan hashemita degli Ḥusayn, sovrani della Mecca. Fu così che nacquero l’Iraq, la Siria e la Giordania.

Emiri e sceicchi allora erano al servizio del piano coloniale per far nascere nuovi stati che adesso si stanno sgretolando. La guerriglia e il terrorismo praticato dallo Stato islamico di Abū Bakr al-Baghdādī sono adesso funzionali a un progetto completamente diverso: abbattere le frontiere tracciate un secolo fa e riunire i sunniti sotto la bandiera nera di un nuovo califfato.

È evidente che niente può giustificare i massacri e le esecuzioni dell’Isis ma bisogna riconoscere il problema: i sunniti sono una maggioranza in una Siria dominata per quarant’anni dal clan degli alauiti di al-Asad, mentre in Iraq, rispetto agli sciiti, rappresentano una minoranza che con Saddām Ḥusayn è stata fino a un decennio fa al potere nelle forze armate e nell’amministrazione. Sia la Siria che l’Iraq oggi sono degli ex stati, presenti in maniera virtuale sulla mappa geografica e nessuno né in Occidente né in Medio Oriente ha un piano politico alternativo al mantra dell’unità nazionale ripetuto in maniera stucchevole dalla diplomazia internazionale.

Siamo quindi a un bivio: o si ricostituisce questa unità nazionale, evocata a ogni pleonastica conferenza mediorientale, oppure si deve affrontare la balcanizzazione del Medio Oriente. Gli europei, che hanno assistito senza fare nulla di positivo alla disintegrazione della Jugoslavia e ora appaiono impotenti di fronte all’Ucraina, sono in materia degli esperti.

Ecco che cosa ha significato dell’intervento russo del 2015: Mosca non avrebbe permesso che la Siria, una sorta di Jugoslavia araba, facesse la fine di quella di Milošević che cominciò a disgregarsi nel fatale 1989 con il discorso di Slobodan a Kosovo Polije, la Piana dei Merli dove si era combattuta 600 anni prima la famosa battaglia con gli ottomani. Conoscevo bene quella piana perché per 10 anni ho coperto come inviato anche le guerra balcaniche e nel 1999 mi trovavo a Priština quando cominciarono i bombardamenti della Nato. Allora i russi non fecero nulla se non mandare un battaglione di parà che fu accolto con fiori e canti di vittoria dalla minoranza serba ma che finì per acquartierarsi all’aereoporto nel momento in cui entrarono le truppe dell’Alleanza Atlantica al comando del generale Jackson.

Il bilancio umanitario dell’intervento russo in Siria è terrificante ma quello militare dà ragione a Mosca: Putin ha salvato il regime di Damasco alleato storico sia della Russia che dell’Iran. Dal punto di vista strategico Putin ha ridato un lustro da grande potenza alla Russia tornata protagonista in Medio Oriente ma lo ha fatto anche a suo rischio e pericolo: la Siria può trasformarsi in una sorta di nuovo Afghanistan se non troverà un accordo politico che garantisca a Mosca i vantaggi militari raggiunti.

In Siria per mantenere in vita lo stato si deve trattare con il regime alauita: continuare a ripetere che Baššār al-Asad deve andarsene come fanno americani, europei, arabi e turchi, non serve e finora non è servito a nulla. Il crollo secco di un regime, come in Iraq e in Libia, non poteva che trascinare il paese in un’anarchia ancora più profonda.

In Iraq l’unica via è quella di riportare i sunniti al governo e dentro le stanze del potere. Rifare l’esercito con ufficiali sunniti nei posti di comando per evitare che intere divisioni si sciolgano come gelati al sole senza combattere davanti all’avanzata di alcune centinaia di miliziani. La soluzione di armare i pīs mergah è stata utile soltanto a tamponare la situazione: i curdi possono difendere il loro territorio ma non imporre l’ordine nel resto dell’Iraq sunnita. Sono una minoranza non troppo popolare e per di più non araba.

La soluzione politica, necessaria per rendere efficace anche quella militare richiede l’impegno delle potenze straniere che stanno combattendo da diversi anni una guerra per procura in Siria e in Iraq. Gli arabi hanno visto nello Stato islamico una buona carta da giocare per contrastare, con il beneplacito occidentale e della Turchia, l’influenza iraniana in Iraq, Siria, Libano. Le monarchie del Golfo e la Turchia sostengono i sunniti che combattono in Siria; l’Iran e gli Hezbollah libanesi, insieme alla Russia, sono a fianco degli alauiti siriani e del governo sciita di Bagdad. L’Iran, che ha negoziato l’accordo sul nucleare, ha già compiuto un passo significativo in Iraq scaricando il fallimentare primo ministro Nūrī al-Mālikī. La Turchia deve bloccare il passaggio degli jihādisti alle sue frontiere, dove sono schierati i curdi siriani di Kobânê a combattere contro il califfato, e le monarchie del Golfo prosciugare i fondi elargiti ai movimenti radicali: mentre il califfato oggi si autofinanzia, Qatar e Arabia Saudita si fanno concorrenza per foraggiare i loro protetti.

La nascita del califfato tra Iraq e Siria non è stata esattamente una buona notizia per queste monarchie assolute sostanzialmente antidemocratiche, che l’Occidente si ostina ad appoggiare rifornendole di armi in cambio di petrolio, commesse e investimenti. Come non era per loro una buona notizia l’ascesa dei Fratelli musulmani in Egitto: e non a caso Riad sostiene a mani piene (di dollari) il generale egiziano al-Sīsī. Se si fa un colpo di stato popolare in Egitto per far fuori Muḥammad Mursī, eletto dalle urne, si può anche combattere un califfo che non ha votato nessuno.

Ma c’è anche l’altra soluzione. Lasciare che il califfato faccia il suo corso, annientando le minoranze religiose, sfidando l’Occidente e i regimi avversari per frantumare la regione. Adesso ci appare una soluzione orribile ma siamo sicuri che questa alternativa qualche tempo fa non sia stata accarezzata in più di qualche cancelleria? 

Un articolo e una mappa pubblicati dal “New York Times” il 29 settembre 2013 – il Califfato era già in azione – prendevano in considerazione la possibilità che i conflitti e le rivolte in corso potessero provocare la frammentazione di alcuni stati arabi in unità più piccole. L’articolo di Robin Wright, ex corrispondente a Beirut ed esperta di relazioni internazionali, scatenò allora accesi dibattiti negli Stati Uniti mentre in Medio Oriente nascevano congetture su un nuovo piano dell’Occidente, di Israele e di altri soggetti malintenzionati per dividere gli stati arabi in entità più piccole e più deboli. Congetture? A pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, diceva qualcuno.

Il sospetto è che questa guerra allo Stato islamico di al-Baghdādī sia soltanto il primo tempo della vicenda: nel secondo si deciderà chi dovrà governare la nuova entità. E allora si comincerà a combattere la vera guerra.

Due anni dopo il destino traccia scenari assai curiosi per uno Stato islamico in forte arretramento territoriale che ha il suo cuore pulsante nel Siraq, alcune roccaforti in Libia ma che si estende con i gruppi affiliati dall’Afghanistan all’Africa occidentale. Ricordiamo che la guerra in Afghanistan nel 2001 non fu la fine di al-Quaeda di bin Lāden, che si ricostituì in Yemen con colonne agguerrite dal Medio Oriente all’Africa.

L’incrocio tra l’Isis e al-Quaeda, da cui in Iraq tutto è nato, propone nuovi sviluppi in una regione dove gli jihādisti sono il simbolo ma anche l’espressione del fanatismo religioso e del declino culturale di stati in disgregazione. Il Fronte al-Nuṣra, impegnato nella battaglia di Aleppo, ha appena cambiato nome staccandosi proprio da al-Quaeda e forse verrà cancellato dalla lista nera dei gruppi terroristi per entrare a far parte dell’opposizione “rispettabile” contro Assad: nelle sue file torneranno i transfughi che avevano giurato fedeltà al califfato. Ecco che cosa può accadere a una parte dell’Isis dopo un’eventuale sconfitta: i miliziani più “ragionevoli” verranno riciclati tra gli jihādisti “buoni”, quelli sostenuti dalla Turchia e finanziati da sauditi e qatarini. Può apparire scandaloso ma questa è una mossa tattica, ispirata dagli americani, per usare gli jihādisti anti-Asad anche in chiave antiraniana e tenere sotto pressione la Russia.

In Medio Oriente i mostri generano altri mostri: noi la chiamiamo realpolitik.

Ma questa è solo una parte della storia. L’Isis continuerà a operare magari in maniera diversa con il piano B del suo portavoce Abū Muḥammad al-‘Adnānī, ucciso qualche tempo fa in un raid americano. Al-‘Adnānī era una sorta di “ministro” degli attentati, supervisore del fronte esterno coordinava i combattenti in Occidente ma non si era mai preoccupato della segretezza. Anzi, all’opposto. Più era trasparente e più era facile per chi ascoltava mettere in pratica le sue direttive. Dagli attacchi in Germania, a un camion-ariete come a Nizza. Ma bisogna guardare oltre. Secondo alcune ricostruzioni al-‘Adnānī aveva iniziato a pensare a quando l’Isis sarebbe stato sconfitto, ovvero studiava come creare una quinta colonna in Europa. E gli jihādisti potrebbero usare il Nordest della Siria come area di addestramento e come ponte sul confine turco. Del resto da cinque anni è la meta agognata dei foreign fighters: è il “nostro” Afghanistan da monitorare. Per questo è importante la conquista della roccaforte di Manbij da parte della coalizione curdo-araba appoggiata dagli Stati Uniti: taglia la strada verso Raqqa, capitale del califfato, ma anche la via di fuga degli jihādisti in direzione della Turchia. è scattato così il Gran Premio per Raqqa: una corsa a due tra la coalizione capeggiata dagli Stati Uniti e quella a guida russa con al-Asad, iraniani ed Hezbollah: ma la sua caduta non sarà la fine della storia.

Nella battaglia contro l’Isis la chiave politica della vicenda è importante quanto quella militare. Anzi senza la prima non si riesce a comprendere neppure la seconda. Il califfato di al-Baghdādī potrà essere anche effimero ma la barbarie, l’ingiustizia, la violazione continua dei diritti umani, sono da queste parti moneta corrente e tollerata nel grande gioco delle alleanze e degli interessi mondiali. Anche questa è stata una delle cause che hanno portato in Medio Oriente all’ascesa del jihādismo e al successo della sua propaganda.

La storia cominciata nel 2003 con la caduta di Saddām non termina adesso. Lo Stato islamico non ha fatto tutto da solo ma si è alleato con le tribù sunnite e i gruppi baathisti di Saddām che avevano con gli jihādisti un obiettivo in comune: rimuovere dal potere gli sciiti. al-Baghdādī, militante di al-Quaeda e seguace di Abū Muṣ‘ab al-Zarqāwī, ha sfruttato il caos saldando guerra siriana e irachena. Ma le vere e profonde cause della rivolta sono state la corruzione e le politiche discriminatorie di Bagdad, una formidabile propaganda per l’Isis nelle province sunnite così come è avvenuto in Siria, paese a maggioranza sunnita dominato brutalmente dalla minoranza alauita degli al-Asad. L’irredentismo sunnita, sostenuto da potenze esterne come Arabia saudita e Turchia, non finirà con la sconfitta del califfato e forse neppure con una nuova mappa del Medio Oriente. 

Proviamo a immaginare, dopo l’uccisione ad Aleppo del portavoce del califfato al-‘Adnānī, che venga aperto un Ufficio propaganda anti-Isis. Perché sarebbe pericolosamente illusorio pensare che la morte di uno dei leader dell’organizzazione ma anche il suo arretramento territoriale e un’eventuale sconfitta possano costituire la fine di un’ideologia jihādista che si è diffusa negli ultimi decenni dall’Afghanistan all’Iraq, dal Medio Oriente all’Asia centrale, all’Africa, fino a entrare mortalmente dentro l’Europa.

Gli esempi del contrario sono diversi, a partire da al-Quaeda, casa madre in Iraq dell’Isis: l’uccisione di Osāma bin Lāden ad Ābṭābād in Pakistan nel 2011 non fu la fine del gruppo terroristico come non lo era stata la perdita dei santuari afghani dopo le Torri Gemelle e la guerra del 2001.

Al-Quaeda non solo si è ricostituita in Yemen, ha continuato a operare in Iraq, nel Maghreb e nella fascia subsaheliana e in Siria ha dato vita al fronte Jabhat al-Nuṣra, serbatoio di combattenti per lo stesso califfato, sostenuto da turchi e sauditi, che adesso si sta riciclando per uscire dalla lista nera dei gruppi terroristi ed essere utilizzato dagli Stati Uniti in chiave antiraniana e antirussa. Quando si parla di propaganda antijihādista bisogna sempre ricordare che una delle origini di questa storia è stata proprio la strumentalizzazione dei militanti islamici iniziata nel 1979 quanto l’ex Urss invase l’Afghanistan.

Gli eroi di ieri, i mujāhidīn afghani che sconfissero l’allora “Impero del male”, sono diventati i “barbari” di oggi, pronti adesso, almeno in parte, a entrare in un nuovo programma di candeggio nella lavatrice della geopolitica come qāidisti “buoni”, quelli che servono e sono alleati dei nostri partner economici e finanziari. Anche questo significa la battaglia di Aleppo, la “dottrina Erdoğan” per far fuori l’Isis ma soprattutto i curdi, le ambigue posture americane e della Russia di Putin. Non meravigliamoci troppo se il jihādismo potrà sopravvivere alla disfatta dell’Isis. Tutto dovrebbe essere materia di comunicazione per un onesto Ufficio propaganda anti-Isis.

L’Isis si è autoproclamato Stato islamico perché afferma di imitare la prima comunità musulmana che propagò la nuova religione fondata dal profeta Maometto con una serie di straordinari successi militari. I seguaci dell’Isis  dicono di volere ricostituire quella comunità originaria così come essi la immaginano: unita nella rigorosa obbedienza a un califfo, intollerante della diversità delle altre religioni, oppressiva nella repressione di cristiani ed ebrei, spietata nello sterminio di quelli che vengono ritenuti degli idolatri come gli yazīdi, nemica irriducibile delle correnti musulmane non rigorosamente sunnite, dagli sciiti a quelle eterodosse come gli alauiti siriani.

In realtà l’Isis è ignoranza. Se si risale alle origini si comprende subito che la versione di un islam unitario contraddice gli eventi. I suoi seguaci si ingannano sulla storia dell’islam che faceva molti più compromessi con le altre religioni e stili di vita differenti di quanto non si voglia ammettere. I militanti dell’Isis sottolineano che i primi musulmani diffusero l’islam con la forza della armi ma si dimenticano che questa espansione fu fondata su ben altro che la violenza. Nell’epoca d’oro i sovrani musulmani fecero largo uso del sapere e delle competenze delle varie comunità religiose sottoposte al loro dominio. I periodi di maggiore intolleranza dell’islam sono coincisi con quelli di povertà e arretratezza.

La storia si è ripetuta ai nostri giorni. Con la crisi negli ultimi tre decenni degli stati nazione usciti dalla decolonizzazione – Iraq, Siria, Egitto, Libia, scivolati verso fallimentari autocrazie – si sono fatti strada il fanatismo religioso, il declino culturale e la barbarie. Gli interventi occidentali hanno reso questo processo di disgregazione ancora più disastroso come è avvenuto in Iraq dopo il 2003: nel 1987, in era presanzioni, qui i cristiani erano l’8 per cento della popolazione ora sono meno dell’uno per cento.

L’Isis è l’apice di questa involuzione. Il califfato di al-Baghdādī ha voluto cancellare la memoria anche dei califfi più tolleranti, oltre che del passato preislamico di questi popoli, si è accanito su Palmira, sulle mura di Ninive, su qualunque monumento potesse sembrare non ortodosso, comprese le moschee sciite che quasi quotidianamente sono bersaglio di attentati kamikaze.

Allo stesso tempo si è scatenato in Europa, addestrando direttamente alcuni degli attentatori, in altri casi ispirando i lupi solitari o dei veri idioti dell’orrore che nel “format” dell’Isis inventato da al-‘Adnānī – basta agire, senza neppure rivendicare o essere militanti – ha dato un senso a vite fallimentari. Più che una versione “pura” dell’Islam gli jihādisti forniscono un franchising, che in Europa dà un’etichetta al malessere individuale e di gruppo e riempie il vuoto lasciato dalle ideologie del Novecento. Il jihādismo galleggia anche sui nostri vuoti di senso.

Il messaggio principale dell’Ufficio propaganda anti-Isis è questo: che minoranze militanti e violente non possono prevalere sulla maggioranza dei musulmani (1,5 miliardi), le vittime principali del terrore e dell’estremismo. Questa non è una sfumatura. Molti pensano che gli estremisti rappresentino la totalità dell’islam oppure che le loro tesi sono tollerate, non condannate e quindi accettate da gran parte dei musulmani. Sappiamo bene che non è così, l’Ufficio propaganda avrà molto da fare per correggere i luoghi comuni, per dare un’interpretazione corretta della storia e non strumentale dell’islam oggi percepito, inutile nasconderlo, come una minaccia globale.

 con una prefazione di Alberto Negri, una introduzione all’edizione italiana di Franco Cardini e una postfazione aggiornata di Pierre-Jean Luizard. Torino, Rosenberg & Sellier, 2016, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

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Questioni dottrinarie in Medio Oriente https://ogzero.org/questioni-dottrinarie-in-medio-oriente/ Sun, 29 Mar 2020 16:26:48 +0000 http://ogzero.org/?p=56 Ma come avevano reagito gli sceicchi alauiti all’abbraccio sciita degli ayatollah al-Sadr e al-Shirazi? Ed era cambiato qualche cosa nella loro dottrina? Rispondere a questo quesito è assai complicato: un conto era quanto veniva proclamato in pubblico, ben altro era stabilire davvero quale dottrina seguissero gli alauiti in segreto. Forse alcuni degli sceicchi più giovani […]

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Ma come avevano reagito gli sceicchi alauiti all’abbraccio sciita degli ayatollah al-Sadr e al-Shirazi? Ed era cambiato qualche cosa nella loro dottrina? Rispondere a questo quesito è assai complicato: un conto era quanto veniva proclamato in pubblico, ben altro era stabilire davvero quale dottrina seguissero gli alauiti in segreto. Forse alcuni degli sceicchi più giovani e istruiti avevano cominciato a formulare una sorta di riformismo alauita per avvicinarsi maggiormente alla teologia e alla filosofia dello sciismo duodecimano. In realtà in una fede esoterica come quella alauita le dispute dottrinarie tendevano a restare confinate a una cerchia ristretta di iniziati: le bocche erano cucite e le lingue si scioglievano soltanto per ripetere che gli alauiti appartenevano allo sciismo, una sorta di mantra recitato per respingere l’accusa di essere miscredenti.

Le questioni dottrinarie poi erano quasi inseparabili dalle dispute sull’autorità religiosa: e in questo campo non ci furono cambiamenti. Gli sceicchi alauiti siriani non riconobbero nessuna autorità e nessuno di loro seguì mai i fatwa o le indicazioni religiose che venivano da Qom e Najaf.

Questo era un punto cruciale. Fino a quando si fossero rifiutati di riconoscere l’autorità religiosa dei più importanti mullah sciiti, gli alauiti non avrebbero mai potuto ottenere un riconoscimento dei grandi ayatollah della statura di un Abol Qassem Khoi a Najaf oppure di Qassem Shariatmadari a Qom, considerati dei marja e-taqlid, fonti di imitazione, quindi dotati di un prestigio assoluto nel mondo sciita del tempo e che oggi può vantare soltanto Alì al-Sistani, il grande ayatollah iraniano, allievo di Khoi, che risiede dagli anni Settanta in Iraq.

I Naqshbandi

Tutto questo è dimostrato da una vicenda per niente secondaria. L’ayatollah Shariatmadari, protagonista della rivoluzione del 1979 contro lo shah e che aveva attirato l’interesse dei reporter occidentali, oltre che del filosofo francese Michel Foucault, intrattenne una lunga corrispondenza con Ahmed Kuftaro, gran muftì della Siria e strettamente legato al clan degli al-Asad. Fu Kuftaro, di origini curde, capo anche della confraternita Naqshabandi, ad accompagnare Giovanni Paolo II nella sua famosa visita alla grande moschea ommayade di Damasco nel 2001: era la prima volta che un papa entrava in una moschea. 

È curioso che la guida del papa fosse il capo in Siria della Naqshbandyya, una tariqa, una confraternita molto antica, che vantava la sua origine dai discendenti di Maometto e che fu in seguito associata al grande mistico del xiv secolo Muhammad Bahah al-Din al-Naqshbandi, da cui ha preso la denominazione. 

I Naqshbandi, detti anche Naksibendi in Turchia, hanno un ruolo chiave nelle sotterranee solidarietà della politica mediorientale. Durante una delle tante finte elezioni presidenziali irachene negli anni Novanta, Izzat Ibrahim al-Douri, vice di Saddam Hussein ed eminente esponente baathista, si fece accompagnare dalla stampa a Tikrit, città natale di Saddam, dove aveva forgiato i legami con il raìs. 

In quella occasione fu più facile del solito avvicinarlo e al-Douri ci rivelò di essere assai religioso: ogni venerdì andava a pregare in una delle moschee più importanti della capitale. Da un membro del suo seguito scoprimmo che apparteneva all’Ordine dei Naqshbandi, la confraternita estesa dall’Asia centrale alla Turchia alla Mesopotamia. Queste credenziali religiose dovevano averlo reso affidabile anche gli occhi del Califfato e del suo capo Abu Baqr al-Baghdadi che si vantava di essere membro di questa tariqa

Che i baathisti avessero dato una mano importante all’ascesa dello Stato Islamico di al-Baghdadi lo dimostrava anche il messaggio caloroso rivolto ai jihadisti con cui nel 2014 era riaffiorato alle cronache Izzat Ibrahim al-Douri dopo un decennio da imprendibile latitante tra Siria e Iraq. Al-Douri, che sarebbe stato ucciso nel 2015 a Suleymania, non era l’unico politico della regione affiliato all’ordine. 

In Turchia la confraternita dei Naksibendi nel dopoguerra trova il suo rinnovatore nell’imam Mehmet Zahid Kotku. Anche lui era un sufi che trasformò il sonnolento ordine della Naqshbandyya turca in una vera scuola socio-politica: sono stati seguaci di Kotku il presidente Turgut Ozal, il primo ministro islamista Necmettin Erbakan e lo stesso presidente Tayyp Erdogan, capo del partito musulmano Akp.

Quando si pensa ai protagonisti della scena mediorientale nessun legame deve essere trascurato e alcuni di questi possono apparire sorprendenti soltanto perché li ignoriamo. Per questo fui meno sorpreso quando due giorni prima della caduta di Baghdad, nella primavera 2003, feci colazione con il segretario di Saddam. Il dottor Ahmad mi venne a prendere nella hall dello Sheraton dove erano accampati alcuni islamisti che avevano sfilato qualche settimana prima per le vie della capitale con le cinture esplosive. «Ma questi prima non li impiccavate ai pali della luce?» osservai. «È vero – rispose Ahmad – ma adesso ci servono anche loro». Erano membri del gruppo islamista Ansar e facevano riferimento proprio a Izzat Ibrahim al-Douri. Qualche tempo dopo si sarebbero fatti esplodere ai check point degli americani e nelle moschee degli sciiti, i nuovi padroni dell’Iraq.

Proprio nel fatale 1979, l’anno della rivoluzione iraniana, il gran muftì siriano Kuftaro visitò Qom e si diffusero voci che fosse andato proprio dall’ayatollah Shariatmadari per ottenere un riconoscimento ufficiale degli alauiti come membri dello sciismo. Ma Shariatmadari non disse una parola al riguardo né fece alcun gesto in questa direzione: il silenzio assordante di Qom lasciò delusi diversi sceicchi alauiti e lo stesso clan degli al-Asad che avevano riposto la loro massima fiducia nella mediazione di Kuftaro, molto noto per la sua abilità nell’intrecciare il dialogo interreligioso.

La rivoluzione iraniana e gli alauiti

La rivoluzione iraniana e lo sciismo militante arrivarono a Damasco prima ancora che l’imam Khomeini facesse ritorno a Teheran il primo febbraio 1979 dopo la fuga dello shah Reza Palhevi. Nel giugno del 1977 era stato sepolto a Damasco, accanto al famoso mausoleo di Zeynab, Alì Shariati, uno dei simboli della rivoluzione.

La storia me la racconta nella sua casa di Teheran Ibrahim Yazdi, testimone di quel tempo. Alla parete della sala c’è la sua foto, quella di un uomo maturo e vigoroso, con un folta capigliatura corvina che arringa una folla oceanica a Korramshar. Un’immagine in bianco e nero, netta, senza sbavature, come poteva apparire in quel momento l’orizzonte dell’Iran: il passato, lo shah, era stato travolto e la rivoluzione prometteva un mondo nuovo. Yazdi il 1° febbraio 1979 era sbarcato a Teheran con il volo da Parigi insieme all’ayatollah Khomeini: pochi giorni dopo sarebbe diventato ministro degli Esteri del primo governo della Repubblica islamica. 

Fu lui, Yazdi, a presentare il progetto di costituzione a Khomeini. Sul frontespizio c’era scritto: «Costituzione della repubblica dell’Iran», l’imam prese una penna e aggiunse: «Costituzione della repubblica islamica dell’Iran». Dieci mesi più tardi il governo di Mehdi Bazargan, che aveva lasciato fuori dalla porta i mullah, si dimetteva e Yazdi passava, per sempre, all’opposizione: 30 anni dopo con i capelli bianchi, qualche anno di carcere alle spalle, un cancro superato, aveva ancora voglia di raccontare.

«Con la sua interpretazione marxista dell’islam Alì Shariati fu l’ideologo più influente della sua epoca e l’inventore dello “sciismo rosso”. Per lui la storia degli sciiti, con il martirio di Hussein a Kerbala nel 680, ucciso dai califfi sunniti, non era altro che la dialettica della lotta di classe, destinata a culminare nella rivoluzione». Delle idee di Shariati e degli slogan sulla rivolta degli oppressi si impossessarono la leadership religiosa e l’imam Khomeini, che però legittimarono il loro potere con il millenarismo sciita. Khomeini fu abile a trasformare la caduta dello shah, alla quale parteciparono nazionalisti, liberali, comunisti e gruppi di sinistra, nella rivoluzione dei turbanti. 

Islamologia, il volume più famoso di Shariati, in poco tempo divenne una sorta di “libretto rosso” tra le giovani generazioni iraniane. Tale fu il successo di Shariati che nel 1973 il regime dello shah lo arrestò imponendogli una durissima carcerazione. Liberato su forti pressioni internazionali andò in esilio in Europa dove aveva studiato negli anni Sessanta a Parigi, appassionandosi a Frantz Fanon e diventando amico di Sartre. 

A Londra il 18 giugno 1977 ricevette una telefonata dalla moglie in cui lo avvertiva che lei e una delle figlie erano state fermate all’aeroporto. Accompagnato da alcuni amici si recò velocemente a Southampton dove attese con grande ansia il complicato superamento dei controlli doganali da parte della moglie e della figlia. Tornato a casa, Shariati si addormentò per l’ultima volta; il mattino seguente fu ritrovato morto nel letto, c’è chi dice a causa di un arresto cardiaco e chi perché caduto vittima di un agguato notturno della polizia segreta dello shah.

«Fu 24 ore dopo la sua morte – racconta Yazdi – che ci trovammo a Londra con Sadq Gotzbadeh e Abholassam Banisadr per decidere dove seppellirlo: la sua volontà era di essere tumulato vicino al mausoleo di Zeynab a Damasco e mi incaricai dell’operazione». Gotzbadeh diventato ministro dopo la rivoluzione fu giustiziato da un plotone di esecuzione nel 1982 per aver partecipato a un complotto contro Khomeini; Banisadr, primo presidente della repubblica islamica, fu deposto nel 1981 e costretto all’esilio in Francia. L’altro fondatore insieme a Yazdi del Movimento per la libertà iraniana negli anni Sessanta, cui aveva aderito anche Shariati, era Mostafa Chamaran, ex fisico della Nasa: nominato ministro della Difesa fu ucciso nel 1981 sul fronte nella guerra Iran-Iraq. La rivoluzione e la guerra divoravano così i protagonisti della storia insieme a un milione di giovani iraniani che cadevano nelle paludi dello Shatt al-Arab.

La tomba di Shariati è una stanza accanto al mausoleo di Seyeda Zeynab, la figlia di Alì e di Fatima, quindi nipote di Maometto. È meta di lunghi pellegrinaggi da parte degli sciiti iraniani che con i pasdaran montano la guardia al complesso monumentale situato nel governatorato di Damasco. Shariati è sepolto in una stanza dove ci sono le sue foto, mazzi di fiori e una piccola biblioteca che espone alcuni dei suoi libri, compresi Islamologia e Fatima è Fatima, un libro dedicato da Shariati alla figlia del Profeta e al ruolo delle donne rivoluzionarie. Anche gli alauiti vanno a trovare Zeynab, in quanto figlia di Alì, e il mausoleo è una meta delle visite non solo degli sciiti ma anche delle correnti sufi devote al culto della nipote di Maometto.

La scelta di seppellire Shariati a Damasco non fu casuale. Dopo il 1973 e la legittimazione elargita dall’imam Musa al-Sadr, le autorità siriane avevano cominciato a dare rifugio ai fuoriusciti iraniani, soprattutto religiosi, che formavano l’opposizione allo shah Reza Palhevi ed erano perseguitati dalla Savak, la polizia segreta.

E non fu casuale che a officiare le esequie di Alì Shariati fosse proprio Musa al-Sadr, che aveva incoraggiato i rapporti tra il regime di al-Asad e gli ayatollah antishah. Da parte loro i siriani non potevano certo immaginare che il variopinto corteo dei dissidenti iraniani, dai mullah con il turbante ai giovani esponenti delle correnti marxiste, potesse un giorno rovesciare il regime di Teheran fortemente sostenuto dagli Stati Uniti che ne avevano fatto una sorta di guardiano del Golfo. Lo stesso presidente democratico Jimmy Carter, un anno prima dello scoppio della Rivoluzione, era andato a Teheran dallo shah per brindare con le mogli al Capodanno 1978: le due coppie furono fotografate che alzavano calici di champagne e sorridevano agli obiettivi.

Agli alauiti di Damasco importava soprattutto tenere buoni rapporti con gli ayatollah sciiti. Non avevano potuto ottenere l’appoggio del celebre Shariatmadari ma forse speravano in quello dell’imam Khomeini che allora si trovava ancora a Najaf. Dopo tutto Khomeini era un rivoluzionario che subordinava la tradizione religiosa all’obiettivo primario di abbattere lo shah e anche lui, come del resto Musa al-Sadr, aveva bisogno di amici influenti. Non è chiaro fino a che punto gli alauiti siriani al potere si spinsero a chiedere il sostegno religioso di Khomeini per la loro legittimazione ma è certo che corteggiavano i religiosi sciiti in esilio: quando Khomeini fu costretto a lasciare Najaf e gli fu rifiutato l’ingresso in Kuwait prese in considerazione di stabilirsi a Damasco prima di scegliere la Francia.

1979: paradossale alleanza strategica siro-iraniana

I rapporti tra siriani e iraniani diventarono strategici dopo la rivoluzione del 1979. La Siria tollerava la presenza dei pasdaran iraniani nella valle della Bekaa dove stava nascendo il movimento degli Hezbollah in un Libano sotto lo stretto controllo di Hafez al-Asad. In cambio l’Iran stese il silenzio sulla repressione da parte del regime siriano dei Fratelli musulmani che erano scesi in rivolta a Hama. E quando Saddam Hussein attaccò l’Iran il 22 settembre del 1980 i siriani si schierarono con Teheran. 

Era un paradosso: da una parte l’Iran combatteva contro l’Iraq baathista di Saddam, presentando il regime sunnita di Baghdad come l’emblema dell’empietà, dall’altra gli ayatollah iraniani erano in stretti rapporti con un altro regime baathista, quello di Damasco, in mano agli alauiti ritenuti dai sunniti degli incorreggibili miscredenti.

La posta in gioco tra i laici di Damasco e i religiosi di Teheran era altissima: senza la cooperazione della Siria l’Iran non poteva estendere la sua influenza fino alle coste del Mediterraneo e i siriani senza la collaborazione della Repubblica islamica non potevano tenere sotto controllo il Sud sciita del Libano, una pistola puntata contro Israele che aveva occupato le alture siriane del Golan nel 1967 proprio quando Hafez al-Asad era comandante dell’aviazione.

I due regimi, quello di Damasco e quello di Teheran, avevano credenze religiose diverse ma condividevano lo stesso destino geopolitico: è stato così fino ai nostri giorni con l’asse sciita tra Teheran-Baghdad-Damasco e gli Hezbollah libanesi.

L’Iran ha quindi fornito al regime di al-Asad una legittimazione religiosa derivante dai suoi interessi strategici ma lo ha fatto sempre in maniera indiretta e sottile. Quando i religiosi iraniani della Repubblica islamica, anche quelli che in passato sono stati direttamente legati all’imam Khomeini, visitano Damasco parlano sempre il linguaggio della politica. Non si soffermano mai a discutere di dottrina o a fare riferimenti di carattere religioso, non accennano minimamente ai rituali degli alauiti. Parlano di solidarietà politica tra Damasco e Teheran e si appellano genericamente all’ecumenismo tra musulmani, alla necessità di essere uniti contro la minaccia dell’imperialismo, del colonialismo e del sionismo. Sottolineano sempre i grandi sacrifici compiuti dai siriani su questi fronti ma si guardano bene dal toccare argomenti religiosi per non aprire capitoli scottanti tra loro e gli alauiti che si autoproclamano seguaci dello sciismo. Tanto più dopo che nel 2015 la Russia, potenza cristiano-ortodossa, è scesa direttamente in campo con le sue forze armate per sostenere Bashar al-Asad.

Non c’è dubbio però che la rivoluzione iraniana abbia fatto sentire i suoi effetti anche sull’esigenza di riforme all’interno della comunità alauita. Nel 1989 Hafez al-Asad incontrò più volte gli sceicchi alauiti a Qardaha chiedendo una modernizzazione della dottrina e di rafforzare i legami culturali con i maggiori centri dello sciismo duodecimano. Alcune centinaia di studenti alauiti vennero spediti a Qom ma non è chiaro fino a che punto poi ci sia stata una reale riforma interna e se gli sceicchi siriani abbiano davvero sacrificato la loro verità eterna alle esigenze effimere del potere. Il velo del silenzio e il mantello del segreto proteggono ancora il mistero alauita.

Frags tratti da Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente, di Alberto Negri, con una prefazione di Lucio Caracciolo, Torino, Rosenberg & Sellier, 2017

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La decurdizzazione del Nordest siriano https://ogzero.org/la-decurdizzazione-del-nordest-siriano/ Sun, 29 Mar 2020 15:48:54 +0000 http://ogzero.org/?p=48 La deportazione dalla Turchia dei rifugiati siriani curdi in Rojava con quella che al-Assad considera una vera e propria invasione. Una ricollocazione radicale che ufficialmente è definita dal governo turco come un ripristino della situazione demografica della Siria, per creare una “zona di sicurezza”. La pretesa iniziale è di quasi 2 milioni di siriani deportati […]

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La deportazione dalla Turchia dei rifugiati siriani curdi in Rojava con quella che al-Assad considera una vera e propria invasione. Una ricollocazione radicale che ufficialmente è definita dal governo turco come un ripristino della situazione demografica della Siria, per creare una “zona di sicurezza”. La pretesa iniziale è di quasi 2 milioni di siriani deportati in una zona di 500 km, che probabilmente si limiterà a un solo milione, e che implicherà l’enorme interesse turco nella cementificazione, nell’edilizia in quelle zone, un coinvolgimento quindi non solo politico ma anche economico in futuro.

Murat Cinar il 12 dicembre 2019 su Radio Blackout:

 

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A chi è servito Daesh? La guerra internazionalizzata (e inefficace) e la costruzione del nemico https://ogzero.org/la-guerra-internazionalizzata/ Sun, 29 Mar 2020 09:37:01 +0000 http://ogzero.org/?p=32 Perchè si parla di guerra internazionalizzata ? Com’è stato possibile che l’Occidente sia caduto nella trappola del califfato e si sia lasciato coinvolgere in un conflitto che resta fondamentalmente interno all’islam, al di là delle stentoree dichiarazioni di guerra ai “miscredenti”, agli “infedeli”? Com’è possibile che l’ampia coalizione militare messa frettolosamente in piedi dai paesi […]

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Perchè si parla di guerra internazionalizzata ?

Com’è stato possibile che l’Occidente sia caduto nella trappola del califfato e si sia lasciato coinvolgere in un conflitto che resta fondamentalmente interno all’islam, al di là delle stentoree dichiarazioni di guerra ai “miscredenti”, agli “infedeli”? Com’è possibile che l’ampia coalizione militare messa frettolosamente in piedi dai paesi arabi che si sentono in qualche modo minacciati dall’Isis sia stata fino a oggi così poco efficace?

In altri termini, i problemi sono di quattro ordini. Primo: come e perché i rapporti tra mondo occidentale e parte almeno di quello musulmano (non solo arabo) si sono tanto deteriorati nell’ultimo secolo da lasciar credere oggi a tanta parte dell’opinione pubblica che essi siano “sempre” stati cattivi? Secondo: attraverso quali fasi, e quali errori, si è giunti alla situazione attuale? Terzo: ci si trova dinanzi a una realtà davvero definibile in termini statuali, o a un’organizzazione terroristica che gioca sui due tavoli del tentato radicamento territoriale nel Vicino Oriente e della disseminazione di cellule di guerriglia tra Africa e Occidente? Quarto: com’è possibile che una coalizione così ampia da abbracciare, almeno in teoria, tutta la società civile del mondo intero contro quello che si proclama il Pericolo Pubblico Numero Uno non riesca ad aver ragione di una realtà politico-militare che in fondo, durante questi due anni, si è dimostrata tanto fragile da venir nella sostanza tenuta a bada dal sia pur debilitato esercito lealista siriano, da un po’ di milizie curde e da un pugno di pāsdārān iraniani, dal momento che l’amplissima e fortissima coalizione internazionale schierata contro lo Stato islamico, nonostante le migliaia di raid aerei fin qui realizzati, si è dimostrata inefficace? Siamo davvero dinanzi a una carenza di chiarezza sul piano del comune disegno politico, oppure in realtà l’Isis è servita e continua a servire a qualcuno e a qualcosa? E, se sì, a chi?

La risposta non può che partire da lontano: ma badate, non da tanto lontano come potrà sembrare a qualche lettore impaziente. La storia è vendicativa: la si può anche dimenticare, ma lei non si dimentica di noi. E il suo ritorno può essere molto brutale, magari inatteso, ma ha una sua logica di ferreo rigore. A quanti di voi l’espressione “Sykes-Picot” dice qualcosa di preciso? Eppure bisogna cominciare proprio da lì, da un secolo fa: da quando due diplomatici rappresentanti delle due potenze liberali impegnate nel primo conflitto mondiale disegnarono la mappa di quel che avrebbe dovuto essere il Vicino Oriente egemonizzato da francesi e britannici all’indomani della guerra, cioè una volta eliminato il “vecchio ordine” ottomano e senza tener il minimo conto delle genti che in quell’area erano insediate. Solo che, a quelle genti, la Repubblica Francese e Sua Maestà Britannica avevano fatto promesse precise e vincolanti: e su quelle basi alcune di esse, gli arabi sudditi dell’impero sultaniale – e, come sunniti, ligi al sultano ch’era anche califfo – si erano impegnati in quella guerra che noi conosciamo bene, se non altro, dall’efficace ancorché tendenzioso resoconto che il colonnello Thomas E. Lawrence ha tracciato nei Sette Pilastri della Saggezza. Il trattato anglofrancese e la ripartizione territoriale del Vicino Oriente che ne scaturì non violava soltanto le promesse che le potenze occidentali avevano fatto allo sharif al-Ḥusayn e alle tribù arabe che lo seguivano: violava confini nazionali, realtà religiose territoriali, antichi equilibri tradizionali per ritagliare su un territorio trattato come se fosse stato “vergine” – e che corrispondeva invece ai rapporti insediativi tra alcune delle più antiche e venerabili civiltà della storia umana – gli spazi ritenuti adatti alla nascita e allo sviluppo di “nuovi” stati destinati a vivere da satelliti delle potenze liberali sulla base di una mentalità che definire “coloniale” è un pietoso eufemismo. 

E l’analisi di Luizard prosegue impietosa, analizzando le conseguenze della “cattiva pace” di Versailles: l’Iraq, «uno stato contro la sua società», fondato sulla duplice dominazione confessionale dei sunniti sugli sciiti e degli arabi sui curdi, attraverso una catena di rivolgimenti e di colpi di stato fino al Totentanz delle guerre avviate nel 1980 con lo scontro iracheno-iraniano e non ancora concluso; la Siria, quasi “risucchiata” dalla questione confessionale e dove la “rivoluzione” socialista e nazionale del partito Ba’th, attraverso la rottura con la Repubblica Araba Unita nasseriana e la progressiva conquista dell’esercito da parte degli alauiti, ha finito con il provocare la reazione sunnita di rito hanbalita, prossimo al wahhabismo saudita e caratterizzato da un violento antisciismo; il Libano e la Giordania, nati direttamente dalla spartizione anglo-francese del Vicino Oriente fondata sul “regime dei mandati” (e complicata dalla questione sionista e, dopo la fondazione dello stato d’Israele del 1948, dall’irrisolto problema israelo-palestinese); la presenza di stati vicini come Egitto, Turchia e Arabia Saudita, portatori ciascuno di una propria politica e caratterizzati da tipi d’islam profondamente differenti tra loro. 

Lo Stato islamico, al di là del pericolo da esso rappresentato nell’equilibrio del Vicino Oriente e – attraverso l’azione terroristica – nel resto del mondo, non è quindi una causa, bensì semmai un effetto di un secolo di lotte e di errori. Se il tentativo più energico di fondare un nuovo tipo di società arabo-musulmana attraverso il ricorso alla “laicizzazione” proposta dalle varie componenti del fenomeno che indichiamo come “socialismo arabo” non fosse fallito per vari motivi, tra i quali primeggiano tuttavia l’ostilità delle potenze occidentali e d’Israele, e se il fondamentalismo d’origine salafita non fosse stato incoraggiato in varie occasioni – non solo nel Vicino Oriente, ma anche nell’Afghanistan degli anni Ottanta nel quale gli statunitensi e i loro alleati se ne sono serviti contro il governo socialista di Kabul e l’Armata Rossa –, ci troveremmo oggi forse dinanzi a un quadro differente da quello che siamo costretti a fronteggiare: e dove, incarnato dalla compagine califfale, emerge un islam fatto anche di occidentali, di foreign fighters che hanno in qualche modo conosciuto la Modernità ma l’hanno concettualmente respinta pur mantenendone i connotati tecnici. Il caso delle Brigate Femminili di al-Khansā, così denominate dalla poetessa del VII secolo soprannominata Madre dei Martiri e alle quali sono affidate importanti mansioni di “polizia etica” e nell’ambito delle quali pochissimo si pratica l’arabo parlato, è quantomai eloquente a proposito della situazione che ci troviamo ad affrontare. Qui, le informazioni che Luizard ci fornisce a proposito dell’organizzazione interna dello Stato islamico, del suo funzionamento, del rapporto tra propaganda e comunicazione e della politica califfale nei confronti delle minoranze sono illuminanti e anche molto equilibrate. Per esempio, il suo parere a proposito del rispetto, da parte dello Stato islamico, dei cristiani che accettano sul suo territorio lo statuto di dhimmi, cioè di “assoggettati-protetti”, diverge da quello di molti osservatori. 

Ma è di grande interesse, soprattutto, quanto l’Autore ci dice a proposito della specifica volontà, da parte dell’Isis, di mostrare se stesso in un modo che possa coincidere con il peggiore ritratto che molti occidentali tracciano della società musulmana nel suo complesso: come se l’ispiratore e il consigliere segreto del califfo e della sua équipe di governo fosse lo “scontro di civiltà” descritto e preconizzato da Samuel P. Huntington. Insistendo presso i musulmani sul tema della lunga prevaricazione degli occidentali sull’islam, ma al tempo stesso presentandosi come una forza fondata sull’universalismo della umma musulmana che non conosce limiti né etnici né nazionali, e si annunzia quindi come potenzialmente conquistatrice, l’Isis è in ultima analisi riuscita a ottenere quello che voleva: la grande coalizione occidentale guidata dagli americani che, attaccandolo, dovrebbe dimostrare al mondo intero che esso rappresenta il “puro islam” che gli infedeli vogliono distruggere, e che qualunque musulmano che si lasci convincere a fiancheggiare il progetto degli infedeli è perciò stesso un rinnegato, un traditore passibile di morte ai sensi della sharī ‘a.

D’altronde, la coalizione anti-Daesh per il momento – non osando portare lo scontro sul territorio nel quale ancora sussistono le forze califfali – altro non può fare se non affidarsi a forze a loro volta già da tempo compromesse nella destrutturazione del sia pur tutt’altro che ideale equilibrio vicino-orientale nato dalla Prima guerra mondiale. Luizard vede nella mancanza di un progetto politico da parte delle forze che avversano l’Isis il loro principale difetto politico: che cos’hanno gli eventuali “liberatori” da offrire agli arabi siriani e iracheni che in qualche modo si sono lasciati abbagliare, o convincere, o piegare, dal califfo? Ormai, una restaurazione degli antichi equilibri è divenuta impossibile per motivi tanto geopolitici quanto etno-religiosi. L’Iraq appare in mano alle milizie sciite che fatalmente guardano con simpatia al vicino Iran, ma non sembra che il riavvicinamento tra Iran e Stati Uniti (e perfino tra Iran e Turchia di Erdoğan, magari grazie al partner russo), e nemmeno quello diretto tra Stati Uniti e Russia – che del resto ha probabilmente le settimane contate, dato il prossimo avvicendamento nella Casa Bianca – stia aprendo la strada a soluzioni politiche nuove. Sia la Siria che l’Iraq parrebbero votate alla dissoluzione, magari camuffata da ridefinizione come stati federali: ma l’Isis, che appare a sua volta ormai in crisi, può aspirare a riciclarsi in forza musulmana “rispettabile”, come vorrebbero gli occidentali, tanto da proporsi come nucleo di uno stato sunnita arabo che magari non dispiacerebbe ai sauditi, addossato come si trova alla frontiera iraniana…

Non sembra quindi fuor di luogo, per quanto possa essere inaspettato e per questo stupirci un po’ (quanto meno, noialtri non francesi…), il fatto che nelle ultime righe del suo saggio Luizard torni a citare nientemeno che il vecchio nobilissimo Jules Ferry, «il padre della nostra scuola laica», che nondimeno difendeva con le unghie e con i denti (bec et ongles) la colonizzazione della Tunisia: quella che per noi fu “lo schiaffo di Tunisi” e la radice revanscistica del suo pur men che modesto colonialismo italiano… Siamo ancora prigionieri, in fondo, della vecchia contraddizione dell’Occidente: stato di diritto e diritti umani da una parte, “missione civilizzatrice dell’Europa” che peraltro – parole di Luizard, non mie – «è servito da copertura ad appetiti coloniali senza limiti». Appetiti, va aggiunto, complicati nell’ultimo secolo dalla questione del petrolio e dalla paradossale situazione creatasi da quando una dinastia di fedeli al credo islamico wahhabita (se di “credo islamico” si può ancora davvero parlare, per una dottrina che riduce insegnamento coranico e ḥadīt del Profeta all’ossessiva questione dell’unicità divina) da un lato si è vista padrona d’una buona fetta delle risorse energetiche del mondo, dall’altro si è aggiudicata il ruolo di fondamentale partner e alleata dell’Occidente sul piano militare ma anche su quello economico e finanziario; e ha posto le sue illimitate risorse al servizio della fitna antisciita. 

Forse, quando questo libro uscirà, lo Stato islamico sarà giunto da solo a una situazione di stallo; o forse lo squilibrio vicino-orientale si trascinerà ancora a lungo, vista appunto la carenza di soluzioni politiche che i governi occidentali sono stati in grado di proporre (o, peggio, gli errori che hanno fatto: senza ripensare a pagine più vecchie, basti pensare a quel che francesi e inglesi sono stati capaci di combinare tra Libia e Siria nel 2011). Nell’una come nell’altra evenienza, come si evolverà il rapporto tra presenza territoriale del califfato e disseminazione terroristica di cellule sue o che da esso si presentano come ispirate? Questa è forse, oggi, la più angosciosa domanda che noi ci poniamo. La “trappola dello Stato islamico” non sarebbe scattata, se il mondo occidentale avesse al tempo stesso combattuto con efficacia – ma la battaglia è ancora in corso – il pericolo terroristico, che si batte con l’intelligence, l’infiltrazione e la prevenzione socio-culturale, non certo con i raids aerei, e fosse riuscito a promuovere al tempo stesso una convinta e convincente risposta da parte dei suoi alleati arabi o comunque musulmani sunniti, i soli che dinanzi all’opinione pubblica islamica di tutto il mondo hanno il diritto di schiacciare la mostruosità ideologica travestita da estremismo religioso della quale in questo momento al-Baghdādī è formalmente il capo. Né i “crociati” occidentali, né gli “eretici” sciiti iraniani, potrebbero mai farlo senza trasformare gli adepti del califfo agli occhi del proletariato e del sottoproletariato musulmano del mondo – specie di quello dell’Africa – in altrettanti shuhadà, il martirio della fede. E noi sappiamo che l’ha spiegato quasi duemila anni fa il vecchio Tertulliano, che il sangue dei martiri è seme di nuovi fedeli. È questo il senso ultimo della “trappola” del Daesh. Un omicidio-suicidio.

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Sykes-Picot, la madre di tutti i confini. Il tratto di penna che inventò il Medio Oriente https://ogzero.org/unita-minima-1/ Wed, 25 Mar 2020 14:47:19 +0000 http://ogzero.org/?p=14 riassunto

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Thomas Edward Lawrence, meglio noto come Lawrence d’Arabia e il generale Allenby che guidava la conquista del mondo arabo, erano di casa nel vecchio palazzo di Rabbah Effendi al-Husseini, a Gerusalemme. Il funzionario dell’Impero Ottomano l’aveva edificato per ospitare le sue quattro mogli ed era già passato in mano a una famiglia di pellegrini cristiani imparentati, tra l’altro, con Gertrude Bell, archeologa, agente segreto e, diciamo, “consigliere diplomatico” nota per aver aiutato Londra a fondare lo stato moderno dell’Iraq, una delle tante fette della torta-impero da spartire. Oggi, l’American Colony Hotel, albergo di lusso e insieme museo, è nella parte militarmente occupata da Israele e che i palestinesi vorrebbero come capitale del loro stato indipendente. Nei suoi saloni, tra un tè o un bicchiere di vino continuano a riunirsi diplomatici e giornalisti di mezzo mondo alla ricerca di una pace sempre più distante. L’enigmatico Lawrence vi si troverebbe a casa oggi come allora quando a guerra finita si era rinchiuso in se stesso, frustrato per essere stato ingannato dai suoi superiori. Lui, tra un caffè e un tè sotto le tende di sceriffi e altri capi beduini, aveva promesso l’Arabia agli arabi. E impiegò molto per rendersi conto che Londra e le altre potenze coloniali avevano progetti molto meno nobili come ci raccontò, poi, nel suo I sette pilastri della saggezza, che David Lean e Peter O’Toole portarono sul grande schermo con il loro straordinario colossal.

Metafora e parabola e interpretazioni contrastanti dei fatti sono di casa nei luoghi della Bibbia, del Nuovo testamento e del Corano. Da ciò che siamo abituati a chiamare Terra Santa alle sabbie mobili dell’Arabia; dalla Mecca a Gerusalemme. Le antiche mura di Saladino racchiudono una “città vecchia” intrisa di miti, storia contestata e sogni. Meno di un chilometro quadrato diviso in quattro quartieri: ebraico, armeno, musulmano, cristiano. Là come altrove, sinagoghe, chiese e moschee nate e cresciute attorno al medesimo concetto di dio vengono usate, oggi come in passato, per segnare il territorio, ma sono le penne, vere o metaforiche, le armi dei conquistatori. La carta del Vicino Oriente, come l’abbiamo conosciuto negli ultimi cento anni, è il risultato delle spoglie di molte guerre e della fine del grande Impero Ottomano, che fu tagliato a pezzi ineguali per contenuto e dimensione. Regalati o dati in gestione non furono mai veramente digeriti.

Le spoglie dell’Impero Ottomano

«L’accordo dei ladri coloniali», come fu definito da Lenin, fu rivelato al mondo da Lev Trockij con un articolo sull’“Izvestija pubblicato il 24 novembre 1917. I bolscevichi avevano trovato il documento negli archivi dello zar Nicola II subito dopo la rivoluzione e volevano che tutti sapessero quali erano i piani di spartizione dell’Impero Ottomano decisi dalle grandi potenze, o meglio da Gran Bretagna e Francia con il consenso interessato della Russia. Due anni prima, nel 1915, nel corso di una riunione del Gabinetto di guerra a Londra il diplomatico Mark Sykes aveva pronunciato una frase divenuta storica: «Tirare una linea diritta dalla seconda K di Akko alla seconda K di Kirkuk». Ossia da San Giovanni d’Acri a nord di Haifa, oggi Israele, al cuore dell’Iraq. 

Qualcuno, a proposito di scarabocchi sulla sabbia e altrove, forse ricorda il più recente ultimatum del presidente americano Bush dopo l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein: «L’America e il mondo tracciarono una linea nella sabbia. Abbiamo dichiarato che l’aggressione contro il Kuwait non sarà tollerata». Eppure anche quel conflitto nel Golfo, voluto da Washington e che ha avviato la disgregazione del Medio Oriente, aveva le sue origini nelle linee mal disegnate, ambigue o incomplete, uscite dalle penne dei colonialisti mentre discutevano del futuro dell’Impero Ottomano. Il moribondo impero islamico, che aveva sostituito quello cristiano di Bisanzio (durato 623 anni, dal 1299 al 1922), si era schierato al fianco della Germania e dei poteri austro-ungarici dell’Europa centrale. E mentre interi popoli nel vecchio continente si massacravano, e altri popoli (o i loro leader) sognavano, Londra, Parigi e Mosca giocarono la loro partita di Monopoli.

La mappa, o se vogliamo lo scacchiere, era immensa. C’è chi dice che la macedonia di frutta derivi il suo nome dalla popolazione estremamente variegata dell’area che nell’antichità fu dominio di Alessandro Magno. La regione geografica del Medio Oriente o, come si diceva, del Vicino Oriente comprende una parte di quelle terre variopinte non soltanto per le naturali divisioni geografiche ma anche e soprattutto per la diversità delle sue popolazioni. Prima del crollo dell’Impero d’Oriente come era chiamato quella islamico di Costantinopoli, arabi, persiani e turchi convivevano, talvolta pacificamente spesso in conflitto, con curdi, azeri, copti, ebrei, aramei, maroniti, circassi, somali, armeni, drusi.

Le prime idee o pretese sulla divisione del bottino subirono numerosi cambiamenti e alla fine fu sottoscritta la proposta di Sykes che spingeva per rafforzare l’influenza di Londra nella regione e del suo collega francese Picot determinato a ottenere il controllo della Siria (che comprendeva l’attuale Libano) per la Francia. Su un punto i due e i loro mandanti non avevano avuto problemi a trovare un’intesa: limitare ogni possibile crescita del rinascente nazionalismo arabo. Lawrence si era innamorato del mare di sabbia, dei colori di Wadi Rum, quasi di fronte a Petra sulla rotta delle spezie, dei beduini in qualche modo eredi dei Nabatei. Li ammirava per il senso di libertà che emanava dal loro vagabondare tra pozzi distanti, rare oasi e ruderi di passate civiltà. Per “Orens”, come lo chiamava Awda Abu Tayi, indomabile guerriero e condottiero degli howeytat, quella terra apparteneva solo ai suoi abitanti. Non riusciva a entrare nella logica imperialista e colonialista dei suoi tempi e nemmeno a riflettere sul peso politico-economico dell’oro nero che al posto dell’altrettanta preziosa acqua, sgorgava da sotto le dune. L’atmosfera magica che Lawrence respirava interessava poco a Parigi e Londra che si divisero i territori dell’ex Impero Ottomano in cinque zone d’influenza, arrogandosi il diritto di adottare su di esse controllo diretto o indiretto in base a eventuali intese con i Paesi arabi o con la loro confederazione.

la suddivisione Sykes-Picot

La spartizione

La costa siriana fin dentro l’Anatolia e buona parte del Libano fu consegnata alla Francia. A Londra toccarono le province di Bagdad e Bassora: in pratica la Mesopotamia centrale e meridionale che includeva anche il Kuwait, motivo per il quale Saddam Hussein nel 1990 pensò di riprendersi ciò che riteneva di diritto parte del suo Paese. Riconoscendo gli interessi di Mosca nella Palestina per il suo carattere religioso, fu deciso di affidare la terra più contesa dell’eredità dell’Impero Ottomano a un’amministrazione internazionale aggirando, almeno sulla carta, le richieste del movimento sionista. Ma non tutta la Palestina: alla Gran Bretagna toccarono la gestione di Haifa e Akko. Il resto della torta, dalla Giordania alla Siria a Mosul nell’Iraq settentrionale, finì sotto l’egida dei capi arabi regionali ma sempre con la supervisione della Francia a nord e della Gran Bretagna a sud.

Questo per quanto riguardava il mondo arabo. Per soddisfare lo zar fu deciso di consentire alla Russia di mantenere un certo controllo su Istanbul, sui territori adiacenti allo stretto del Bosforo e sulle quattro province confinanti con la Russia nell’Anatolia orientale (ai giorni nostri il russo Putin, erede di quel trono e dell’impero sovietico, insiste per essere un attore nel Mediterraneo e in Medio Oriente). Alla Grecia fu assegnato il controllo delle coste occidentali della Turchia e all’Italia il Sud-ovest della Turchia.

Per la Storia, ma non necessariamente per gli studiosi, l’accordo Sykes-Picot è responsabile per i disastri che la regione sta vivendo. Quelle righe disegnate con disdegno per i diritti delle varie popolazioni, percepite più per dividere che unire, ebbero pochi anni di vita pratica. Il mondo che stava emergendo dopo la guerra mondiale era molto più complessa e lo sarebbe stato ancora di più dopo il secondo conflitto, continuazione del primo e, per alcuni, in attesa di un terzo confronto globale. Il colonialismo nei primi decenni del “secolo breve” andava sempre bene, ma era necessario consolidare, modificandole, le scelte abbozzate dai diplomatici francese e inglese. Per l’impero britannico prese in mano una matita rossa Sir Percy Cox. Nel 1921, l’alto commissario di Londra, tracciò poche linee sullo spazio bianco chiamato Arabia. Ecco, disse ai suoi interlocutori, i capi feudali, queste sono le vostre frontiere. Oggi sono i confini dell’Iraq, del Kuwait e dell’Arabia Saudita.

La dichiarazione Balfour

Quattro anni prima, il 2 novembre 1917, con la solita ambiguità che caratterizzava la politica imperiale, l’allora ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour aveva scritto una lettera ufficiale a Lord Rothschild, principale rappresentante della comunità ebraica inglese, e referente del movimento sionista, con la quale il governo britannico affermava di guardare con favore alla creazione di un «focolare ebraico» in Palestina. Fu ciò che il polemico giornalista israeliano Gideon Levy, nel recente centenario di quella dichiarazione definisce il “il peccato originale”. «Un impero – scrive – prometteva una terra che non aveva ancora conquistato a un popolo che non vi abitava senza chiedere agli abitanti della terra se erano d’accordo». La Dichiarazione Balfour fu inserita all’interno del Trattato di Sèvres alla fine delle ostilità con l’Impero Ottomano e assegnava la Palestina alla Gran Bretagna. Anche se volutamente vaga in quanto non arrivava a garantire sovranità o indipendenza agli ebrei in Palestina o agli arabi abitanti su quel territorio, fu e resta ancora oggi uno dei maggiori elementi di tensione in tutta la regione.

«Guardi là, in basso verso il mare, quello è Ashdod e poi Aschelon. Erano città migliaia di anni fa. La terra del nostro antico regno come la terra su cui lei in questo momento poggia i suoi piedi», spiegava con aria messianica ai giornalisti, una quindicina d’anni dopo la guerra del 1967, il portavoce di un insediamento ebraico nella Cisgiordania occupata. «È la nostra terra per sempre. Un dono di dio». Indicava, come fosse sua, anche la strada romana che scorre sul dorso della montagna dal quale oltre al Mediterraneo si vedono il deserto, lo specchio tetro del mar Morto, il monte Nebo da dove Mosé guardò la terra promessa, e l’odierna Giordania. O meglio, Regno di Giordania. Londra nel 1921 per premiare l’alleato Hussein sceriffo della Mecca creò per i suoi figli l’Emirato di Transgiordania e il Regno di Iraq, e affidarono al capo beduino Ibn Saud l’immenso territorio che, con il suo nome, sarebbe diventata l’Arabia Saudita.

Divenne subito chiaro che i Paesi europei “illuminati” erano peggio dell’Impero Ottomano appena demolito che alle popolazioni suddite aveva sempre riconosciuto una notevole autonomia. Il matrimonio di convenienza annegò in un bagno di sangue. A Damasco l’esercito francese schiacciò i rivoltosi arabi; contro i curdi in Iraq l’aviazione britannica effettuò il lancio di gas tossici caldeggiato dal ministro della difesa Churchill. E così inventarono il Medio Oriente, oggi più devastato di ieri, che vediamo sulle cartine geografiche.

Gli abitanti della regione erano visti come pedine. A Londra o Parigi o Mosca si prestava poca attenzione ai movimenti politici laici e islamici con i quali le popolazioni locali cercavano di affrancarsi dal dominio straniero. Se alla vigilia della Prima guerra mondiale le richieste dei nazionalisti arabi puntavano a maggiore autonomia, con la fine dell’Impero Ottomano, i movimenti assunsero toni e aspirazioni chiaramente anticoloniali. Islamismo, nazionalismo, panarabismo, socialismo sperimentarono e si scontrarono tra di loro. In qualche caso favorendo l’unità dei diversi gruppi etnici e religiosi in altri e fino a oggi esasperando contrasti dovuti alle spinte estremiste legate, soprattutto, alle diverse fedi.

Progetto panarabo

Nasser, il leader dell’Egitto dopo la deposizione della monarchia nel 1952, sposò il panarabismo che trascinava le folle non soltanto nel più grande e importante Paese della regione. E lo inserì nelle spinte terzomondiste che accentuarono i contrasti tra le potenze imperiali e i Paesi che lottavano ancora contro il colonialismo. Causa le rivalità tra le nazioni e i leader arabi (come quelli di Siria e Iraq che sperimentavano il socialismo ba’th), gli sforzi di unificare il mondo arabo attorno a progetti di sviluppo e di governo laici (e in gran parte estranei al mondo arabo) fallirono.

Ebbe breve vita la Repubblica araba unita (Rau) tra Egitto e Siria alla quale Iraq e Yemen declinarono l’invito a prendervi parte. E fallì il tentativo del giovane Gheddafi, nel 1972, di unificare Libia, Egitto e Siria in una Federazione delle Repubbliche arabe. Contro questi leader, dittatori o no, si muoveva ed è attivo ancora oggi il movimento dei Fratelli musulmani creato dall’Imam al-Ḥasan al-Bannā nel 1928 in Egitto appena dieci anni dopo il collasso dell’Impero Ottomano. Secondo il manifesto del movimento «la comunità musulmana deve essere riportata alla sua forma originaria […] oggi è sepolta tra i detriti delle tradizioni artificiali di diverse generazioni ed è schiacciata sotto il peso di quelle false leggi e usanze che non hanno […] niente a che fare con gli insegnamenti islamici».

Il quadro, allora come ancora oggi, era pronto per lo sfruttamento economico della regione e nella partita entrarono anche gli Stati Uniti. Erano corsi a salvare l’Europa nella Grande guerra e chiedevano di essere compensati. Con il petrolio, soprattutto. Che venne diviso in cinque: Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi e Stati Uniti. Per ognuno il 23,75 per cento. Il restante 5 per cento venne assegnato al barone del petrolio Calouste Gulbenkian, per aver favorito i negoziati. All’Iraq zero fino alla rivoluzione del 1958 che fu uno dei tanti, fondamentali, cambiamenti regionali avvenuti dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il più importante dei quali e sicuramente il più destabilizzante fu la creazione di Israele, avvenuta nel momento in cui le potenze europee uscite vincitrici dal conflitto contro il nazifascismo si erano indebolite e le colonie ormai anacronistiche, con il peso delle rivendicazioni dei loro popoli, erano diventate di difficile gestione. Urss e Stati Uniti, per motivi diversi ma simili, spingevano per la fine degli imperi. L’India sarebbe stata la prima nazione a diventare indipendente ma paradossalmente negli stessi anni, la comunità internazionale – sicuramente spronata dall’Olocausto – decise di accogliere la richiesta del movimento sionista e sposare la dichiarazione Balfour portandola anche oltre le stesse parole relativamente caute con cui fu stilata.

Israeliani a palestinesi

Israele è, dunque, una colonia ebraica in una Palestina araba approvata dall’Onu proprio nel momento in cui il mondo respingeva la colonizzazione? La maggioranza dei sostenitori del nuovo stato respinge la definizione. Molti di loro, però, ammettono che di colonizzazione si deve parlare in riferimento alla situazione creata dopo la guerra del 1967. Il conflitto israelo-palestinese non trova soluzione e i governi israeliani hanno finora respinto le richieste di definire ciò che vorrebbero considerare i confini del loro stato. Il muro – cemento e filo spinato – messo come barriera in mezzo alle case dei palestinesi, ha già modificato per l’ennesima volta i confini approvati dalle Nazioni Unite nel piano di partizione della Palestina. Questo mentre la maggioranza dei confini usciti dalle penne di Sykes e Picot e dai loro contemporanei, appaiono sufficientemente consolidati per non cedere agli scombussolamenti successivi alle Guerre del Golfo, alle primavere arabe e alle storiche istanze nazionaliste di gruppi etnici come i curdi che dagli sviluppi da quelle intese imposte da Londra e Parigi, da Mosca e Washington, furono divisi in stati diversi, per essere sfruttati e talvolta premiati negli scontri tra stati rivali ma sempre privati del loro diritto a uno stato indipendente.

Lo scrittore e giornalista Joseph Roth cantava spesso l’elogio dell’Impero austro-ungarico che, come nei periodi più floridi di quello ottomano, lasciava ampia autonomia ai popoli, non soffocava le istanze e i costumi delle minoranze, garantiva una certa sicurezza e – ed è questo forse l’aspetto che più affascina – consentiva al viaggiatore, pellegrino o mercante o cronista, di vagare quasi indisturbato. Chi volesse visitare oggi la cosiddetta Terrasanta (un pezzo relativamente piccolo ma storicamente importante della regione) si troverebbe a dover attraversare con difficoltà confini riconosciuti e non, spesso chiusi e pericolosi. Eppure, se i popoli fossero in pace, ci si potrebbe svegliare a Gerusalemme con un caffè, espresso o arabo, nel patio dell’American Colony, fare una colazione abbondante meno di due ore dopo ad Amman, cenare a Damasco per proseguire l’indomani, con calma, per il lungomare splendido di Beirut. Volendo, il viaggiatore con poco tempo a disposizione, potrebbe poi scendere la costa, passare davanti alla cittadella di Akko – quella da cui Sykes volle tracciare una delle sue linee nella sabbia – ammirare le rovine di Cesarea e sostare a Tel Aviv, oggi cuore pulsante di modernità e contrasti tra la sua anima occidentale importata e quella orientale della maggioranza d’Israele, per essere a cena al Cairo, all’ombra delle piramidi.

La Terrasanta dei cristiani, con tutte le sue rovine e memorie e favole si specchia nella Terrasanta dei musulmani, frammentati anche loro come i cristiani in numerose schegge. Tutti questi luoghi meno di cento anni fa vedevano convivere popoli e religioni diverse, seppure con animosità teologica. Oggi vecchi e nuovi imperi, pescando nelle diversità religiose, vanno alla ricerca di un nuovo assetto del Medio Oriente. L’Iran degli ayatollah, erede della grande Persia e capitale del mondo sciita, sta consolidando il suo potere sul Levante sfidando l’Arabia Saudita, feudo di una famiglia “custode della Mecca” che governa in nome del mondo sunnita. La Turchia, musulmana come l’Iran ma non araba, sogna un ritorno all’Impero Ottomano e nel 2017, grazie a un accordo con il Sudan, si è installata nell’isola di Suakin, antico avamposto della Sublime Porta nel mar Rosso. Con il crollo della stabilità “europea” voluta dalle penne di Sykes e Picot la partita per la dominazione della regione si è riaperta. Lasciando spazio a un’idea vecchia e nuova assieme, per ora sconfitta ma non necessariamente sepolta. Un unico stato islamico arabo-sunnita in tutta la regione, senza le frontiere imposte cento anni fa.

In un suo discorso del 2012, il leader del movimento terrorista salafita Abu Bakr al-Baghdadi, lanciò la sua sfida-promessa: «Avrete uno stato e un califfato dove arabi e non arabi, bianchi e neri, genti dell’Est e dell’Ovest saranno tutti fratelli». E con un chiaro riferimento a Sykes-Picot proclamò: «Lo Stato Islamico non riconosce né confini fittizi né altre cittadinanze all’infuori dell’islam». I finanziatori iniziali dello Stato Islamico erano, in parte, gli stessi sostenitori economici di al-Qaeda ma sono stati sconfitti da una coalizione internazionale quando era chiaro a tutti che il gioco di destabilizzazione era diventato pericoloso. E così la partita è stata ripresa in mano da alcuni dei giocatori di cento anni fa. A Da Nang, in Vietnam, lontano dalle capitali del Medio Oriente, Stati Uniti e Russia, si sono pronunciati per l’integrità territoriale della Siria e la spartizione della regione in zone d’influenza. Con Iran e Arabia Saudita (e, naturalmente, Israele) come agenti locali a garanzia dei loro interessi geostrategici ed economici. E, forse per poco, energetici.

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