Marielle Franco Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/marielle-franco/ geopolitica etc Sun, 15 May 2022 23:23:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 6. Il fiorire delle (R)esistenze https://ogzero.org/studium/6-il-fiorire-delle-resistenze/ Sun, 15 May 2022 21:55:08 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7548 L'articolo 6. Il fiorire delle (R)esistenze proviene da OGzero.

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Stop the Wall

Di fronte a tutto questo però abbiamo visto un fiorire di geografie della (R)esistenza che passano per arte, politica, cultura e mobilitazione sociale. Passano per il riscatto attravesro la ribellione a un progetto urbano istituzionale che emargina interi universi culturali e di pensiero alternativo, relegandoli alla periferia fisica e intellettuale: quando non attaccandone direttamente l’integrità fisica.

Marielle come Carolina Maria de Jesús, voce afrobrasiliana delle favelas di São Paulo che negli anni Sessanta prese letteralmente “a pugni” il Brasile e il mondo squarciando il velo che copriva le reali condizioni di vita dei favelados. Dal cuore della favela Canindé, sulla riva del Tietê nella città di São Paulo, la voce di Carolina emerse in modo prepotente raccontando senza filtri il dolore e la fame. Una donna nata il 14 marzo del 1914 a Sacramento, nello stato di Minas Gerais e successivamente emigrata a São Paulo dove lavorò come domestica e raccoglitrice di carta e ferro per la strada. Il suo diario, pubblicato per articoli inizialmente su il giornale O cruzeiro a partire dal 10 giugno 1959 e in forma di libro nel 1960, fu un terremoto letterario. Quarto de Despejo, il nome della sua opera (che ha venduto più di 100.000 copie ed è stato tradotto in più di dieci lingue) parla all’altro Brasile (quello che non vive nella favela) raccontando la sua vita, la sua quotidianità, la fame. Fame, una parola che ritorna in modo costante, quotidiano, quasi una litania dentro le pagine che raccontano la favela tra gli anni 1955 e 1959. Riflessioni asciutte, a volte semplici ma taglienti e penetranti, come quella del 3 giugno 1958:

«Quando sono a corto di soldi, cerco di non pensare ai miei bambini che chiederanno pane, ancora pane e caffè. Devio i miei pensieri al paradiso. Penso: ci sono persone lassù? Sono migliori di noi? Il loro dominio supererà il nostro? Ci sono nazioni così varie come qui sulla terra? O è un’unica nazione? Esiste una favela? E se c’è una favela lì, io vivrò nella favela anche quando morirò?”» (Carolina Maria de Jesús, Quarto de Despejo: diario de uma favelada, con illustrazioni di Vinicius Rossignol Felipe, Sao Paulo, Ática editrice, 2014, p. 50).

São Paulo e il Brasile riconoscono oggi il valore storico, culturale, antropologico e simbolico di quelle parole arrivate dalla Stanza della discarica (traduzione di Quarto de despejo). Parole che mostravano una razzializzazione delle povertà, che per la prima volta parlavano della favela da dentro la favela: aggirando le fredde analisi urbanistiche, statistiche e sanitarie di giornalisti, politici e specialisti vari. Almeno due i grandi omaggi riservati a Carolina Maria de Jesús nel 2022. Il primo è stata una mostra gratuita ospitata dal prestigioso Instituto Moreira Salles, che si trova nell’Avenida Paulista: luogo simbolo del potere economico brasiliano: Carolina Maria de Jesus: un Brasile per brasiliani è il titolo del progetto che è stato inagurato il 25 settembre 2021 e che è rimasto aperto al pubblico fino al 3 aprile 2022. Il secondo è avvenuto il 23 aprile, durante il primo carnevale postpandemia di São Paulo, nel quale la sua figura è stata onorata dalla scuola Colorado do Brás con il tema: Carolina, a Cenerentola Negra do Canindé.. La scuola ha raccontato, in un corteo emozionante, la storia della scrittrice di Sacramento, passando per Franca (dove ha iniziato a vivere con un gruppo circense) e arrivando poi a São Paulo nella favela di Canindé. Svelando un volto doloroso del Brasile, la vita di Carolina è stata raccontata con serietà e rispetto dalla Scuola, cosa che non ha impedito al corteo di essere colmo all’inverosimile di bellezza e colori.

Luiz Gama e Carolina Maria de Jesús, Murales celebrativo dell’afrodiscendenza – Casa das Rosas (SP) – (foto di Diego Battistessa)

La storia di Carolina e di Marielle ci parla di favelas e popolazione afrodiscendente, un binomio non scontato, non ovvio, ma figlio di politiche decennali di marginazione e di Branqueamento forzato dei centri delle città, che hanno stereotipato la popolazione afrobrasiliana spingendola ai margini (figurativamente e letteralmente) della società.

L’eredità di Marielle e di Carolina

Lo spazio delle donne afrodiscendenti in Brasile è andato dunque crescendo, dentro e fuori dalla favela. Nello stesso anno (il 2018) in cui fu uccisa Marielle Franco per esempio veniva eletta nello stato di São Paulo la prima donna transgender nell’Assemblea legislativa statale. Si tratta di Erica Malunginho da Silva, afrobrasiliana nata a Recife il 20 novembre 1981, affiliata al Partito Socialismo e Libertà (Psol) e considerata una della 100 persone di origine africana più influenti al mondo dal Mipad (Most Influential People of African Descent),ente che fa parte dell’Agenda globale delle Nazioni Unite (Onu). Sulla scia di Malunghiño anche Erika Hilton, donna transgender afrobrasiliana, è stata eletta consigliera della città di São Paulo nel 2020 sempre tra le file del Psol (nominata anche lei dal Mipad). Erika è stata la donna più votata nel 2020 in tutto il Brasile con oltre 50.000 voti ed è la prima trans afrobrasiliana eletta al Consiglio comunale di São Paulo. Donne afrobrasiliane che fanno storia e che evidenziano l’intersezionalità della discriminazione capitalista, razziale e patriarcale. Che dire poi di Sueli Carneiro, filosofa, scrittrice e prominente attivista contro il razzismo nel movimento sociale nero brasiliano. Carneiro è la fondatrice e l’attuale direttrice del Geledés – Instituto da Mulher Negra, ed è considerata una delle principali autrici del femminismo nero in Brasile: nel marzo 2022 è diventata la prima donna afrodiscendente a ricevere un dottorato honoris causa dall’Università di Brasilia.

Malunginho celebrava così questo importante avvenimento storico sul suo profilo instragram ufficiale:

«Il titolo di dottore onorario (in filosofia) assegnato a Sueli Carneiro riflette l’importanza della sua eredità, che è collettiva. Scrivendo, teorizzando e mostrandoci possibili percorsi di emancipazione del nostro popolo, Sueli dimostra che altre destinazioni sono possibili. Un’intellettuale nera che scrive di femminismo nero e tanti altri argomenti e che fa parte della nostra saggezza ancestrale. La conoscenza è una tecnologia che le donne nere ci hanno insegnato a padroneggiare…
… Congratulazioni a Sueli Carneiro e a tutte le donne nere che costruiscono la conoscenza in questo paese molto diseguale chiamato Brasile. Viva la vita e il lavoro di Sueli!»

Pochi giorni prima invece, Erika Hilton, chiudeva un cerchio che ci ha portato da Carolina a Marielle per poi arrivare all’attivismo delle trans afrobrasiliane. La Hilton annunciava sul suo profilo instagram diverse attività per ricordare e onorare l’autrice di Quarto de Despejo:

«Nonostante oggi sia stato segnato dal triste ricordo dell’omicidio di Marielle Franco, molti anni prima, nel 1914, un altro evento segnò la stessa data, ma con gioia: la nascita della scrittrice e multiartista Carolina Maria de Jesus.
Nata nella città di Sacramento, nello stato di Minas Gerais, fu nella città di São Paulo che Carolina scrisse la sua opera e incise il suo nome nella Storia. L’autrice di Quarto de despejo: diario di una favelada, Casa de Alvenaria, tra gli altri titoli, poesie e canzoni, ha affrontato la fame, ha lavorato come raccoglitrice di materiali riciclabili e ha lasciato un’eredità di arte e lotta di cui siamo orgogliosi e orgogliose e che ci ispira».

Erika Hilton continua poi spiegando nel testo della pubblicazione che in memoria di Carolina Maria de Jesus, tra le varie iniziative, è stato creato il Fondo municipale per combattere la fame, è stato instituito (proprio da Hilton) il Premio Carolina Maria de Jesus che sarà assegnato ogni anno per riconoscere pubblicamente il lavoro delle donne nere nell’arte e per i diritti umani e infine, è stata presentata una proposta di legge per l’installazione di un’opera d’arte in onore di Carolina Maria de Jesus nei dintorni della Biblioteca Mário de Andrade.

Chiudo questo testo (che potrebbe durare ancora molte pagine) con un consiglio di lettura, che arriva da un’altra attivista e giornalista brasiliana che definisce se stessa latino-amefricana. Sto parlando di Michele Carlos, che parlando di A Radical Imaginação Política das Mulheres Negras Brasileiras scrive quanto segue:

«Il libro porta una raccolta di testi di donne nere, in tempi diversi, che, nelle loro azioni come agenti di trasformazione in politica, hanno portato discussioni e soluzioni ai problemi della società. Da qui il “RADICAL”, dalla radice, cercare il cambiamento alla base, guardare all’origine del problema. “Immaginazione” non significa il luogo della “non azione”. Piuttosto il contrario. Qui l’immaginazione è vedere, sapendo che ci sono altri percorsi e possibilità per/nella costruzione di una democrazia che rappresenti il popolo. Chiunque riesca a immaginare oltre ciò che è prefissato, può agire promuovendo cambiamenti reali».

E le “donne nere brasiliane” – perché questo è il gruppo di popolazione più numeroso del Brasile. Le donne nere costituiscono il 25 per cento della popolazione, ma devono anche affrontare una maggiore sottorappresentanza negli spazi di potere e decisionali, pubblici o privati».

Il libro è una realizzazione dell’Instituto Marielle Franco e la piattaforma “Donne nere decidono” con la Fondazione Rosa Luxemburgo  e riunisce testi di Regina Souza, Marielle Franco, Erica Malunguinho, Benedita da Silva, Leci Brandão, Luiza Barros, Vilma Reis e tante altre. È disponibile anche gratuitamente in pdf.

fine

Città Visibili Rio de Janeiro São Paulo Brasilia Composizione della Favela Favela afrodiscendente

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]]> 5. Favelas e afrodiscendenza https://ogzero.org/studium/5-favelas-e-afrodiscendenza/ Sun, 15 May 2022 21:53:30 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7532 L'articolo 5. Favelas e afrodiscendenza proviene da OGzero.

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Razzializzazione nell’urbanistica della povertà

Mãe preta ou a fúria de Iansã di Sidney Amaral, fotografata alla Pinacoteca Nazionale di Sao Paulo da Diego Battistessa

Mãe preta ou a fúria de Iansã di Sidney Amaral, fotografata alla Pinacoteca Nazionale di Sao Paulo da Diego Battistessa

Uno scontro da due mondi diversi

Tornando a Rio de Janeiro e alle analisi proposte da Juan Peréz Ventura, possiamo vedere che la tensione tra le due dimensioni abitative della città, quella delle favelas e quella “ordinata” del Brasile proiettato nel futuro, rimane alta. Un esempio di questo è il Parco Nazionale di Tijuca, situato nella zona Sud di Rio de Janeiro, considerato la più grande “foresta urbana” del mondo e dichiarata Riserva della Biosfera dall’Unesco nel 1991. L’integrità di quest’area è stata minacciata dall’avanzare degli insediamenti informali, che sono cresciuti esponenzialmente sulle pendici delle montagne e delle colline che formano il Parco Nazionale.

La favela Rocinha, una delle più grandi della città, si trova per esempio in una valle all’interno del Parco Nazionale di Tijuca. Di fronte a questa situazione, nel 2009 il governo dello stato di Rio de Janeiro ha preso una decisione controversa: costruire un muro di cemento che circondasse le favelas, per impedire che continuassero a crescere attraverso aree protette e aree di interesse turistico. Di fronte a questo, Ventura spiega che:

«Sebbene il discorso politico abbia ripetuto più volte che l’obiettivo era quello di proteggere la ricchezza naturale che circonda Rio, per l’opinione pubblica la costruzione di questo muro avrebbe accentuato la segregazione sociale.
Il sindaco di Rio assicurò che l’unico scopo del muro era quello di fermare il disboscamento delle foreste atlantiche che un tempo ricoprivano le colline di Rio de Janeiro e che con la crescita delle favelas rischiano di scomparire. Quello che nessuno ha ancora spiegato è perché finora la costruzione di mura è stata pianificata solo nelle favelas situate nei quartieri di São Conrado, Gávea, Leblon, Ipanema, Copacabana, Leme, Urca e Botafogo. Ovvero i quartieri di Rio classificati come “nobili” dalle agenzie immobiliari».

Sempre nello stesso periodo (il 19 novembre 2008) nella città di Rio de Janeiro venne installata la prima UPP – Unità di Polizia di Pacificazione, il germe di un nuovo paradigma di presenza militare del governo in aeree fino a quel momento completamente dimenticate.

Ma proprio delle UPP ci parla Marielle Franco, afrobrasiliana filha da Maré (figlia della favela Maré) e oggi simbolo di quel Brasile dei “Nadie” parafrasando Galeano, che non vuole più abbassere la testa. Franco è stata uccisa insieme al suo autista Anderson Gomes il 14 marzo 2018 e a oggi sul caso non è stata ancora fatta chiarezza e neanche giustizia. La sua storia è oggi sinomino di speranza, lotta e resistenza giacché Marielle è diventata simbolo universale del femminismo, della lotta per i diritti civili, per la giustizia sociale e per le rivendicazioni della popolazione afrodiscendente e del collettivo LGBTIQ+. Ho raccontato la sua vita e la sua lotta nel libro “Tracce indelebili: storie di dieci attivisti che hanno cambiato il mondo” pubblicato nell’ottobre 2021 da Osservatorio Diritti, spiegando come Marielle si fosse sempre opposta a questa segregazione e securitizzazione militare delle favelas.

Il 29 settembre 2014 infatti Franco, difese la sua tesi di specializzazione sulle Unità di Polizia di Pacificazione – UPP, un documento/denuncia dal titolo UPP: la riduzione della favela a tre lettere. Un’analisi della politica di sicurezza pubblica nello stato di Rio de Janeiro

Presentando le conclusioni della sua tesi nel Congresso dell’Associazione Latinoamericana di Sociologia nel 2017, la stessa Mariella Franco affermò che:

«…il fallimento delle UPP si vive brutalmente nella routine degli abitanti delle favelas. La logica del confronto, giustificata dalla narrazione storica della “guerra alla droga”, non trova alcuna differenza tra favelas apparentemente pacificate e non pacificate. È una politica genocida che viola sistematicamente i diritti dei residenti delle favelas e causa vittime, soprattutto tra i giovani neri. La persistenza di questo tipo di politica è legata ad aspetti più profondi della semplice “cultura della polizia”, così spesso citata come nuova nel progetto UPPs. Finché l’approccio alla sicurezza pubblica sarà strutturalmente legato al lucroso mercato illegale di armi e droga e alla corruzione di agenti statali, ogni presunta “pacificazione” non significherà altro che un “caveirão” vestito di bianco».

E probabilmente era proprio un’auto blindata in uso alla Polizia militare dello stato di Rio (Pmer) quella usata dai sicari che hanno ucciso Marielle, il frutto migliore della favela.

Marielle si oppose con forza anche alla strategia che soggiaceva alla Coppa del Mondo di Calcio nel 2014 e i Giochi Olimpici del 2016, che si sarebbe svolti proprio a Rio de Janeiro. L’amministrazione pubblica della città volle cogliere l’occasione per presentare al mondo una Rio de Janeiro carnevalesca, senza poveri, senza afrodiscendenti, senza criminalità. La narrazione che si voleva offrire prevedeva una “pulizia sociale” senza precedenti e una militarizzazione delle favelas. Marielle fu sempre in prima fila nel denunciare gli abusi e i crimini commessi sull’altare della “presentabilità internazionale” arrivando ad accusare pubblicamente la polizia per i crimini commessi nella favela, esponendosi contro le operazioni belliche delle forze speciali nei quartieri più emarginati della città. La narrativa di Franco si opponeva alla trasformazione di Rio de Janeiro in un laboratorio del paradigma bellico per la “gestione” della questione criminale. Un paradigma che criminalizzava la povertà, fomentando l’aporofobia (il muro di paura dei poveri che il capitalismo erige per rifiutarli), assimilando il traffico di droga ai quartieri poveri e proponendo delle vere e proprie politiche di sterminio all’interno delle favelas. Da un lato i ricchi (bianchi) che denunciavano l’insicurezza di una città nella quale non potevano “fare la vita da ricchi” e dall’altro una maggioranza delle popolazioni, vittima di discriminazioni intersezionali che vedeva limitate le libertà di movimento, di espressione, di assembramento e manifestazione. Insomma, un progetto di annichilamento di quella parte delle città che Marielle Franco rappresentava ma che non si addiceva al biglietto da visita che l’oligarchia cittadina voleva offrire al mondo.

Murales che ritrae Marielle Franco nella favela Tavares Bastos di Rio de Janeiro – foto di Diego Battistessa

Forte delle sue idee e di una maturità politica data da più di 15 anni di militanza, Marielle decise di lanciarsi “nell’arena” e candidarsi al ruolo di consigliera nell’Assemblea Legislativa di Rio de Janeiro nella coalizione “Cambiar es posible” (Cambiare è possibile) formata dal Psol e dal Partito Comunista Brasiliano (Pcb). La campagna elettorale si svolse tra il 5 e il 21 agosto 2016, simultaneamente ai Giochi Olimpici e Marielle non risparmiò energie nel presentare e raccontare il suo programma, anche al sud, nella zona conosciuta per essere la più ricca della città. Fu un plebiscito. Il 30 di ottobre 2016 Marielle Franco ottenne 46.502 voti, risultando il quinto candidato più votato.

A Marielle è dedicato oggi un progetto che non può essere dimenticato ne marginalizzato quando si parla di favelas: mi riferisco al portale Wikifavela, un dizionario virtuale che combatte la discriminazione in Brasile. Proprio dal sito, disponibile in portoghese, inglese e spagnolo, possiamo leggere che:

«Il Dizionario della Favela è una piattaforma virtuale ad accesso pubblico per la produzione e la diffusione della conoscenza delle favelas e delle loro periferie. Mira a stimolare e consentire la raccolta e la costruzione delle conoscenze esistenti sulle favelas, collegando una rete di partner nelle università e nelle istituzioni e collettivi esistenti in questi territori. Il Dizionario Favela continua la lotta della consigliera comunale di Rio de Janeiro Marielle Franco e di molti altri leader della comunità contro il pregiudizio e l’esclusione, costruendo una società più giusta ed egualitaria».

Il fiorire delle (R)esistenze: Stop the Wall

to be continued (6)

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]]> Rimangono pronipoti di schiavi deportati nel Nuovo Mondo? https://ogzero.org/rimangono-pronipoti-di-schiavi-deportati-in-latinamerica/ Fri, 03 Dec 2021 18:42:18 +0000 https://ogzero.org/?p=5497 Se per le popolazioni indigene parliamo di lotta per la sopravvivenza, nel caso delle comunità afrodiscendenti si aggiunge l’elemento di insorgenza e ribellione che ha caratterizzato il lungo cammino per la conquista del riconoscimento come esseri umani prima e come attori sociali e politici poi. La subordinazione e marginalizzazione dei discendenti delle masse di persone […]

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Se per le popolazioni indigene parliamo di lotta per la sopravvivenza, nel caso delle comunità afrodiscendenti si aggiunge l’elemento di insorgenza e ribellione che ha caratterizzato il lungo cammino per la conquista del riconoscimento come esseri umani prima e come attori sociali e politici poi.

La subordinazione e marginalizzazione dei discendenti delle masse di persone africane deportate durante lo schiavismo è rimasto sistema in tutti gli stati in America latina e Caraibi. In questo articolo il quadro di riferimento storico, geografico e culturale quando si parla di America latina e Caraibi comprende il gruppo di paesi considerato dalla Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños – Celac. I paesi membri della Celac sono 33: Antigua e Barbuda, Argentina, Bahamas, Barbados, Belize, Bolivia, Brasile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Cile, Dominica, Ecuador, El Salvador, Grenada, Guatemala, Guyana, Haiti, Honduras, Giamaica, Messico, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Dominicana, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadine, Santa Lucia, Suriname, Trinidad e Tobago, Uruguay e Venezuela


«La popolazione afrodiscendente dell’America latina e dei Caraibi è composta principalmente da discendenti di popoli africani ridotti in schiavitù durante la tratta degli schiavi operata nella regione per quasi 400 anni. Sebbene si tratti di gruppi umani diversi, risultanti dal processo di schiavitù e dalla riproduzione delle disuguaglianze consolidate a partire dalla creazione dei nuovi stati della regione, le popolazioni afrodiscendenti latinoamericane soffrono senza distinzione il razzismo e la discriminazione strutturale. Nonostante il contesto avverso, gli afrodiscendenti hanno resistito e combattuto in modo permanente, riuscendo a posizionare le loro rivendicazioni storiche nelle agende internazionali, regionali e nazionali, principalmente nel secolo attuale. Uno dei corollari di questo processo è il Decennio Internazionale per gli afrodiscendenti istituito dalle Nazioni Unite per il periodo 2015-2024, basato su tre pilastri: riconoscimento, giustizia e sviluppo».

Cepal, 2017

Una persona su quattro in America Latina e nei Caraibi si riconosce come afrodiscendente ma, nonostante ciò, questo gruppo etnico è sicuramente la minoranza più invisibile della regione. Lo certifica tra gli altri, la Banca Mondiale, che in un report del 2018 contabilizza in 133 milioni gli appartenenti alla comunità afrodiscendente presenti nella regione latinoamericana. Sono il Brasile, il Venezuela, la Colombia, Cuba, il Messico e l’Ecuador a concentrare la maggior parte della popolazione afrodiscendente ma, anche in tutto il resto della regione, la presenza dei discendenti di coloro che furono portati in catene nel Nuovo Mondo, è parte dell’eredità storica e culturale nazionale.

Ascolta “People on the Move from Mesoamerica”.

 

Resistere per esistere

Anacaona è stata l’ultima Principessa dei Caraibi e resistente del popolo Taino. Morì nel 1503 a soli 29 anni, dopo una lunga lotta contro il dominio delle flotte spagnole che avevano saccheggiato e messo in schiavitù l’intera popolazione Taino. Condannata a morte, le fu proposto di aver salva la vita se si fosse offerta come concubina in un galeone spagnolo, Anacaona rifiutò e pertanto fu impiccata senza pietà.

Quella delle persone afrodiscendenti con l’America latina è una relazione carnale, costruita sui loro corpi – e con i loro corpi, templi di resistenza immolati alla causa della libertà. Se per le popolazioni indigene parliamo di lotta per la sopravvivenza, nel caso delle comunità afrodiscendenti si aggiunge l’elemento di insorgenza e ribellione che ha caratterizzato il lungo cammino per la conquista del riconoscimento come esseri umani prima e come attori sociali e politici poi.

La tratta degli schiavi in America Latina e nei Caraibi ebbe inizio per sopperire a un massacro perpetrato dai conquistadores nei confronti delle popolazioni indigene. I primi a soccombere di fronte al massivo sfruttamento dei nativi da parte dei nuovi arrivati furono i due popoli indigeni taino e caribe – da cui deriva il nome di Caraibi – e il loro destino si trova ben descritto nel volume di Sebastián Robiou Lamarche Taínos y caribes: Las culturas aborígenes antillanas (Editorial Punto y Coma, 2003). Le Antille spagnole, nome attribuito alle isole dell’arcipelago delle Antille facenti parte dell’impero spagnolo (dal 1492 al 1898) si trasformano fin da subito in una fonte di grande ricchezza per la Spagna e più tardi anche per altre potenze europee.

Durante tutto il periodo della colonia l’espansione capitalista guidata dalle politiche e dagli interessi delle metropoli del vecchio continente si è basata su una crescente e pressante richiesta di mano d’opera da sfruttare per le attività agricole, l’allevamento, i lavori di costruzione, di estrazione di risorse naturali e anche per le guerre. Come già riportato per il caso dei Taino e dei Caribe, la popolazione indigena fu falcidiata in pochi anni dagli incontri/scontri con i colonizzatori a causa della riduzione in schiavitù, dalle malattie importate dal Vecchio Continente e dalle guerre. Il collasso demografico conseguente a questa situazione portò le potenze europee a concentrare la loro attenzione sull’Africa, nello specifico sul Golfo di Guinea, conosciuto tra il XVII e XIX secolo come la Costa degli Schiavi.

Ile de Goré

Una simbolica porta sull’isola di Goré, da dove le imbarcazioni schiaviste salpavano verso il continente americano, trasportando nelle stive un carico di schiavi catturati come manodopera per i campi oltreatlantico (foto scattata nel 1998).

La struttura gerarchica, classista e razzista dell’epoca coloniale determinò fin da subito una posizione di estrema subordinazione della popolazione africana in America Latina e nei Caraibi, posizione assimilabile a quelle delle popolazioni indigene in termini di povertà materiale ed esclusione sociale e politica. Bisogna sottolineare che questa subordinazione non ha avuto termine con la liberazione delle persone afrodiscendenti dalla condizione di schiavi, ma estende la sua ombra fino ai giorni nostri e si manifesta attraverso il razzismo strutturale che relega queste comunità in una situazione di maggiore tasso di povertà, minor accesso all’educazione, minor accesso ai centri di salute, minore accesso al lavoro degno ed esclusione dagli spazi di decisione politica. A questo si aggiunge un elemento di negazione storica della presenza di persone afrodiscendenti nella regione e della loro partecipazione tanto nei processi di liberazione dal potere coloniale così come nello sviluppo sociale e culturale delle nazioni latinoamericane (Cepal, 2017).

Cosa identifica il termine afrodiscendente ?

«Lo studio della popolazione afrodiscendente presenta numerose sfide, a cominciare dalla mancanza di consenso su chi è e chi non è afrodiscendente, anche all’interno dei contesti nazionali. Il termine è stato adottato per la prima volta da organizzazioni regionali di discendenza afro all’inizio degli anni 2000. La parola descrive persone unite da un’ascendenza comune (ma che vivono in condizioni abbastanza dissimili), che vanno dalle comunità afroindigene, come i garífuna del Centro America, fino a enormi segmenti della società maggioritaria, come i pardos del Brasile. Negro, moreno, pardo, preto, zambo e creole, tra i tanti altri, sono termini molto più vicini alle nozioni di razza e relazioni razziali dei latinoamericani. Comunemente, queste categorie hanno stigmi e pregiudizi associati, come risultato di una lunga storia di discriminazione e razzismo. Nella maggior parte dei paesi, l’adozione del termine afrodiscendente è ancora parziale. In Venezuela, la maggioranza della popolazione morena (di razza mista) spesso rifiuta il termine e le sue implicazioni, mentre nella Repubblica Dominicana la maggioranza degli afrodiscendenti di razza mista preferisce identificarsi come indigeni».

(Banca Mondiale, 2018)

Le difficoltà per identificare, mappare e censire le persone di ascendenza africana nei paesi latinoamericani sono legate a doppio filo con la negazione della discriminazione razziale da parte degli stessi, oltre allo storico tentativo di rendere invisibile la pluralità etnica nella regione. Questa volontaria cecità sociale è figlia dell’opera di conseguimento dell’immagine europea di sviluppo e modernità, chimera vissuta dai governi liberali dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento in America latina. In questo schema di emulazione politica e sociale, le popolazioni indigene e gli afrodiscendenti erano visti e interpretati come elementi di disturbo, di arretratezza e di un passato da “pulire” con un’opera di blanqueamiento – lo “sbiancamento razziale”, ovvero quella pratica sociale, politica ed economica utilizzata in molti paesi postcoloniali per raggiungere un supposto ideale di bianchezza. Il termine si origina in America latina e può essere considerato sia in senso simbolico che biologico. Simbolicamente, lo sbiancamento rappresenta un’ideologia nata dalle eredità del colonialismo europeo, descritto dalla teoria della colonialità del potere di Aníbal Quijano, che si rivolge al dominio bianco nelle gerarchie sociali. Biologicamente, lo sbiancamento è il processo realizzato sposando un individuo dalla pelle chiara per produrre una prole dalla pelle non più scura.

Per raggiungere questo scopo venne favorita, da numerosi paesi latinoamericani (basti citare il Venezuela come esempio esplicativo), una massiccia immigrazione di persone dall’Europa: regione vista come culla della civiltà, Mater culturae e fornitrice di intellettualità, creatività, professionalità e soprattutto di pelle bianca. Successivamente, durante il XX secolo e con l’affermazione di identità nazionali fluide e plurali, si diffuse in America Latina la falsa percezione di aver raggiunto una sorta di giustizia sociale multietnica. In quel contesto, l’identificazione di una parte della popolazione come afrodiscendente venne interpretata come un elemento di fomento al razzismo e di conseguenza nessun dato su questa popolazione appariva nelle statistiche latinoamericane. A testimonianza, la Banca Mondiale ci ricorda nel suo report che negli anni Sessanta del XX secolo, solo il Brasile e Cuba includevano delle variabili etniche nei loro censimenti.

È dunque con questa completa mancanza di conoscenza, un vero e proprio abisso statistico a livello demografico e socioeconomico, che i paesi della regione latinoamericana hanno iniziato il terzo millennio. La domanda di chi è o non è afrodiscendente è quindi relativamente nuova e ha acquisito notevole importanza con l’introduzione delle varianti “razziali” nei censimenti nazionali a partire dagli anni 2000. L’autodeterminazione come afrodiscendenti in America latina ha poi ricoperto un ruolo strategico a livello politico, economico e sociale con l’introduzione di un quadro normativo di protezione dei diritti di questa popolazione. In questo scenario, però, si è vista in alcuni casi una perversione legale che ha comportato una nuova forma di discriminazione:

«Con la creazione di quote per gli afrodiscendenti nel mercato del lavoro o nel sistema educativo, per esempio, le persone che sono state escluse nel passato per non essere sufficientemente bianche ora corrono il rischio di essere escluse per non essere sufficientemente nere» (Banca Mondiale, 2018)

Dove vivono le persone afrodiscendenti in America Latina e nei Caraibi

I dati raccolti dalla Banca Mondiale su un totale di 16 paesi della regione latinoamericana parlano di 133 milioni di persone afrodiscendenti, circa il 24% del totale della popolazione. Il Brasile è sicuramente il paese che da solo pesa in modo determinante sulla bilancia demografica, con una popolazione afrodiscendente nel 2015, stimata in 105 milioni di persone. Il Brasile insieme al Venezuela, concentrava all’epoca il 91% della popolazione afrodiscendente della regione e un altro 7% era distribuito tra Colombia, Cuba, Ecuador e Messico. Si evince dunque che le tre aree di concentrazione della popolazione oggetto di studio sono rappresentate dal Brasile, dai Caraibi e dalla costa dell’Oceano Pacifico. Si tratta di una forte eterogeneità determinata dai contesti paese, dalle zone geografiche di residenza e dalla presenza o meno all’interno delle statistiche e dei censimenti nazionali. Ciononostante, la maggior parte delle persone afrodiscendenti della regione condividono non solo le radici africane ma anche una lunga storia di migrazione forzata, oppressione, sfruttamento ed esclusione.

Sono donne, sono afrodiscendenti e stanno facendo la Storia

Ascolta “The importance of being afro”.

 

Il caso più emblematico di questa fine 2021 è sicuramente quello della Repubblica della Barbados, divenuta tale il 30 novembre 2021 con la definitiva separazione dalla corona britannica e l’ingresso nel Commonwealth come repubblica indipendente. A sancire questa transizione storica la nomina del primo presidente dell’isola caraibica, una donna afrodiscendente: Sandra Mason. Un avvenimento dalla enorme simbologia storica, politica, etnica e di rivalsa identitaria. Basti pensare che proprio in un altro territorio inglese caraibico (le Bermudas), vide la luce nel febbraio del 1831, un’opera letteraria unica e che fu determinante per l’abolizione della schiavitù. Si tratta di The history of Mary Prince, a west indian slave written by herselfes, la prima autobiografia scritta da una donna nera schiava originaria delle Bermudas e di nome Mary Prince. Il libro ebbe un impatto enorme non solo in Inghilterra e fu un elemento fondamentale per la promozione dell’abolizione della schiavitù nelle colonie britanniche avvenuta nel 1833 con lo Slavery Abolition Act.

Un documento considerato come un referente della letteratura nera africana delle colonie e che valse a Mary Prince il riconoscimento come una vera e propria eroina delle Bermudas. Il 26 ottobre 2007, per la ricorrenza del 200° anniversario dell’abolizione della tratta degli schiavi (Slave Trade Act del l807) , nella casa in cui Mary Prince visse a Londra nel 1829, venne scoperta una targa in suo onore. La targa recita: “Mary Prince, 1788-1833, la prima donna africana a pubblicare le sue memorie di schiavitù visse in questa casa nel 1829”.

Passato e presente che si intrecciano dunque, in un cammino dove la geografia della resistenza chiude circoli a distanza di generazioni, traccia linee leggibili solo se osserviamo da una certa distanza, a volte di secoli, il quadro originale.

Sandra Mason è però solo l’ultimo tassello di un movimento eterogeneo e trasversale, che vede le donne afrodiscendenti della regione giocare un ruolo centrale nella riscoperta, rivendicazione e posizionamento nelle agende nazionali e internazionali del peso identitario della loro comunità. Da diversi campi d’azione donne come Gessica Geneus,

La regista haitiana di Port-au-Prince ha fatto sentire a Cannes il valore della lingua creola con il suo film Freda, sul coraggio delle donne del suo paese. Film inserito anche nella sezione lungometraggi di finzione del Fespaco di Ouagadougou in Burkina Faso.

la cantante Rihanna; Robyn Rihanna Fenty, nata a Bridgetown, è stata dichiarata “eroina nazionale” di Barbados proprio il 30 novembre giorno della proclamazione della Repubblica delle Barbados per aver, secondo le parole della primo ministro Mia Mottley: “l’immaginazione nel mondo attraverso la ricerca dell’eccellenza con la sua creatività, la sua disciplina e, soprattutto, il suo straordinario impegno per la sua terra”.

 

 

 

la compianta Marielle Franco, Politica e attivista afrobrasiliana assassinata il 14 marzo 2018 da sgherri coperti da organismi della polizia.

 

Shirley Campbell Barr, la poetessa afrodiscente del Costa Rica, autrice della poesía “rotundamente negra”.

 

l’attivista per la difesa della natura e politica afrocolombiana Francia Elena Márquez Mina

gli ori olimpici di Tokyo 2020 Neisi Dajomes (Ecuador), Jasmine Camacho-Quinn (Porto Rico), Elaine Thompson-Herah (Giamaica), Yulimar Rojas (Venezuela), l’attivista e ballerina afrobrasiliana Tuany Nascimento tra le altre centinaia, continuano a costruire una narrazione alternativa che passa per un epistemologia nuova, inclusiva e sgombra della colonialità del potere.

La colonialità del potere è un concetto che mette in relazione le pratiche e le eredità del colonialismo europeo negli ordini sociali e nelle forme di conoscenza, avanzate negli studi postcoloniali, sulla decolonialità e negli studi subalterni latinoamericani, in particolare da Anibal Quijano. Identifica e descrive l’eredità vivente del colonialismo nelle società contemporanee sotto forma di discriminazione sociale che è sopravvissuta al colonialismo formale e si è integrata negli ordini sociali successivi. Il concetto identifica gli ordini gerarchici razziali, politici e sociali imposti dal colonialismo europeo in America Latina che prescriveva valore a determinati popoli/società mentre ne sminuiva o invisilibizzava altri.

 

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