Mali Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/mali/ geopolitica etc Sat, 02 Sep 2023 22:50:08 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Il Sahelistan dall’Atlantico al Mar Rosso https://ogzero.org/il-sahelistan-dallatlantico-al-mar-rosso/ Mon, 21 Aug 2023 20:51:37 +0000 https://ogzero.org/?p=11453 La rapida fuga dei francesi cacciati dalla Françafrique, con i doverosi distinguo, richiama alla mente – soprattutto per la rapidità del dissolvimento di un potere coloniale – la precipitosa fuga americana da Kabul. La regione immediatamente subsahariana – che molto è intrecciata con i movimenti irredentisti del Maghreb, esplosi con la crisi libica (scatenata da […]

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La rapida fuga dei francesi cacciati dalla Françafrique, con i doverosi distinguo, richiama alla mente – soprattutto per la rapidità del dissolvimento di un potere coloniale – la precipitosa fuga americana da Kabul. La regione immediatamente subsahariana – che molto è intrecciata con i movimenti irredentisti del Maghreb, esplosi con la crisi libica (scatenata da Sarkozy) che furono alleati del jihad che imperversa nel territorio su cui sono segnati i confini tra Mali, Burkina e Niger – ha assistito alla penetrazione di nuove potenze (in particolare Russia con la presenza di Wagner e Cina che ha aperto una sede per manutenzione di veicoli della Norinco a Dakar – pronta a difendere i vasti interessi di Pechino nei tre paesi dei golpe, ma operativa anche in Senegal, Costa d’Avorio –, ma anche Turchia e paesi della penisola araba), che hanno sfruttato dispute interne, sentimenti antifrancesi, insorgere del jihad per piegare a loro favore lo sfruttamento delle risorse del territorio e la collocazione strategica di cerniera tra Africa centrale (e Corno d’Africa) e Mediterraneo da sud a nord; tra l’Oceano e l’importantissimo corridoio del Mar Rosso sul classico asse ovest/est. L’incendio si va estendendo ormai da quel Triangolo di paesi attualmente retti da giunte militari golpiste fino a legarsi al sanguinoso conflitto sudanese ormai impossibile da comporre (che sta causando nuovi esodi di massa, coinvolgendo in questo modo altri paesi in sofferenza, perché non più in grado di accogliere profughi, creando così nuovi motivi di tensione nell’area dopo quelli che hanno scosso l’Etiopia negli ultimi due anni).
A chi serve creare un’area a forte instabilità sul modello afgano di dimensioni così enormi? è tutto parte di un disegno globale di ridimensionamento del predominio dell’Occidente, oppure è un percorso senza alternative di decolonizzazione, che fa della Realpolitik l’accettazione di potenze alternative, pur di disfarsi del giogo classicamente coloniale? le reazioni interventiste dei paesi limitrofi sono ispirate dalla paura dell’epidemia; oppure dagli sponsor europei, come il solito Eliseo (Adamu Garba, esponente dell’Apc ha accusato Usa e Francia di aver voluto mandare avanti l’Ecowas per innescare una guerra regionale e recuperare posizioni “coloniali”, sfruttando l’instabilità e l’ennesima guerra per procura che finirebbe con il distruggere l’Africa occidentale)
?  Oppure nascono dalla consapevolezza che la regione è stata integralmente posta in un caos per cui nulla sarà più come prima? Sicuramente si sta spostando in campo africano lo scontro anche militare che contrappone gli interessi dei Brics allargati all’egemonia occidentale.
Angelo Ferrari ha cercato di fare il punto mettendo in relazione tutti gli elementi in campo per dipanare l’ingarbugliata matassa.


Il golpe nigerino sblocca definitivamente il modello afgano per l’intero Sahel?

A ovest del lago Ciad

Rulli di tamburi…

Tutti i riflettori della diplomazia internazionale sono puntati sul Niger, dopo il colpo di stato del 26 luglio. Mentre ciò accade il Sahel rischia di piombare in un caos senza precedenti che potrebbe coinvolgere tutta l’Africa occidentale e non solo: l’intera  striscia saheliana è attraversata da tensioni che vanno dal sentimento antifrancese e antioccidentale, che sta montando un po’ ovunque, a una crisi politica, umanitaria e di sicurezza senza precedenti. La decisione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) di intervenire militarmente in Niger sta esacerbando ulteriormente le opinioni pubbliche di diversi stati della regione; non più, dunque, una minaccia, ma un piano militare messo a punto dopo due giorni di vertice ad Accra, capitale del Ghana. Non si conoscono i dettagli dell’operazione, si sa solo che dovrebbe essere “lampo” perché nel Sahel c’è stato “un colpo di stato militare di troppo”, a detta dei generali riuniti ad Accra. Intervento armato, tuttavia, che non avrebbe alcuna legittimità internazionale: l’Unione africana infatti ha già detto il suo no e le Nazioni Unite non hanno nessuna intenzione di autorizzarlo.

… timide mosse diplomatiche…

Mentre si parla di piani militari, la diplomazia è ancora al lavoro. Una delegazione dell’Ecowas è arrivata a Niamey dove ha potuto incontrare il presidente destituito, Mohamed Bazoum; non solo, a Niamey è arrivata anche la nuova ambasciatrice degli Stati Uniti, Kathleen FitzGibbon, anche se non presenterà le credenziali alla giunta militare – perché Washington non la riconosce – esprimendo tuttavia l’intenzione americana di perseguire la via diplomatica e «per sostenere gli sforzi che aiutino a risolvere la crisi politica in questo momento». Un segno, dunque, che la giunta militare non respinge del tutto il dialogo.
tanto che in un discorso alla televisione pubblica nigerina, Télé Sahel, il generale Abdourahamane Tchiani, a capo della giunta militare, ha annunciato l’istituzione di un «dialogo nazionale inclusivo» entro 30 giorni e ha annunciato una transizione che «non può durare oltre i tre anni». L’obiettivo è formulare «proposte concrete per porre le basi di una nuova vita costituzionale».
Un mantra, quest’ultimo, che ha precedenti in Mali, Burkina Faso e Guinea, paesi che sono stati teatro di colpi di stato negli ultimi due anni e dove le transizioni si prolungano senza che vengano convocate elezioni per un ritorno dei civili al governo di questi paesi. Il generale Tchiani, tuttavia, non accetta la minaccia dell’Ecowas di un intervento militare e rilancia: «L’Ecowas si prepara ad attaccare il Niger allestendo un esercito di occupazione in collaborazione con un esercito straniero», ha detto Tchiani senza citare il paese “straniero”, ma in molti pensano alla Francia.

… esibizione di muscoli

«Né il Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria né il popolo del Niger vogliono la guerra, ma se dovesse essere intrapresa un’aggressione, non sarà la svolta in cui alcuni credono» e ha ammonito: «Le forze di difesa del Niger non si tireranno indietro», sostenute da Burkina Faso, Mali e Guinea, ha detto. «La nostra ambizione non è quella di confiscare il potere», ha anche promesso.

A est del lago Ciad

Il conflitto tra al-Burhan e Hemedti si estende a tutti i Signori della guerra

Mentre ciò accade nell’estremo ovest della striscia saheliana, il Sudan è entrato nel quinto mese di guerra senza che si intraveda all’orizzonte una soluzione. Anzi, sembra proprio che i contendenti vogliano arrivare alle estreme conseguenze. Intanto il conflitto si è esteso, impantanato, aggravato provocando un dramma umanitario che nemmeno l’Onu è in grado di affrontare. La guerra contrappone l’esercito regolare del generale al-Burhan alle Forze di supporto rapido (Fsr) dei paramilitari guidati dal generale Hemedti. Il conflitto ha causato più di quattromila morti, anche se la cifra delle vittime è sottostimata, e milioni tra profughi e sfollati interni. Quando la guerra è scoppiata, il 15 aprile 2023, il generale al-Burhan ha detto che sarebbe finita in due settimane, mentre Hemedti prometteva la vittoria. Oggi nessuna delle due parti sembra prendere un vantaggio decisivo. I militari dominano ancora lo spazio aereo, mentre soffrono la debolezza della loro fanteria, un compito, ironia della sorte, che avevano affidato proprio alle Fsr. L’esercito ha subito battute d’arresto nel Sud Kordofan, nel Nilo Azzurro e nel Darfur, le Forze di supporto rapido sembrano avere nelle mani la maggior parte del territorio di Khartoum, la capitale.
Il conflitto dunque, anziché attenuarsi, si intensifica è sta coinvolgendo altri movimenti armati che partecipano ai combattimenti. Insomma, questo conflitto, iniziato tra due generali, rischia di trasformarsi in una vera e propria guerra civile, secondo l’Onu, volgendo verso una situazione di anarchia totale. I negoziati, inoltre, non sono mai decollati e sono in una fase di stallo e i cessate il fuoco non sono mai durati.

S’intrecciano le crisi umanitarie regionali

Profughi e sfollati, di nuovo sulle sponde del Nilo

Sul versante umanitario le cifre sono da capogiro con oltre 3 milioni di sfollati e quasi 1 milione di rifugiati. Inoltre, entro settembre si prevede che il 40% della popolazione soffrirà di insicurezza alimentare. Le organizzazioni umanitarie stanno affrontando una situazione a dir poco scoraggiante con una mancanza allarmante di fondi, all’appello mancano due miliardi di dollari per far fronte alla crisi. Le donne sono particolarmente colpite, sono vittime di violenze e stupri perpetrati dai combattenti e private di un’adeguata assistenza psicologica e medica, hanno spiegato i portavoce delle agenzie umanitarie durante una riunione a Ginevra. Le agenzie possono aiutare circa 19 milioni di persone in Sudan e nei paesi limitrofi, tuttavia gli interventi sono finanziati solo al 27%. Le Nazioni Unite hanno lanciato due appelli, uno per finanziare gli aiuti all’interno del paese per un totale di 2,57 miliardi di dollari e l’altro per i rifugiati fuggiti dal Sudan per un importo di 566,4 milioni di dollari. Ma dopo la crisi innescata dal colpo di stato in Niger, del Sudan sembra si siano dimenticati tutti e ciò rischia di aggiungere catastrofe a catastrofe.

Profughi e sfollati, di nuovo sulle sponde del Niger

Le conseguenze di un intervento militare dell’Ecowas a Niamey sarebbero devastanti sia sul piano umanitario sia sul piano della sicurezza dell’intera regione. Già si vedono spostamenti di persone sul fiume Niger nella parte che confina con il Benin, considerato, ancora, uno stato sicuro. Nel paese la crisi umanitaria si sta già manifestando. Le frontiere chiuse impediscono il passaggio di merci necessarie alla sopravvivenza della popolazione, così come l’elettricità scarseggia in più parti del paese per via delle interruzioni delle forniture che arrivano dall’estero. Una guerra, per quanto lampo sia, aggraverebbe ulteriormente la situazione umanitaria.

A Ovest (speriamo) niente di nuovo

Una guerra, che potrebbe estendersi a buona parte del Sahel – Mali e Burkina Faso hanno già assicurato il loro appoggio al Niger – avrebbe ripercussioni preoccupanti sul fronte della lotta al terrorismo e ai gruppi jihadisti che imperversano nell’area, in particolare nella regione dei tre confini – Niger (Tilaberi), Mali (Tessit) e Burkina Faso (Tamba), dove storicamente la pastorizia nomade si scontra con coltivatori stanziali – ma anche sulla capacità dei paesi del Golfo di Guinea, già colpiti dal terrorismo a nord dei loro confini – Costa d’Avorio, Benin e Togo – di farvi fronte. Una situazione, dunque, esplosiva.

Recrudescenza jihadista dopo Barkhane

Dal colpo di stato in Niger di fine luglio, infatti, sono stati registrati nove attacchi jihadisti. Una tendenza che preoccupa gli osservatori. Con la recrudescenza degli attacchi islamisti, il timore è di “un rapido deterioramento della situazione”, in primo luogo perché Parigi ha sospeso la sua cooperazione militare con il Niger. L’esercito nazionale quindi non beneficia più dell’appoggio dell’esercito francese. Non ci sono più operazioni congiunte, aerei e droni non danno più supporto e i terroristi approfittano del vuoto. Poi, le minacce di intervento armato dell’Ecowas hanno portato a una riduzione del sistema militare occidentale, che hanno sospeso le loro attività ai confini. Ciò potrebbe portare un calo della reattività dell’esercito nigerino e i gruppi jihadisti potrebbero approfittarne riconquistando la loro libertà di manovra con un radicamento dello Stato Islamico proprio nell’area dei tre confini. Le preoccupazioni vanno ancora oltre, con la possibile creazione di zone grigie, in parte controllate da gruppi armati, in Mali, Burkina, Niger, persino Sudan, che potrebbero destabilizzare il vicino Ciad. Il Ciad, pur non essendo membro dell’Ecowas, condivide con il Niger 1200 chilometri di confine e dispone, oltre ad avere solidi rapporti con la Francia, di un esercito tra i più potenti dell’area. Quindi il Niger ha necessità di assicurarsi rapporti di buon vicinato – il primo ministro nigerino, nominato dalla giunta militare, ha fatto visita al presidente ciadiano Mahamat Idriss Deby – anche se N’Djamena è alle prese con una crisi interna di legittimità del potere e con l’emergenza profughi che arrivano a decine di migliaia dal Sudan.

A rischio sconfinamenti i paesi del Golfo

Si teme, inoltre, che i gruppi jihadisti possano contagiare anche i paesi del Golfo di Guinea. Questa è la maggior preoccupazione della Costa d’Avorio che è già alle prese con sconfinamenti dal Burkina Faso e con centinaia di profughi burkinabé che cercano rifugio nel nord del Paese. Ciò, inoltre, potrebbe spiegare la ferma posizione del presidente ivoriano, Alassane Ouattara, che si è schierato con decisione per un intervento militare in Niger, dicendosi disponibile a fornire un battaglione del suo esercito al contingente dell’Ecowas. Occorre ricordare che Ouattara è uno dei pochi “fedeli” alla Francia rimasti nella regione. E il presidente ivoriano è preoccupato che anche nel suo paese possa montare un sentimento antifrancese alimentato, soprattutto, dal suo rivale di sempre l’ex presidente Laurent Gbagbo, 78 anni, che non nasconde le sue velleità di tornare alla presidenza della Costa d’Avorio, nel 2025, con il suo nuovo Partito dei popoli africani-Costa d’Avorio (Ppa-Ci), di ispirazione e orientamento socialista e panafricanista, nemmeno troppo velatamente antifrancese.

Scosso anche il gigante Senegal da sommovimenti interni

Non meno turbolenta appare la situazione nell’estremo ovest della striscia saheliana, in un Senegal che vive un periodo di forte crisi politica e di legittimità democratica, soprattutto dopo l’arresto dell’oppositore Ousmane Sonko, uno dei leader politici più amati dai giovani senegalesi. Arresto che ha provocato manifestazioni di piazza violente, che hanno lasciato sulle strade numerosi feriti ma anche morti. In conseguenza di queste proteste il ministro dell’interno senegalese, Antoine Diome, ha annunciato lo scioglimento proprio del partito di Sonko, il Pastef – Les patriotes. Il leader dei “giovani senegalesi” è stato condannato per diffamazione e per corruzione giovanile. Secondo le opposizioni queste condanne non hanno altro significato che escludere Sonko, che gode di un buon seguito, dalle elezioni presidenziali del 2024. Il Senegal è un altro paese in forte ebollizione e non è bastata la decisone di Macky Sall, attuale presidente, di non candidarsi per un terzo mandato alle presidenziali a inizio luglio per stemperare la tensione nel paese. In punta di diritto potrebbe farlo, anche se la Costituzione prevede solo due mandati, ma è stata riformata, con una rimodulazione della lunghezza del mandato, proprio sotto la presidenza Sall. Le opposizioni, infatti, si rammaricano del fatto che il presidente Sall e il suo governo rimangano sordi alle richieste di allentamento, pacificazione e fine delle restrizioni agli spazi di libertà. I mesi, dunque, che separano il Senegal alle presidenziali del febbraio 2024 saranno particolarmente difficili. Non è un caso, inoltre, che le opposizioni senegalesi si siano schierate contro l’intervento militare dell’Ecowas in Niger.
Sono molte le ragioni che dovrebbero dissuadere dal mettere in atto lo scenario peggiore per il Sahel e per l’intera Africa occidentale. Un conflitto armato su vasta scala potrebbe scatenare reazioni non proprio prevedibili e trasformare il Sahel in un “Sahelistan” di afgana memoria.

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L’ancora irrisolto colpo di stato in Niger https://ogzero.org/lancora-irrisolto-colpo-di-stato-in-niger/ Sun, 30 Jul 2023 22:51:19 +0000 https://ogzero.org/?p=11387 Intanto i differenti militari hanno sollevato il presidente, il potere però sembra sia gestito da svariati uomini forti a cominciare dal capo della Guardia presidenziale Tchiani e ora sembrano essere in attesa di capire in che modo schierarsi nelle relazioni internazionali; come se fossero sulla piazza, al miglior offerente… ma probabilmente divisi tra diverse forze […]

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Intanto i differenti militari hanno sollevato il presidente, il potere però sembra sia gestito da svariati uomini forti a cominciare dal capo della Guardia presidenziale Tchiani e ora sembrano essere in attesa di capire in che modo schierarsi nelle relazioni internazionali; come se fossero sulla piazza, al miglior offerente… ma probabilmente divisi tra diverse forze armate e le differenti “scuole d’armi” frequentate. Forse Bazoum aveva dato l’impressione di non voler mettere in discussione minimamente lo schieramento con la parte dell’Occidente e quindi il rischio per chi intendeva omogeneizzare le scelte antiatlantiste del resto del Sahel era quello di essere esautorati dagli incarichi autorevoli che ricoprivano. Forse ha prevalso l’idea che nel gran rivolgimento dell’intero continente risultasse perdente per la nazione non operare alcun cambiamento. Forse il timore che si mancasse anche stavolta la partecipazione all’ondata di rigetto antifrancese (molto popolare presso i giovani potrebbe aver spinto alla rimozione dell’ostacolo presidenziale… di certo l’incertezza sulla affidabilità e collocazione di uno stato chiave, l’ultimo nel Sahel ancora sotto l’egida di una Francia affamata di uranio, produce fibrillazioni in seno all’intera comunità internazionale, motivo per cui – al contrario del solito – abbiamo pensato fosse il caso di occuparsene quando ancora non si è depositato il polverone di ipotesi suscitate dal golpe. … Intanto Parigi ha dichiarato che – rispetto agli altri paesi sahelini (che non sono cassaforte di uranio) – da Niamey sarà più difficile cacciarli, però il governo golpista ha sospeso le forniture di oro e uranio alla Francia. E comunque sul territorio c’è il più grosso contingente americano in Africa e gli addestratori italiani (più di 300 giovani e forti, 13 mezzi terrestri e 5 aerei, inquadrati nella Misin che opera agli ordini del Comando operativo di vertice interforze (Covi), guidato dal generale di Corpo d’armata Francesco Paolo Figliuolo, sempre lui). Il blocco dell’Africa occidentale riunito a Abuja (Cedeao), ha dichiarato la sospensione delle relazioni con il Niger autorizzando l’uso della forza se il presidente non verrà reintegrato entro una settimana: l’emissario del messaggio è il non-allineato Déby (in carica dinasticamente per volontà dell’Eliseo), un pessimo segnale in una fase di rivolgimento totale, che la paura dell’epidemia si diffonda in tutta l’Africa occidentale, mettendo le premesse perché divampi una guerra estesa, concede pericolosi spazi per una nuova guerra per procura in terra africana.
Angelo Ferrari affronta l’evento cercando di districarsi tra le notizie ancora contraddittorie, analizzandole per capire almeno le intenzioni di ciascun protagonista, in primis i generali nigerini, ma poi anche le diplomazie mondiali e la manipolazione mediatica delle piazze locali, lasciando solo trapelare il malcontento giovanile
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Sbalorditivi risultati dopo il vertice di San Pietroburgo?

Una vicenda ancora dai contorni pochi chiari – non potevano mancare le affermazioni del capo dei mercenari della Wagner che ha applaudito alla presa di potere dei militari. Parole piene di retorica anticoloniale:

«Quello che è successo in Niger non è altro che la lotta del popolo nigerino contro i colonizzatori che stanno cercando di imporre loro le loro regole di vita”, ha detto Evgenij Prigožin in un messaggio a lui attribuito.

Parole che fanno intendere che la Wagner, qualora i golpisti lo volessero, è pronta a entrare nello scenario nigerino con un ruolo di primo piano. Non ci sono, per ora, segnali che dietro il golpe ci siano gli uomini della Wagner. Se fosse così sarebbe un doppio schiaffo per l’occidente che, è bene dirlo, si è fatto sorprendere proprio nell’ultima roccaforte della lotta antijihadista dopo l’uscita di scena dal Mali e dal Burkina Faso. Le domande sono molte.

 

La prima: come è stato possibile che nessuna cancelleria occidentale avesse avuto un sentore di ciò che sarebbe potuto accadere?

Non c’è una risposta e se c’è nessuno la vuole dare, forse perché sarebbe troppo imbarazzante. Sta di fatto che in Niger sono presenti migliaia di militari stranieri: 1500 francesi, più di mille americani e oltre trecento italiani, oltre ai mezzi militari, molti di questi di stanza a Niamey, la capitale. Di certo, nei prossimi giorni si chiariranno molte cose. Secondo i francesi il colpo di stato “non è definitivo”. Il presidente Emmanuel Macron ha parlato in più occasioni con il suo omologo destituito, Mohamed Bazoum. Forse da queste telefonate deduce che ci sia ancora uno spiraglio di trattativa tra il capo di stato democraticamente eletto e i golpisti che, intanto, hanno messo a guida del paese il capo della guardia presidenziale, il generale Abdourahamane Tchiani, in qualità di “presidente del Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria”, la giunta che ha rovesciato il presidente eletto. Il capo della guardia presidenziale, il generale Tchiani, nuovo uomo forte del Niger, ha giustificato il golpe con “il deterioramento della situazione della sicurezza” nel paese minato dalla violenza dei gruppi jihadisti. Il presidente Bazoum, a detta sua, voleva far credere che “va tutto bene”, mentre c’è

«la dura realtà con la sua quota di morti, sfollati, umiliazioni e frustrazioni». Secondo Tchiani «l’attuale approccio di sicurezza non ha permesso di mettere in sicurezza il paese nonostante i pesanti sacrifici compiuti dai nigerini e l’apprezzabile e apprezzato supporto dei nostri partner esterni».

Rassicurazioni da militare

A ogni insorgenza si sentono sempre queste parole. Sono una consuetudine vissuta anche in altri scenari del Sahel: il Mali e il Burkina Faso, paesi governati da giunte militari frutto di 4 colpi di stato. Tutte le giunte militari, inoltre, si affrettano a sostenere che gli impegni presi dal paese non cambieranno e verranno rispettati. Un tentativo di rassicurare gli alleati, ed è capitato anche in Niger, per poi fare retromarce clamorose. In Mali – la nuova Costituzione stabilisce che il francese non è più la lingua ufficiale – come in Burkina Faso, hanno “cacciato” la Francia per mettersi totalmente nelle mani della Russia, affidandosi alla Compagnia Wagner per la lotta ai gruppi jihadisti che imperversano nel Sahel. Hanno preoccupato le manifestazioni, a Niamey, a sostegno dei golpisti, con la gente che sventolava le bandiere russe, per altro subito disperse dalla giunta miliare. I timori, dunque, delle cancellerie occidentali sono più che fondati. E la “guerra economica e diplomatica” tra Ovest ed Est del mondo sembra proprio essersi trasferita in Africa. I segnali ci sono tutti.

Il Sahel ha sancito la fine di un’epoca?

Dopo il Mali e il Burkina Faso, dunque, anche il Niger è caduto sotto il controllo di un regime militare che potrebbe sconvolgere la lotta contro i gruppi armati jihadisti nel Sahel. Di fronte all’avanzata dei terroristi, le giunte militari hanno preso il sopravvento su democrazie ritenute inefficienti e corrotte da parte delle popolazioni saheliane. I militari che hanno, infatti, preso il potere in Niger hanno già annunciato un nuovo orientamento strategico.

«L’attuale approccio non ha permesso di mettere in sicurezza il Paese nonostante i pesanti sacrifici compiuti dai nigerini», ha detto il generale Tchiani.

Il Niger e il suo presidente, eletto democraticamente, erano i principali alleati dei paesi occidentali nel Sahel travolto dalla violenza jihadista e da un’ondata di autoritarismo venato di sovranità russofila. Bamako si è rivolto ai mercenari della Wagner per far fronte ai gruppi jihadisti, provocando la partenza delle truppe francesi nel 2022. Le autorità di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, hanno optato per la mobilitazione di cittadini armati e hanno chiesto il ritiro delle forze speciali francesi nel paese, non senza l’appoggio della Wagner. Il presidente nigerino, invece, aveva scelto di mantenere sul suo territorio la presenza di soldati francesi, americani e italiani, temendo di essere coinvolto nel divorzio tra l’occidente e le giunte saheliane.
Queste giunte «tendono naturalmente ad addossare la responsabilità del deterioramento della sicurezza agli alleati dei regimi che hanno rovesciato. Questi colpi di stato sono sostenuti da una parte della popolazione che ha già mostrato un atteggiamento ostile nei confronti dei francesi o degli occidentali presenti nel Sahel», spiega Ibrahim Yahaya Ibrahim, ricercatore dell’International Crisis Group.
Fin dal suo primo intervento, il generale Tchiani ha preferito rivolgersi ai suoi omologhi saheliani, interrogandosi «sul senso e sulla portata di un approccio securitario alla lotta al terrorismo che escluda ogni reale collaborazione con Burkina Faso e Mali» nell’area nota come i tre confini.

L’auspicata cooperazione tra sahelini… ma antifrancese

A causa delle tensioni diplomatiche, i militari nigerini e francesi non hanno potuto operare liberamente contro le basi dello Stato Islamico dall’altra parte del confine con il Mali, dove l’organizzazione compie attacchi sul territorio nigerino. Questa crisi non potrebbe essere risolta senza la cooperazione con il Mali, secondo il generale Tchiani. Insomma, è facile prevedere che vi sia un “miglioramento” delle relazioni e una maggiore cooperazione tra i paesi vicini.
Dal lato dei partner occidentali le prospettive sono più fosche: l’Unione europea ha annunciato la sospensione di tutti gli aiuti di bilancio e le azioni di cooperazione nel campo della sicurezza. Le sanzioni internazionali potrebbero colpire il regime come nel vicino Mali. Una possibile partenza delle forze francesi, americane e italiane lascerebbe un vuoto in una regione particolarmente travagliata, secondo gli analisti.
Il Niger confina con il caos libico, la Nigeria con Boko Haram e Iswap, il nord del Benin molto colpito dal jihadismo e ovviamente Mali e Burkina Faso.

Niamey era un polo di stabilità nonostante i problemi di sicurezza sul territorio.

Il Niger sta vivendo un afflusso di rifugiati dal Mali e dalla Nigeria in preda alla violenza, stimato in 255.000 nel 2022 dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unchr). Bazoum incarnava un modello di cooperazione in materia di sicurezza per le democrazie occidentali e i loro donatori. Il mantra del presidente nigerino era la “stabilizzazione” delle comunità prese di mira dal reclutamento jihadista e la reintegrazione dei loro combattenti, soprattutto i giovani. Il governo di Niamey stava attuando programmi in gran parte finanziati da partner internazionali, il cui futuro è ora sospeso. Contrariamente al potere civile che ha accettato di dialogare con alcuni leader di gruppi armati, il generale Tchiani ha denunciato nel suo discorso di “insediamento” la “liberazione extragiudiziale” di “capi terroristi” da parte del regime di Mohamed Bazoum. In Mali e Burkina Faso i militari al potere hanno optato per una strategia ultraoffensiva contro i gruppi jihadisti, viziata da accuse di abusi ricorrenti contro la popolazione. E a pagarne il maggior peso sono i civili.

Recrudescenza jihadista

Una strategia che contribuisce alla destabilizzazione e può alimentare tensioni intercomunitarie e intracomunitarie. Un approccio, inoltre, che non ha avuto l’esito sperato. Gli attacchi jihadisti in questa regione, ma anche nell’Africa occidentale, si sono moltiplicati. Solo nei primi sei mesi del 2023 si sono registrati più di 1800 attacchi di matrice terroristica, nei quali hanno perso la vita quasi 4600 persone e che hanno avuto conseguenze umanitarie disastrose. A riferirlo è Omar Touray, presidente della Commissione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) intervenendo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Delle circa 4600 persone uccise in questi attacchi terroristici tra gennaio e la fine di giugno, 2725 morti sono avvenute in Burkina Faso, 844 in Mali, 77 in Niger e 70 in Nigeria. Touray ha citato anche il Benin e il Togo, due paesi della subregione storicamente risparmiati dagli attacchi terroristici ma che oggi vivono, invece, grandi preoccupazioni per la sicurezza. Questi paesi sono stati presi di mira, di recente, da una serie di attacchi, che Touray ha descritto come

«un’indicazione lampante della diffusione del terrorismo negli stati» del Golfo di Guinea, «una situazione che rappresenta un’ulteriore minaccia per la regione».

Touray ha detto anche che l’insicurezza continua a infliggere dolore e sofferenza a milioni di persone, con conseguenze di vasta portata: questi attacchi terroristici hanno provocato lo sfollamento di mezzo milione di rifugiati e quasi 6,2 milioni di sfollati interni. La Costa d’Avorio, solo per fare un esempio, ha già predisposto campi per l’accoglienza dei profughi provenienti dal Burkina Faso. Il numero di persone con necessità di sicurezza e assistenza, poi, salirà a 42 milioni «se non ci sarà un’adeguata risposta internazionale ai 30 milioni di persone attualmente bisognose di cibo».


I francesi e l’Occidente non si possono permettere di perdere il Niger: passa dalla soluzione di questa crisi il definitivo declino dell’Occidente, oppure la contrapposizione allo scacco del blocco antiatlantico… l’incrocio tra Sahel e l’area centrafricana è uno snodo essenziale, ben più critico del corridoio polacco verso Kaliningrad. E forse per evitare il contagio può essere un’interpretazione valida quella avanzata da Angelo Ferrari e Marco Trovato in un visdeo di “AfricaRivista”riguardo al successivo “golpe” con caratteristiche del tutto differenti che ha colpito il Gabon, stato quasi monarchico che la repubblica francese ha dato in affido alla famiglia Bongo da 57 anni e che avrebbe rischiato maggiormente se le sommosse per il malcontento nei confronti della cleptocrazia non fossero venute dalla guardia presidenziale, ma dai cittadini ridotti in miseria dal sistema neocoloniale – e c’erano tutti i prodromi di una reazione violenta ai brogli delle elezioni tenutesi senza internet funzionante e in stato di emergenza, senza osservatori. Invece Brice Clotaire Oligui Nguema, nuovo uomo forte – senza bandiere russe o stemmi con il teschio della fantasmatica Wagner – ha assegnato ad Ali Bongo Ondimba quella retraite per la difesa della quale i cittadini francesi sono scesi nelle piazze per mesi. Ma qui non siamo in Sahel, non si è ancora affacciato il pericolo jihadista, la Francia non si può permettere di perdere un alleato così fedele.

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A chi è utile la Wagner? https://ogzero.org/a-chi-e-utile-la-wagner/ Tue, 27 Jun 2023 16:00:14 +0000 https://ogzero.org/?p=11209 Che fine farà la Wagner? A chi è utile? Il continente africano è utile alla Russia come fonte di approvvigionamenti e di nuovi mercati alternativi a quello europeo, e la milizia capeggiata da Prigozhin era la testa di ponte russa che serviva allo scopo per militarizzare le risorse ottenute e controllare i territori che le […]

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Che fine farà la Wagner? A chi è utile? Il continente africano è utile alla Russia come fonte di approvvigionamenti e di nuovi mercati alternativi a quello europeo, e la milizia capeggiata da Prigozhin era la testa di ponte russa che serviva allo scopo per militarizzare le risorse ottenute e controllare i territori che le ospitano (senza contare l’utilizzo anti-jihad fattone da parte dei numerosi dittatori o golpisti africani). In Occidente non se ne è parlato molto in questi giorni in cui si è assistito ai fatti avvenuti in Casa Russia, ma è bene che se ne tenga conto, per capire gli sviluppi negli equilibri futuri del continente e degli investimenti che lì sono in corso. Angelo Ferrari ne parla qui e nel podcast dedicato al neocolonialismo africano, un’intervista per la trasmissione “I bastioni di Orione” di Radio Blackout.


La Wagner si sfalderà in Africa o verrà riassorbita nei ranghi ufficiali russi? È quello che si stanno chiedendo molti dittatori o golpisti africani che fanno ricorso ai mercenari della Compagnia Wagner per “sistemare” le questioni interne dei loro paesi, in particolare la lotta al jihadismo come nel Sahel. Di sicuro, fino a ora, la Wagner è la testa di ponte di Mosca per riaffermare la sua influenza su parte del continente africano. La Russia ha bisogno dell’Africa per due motivi: il primo perché deve trovare nuovi partner, nuove fonti di approvvigionamento, e nuovi mercati alternativi a quello europeo; il secondo luogo perché il sogno della Russia è quello di rafforzare il suo ruolo di gigante minerario per poi cercare di militarizzare le risorse, sviluppando tecnologia bellica. Per queste ragioni Vladimir Putin ha utilizzato la Wagner come forza di sfondamento nel continente africano. Questo, inoltre, ha fatto sì che la base operativa economica della Wagner sia diventata l’Africa. Un aspetto che l’Occidente non deve sottovalutare come gli avvenimenti dei giorni scorsi in Russia.

Dove opera la Wagner

L’attività del gruppo Wagner si svolge in tredici paesi diversi: Libia, Eritrea, Sudan, Algeria, Mali, Burkina Faso, Camerun, Sud Sudan, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Madagascar, Mozambico e Zimbabwe. Tutti paesi ricchi di risorse naturali di cui Mosca ha bisogno e sulle quali si è sviluppata la forza della Wagner, non solo militare, ma economica. La Repubblica Centrafricana, per esempio, è diventata per la Wagner un partner privilegiato – ha 13 basi militari – ha prestato i suoi servigi militari a difesa del governo del presidente Faustin-Archange Touderà, minacciato dai ribelli e da una guerra civile, avendo in cambio un accesso privilegiato alle miniere d’oro e di diamanti, oltre ad avere il controllo di alcuni ministeri. Significativo, da questo punto di vista, Il divieto di sorvolo dei droni, deciso a febbraio dal governo centrafricano, proprio per tutelare le attività di Wagner nella miniera d’oro di Ndassima, recentemente ampliata e messa in sicurezza.

Una situazione simile si sta verificando in Mali e in Burkina Faso. Con il fallimento dell’operazione antiterrorismo Barkhane e il conseguente ritiro dei francesi, il campo si è aperto ai russi e alla Compagnia Wagner – nonostante i governi di questi paesi neghino – che è passata all’incasso. Secondo un recente rapporto dell’Africa Command degli Stati Uniti, il Mali paga Wagner il corrispettivo di 10 milioni di dollari al mese, sotto forma di risorse naturali come oro e pietre preziose.

Il forziere economico della Wagner: contratti, armi e potere

E poi c’è il Sudan. La guerra tra l’esercito regolare del generale Abdel Fattah al Burhan e il capo delle Forze di supporto rapido (Fsr), Mohammed Hamdane Dagalo, detto Hemedti, continua senza tregua. E la Wagner, pur sostenendo le milizie Fsr, è rimasta defilata, si è occupata solo del trasferimento di armi dalla sua base in Cirenaica, in Libia, è ha privilegiato i suoi interessi economici che sono indipendenti da chi prevarrà sul campo. I rapporti tra Mosca e Kharthoum sono di lunga data. Il Sudan è ricco di metalli preziosi, la stragrande maggioranza dei quali viene esportata illegalmente. Molte miniere sono nelle mani di Hemedti. In questo settore la Wagner agisce attraverso la società M Invest di Yevgeny Prigozhin e la sua controllata Meroe Gold, che si è trasferita in Sudan nel 2017 e lavora con Aswar, una società controllata dall’intelligence militare sudanese. Il gruppo di giornalisti del Progetto di segnalazione di criminalità organizzata e corruzione (Occrp) è riuscita a raccogliere prove di un contratto tra Meroe Gold e Aswar. La società russa, inoltre, è esentata dal 2018 dalla tassa del 30% imposta dalla legge sudanese alle società aurifere. Anche per queste ragioni Wagner in Sudan ha assunto un profilo opportunista piuttosto che fedele a una particolare fazione. Questo ha permesso a Prigozhin di proseguire le sue attività economiche anche dopo la caduta del dittatore Omar al-Bashir e anche dopo il golpe del 2021, messo in atto proprio da chi ora si combatte per il potere. Dunque, il vero forziere economico della Wagner è in Africa. E tutto ciò fa gola anche a Putin.

Ascolta “Neocolonialismo africano: la trappola dietro allo sforzo di affrancamento” su Spreaker.

Le “fattorie di troll”

Dopo la “tentata marcia” su Mosca da parte della Wagner, nel continente africano non si segnalano particolari movimenti del gruppo. I mercenari, abituati a lavorare in autonomia, continuano le loro attività: sicurezza, sfruttamento delle risorse naturali e manovre di disinformazione con lo scopo di avvicinare le opinioni pubbliche alle ragioni della Russia. La compagnia Wagner, già dal 2017, ha utilizzato campagne per destabilizzare e manipolare le opinioni pubbliche attraverso le sue “fattorie di troll” sia in Sudan così come nel Sahel.

I due possibili sbocchi

Molti analisti concordano che Wagner non può fare a meno del supporto logistico dell’esercito russo nelle sue operazioni in Africa. Mosca fornisce armi e istruttori a molti paesi. Ma, anche in caso di smantellamento del gruppo Wagner, la Russia non lascerà il terreno non “occupato”. Le conquiste politiche, economiche e diplomatiche dell’ultimo decennio sono vitali per Mosca. I leader africani, che si avvalgono dei servizi dei mercenari russi, devono necessariamente interrogarsi anche sui rapporti di forza in Russia, soprattutto se i contrasti dovessero durare, potrebbero trovarsi di fronte a un conflitto di lealtà. I leader africani, così come molte cancellerie occidentali e asiatiche, stanno aspettando che la “polvere si depositi”. Di certo se la Wagner viene riassorbita nei ranghi dell’esercito di Mosca, il problema non si pone. I leader africani potranno continuare a trattare con questa compagnia senza il timore di scatenare conflitti di fedeltà con la Russia. Altro se Prigozhin rimarrà a capo della Wagner “africana”. Allora si entrerebbe in una zona grigia, senza dimenticare che la gran parte del personale russo schierato in Africa appartiene alla Wagner.

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Africa Day: le sfide anticoloniali sono sempre attuali https://ogzero.org/africa-day-le-sfide-anticoloniali-sono-sempre-attuali/ Thu, 25 May 2023 21:40:42 +0000 https://ogzero.org/?p=11124 Se il buongiorno dell’Africa Day si vede dal mattino, lo schianto del Freetown Cotton Tree, albero simbolo della libertà dallo schiavismo, proprio quando sta per sorgere l’alba del sessantesimo anno dell’Unione Africana non è di buon auspicio… e si va ad aggiungere ai molti conflitti sparsi un po’ in ogni area continentale. Eppure l’Africa è […]

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Se il buongiorno dell’Africa Day si vede dal mattino, lo schianto del Freetown Cotton Tree, albero simbolo della libertà dallo schiavismo, proprio quando sta per sorgere l’alba del sessantesimo anno dell’Unione Africana non è di buon auspicio… e si va ad aggiungere ai molti conflitti sparsi un po’ in ogni area continentale.
Eppure l’Africa è al centro di ogni affare (Descalzi incontra Nguesso per inaugurare il “Congo Lng”), interesse (Kuleba incontra i leader dell’UA in vista di mediazione sulla guerra), ricchezza (Tshisekedi – nato nel 1963, come l’UA – si accorda sul cobalto con Xi)… queste solo alcune delle notizie odierne. In Ghana Gold Fields e AngloGold Ashanti si uniscono per creare la più grande miniera d’oro africana e contemporaneamente un tornado sradica l’albero della libertà… ci sarà una qualche correlazione?


Dopo il colonialismo… 60 anni di neocolonialismo

Le celebrazioni, in Africa, hanno sempre un valore simbolico. Ricche di retorica ma anche di auspici. Appartengono alla vita delle comunità e degli stati. Anche in questo giorno, in cui si celebra l’Africa Day, il continente si è mobilitato.
Oggi si ricordava la fondazione dell’Organizzazione dell’Unità africana (Oua), che avvenne il 25 maggio del 1963, sessant’anni fa. In alcuni paesi prende il sopravvento la retorica condita di anticolonialismo. In altri, invece, si guarda al futuro e alle sfide, che retoriche non sono, che attendono un continente provato dalla pandemia di Covid, dall’inflazione dei prezzi dei generi energetici e, soprattutto, alimentari dovuto alla situazione economica globale aggravata dalla guerra in Ucraina.

Le sfide del continente

Ma sono anche altre le sfide. Il terrorismo, per esempio, e tutt’altro che sconfitto anzi, dilaga in molti paesi come il Mali, Il Burkina Faso, che sembrano essere incapaci di farvi fronte nonostante i paesi siano stati squassati da colpi di stato. Dall’arrivo dei militari al potere la situazione, se possibile, si è ancora aggravata e nulla ha potuto la retorica anticoloniale, in particolare il sentimento antifrancese che pervade le popolazioni di questi due paesi, ma anche la simpatia, che è diventata rapporto strutturale con la Russia, che fornisce armi e mercenari della Compagnia Wagner. Tutto il Sahel è pervaso da una ondata jihadista senza precedenti, con le cancellerie internazionali preoccupate per la possibile saldatura con le organizzazioni criminali internazionali.  Cancellerie che, tuttavia, non sono state in grado di risolvere il problema perché hanno privilegiato l’intervento securitario – necessario – alla cooperazione allo sviluppo. Il terrorismo nel Sahel, così come in Somalia, si alimenta della povertà dilagante, dell’incapacità degli stati di far fronte ai bisogni della popolazione. Verrebbe da dire che l’arma più efficace per combattere i terroristi sarebbe mettere in campo riforme economiche e un welfare state degno di questo nome, così da togliere da sotto i piedi dei terroristi il loro terreno privilegiato, cioè la povertà. Lavoro non da poco.
Ma sono molte altre le sfide che attendono il continente, soprattutto economiche. L’intera Africa deve avere come faro la diversificazione economica, non può affidarsi, solo, alle materie prime, pur preziose per avere le risorse per creare un tessuto industriale manifatturiero. Significativo da questo punto di vista lo sbilanciamento delle relazioni con la Cina, il primo partner commerciale del continente. Nei primi quattro mesi del 2023 le esportazioni cinesi verso i paesi africani sono cresciute del 26,9%, mentre quelle dell’Africa verso la Cina sono diminuite dell’11,8%. Uno squilibrio evidente, aggravato dal fatto che Pechino esporta in Africa prodotti finiti – tessile, abbigliamento, macchinari, elettronica – mentre le esportazioni africane verso la Cina sono dominate da materie prime come petrolio greggio, rame, cobalto e minerale di ferro, di cui il Dragone ha estremamente bisogno. Proprio per queste ragioni il continente deve lavorare con più determinazione per la costruzione di un tessuto produttivo manifatturiero.
Questa, inoltre, è la grande sfida che attende l’Area di libero scambio continentale africana (Afcta) – entrata in vigore nel gennaio del 2021 – un mercato di 1,2 miliardi di persone e di un Pil combinato di circa 3,4 trilioni di dollari. Un’area commerciale che stenta a decollare per la mancanza di infrastrutture sicure, capaci di collegare gli stati ma soprattutto per la risibilità della manifattura africana. Tra i paesi del continente non possono circolare, solo, le materie prime, queste se le accaparrano le multinazionali e portano beneficio a pochi. L’Africa vive un paradosso: è ricca di risorse, ma, per fare un esempio, i due colossi nella produzione di petrolio in Africa subsahariana – Angola e Nigeria – importano circa l’80% del loro fabbisogno in carburante. Da non trascurare che le materie prime sono soggette alle oscillazioni dei mercati internazionali.
Altra sfida è quella dell’energia elettrica. Ancora nel 2023 milioni di africani rimangono al buio, e anche questo è un paradosso viste le potenzialità del continente: solare, idroelettrico, geotermico, eolico, energie pulite come l’idrogeno verde. Mettere a sistema tutto ciò darebbe un impulso al mercato unico e quindi a uno sviluppo sostenibile ma, soprattutto durabile.  Questione che solo un’organizzazione sovranazionale, come l’Unione Africana, può affrontare.

Oligarchie dinastiche senza fine…

Poi ci sono questioni puramente politiche. Lasciamo da parte i presidenti africani che durano in eterno senza produrre benefici per le popolazioni ma solo animati da bulimia di potere e, spesso, sostenuti dallo stesso occidente così attento allo stato di diritto. Il punto, per rimanere alle celebrazioni di oggi, sarebbe l’attribuzione di un ruolo da pari nei consessi internazionali all’Unione africana.

vs un seggio permanente all’Onu

Un’ipotesi che si sta materializzando e potrebbe diventare concreta: un seggio, per così dire, permanente, non solo da osservatore, come spesso è capitato nei vari G20 o G7 che siano, dove di volta in volta, veniva invitato qualche presidente africano o gli stessi esponenti dell’Unione africana. Così come soddisfare la richiesta dell’Unione africana di occupare un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Formalizzare e concretizzare una presenza “permanente” avrebbe il significato di trasformare il continente africano in potenza che decide, non più, dunque, con un ruolo subalterno che ogni volta negozia con questo o quello stato occidentale, ma protagonista del proprio futuro di fronte alle potenze internazionali. Tutto ciò sarebbe un cambio di paradigma perché porterebbe l’Africa a discutere, da pari, del proprio sviluppo sia economico sia politico e sociale, con l’occidente sviluppato.

Non è una cosa qualunque, sarebbe epocale.


Come epocale è l’espianto del Freetown Cotton Tree in questa data simbolica

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La “Grande sostituzione” si estende al Maghreb https://ogzero.org/saied-la-grande-sostituzione-si-estende-al-maghreb/ Mon, 27 Feb 2023 11:43:33 +0000 https://ogzero.org/?p=10397 Il contagio del razzismo a supporto della governance di despoti e democrature è l’unico pensiero che può attraversare frontiere. L’Unione africana, dopo la conferma delle sanzioni ai danni del Mali, Burkina e Guinea equatoriale per i golpe filorussi, si è trovata a dover difendere le genti provenienti proprio dal Sahel e dal resto del continente […]

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Il contagio del razzismo a supporto della governance di despoti e democrature è l’unico pensiero che può attraversare frontiere. L’Unione africana, dopo la conferma delle sanzioni ai danni del Mali, Burkina e Guinea equatoriale per i golpe filorussi, si è trovata a dover difendere le genti provenienti proprio dal Sahel e dal resto del continente subsahariano da attacchi che provengono dall’interno dello stesso continente ai massimi livelli delle istituzioni di un paese africano. Lo ha fatto condannando le parole “scioccanti” del “pallido” presidente della Tunisia sui migranti più “scuri” provenienti dall’Africa subsahariana e ha richiamato i suoi stati membri ad «astenersi da qualsiasi discorso di odio e di natura razzista, che danneggiano le persone». In trasparenza si possono riconoscere i contorni delle richieste italiane, sicuramente avanzate – perseguendo l’intento di esternalizzare le frontiere – proprio con gli stessi argomenti razzisti, che facilmente non si sbaglia ad attribuire al viaggio di Meloni in Maghreb, andata a procurarsi gas e soprattutto a perorare il blocco della rotta dei migranti; peraltro un perfetto argomento – in tutto uguale al disgustoso tentativo di Erdogan di scaricare sui migranti la colpa della corruzione del suo sistema di potere in buona parte responsabile del disastro del terremoto per le sue dimensioni – che offre il destro a Saïed per trovare un capro espiatorio su cui far convergere l’odio per il disastro economico e sociale tunisino.

Una grande manifestazione contro il razzismo e la xenofobia si è svolta a Tunisi il 26 febbraio 2023, per dire no alle parole di Saïed e per cambiare rotta al governo sul trattamento riservato ai migranti dai paesi africani subsahariani. Le organizzazioni della società civile hanno assunto una posizione di principio netta e determinata contro l’idea nazista del complotto per la sostituzione etnica mediata dal presidente autocrate prendendo a prestito gli slogan delle destre europee. Il corteo è partito dalla sede del sindacato dei giornalisti, uno dei promotori, per raggiungere il centro città coinvolgendo nel percorso l’aggregazione di migliaia di altri cittadini. Il portavoce del “Forum per i Diritti Sociali ed Economici” ha affermato che il discorso dell’odio non sarà mai accettato in una società come quella tunisina, perché è contro natura: «Quando quel discorso proviene dal capo dello Stato, rischia di sdoganare atti violenti contro i nostri fratelli migranti, che vivono condizioni di emarginazione economica tra di noi». Angelo Ferrari aveva già rilevato l’enormità di un leader africano che esplicitamente prende a prestito il razzismo europeo, adattando “Le Grand Remplacement” di Renaud Camus alle fobie arabe verso le culture subsahariane, in un intervento che proponiamo qui.


Saïed sdogana il razzismo serpeggiante concordato con Roma

Montano le polemiche in Tunisia dopo le parole del presidente Kaïs Saïed che ha invocato “misure urgenti” contro l’immigrazione clandestina di africani subsahariani nel suo paese, sostenendo che la loro presenza è fonte di «violenze, crimini e atti inaccettabili». Ma Saïed si è spinto anche oltre, sostenendo che l’immigrazione dall’Africa subsahariana fa parte di una «impresa criminale ordita all’alba di questo secolo per modificare la composizione demografica della Tunisia», in modo che potesse essere considerata un paese “solo africano” e offuscarne il suo carattere “arabo-musulmano”. Date queste premesse, per Saïed è necessario «porre fine in fretta» a questa immigrazione invocando misure urgenti.

Reazioni dell’Unione africana

Con una nota, il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki Mahamat, ha condannato «fermamente le dichiarazioni scioccanti fatte dalle autorità tunisine contro i connazionali africani, che vanno contro la lettera e lo spirito della nostra organizzazione e i nostri principi fondatori». Faki Mahamat ha ricordato a «tutti i paesi, in particolare agli stati membri dell’Unione Africana, che devono onorare gli obblighi ai sensi del diritto internazionale, vale a dire trattare tutti i migranti con dignità, da qualsiasi parte provengano, astenersi da qualsiasi discorso di odio con natura razzista, che probabilmente danneggerà le persone e dà la priorità alla loro sicurezza e ai loro diritti fondamentali».

Moussa Faki Mahamat ribadisce «l’impegno del comitato a sostenere le autorità tunisine al fine di risolvere i problemi di migrazione e rendere la migrazione sicura, degna e regolare».

Proprio il Mali – paese che al suo interno vive da anni profondi travagli sfociati nell’apertura ai “servizi” dei contractors della Wagner – in una nota dell’ambasciata tunisina ha dichiarato di aver seguito «con la massima preoccupazione la situazione dei maliani» nel paese. Riferendosi a “momenti molto inquietanti”, e ha invitato i suoi cittadini “a essere vigili” e ha chiesto a «coloro che desiderano di registrarsi per un ritorno volontario».

La crisi tunisina e il facile capro espiatorio “nero”

Il discorso di Saïed, che ha concentrato su di sé tutti i poteri dopo aver sospeso nel luglio 2021 il parlamento e licenziato il governo, si è verificato mentre il paese sta attraversando una grave crisi economica contrassegnata da carenze ricorrenti di prodotti di base, in un contesto di forti tensioni politiche.
Secondo i dati ufficiali citati dal Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes) la Tunisia, un paese di circa 12 milioni di abitanti, conta più di 21.000 africani subsahariani, la maggior parte dei quali è irregolarmente nel paese. Molti di loro, la maggioranza, arriva in Tunisia per poi tentare di immigrare illegalmente in Europa via mare. Alcuni tratti della costa tunisina sono a meno di 150 chilometri dall’isola italiana di Lampedusa. Secondo i dati ufficiali italiani, nel 2022 sono arrivati in Italia clandestinamente dalla Tunisia oltre 32.000 migranti, di cui 18.000 tunisini.
La Tunisia sta attraversando una grave crisi economica caratterizzata da ricorrenti carenze di beni di prima necessità, in un contesto di tensioni politiche, e molti analisti e attivisti ritengono che il presidente stia strumentalizzando la crisi dei migranti per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle questioni economiche e sociali “inventando un nuovo pericolo”. Altri ritengono che Saïed stia cedendo alle pressioni dell’Italia per ottenere lo stop dei flussi migratori.

Reazioni della società civile tunisina

Le sue parole dunque hanno gettato benzina sul fuoco delle incarcerazioni degli oppositori, dei giornalisti e delle proteste di piazza per il referendum andato deserto nelle urne, indignando buona parte delle organizzazioni non governative, parte della classe politica ma anche gli intellettuali. Su Twitter, hanno reagito alcuni analisti politici. Amine Snoussi (@amin_snoussi), autore di libri sulla politica tunisina e giornalista, scrive:

«Il presidente della Repubblica tunisina ha appena convalidato la tesi del grande ricambio. Abbiamo un dittatore razzista che arresta i suoi oppositori e incolpa gli immigrati subsahariani per i nostri problemi. È il peggior regime nella storia di questo paese».

Mohamed Dhia Hammam (@MedDhiaH), ricercatore in scienze politiche alla Maxwell School, definisce le parole di Saïed disgustose, e parla di una “campagna fascista contro i neri”:

«L’oltraggiosa dichiarazione della presidenza sulla riunione del Consiglio di sicurezza nazionale, durante la quale Saïed ha deciso di usare tutte le forze, compresi i militari, per prendere di mira gli immigrati neri, arriva nel bel mezzo di una odiosa campagna mediatica. La logica del complotto messa in atto dal governo fa eco alle teorie del complotto diffuse sia nei media mainstream che nei social media pro- Saïed», twitta l’analista.

«Questo discorso non ha alcuna somiglianza con la Tunisia. La posizione internazionale della Tunisia e la sua storia umanitaria sono molto più grandi di questo discorso», ha reagito su Facebook il presidente dell’Osservatorio tunisino per i diritti umani, Mostafa Abdelkebir. Anche Mnemty, associazione che si batte contro la discriminazione, ha condannato il comunicato stampa della presidenza tunisina, definendolo un «discorso di razzismo e odio e incitamento alla violenza contro i migranti subsahariani».

Le dichiarazioni di Saïed sull’esistenza di una “impresa criminale” volta a cambiare la composizione demografica della Tunisia assomigliano alla teoria del complotto della “grande sostituzione” sostenuta in Francia dal polemista di estrema destra Eric Zemmour che, infatti, reagisce immediatamente alle parole di Saïed: «Gli stessi paesi del Maghreb iniziano a lanciare l’allarme di fronte all’impennata migratoria. Qui, è la Tunisia che vuole adottare misure urgenti per proteggere la sua gente. Cosa aspettiamo a lottare contro la Grande Sostituzione?», ha commentato Zemmour su Twitter condividendo un articolo di stampa sulle osservazioni fatte da Saïed.


A completamento proponiamo questa bella discussione tra Arianna Poletti da Tunisi e Karim Metref, algerino-torinese di origine berbera, entrambi raffinati analisti della situazione e società nordafricana; troverete preoccupazioni inusitate e interpretazioni  di situazioni che danno il quadro di una trasformazione repressiva epocale:


“Tutto il Maghreb sta filando cattivo cotone”.
 

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Mediterranean Shield: espansione Nato a sud https://ogzero.org/mediterranean-shield-espansione-nato-a-sud/ Fri, 08 Jul 2022 08:05:03 +0000 https://ogzero.org/?p=8103 Riprendiamo due articoli scritti da Angelo Ferrari per l’agenzia Agi correlati alla corsa al controllo del territorio saheliano, a partire dall’esigenza di contrastare l’avanzata di potenze coloniali alternative a quelle occidentali con la perentoria reazione di un’espansione Nato in epoca globalizzata: la sua estensione oltre le sponde meridionali del Mediterraneo attraverso accordi con potenze locali […]

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Riprendiamo due articoli scritti da Angelo Ferrari per l’agenzia Agi correlati alla corsa al controllo del territorio saheliano, a partire dall’esigenza di contrastare l’avanzata di potenze coloniali alternative a quelle occidentali con la perentoria reazione di un’espansione Nato in epoca globalizzata: la sua estensione oltre le sponde meridionali del Mediterraneo attraverso accordi con potenze locali a fungere da satrapi ma sotto l’egida di un’alleanza che si estende sull’intero pianeta. Il vecchio approccio francese che fino a pochi mesi fa non poteva immaginare qualunque forma di autonomia locale va cestinato e ripensato completamente. Ma da nuovi protagonisti. 


Lo Scudo Nato a Sud

La Nato volge il suo sguardo anche a sud del Mediterraneo, in particolare verso il Sahel. E questa sembrerebbe una novità se non fosse che già nel passato la Nato è intervenuta nella gestione delle crisi su richiesta dell’Unione Africana (Ua). L’esordio è del 2005 quando, con l’acuirsi della crisi del Darfur, la Nato ha accolto la richiesta della Ua di supportare la sua missione di peacekeeping in Sudan. Poi nel 2009 la richiesta, sempre da parte della Ua di sostenere la missione in Somalia. Poi nel 2009 con l’operazione “Ocean Shield” per la lotta contro la pirateria nel Corno d’Africa. Per non dimenticare ciò che è successo in Libia a partire dal 2011. Sono solo alcuni esempi.

Con l’ultimo vertice della Nato a Madrid, che ha ridisegnato la postura dell’Allenza a livello globale puntando con più forza alla deterrenza e alla difesa collettiva, resta l’impegno verso la prevenzione e la gestione delle crisi con un focus significativo sul Nordafrica e il Sahel. Di sicuro l’Italia può dirsi soddisfatta del linguaggio usato nel nuovo Concetto strategico – come scrive su “Affarinternazionali.it”, Elio Calcagno – rispetto a una regione di primario interesse per il paese. Tuttavia il capitale politico, militare ed economico dell’Allenza verrà inevitabilmente incanalato verso est e verso la minaccia russa. L’Italia, dunque, dovrà giocare un ruolo più propositivo e concreto sul fianco sud in ambito Nato di quanto abbia fatto fino a oggi. Roma non può permettersi di stare a guardare e non può essere uno spettatore passivo come in Libia.

Necessari nuovi approcci alle crisi nelle marcoaree

La gestione e la prevenzione delle crisi, in particolare nel Sahel, dovranno necessariamente passare attraverso una “richiesta” dell’Unione africana e il consenso dei paesi coinvolti. E visto il clima antioccidentale che regna in questa regione dell’Africa è abbastanza complesso che i governi saheliani si affidino all’Alleanza per risolvere le crisi interne, senza dimenticare, poi, la forte presenza della Russia in quell’area.

Detta in parole povere la lotta al terrorismo nel Sahel non può essere camuffata come deterrenza nei confronti della minaccia russa. Insomma, i paesi dell’area saheliana hanno dimostrato, finora, di privilegiare il rapporto con Mosca. Un esempio eclatante è il ritiro dal Mali dei francesi con l’operazione Barkhane e di quella europea Takuba. Un bel rompicapo.

Soldati dell’operazione Barkhane in Mali (foto Fred Marie / Shutterstock)

Fino ad ora tutto è sulla carta ma alcune fughe in avanti di qualche ministro degli Esteri europeo, fanno già discutere nel Sahel. In particolare in Mali dove l’ambasciatore spagnolo a Bamako, Romero Gomez, è stato convocato dal ministro degli Esteri maliano, Abdoulaye Diop, dopo le parole del suo omologo spagnolo, Manuel Alvares che in una dichiarazione non escludeva un possibile intervento della Nato in Mali.

Diop non le ha mandate a dire e in un’intervista ha spiegato: «Oggi abbiamo convocato l’ambasciatore spagnolo per sollevare una forte protesta contro queste affermazioni. L’espansione del terrorismo nel Sahel è principalmente legata all’intervento della Nato in Libia, le cui conseguenze stiamo ancora pagando».

Parole dure, ma Diop non si ferma qui, ha infatti definito le affermazioni del suo omologo spagnolo “ostili, gravi e inaccettabili”, perché «tendono a incoraggiare l’aggressione contro un paese indipendente e sovrano». L’ambasciata spagnola, in un tweet, ha cercato di smorzare i toni spiegando che la «Spagna non ha richiesto, durante il vertice della Nato o in un qualsiasi altro momento, un intervento, una missione o qualsiasi azione dell’Alleanza in Mali». L’occidente dovrà abituarsi a questa ostilità che, in parte, è persino giustificata dalle missioni militari francesi ed europee nell’area.

Secondo il direttore del Centro studi sulla sicurezza dell’Istituto francese di relazioni internazionali (Ifri), Elie Tenenbaum, la Francia, ma anche l’Occidente nel suo insieme, deve “pensare” una nuova strategia, perché attualmente la «dinamica strategica produce l’opposto di ciò che si è prefissa». L’analista sostiene che i tentativi di entrare in partenariato con gli attori locali ha prodotto attriti – il Mali ne è un esempio –: i francesi hanno cercato di arginare il deterioramento della sicurezza in Sahel ma non ci sono riusciti. Nel difendere i propri interessi la Francia non ha fatto altro che alimentare un sentimento antifrancese.

Ma il problema su tutti è quello di avere trascurato le ambizioni russe, turche e cinesi

Attori nello scacchiere africano molto più spregiudicati e soprattutto meno interessati alle politiche interne dei paesi con cui diventano partner. La Francia, invece, non ha fatto altro che continuare, anche “sottobanco”, a determinare le politiche interne delle ex colonie, a “scegliere” chi di volta in volta avrebbe governato. Insomma, un’ingerenza inizialmente mal sopportata e ora totalmente avversata da buona parte delle popolazioni saheliane, certo con gradazioni diverse, ma pur sempre penetrante.

È chiaro che l’occidente dovrà ripensare completamente la sua strategia globale nel Sahel e nell’Africa occidentale se non vuole essere “sfrattato”. Ciò lo chiedono anche le opinioni pubbliche, in particolare quella francese, che cominciano a non capire più le politiche postcoloniali della Francia e quelle dell’Europa che sembra avere come unico obiettivo quello di spostare sempre più a sud il confine del Mediterraneo per arginare i flussi migratori.

Parigi vs Mosca in Françafrique

In Niger per rendere meno urticante la presenza francese in Sahel

La Francia cambia strategia nel Sahel, almeno ci prova. Dopo il ritiro dal Mali, che dovrebbe completarsi entro l’estate, Parigi trasferisce la sua presenza in Niger, paese diventato strategico per tutta la comunità occidentale. La sfida di Parigi è quella di mantenere una presenza nell’area per non vanificare la sua influenza storica, anche se è ormai messa a repentaglio da un sentimento antifrancese diffuso e alimentato ad arte dalla Russia, che esprime nella regione una politica molto aggressiva.

Dunque, un cambio di passo. L’esercito francese intende intervenire a “sostegno” e non più in sostituzione degli eserciti locali. Ma questo dipenderà, soprattutto, dalla volontà degli stati africani. Sono frenetiche le consultazioni e gli scambi tra capitali saheliane, Parigi e le capitali europee. Francesi ed europei si stanno muovendo in direzione di una maggiore cooperazione a seconda delle richieste dei paesi africani.

Dopo lo schiaffo maliano, Parigi intende operare non più da “protagonista” ma in seconda linea. Un modo per ridurre la visibilità della sua azione che finora ha dimostrato di essere un “irritante” per le opinioni pubbliche africane, ma di certo manterrà una presenza nella regione di influenza storica. L’attenzione si concentrerà in Niger, nuovo partner privilegiato, dove i francesi manterranno una presenza con circa mille uomini e capacità aeree. Quindi verrà avviato un partenariato strategico spiegato dal comandante del quartier generale, Hervé Pierre:

«Oggi invertiamo completamente il rapporto di partnership: è il partner che decide cosa vuole fare, le capacità di cui ha bisogno e controlla lui stesso le operazioni svolte con il nostro supporto. È il modo migliore per continuare ad agire efficacemente al loro fianco».

L’obiettivo di Parigi sarebbe quello di non irritare i partner e operare con discrezione, ma occorre anche sottolineare una mancanza di direttive chiare dell’esecutivo francese sulla prosecuzione delle operazioni. Si attendono “ordini” dalla politica in un quadro interno, dopo le legislative, molto complicato. L’opinione pubblica d’oltralpe non comprende più la politica postcoloniale della Francia.

Ciad, Burkina e sospettosamente il Golfo

Il quartier generale francese dell’operazione che succederà all’estinta Barkhane sarà mantenuto, per il momento, a N’Djamena, in Ciad, con cui la Francia ha un accordo di difesa. Ma la sua forza lavoro sarà ridotta. Per quando riguarda il Burkina Faso, dove altri civili sono stati uccisi per mano dei jihadisti nel fine settimana, sta ricevendo l’aiuto francese ma rimane perplesso sul fatto di una intensificazione della presenza sul terreno. Anche qui la propaganda antifrancese, ma soprattutto il sentimento che ne deriva, hanno attecchito molto bene.
Oltre a contribuire a contenere la violenza jihadista che minaccia di diffondersi nel Golfo di Guinea, la sfida per Parigi nel mantenere una sua presenza militare è quella di evitare un declassamento strategico, in un momento di accresciuta competizione sulla scena internazionale. In Africa occidentale i russi stanno perseguendo una strategia di influenza aggressiva, anche attraverso massicce campagne di disinformazione antifrancesi.

Le mosse Wagner

L’intelligence, infatti, sta monitorando gli attacchi compiuti da Wagner sui i social network che hanno superato i confini del Mali, e si stanno diffondendo in Africa. Un’ossessione francese? Non proprio, perché Mosca è riuscita a strappare all’impero d’oltralpe il Mali, si appresta a fare altrettanto in Burkina Faso, la Repubblica Centrafricana è saldamente nelle mani dei russi, e si stanno moltiplicando gli accordi militari con molti stati dell’area. Una penetrazione, tuttavia, che non è dell’ultima ora. È tempo che i russi stanno cercando di tornare ad avere un ruolo decisivo e strategico in Africa, dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda, consapevoli che non hanno molto da offrire sul piano commerciale ed economico, ma su quello militare e degli armamenti sì.

L’irritazione di Parigi è evidente. I nervi sono scoperti e lo chiarisce bene, in un’intervista a Radio France International, l’attuale comandante dell’operazione Barkhane, il generale Laurent Michon:

«La manipolazione della popolazione esiste, si diffondono enormi bugie sul fatto che armiamo gruppi terroristici, rapiamo bambini, lasciamo fosse comuni. È facile fare da capro espiatorio a persone che stanno attraversando situazioni umanitarie e di sicurezza estremamente difficili. C’è stata una manovra di disinformazione sulle reti, con mercenari Wagner che seppellivano cadaveri a Gossi, per accusare i francesi. Per la prima volta l’esercito francese ha deciso di spiegare come si fanno le cose nella vita reale, declassificando e mostrando le immagini dei droni. Vivono nel paese (i Wagner, N. d. A.), depredano, commettono abusi, hanno le mani sull’apparato di comando dell’esercito maliano e fanno le cose alle spalle dei leader. La reazione migliore è rispettare i nostri valori, essere chiari su ciò che stiamo facendo e lasciare che i giornalisti africani ed europei vengano a vedere, fare qualche verifica sui fatti. L’arma migliore è l’informazione verificata e sottoposta a controlli incrociati».

Approccio militare o cooperazione: il dilemma dell’Eliseo

La confusione regna sovrana e Parigi, anche senza ammetterlo, si rende conto che un declassamento strategico è in atto, ciò che si chiede è se è un fatto inesorabile oppure si possono, ancora, recuperare posizioni e, soprattutto mantenere una presenza che salvaguardi i propri interessi. L’operazione Barkhane, per essere gentili, è stata un fallimento. La Francia, invece, dovrebbe chiedersi se la strategia militare, che prevale su quella della cooperazione allo sviluppo, sia vincente.

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La strategia del grano https://ogzero.org/la-strategia-del-grano/ Fri, 10 Jun 2022 16:01:50 +0000 https://ogzero.org/?p=7867 Sulla scorta della proverbiale definizione di “granaio del mondo” l’Occidente sta attribuendo integralmente alla guerra in Ucraina la responsabilità della fame che si sta annunciando per carenza di grano (ma non si parla del fatto che la Russia è il maggior esportatore di fertilizzanti), senza considerare che il prezzo dei cereali era già in aumento […]

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Sulla scorta della proverbiale definizione di “granaio del mondo” l’Occidente sta attribuendo integralmente alla guerra in Ucraina la responsabilità della fame che si sta annunciando per carenza di grano (ma non si parla del fatto che la Russia è il maggior esportatore di fertilizzanti), senza considerare che il prezzo dei cereali era già in aumento prima del 24 febbraio e che sono periodiche le rivolte del pane (anche dopo il 2011 delle Primavere arabe).
La guerra è stata solo il la ciliegina su una torta immangiabile per i 20 milioni di potenziali morti per fame che la contingenza può creare e i due autocrati di Astana si stanno mettendo d’accordo anche in questo caso per spartirsi guadagni e prestigio nei paesi africani sbloccando la situazione del Mar Nero con il blocco delle tonnellate di grano ammassato nei silos ucraini che rappresentano comunque soltanto l’8 per cento del prodotto annuale mondiale. Un’arma ibrida come le bombe di migranti gettate ai confini, che si produrranno anche attraverso questa nuova fame indotta dalla guerra sarmatica. Ma non solo: esistono infinite esponenziali conseguenze al conflitto (e allo scellerato agribusiness, all’intollerabile landgrabbing, allo sfruttamento coloniale, che hanno preparato il terreno alla fame globale) che portano alle scelte strategiche dei singoli stati vincolati in qualche modo ai prodotti russi (per esempio il Brasile) e il ritorno d’immagine per i popoli affamati d’Africa che si troveranno a ringraziare i garanti russo-turchi delle forniture alimentari di cui sono responsabili per l’improvvisa carenza; senza contare la stagflazione ormai globale e l’indebitamento generalizzato.
Per questo riprendiamo, con l’accordo dell’autore – che ringraziamo –, un pezzo di Angelo Ferrari scritto per l’Agi sul ritorno delle mosse russo-turche nei paesi africani a rischio di carestia per la carenza di approvvigionamenti di cereali, a cui alleghiamo il podcast di un intervento di Alfredo Somoza su Radio Blackout a proposito delle cause globali della carestia.


La guerra del grano deve essere risolta nel più breve tempo possibile e vincerla non è solo una questione di “buon cuore”, ma anche strategica. I numeri dimostrano che la carestia potrebbe colpire oltre 400 milioni di persone. A questi si debbono aggiungere tutti coloro che vivono con gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite. Il Corno d’Africa e gran parte del Sahel si apprestano ad affrontare una carestia senza precedenti (Human rights watch) che, indubbiamente, sarà aggravata dalla guerra in Ucraina. Sbloccare centinaia di milioni di tonnellate di grano nei silos nei porti ucraini è dunque una priorità per scongiurare una catastrofe umanitaria che avrà ripercussioni globali che potrebbero durare anni. Molto attivi su questo fronte sono i turchi e i russi, anche se un accordo chiaro che garantisca tutti, in primo luogo gli ucraini, sembra lontano dall’essere siglato.

La penetrazione russa

La Russia, come stiamo vedendo in questi giorni, ha tutto l’interesse a scaricare sull’Occidente la responsabilità di una possibile crisi alimentare globale. Un interesse che non deve stupire. Di sicuro, come è già avvenuto, farà partire le sue navi cariche di grano dai porti ucraini conquistati sul mar d’Azov. Grano rubato, secondo gli ucraini. Grano di loro proprietà secondo Mosca. Al di là di chi abbia ragione questa è la realtà. Le navi hanno fatto rotta verso l’Africa dove la presenza russa si fa sempre più penetrante.
Il caso del Mali, nel Sahel, è l’aspetto più eclatante. È riuscita a “cacciare” la Francia da un’ex colonia. Poi c’è la Repubblica Centrafricana, anch’essa ex colonia francese. Qui la presenza russa è ancora più evidente. Senza dimenticare il Burkina Faso e ancora i recenti accordi militari e di sicurezza tra il Camerun e Mosca. Nel mirino di Putin c’è anche il Ciad, dove nella capitale N’Djamena ci sono state manifestazioni antifrancesi molto violente. Il sentimento antifrancese e antioccidentale sta dilagando in gran parte del Sahel e Mosca lo cavalca e incoraggia abilmente.

L’attivismo turco

Dall’altra parte del tavolo negoziale c’è la Turchia, il sultano Recep Erdoğan, che non fa nulla senza che ne abbia un tornaconto significativo. Anche Ankara ha interessi diffusi in Africa. Oramai è un po’ ovunque, ha stretto accordi commerciali, di fornitura di armi, ma anche si sta impegnando molto sul fronte dell’aiuto alimentare, come in Somalia. La forza della Turchia in Africa è assai maggiore di quella russa. Dal 2004 Erdoğan ha fatto più di 50 viaggi nel continente africano e visitato oltre 30 nazioni. Solo nell’ottobre del 2021 il capo di stato turco ha visitato Angola, Nigeria e Togo e nello stesso mese, Istanbul ha ospitato leader aziendali e dozzine di ministri degli stati africani per un vertice volto specificatamente ad aumentare il commercio. Nei primi mesi del 2021 il commercio bilaterale Turchia-Africa ha raggiunto i 30 miliardi di dollari e l’obiettivo della Turchia è di aumentarlo ad almeno 50-75 miliardi di dollari nei prossimi anni. Inoltre circa 25.000 lavoratori africani sono attualmente impiegati nel continente da aziende turche in progetti del valore di 78 miliardi di dollari e più di 14.000 studenti africani hanno studiato in Turchia. Il numero degli ambasciatori turchi distaccati nel continente è passato dai 12 del 2005 ai 43 nel 2021, mentre il numero degli ambasciatori africani ad Ankara è passato da 10 a 37. «Miriamo ad aumentare il numero dei nostri ambasciatori fino a 49», ha detto Erdoğan, affermando che il vertice di Istanbul ha dato luogo a sessioni congiunte a livello ministeriale nei settori della sanità, dell’istruzione, dell’agricoltura e della difesa. Turkish Airlines vola verso 61 destinazioni in Africa, l’Agenzia turca di cooperazione e coordinamento (Tika) ha 22 uffici locali, la Fondazione Maarif gestisce 175 scuole in 16 paesi e la presidenza dei turchi all’estero e delle comunità correlate offre borse di studio a oltre 5000 studenti africani. Una potenza di fuoco enorme che ha anche lo scopo di ottenere il sostegno africano per un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.Per Ankara, dunque, arrivare a una soluzione negoziata sul grano ucraino sarebbe un grande successo e rafforzerebbe i legami già molto stretti con l’intero continente. Obiettivo che ha anche lo zar di Mosca. Putin e Erdoğan, su questa partita si intendono benissimo. Tutto ciò avrebbe, inoltre, anche lo scopo di allontanare sempre di più il continente africano dall’influenza occidentale, sostituendola con quella turca e russa. La Cina, vera padrona del continente, sta a guardare anche perché non ha competitor. Vincere la guerra del grano non è solo una questione di buon cuore, ma ha una valenza strategica tale da spostare gli equilibri anche in Africa, dove quasi la metà degli stati non ha votato o si è astenuta per la risoluzione delle Nazioni Unite di condanna all’invasione russa dell’Ucraina. Di sicuro, se Erdoğan avrà ragione in questa partita, sarebbe la sconfitta dell’occidente – oltre che quella dell’Onu – la cui diplomazia non fa altro che accusare Mosca della catastrofe alimentare. Non basta. Agli africani di certo non basta.

Ascolta “Dormi sepolto in un campo di grano” su Spreaker.

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Cambi della guardia in Africa, e la Russia suona Wagner https://ogzero.org/cambi-della-guardia-in-africa-e-la-russia-suona-wagner/ Thu, 24 Feb 2022 08:45:35 +0000 https://ogzero.org/?p=6471 In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari […]

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In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari in un paese stabile, l’indigenza delle popolazioni è funzionale all’assoggettamento del tessuto sociale, basta frenare le partenze per oltremare… con le buone (accordi capestro e che calpestano i diritti umani) o con le cattive (presenza militare mercenaria ben pagata).

[fin qui… OGzero]

Qui una rielaborazione di due articoli di Angelo Ferrari pubblicati su Africa Rivista e Agi, ampliati per OGzero. Aggiungiamo un podcast realizzato con Edoardo Baldaro (ricercatore alla Scuola Sant’Anna di Pisa, esperto di Sahel) e Stefano Ruzza (professore associato in Scienze politiche all’Università di Torino, responsabile di T.wai – Torino, esperto di agenzie di sicurezza).


Spostare il confine del Mediterraneo

Il Niger è e diventerà sempre di più il bastione italiano nel Sahel. L’Italia, nel suo piccolo – sia geografico sia diplomatico – ha deciso di rilanciare la sua presenza nel continente africano proprio privilegiando il rafforzamento di quella militare in parte a scapito della cooperazione allo sviluppo, soprattutto in chiave anti-immigrazione. L’obiettivo è fermare i flussi proprio alle porte della Libia, cioè in Niger, con la presunzione e l’illusione che blindando i confini i problemi possano restare dall’altra parte. Spostare, dunque, più a Sud il confine del Mediterraneo. Ci riuscirà? Non è del tutto scontato.

In Niger la presenza militare è rilevante. Si tratta di 290 militari, 160 mezzi terrestri e 5 aerei. Mentre il rapporto tra spese militari e cooperazione allo sviluppo è di 10 a 1. Un po’ quello che è successo in Afghanistan, con le conseguenze, dopo il ritiro occidentale, che sono sotto gli occhi di tutti dal punto di vista umanitario. Tutto ciò, evidentemente, confligge con un principio che dovrebbe accompagnare le missioni militari all’estero in generale, e in particolare in Africa, è cioè quello per cui creare le condizioni di sicurezza nelle aree di crisi è indispensabile per poter realizzare anche le missioni civili e di sostegno socio-economico che aiutino i paesi interessati a costruire o ricostruire i loro apparati pubblici e a sviluppare le loro economie, a loro volta premessa indispensabile per migliorare le condizioni di vita della popolazione e stabilizzare il contesto locale e regionale.

Il Mali lasciato dagli occidentali

Il sentimento antifrancese che è montato in buona parte del Sahel deriva proprio da questo. Cioè le popolazioni hanno visto un gran numero di militari occidentali, ma nessun cambiamento sostanziale, non solo nella sicurezza, ma soprattutto nelle condizioni di vita reale. La precarietà “umanitaria” si è aggravata. La lezione del Mali dovrebbe insegnare qualcosa anche a noi italiani. Non a caso il presidente del Niger, Mohamed Bazoum, si è detto molto “preoccupato” per il ritiro dei francesi e degli occidentali in generale dal Mali.

A questo punto può risultare utile ascoltare le considerazioni sulla situazione dopo la chiusura di Barkhane e il subentro conseguente dei contractor russi, oltre al confronto tra le diverse reazioni nei paesi subsahariani, con Stefano Ruzza ed @EdoardoBaldaro

 “Il senso di Wagner per le crepe: le interconnessioni con le giunte del Sahel?”.

La “fortuna” del Niger, il paese più povero al mondo

Il Niger, tuttavia, interessa moltissimo all’Italia e non si tira indietro, lo ha dimostrato nel recente passato aprendo un’ambasciata nel 2017 e dal 2018 con la “Missione bilaterale di supporto” – militare. Il Niger, dunque, è un partner strategico e, nelle intenzioni del governo italiano, può rappresentare un’opportunità di business per l’Italia. L’Italia è tra quei paesi che guardano con interesse al crescere di questo mercato e in generale a quello di tutta l’area saheliana e la presenza dell’ambasciata italiana a Niamey ha anche il significato di voler accompagnare quanto più possibile le imprese italiane che vorranno avviare affari in questo contesto relativamente ancora incontaminato. Queste le intenzioni del governo italiano. Ma, diciamo noi, occorre arrivare per tempo. Per l’Italia, dunque, il Niger è un paese stabile – e questo aiuta – ma non si può dimenticare il passato recente. Il paese è sempre stato il crocevia di traffici illeciti, dalla droga alle armi, dal riciclaggio dei soldi sporchi alla tratta degli esseri umani.

Le fortune del Niger – se così si può dire – e dei suoi governanti, sono derivate proprio da questo. Un paese che ha fatto dell’illecito la ragione dei propri guadagni.

È il paese più povero al mondo, ma, Mohammad Issoufou, ex presidente nigerino – ha governato il paese per dieci anni fino al 2021 – ha speso milioni e milioni di dollari per acquistare armi, elicotteri e aerei da combattimento russi e francesi, tradendo la sua piattaforma elettorale di stampo socialista-progressista, che lo ha portato al vertice dello stato, impoverendo ancora di più la sua gente. Il suo successore, Bazoum, va nella stessa direzione, non a caso sul finire del 2021 ha acquistato dalla Turchia nuovi droni. L’impegno e le spese militari prevalgono su tutte, pur di mantenere i privilegi ereditati dal suo predecessore. Le cancellerie di tutto il mondo conoscono a perfezione i due burattinai nigerini, sanno perfettamente con chi hanno a che fare, ma hanno deciso che del Niger si possono fidare. Ma alcune domande, tra le tante, vengono spontanee: per quale ragione le varie milizie e fazioni che controllano il territorio dovrebbero abbandonare i lauti profitti che arrivano dai traffici illeciti che siano di esseri umani, droga, armi o denaro? Quali garanzie sono state fornite? Quali accordi stipulati?

Il governo italiano dovrebbe rispondere a queste domande con il linguaggio schietto della politica e non con quello della diplomazia. Occorre, dunque, fare attenzione. Ma le parole chiave sono “arrivare in tempo”. Non possiamo dimenticare che il paese saheliano è strategico anche per la Francia che è ormai una presenza organica, ma sul quale Parigi rivolge lo sguardo, soprattutto ora che si è ritirata dal Mali. L’intenzione francese è proprio quella di rafforzare la sua presenza in Niger e sul fronte Sud del Sahel, paesi come Costa d’Avorio, Togo e Benin. Gli interessi strategici di Parigi sono noti: l’estrazione dell’uranio è fondamentale per un paese che vive di centrali nucleari. Il Niger è il quarto produttore di uranio al mondo e il sesto per riserve.

L’Italia, dunque, deve adottare una via pragmatica e diplomatica per non andare a cozzare con gli interessi di altri paesi che hanno radici solide in quel pezzetto di deserto.

Wagner: gli strumenti “non convenzionali ” della Russia

In Africa, per esempio, la Russia suona la musica di Wagner. La presenza dei mercenari di Mosca rappresenta per Vladimir Putin la guarnigione di “sfondamento” nella sua politica di espansione in Africa. Non è un mistero che la Russia stia cercando di tornare agli antichi fasti dell’Unione Sovietica e non lo fa impegnandosi direttamente sul campo militare, quello dove si combatte, ma inviando la Wagner che per Mosca fa il lavoro sporco. Lo si vede in maniera evidente, per esempio, nella Repubblica Centrafricana, che è diventata la base operativa russa in Africa centrale. Lì i mercenari combattono a fianco delle truppe regolari e sostengono il regime. La guardia presidenziale è tutta nelle mani del Cremlino, così come i consiglieri del ministero della Difesa. Il Centrafrica è diventata una sorta di portaerei nel mezzo dell’Africa che funziona come trampolino di lancio per l’espansionismo russo. Già nel passato questo paese ha avuto questa funzione, con la presenza di numerose basi della Francia, ex potenza coloniale, almeno fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso. Ora la storia è molto diversa e, come è normale che sia, Putin nega tutto. Si limita a spiegare che l’intervento russo in Africa riguarda la fornitura di armi e l’addestramento militare. Ma ogni evidenza porta da un’altra parte. Lo si sta vedendo in maniera plastica in Mali, dove il sentimento prevalente è quello filorusso. Così come in Burkina Faso dove si sono viste manifestazioni a sostegno dei golpisti, con la gente in piazza che sventolava le bandiere di Mosca.

L’Africa, per Putin, è diventato uno degli scenari privilegiati della sua competizione con il mondo occidentale.

Lo fa, appunto, attraverso la fornitura di armi e con il sostegno dell’industria bellica, come in Sudan terzo produttore di armi nel continente africano dopo Egitto e Sudafrica. Per raggiungere i suoi obiettivi, il Cremlino utilizza non solo i normali canali diplomatici ma anche strumenti non “convenzionali”: i famigerati mercenari della Wagner e la propaganda attraverso i social network, come accade in altre parti del mondo. E funziona.

L’impegno italiano: ridurre le partenze

Il governo italiano sta mettendo in atto un cambio di paradigma nel guardare a questo paese e alla regione del Sahel nel suo insieme, cercando di colmare la sua lacuna di presenza, intercettando in maniera tempestiva il crescere dell’attenzione internazionale. Il Niger guarda ormai all’Italia come un “partner di riferimento”, soprattutto nella gestione delle migrazioni, nella lotta all’avanzamento del terrorismo jihadista, nel contenimento delle sfide ambientali e nello sviluppo. Se sul piano militare l’Italia è ben posizionata e il rinnovo delle missioni all’estero voluto dal governo Draghi va proprio in questa direzione. L’Africa si conferma il continente in cui l’Italia è maggiormente coinvolta, con 17 missioni in corso. Tra quelle più rilevanti in termini di unità impiegate e risorse economiche c’è la Task Force Takouba, per il contrasto della minaccia terroristica nel Sahel, e l’impiego di un dispositivo aeronavale nazionale nel Golfo di Guinea in funzione antipirateria.

Le forze della missione Takouba si preparano a lasciare il paese (fonte Africa Rivista).

Sul piano, invece, della cooperazione allo sviluppo fa segnare il passo. Non si può dimenticare che oltre il 40 per cento della popolazione nigerina vive sotto la soglia di povertà e il paese si colloca in fondo alla ben poco onorevole classifica dell’indice di sviluppo umano. C’è da augurarsi, dunque, che il rinnovato impegno in Niger e in tutta la regione sia teso, anche, al rafforzamento di un impegno umanitario. L’impegno italiano è concentrato – almeno così sembra – alla riduzione delle partenze dei migranti (come racconta qui Fabiana Triburgo). Rimane, tuttavia, la domanda: “È sufficiente la cooperazione militare per impedire le partenze?”. È lecito chiedersi se controllo del territorio di questi paesi e lotta al terrorismo non passino anche e soprattutto attraverso politiche di sviluppo: cioè alla creazione di un welfare state che manca totalmente in questi paesi. Non si considera infatti che la maggior parte delle persone che fuggono da quelle situazioni lo fanno perché manca totalmente la percezione della possibilità di costruirsi un futuro solido per sé e la propria famiglia. Non è solo mancanza di cibo, spesso è la mancanza di welfare state, cioè di una rete sanitaria adeguata e di una rete scolastica capace di formare.

In quei paesi dove la cooperazione militare è importante, gli apparati di governo sacrificano, già di loro, gli investimenti per il welfare a scapito di una crescente spesa militare. Tutto ciò dovrebbe far riflettere.

L’impegno russo: fornire armi e sfruttare le risorse

L’arrivo in Centrafrica, tuttavia, rappresenta, uno spartiacque per Mosca. Le armi russe fanno gola un po’ a tutti: Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania hanno lanciato appelli a Mosca perché aiuti le loro forze di sicurezza a combattere il terrorismo, appelli che hanno avuto risposte positive. Tutto ciò piace molto al Cremlino e preoccupa enormemente l’occidente che sta perdendo posizioni strategiche. L’opzione di Mosca è quella di rafforzare la presenza militare per poi passare all’incasso, anche in termini di risorse naturali. L’interesse militare si giustifica, inoltre, con il fatto che il Cremlino è consapevole della sua marginalità nei mercati africani e di non poter competere con l’espansionismo cinese. Le armi, quelle vere, per Mosca, tuttavia, funzionano ancora. Ma è del tutto evidente che l’aiuto militare è subordinato, nel futuro, ad avere un ruolo anche nello sfruttamento delle materie prime.

Non a caso il paradigma di collaborazione con l’Unione africana – emerso nel forum Russia-Africa – che Putin vuole, mira a migliorare i rapporti esistenti, rafforzare i legami diplomatici e aumentare la sua presenza economica nel continente, per avvicinarsi agli elevati livelli di scambi commerciali che già caratterizzano Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Turchia, Europa e Stati Uniti.

La presenza russa in Africa (fonte Ispi).

La retorica di Putin definisce la sua agenda per l’Africa “positiva” e si contrappone, a detta sua, ai “giochi geopolitici” degli altri, spiegando che la Russia non è interessata a depredare la ricchezza dell’Africa, ma a lavorare a favore di una cooperazione “civilizzata”. Parola, questa, già usata da coloro che hanno colonizzato il continente.

Dal punto di vista economico, non è da trascurare la presenza in Namibia dove la Russia è impegnata nell’estrazione dell’uranio e in Angola nel settore diamantifero. Da qui, dall’Africa, Putin vuole ripartire per lanciare la sua sfida e tornare a vantare il ruolo di potenza mondiale. Ma la “prudenza” sta caratterizzando la presenza russa. Putin non arriverà a schierare l’esercito regolare e per questo si avvale di mercenari della Wagner, che fa il bello e cattivo tempo un po’ ovunque, in particolare nella Repubblica Centrafricana che, di fatto, è governata proprio dai russi. Il Mali, dopo il ritiro delle truppe occidentali, rappresenta una vittoria significativa per Putin che è riuscito a ridimensionare l’impero francese.

Attività russe in Africa nel 2019 (Fonte ISW).


Gruppo Wagner: un po’ di storia

Sul Gruppo Wagner, ovviamente, sono più le supposizioni che le certezze. Ciò che si sa è che nasce intorno al 2013 con il nome di Corpi Slavi. Il loro fondatore è l’ex colonnello dei servizi segreti militari Dmitry Utkin. Insieme a un piccolo contingente di ex appartenenti alle forze speciali russe, Utkin si schiera in Siria a protezione delle infrastrutture strategiche per la Russia e per il governo siriano di Bashar al-Assad. I mercenari non ottengono grandi risultati e ben presto rientrano in patria. Qui Utkin rifonda l’organizzazione ribattezzandola Gruppo Wagner in onore del compositore tedesco (Utkin ha forti simpatie naziste). È l’incontro con Yevgeny Prigozhin, oligarca con interessi nei comparti dell’alimentazione, dell’estrazione mineraria e nel mondo della gestione dei dati informatici, che fa compiere al Gruppo Wagner il salto di qualità. Prigozhin è legato a doppio filo a Putin che lo utilizza per portare a termine “operazioni delicate”. I mercenari di Utkin vengono quindi impiegati in Ucraina e a sostegno dei separatisti della Repubblica separatista di Lugansk. Poi di nuovo in Siria, dove si affiancano alle forze di Bashar al-Assad. Il momento più tragico avviene nel febbraio 2018 a Deir ez-Zor, quando un centinaio di uomini viene ucciso in un raid americano nei pressi del villaggio di al-Isba durante gli scontri con le forze curde dell’Sdf. Le imprese compiute in tre anni di guerra, permettono a Prigozhin di passare all’incasso. Un incasso chiamato Africa, dove, nel frattempo, la Russia sta conducendo una delicata partita per recuperare spazi di influenza. Mosca cerca di stringere rapporti con numerosi paesi offrendo assistenza militare in cambio di risorse minerarie. Ma in modo informale. Un gruppo di uomini viene quindi inviato in Sudan. Vengono schierati a protezione del presidente Omar al-Bashir e come presidio sul confine con il Sud Sudan. In cambio, i mercenari russi ricevono la gestione di alcuni impianti minerari. Un’operazione molto simile avviene anche nella Repubblica Centrafricana, dove nel luglio 2018 vengono uccisi tre giornalisti russi che indagavano proprio sulle operazioni di Prigozhin. Il magnate russo farebbe affari con almeno dieci paesi, tra i quali Repubblica democratica del Congo, Madagascar, Angola, Guinea, Guinea-Bissau, Mozambico e Zimbabwe. Uomini del Gruppo Wagner sono stati incorporati nelle milizie di Khalifa Haftar in Libia. Il resto è storia recente.


Per rinfrescarvi la memoria su come operano i contractors o le milizie mercenarie e su come funzionano le regole di ingaggio e quali sono i rapporti di forza con gli stati che li “assumono” guardate questa intervista di OGzero a Stefano Ruzza, regia di Murat Cinar.


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Le divergenze parallele nei piani sino/russi per l’Africa https://ogzero.org/le-divergenze-parallele-nei-piani-sino-russi-per-lafrica/ Fri, 18 Feb 2022 09:21:43 +0000 https://ogzero.org/?p=6384 I rapporti tra le potenze globali s’improntano alla “differenziazione” a seconda degli svariati livelli di confronto e a seconda della complementarietà dell’offerta e della richiesta della zona interessata alle manovre sociali, economiche, politiche, culturali… Il continente africano è sempre più complesso e gli attori in commedia sono sempre di più; e le comunità non sono […]

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I rapporti tra le potenze globali s’improntano alla “differenziazione” a seconda degli svariati livelli di confronto e a seconda della complementarietà dell’offerta e della richiesta della zona interessata alle manovre sociali, economiche, politiche, culturali… Il continente africano è sempre più complesso e gli attori in commedia sono sempre di più; e le comunità non sono rappresentabili con la logora narrativa neocoloniale. Gli osservatori più attenti ritengono che in Africa l’intento cinese è quello di cementare il proprio ruolo di partner a lungo termine e di principale protagonista del suo sviluppo. Per esempio a Lusaka si sta completando una delle 4000 infrastrutture costruite dalla Cina dal 2020: un centro per conferenze in tempo per ospitare il summit dei capi di stato africani. Come riferito da Andrea Spinelli Barrile la Cina ha investito più del doppio in infrastrutture africane (23 miliardi di dollari) rispetto al resto del mondo; e anche i prestiti cinesi sono un quinto di tutti quelli erogati al mondo.

Mentre altrove gli interessi sino-russi possono stridere, in Africa, come nell’area eurasiatica la cooperazione in funzione antioccidentale può raggiungere buoni risultati, offrendo servizi diversi: la Russia si propone come fornitrice di armi, mercenari e addestratori e il Sahel appare come l’area più sensibile da accogliere quel tipo di sicurezza che 9 anni di Barkhane e Takuba non hanno saputo o voluto risolvere: infatti la popolazione di Mali e Burkina hanno cominciato a pensare che gli europei avessero interesse a non debellare definitivamente le milizie jihadiste, pur di avere un pretesto per occupare militarmente la zona. Altro impegno russo è quello applicato all’estrattivismo delle molte risorse africane.

Mentre “Deutsche Welle” dà conto di un summit tra Unione europea e Unione africana per proporre il Global Gateway Project su investimenti (300 miliardi in 7 anni), salute, sicurezza e migrazione in alternativa alla Belt and Road cinese nel momento in cui la Russia diventa riferimento principale della sicurezza per gli stati del Sahel, approfittiamo di un saggio scritto da Alessandra Colarizi per l’e-book numero 10 di China Files su questi argomenti per aggiungere suggestioni a integrazione dell’articolo di Angelo Ferrari, scritto a caldo a commento dell’annuncio parigino con il G5 del Sahel del ritiro delle missioni militari.


Semplici amici, avversari, alleati? Come altrove, anche in Africa, le relazioni tra Cina e Russia sfuggono all’imposizione di categorie precostituite. Rivali al tempo della Guerra Fredda, durante la crisi sino-sovietica i due giganti sostennero partiti e movimenti di liberazione nazionale, aiutando le fazioni alleate nelle guerre civili in Zimbabwe, Angola e Mozambico. Poi nel corso dei decenni Pechino e Mosca si sono spartite ruoli e competenze, seguendo un copione già utilizzato in Asia centrale.

Belt and Road cinese: finanziatori

La Cina, fedele al principio cardine della non ingerenza, si è perlopiù dedicata agli affari economici: primo partner commerciale del continente dal 2009, è da oltre dieci anni il principale investitore nella regione subsahariana. Una tendenza rafforzata dal lancio della Belt and Road, la strategia di politica estera con cui Pechino sostiene la penetrazione internazionale delle aziende statali cinesi attraverso la costruzione di grandi vie di comunicazione marittime e terrestri in Eurasia, e presto estesa all’Africa.

Armi e mercenari russi: risolutori

Mosca, invece, dopo la dissoluzione dell’Urss ha riacquistato il terreno perso grazie alla sua industria bellica: ha continuato a supportare le capitali africane con la vendita di armamenti e altre forme di assistenza militare; complice la minaccia del terrorismo islamico. Nel 2018, cinque paesi dell’Africa subsahariana – Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania – hanno fatto esplicitamente appello a Mosca per ottenere sostegno nella guerra contro Isis e al-Qaeda. In Libia, l’appoggio fornito dai mercenari russi al generale Khalifa Haftar (affiancato militarmente nell’assedio di Tripoli), anziché al governo riconosciuto dalla comunità internazionale – come spiega il Csis –, ha permesso di rafforzare “la posizione geostrategica e l’influenza diplomatica russa” nel Nordafrica, rendendo Mosca un interlocutore imprescindibile in qualsiasi tentativo di soluzione al conflitto.

Spartizione delle risorse africane

Negli ultimi tempi però, pur partendo da percorsi opposti, gli interessi dei due giganti hanno intrapreso traiettorie convergenti. Gli scambi commerciali tra la Russia e il continente sono raddoppiati nel giro di sei anni. Adocchiando ulteriori potenzialità economiche, nel novembre 2019 la città di Soči ha ospitato il primo forum russo dedicato all’Africa, di cui la seconda edizione è prevista per quest’anno. La nascita delle prime piattaforme istituzionali è stata accompagnata dalla fioritura parallela di canali informali.

Secondo Heidi Berg, direttore dell’intelligence presso il United States Africa Command Africom (Africom), «l’impegno militare russo e l’uso di contractor militari privati in Mozambico sono progettati per aumentare l’influenza [di Mosca] nell’Africa meridionale e per consentire l’accesso russo alle risorse naturali locali, inclusi gas naturale, carbone e petrolio».

Qualcosa di simile sta avvenendo nella Repubblica Centrafricana, dove militari russi sono stati nominati consiglieri per la sicurezza nazionale del presidente Faustin-Archange Touadéra, e il governo sta vendendo diritti minerari per oro e diamanti a una frazione del loro valore in cambio di armi.

Riposizionamento olimpionico: colmare un vuoto con un sodalizio a tutto campo?

Da parte sua, dopo aver privilegiato per tre decenni le sinergie economiche, la Cina sente necessità esattamente opposte. Sente di dover difendere i propri asset strategici nel continente e ricoprire un ruolo più proattivo in materia di sicurezza, come si addice a una superpotenza. Nel 2017 il porto di Gibuti, nel Corno d’Africa, è stato scelto come sede della prima base militare cinese all’estero.  La recente nomina di un inviato speciale per il Corno d’Africa sembra confermare questa nuova vocazione cinese per il mantenimento della stabilità, oltre il tradizionale impegno nelle operazioni internazionali di peacekeeping e lotta alla pirateria. Notizia che certamente non rallegrerà Mosca: secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), il continente è diventata una delle prime destinazioni dell’export di armi cinesi, pari al 17% delle forniture ottenute dalle capitali africane tra il 2012 e il 2017 e il 55% in più rispetto ai cinque anni precedenti.

È lecito, quindi, chiedersi se questo reciproco riposizionamento avvicinerà ancora di più o finirà invece per dividere Pechino e Mosca. Se anche in Africa, come nei rispettivi cortili di casa, i due vecchi rivali saranno capaci di muoversi in sincrono. Se, insomma, saranno semplici amici, avversari, o alleati. Entrambi i giganti stanno beneficiando della rapida perdita di influenza delle vecchie potenze imperialiste, di cui il ritiro francese dal Sahel è il segno più lampante. Alla vigilia delle Olimpiadi invernali di Pechino, Putin ha rimarcato come gli sforzi di Cina e Russia siano tesi alla promozione di una democratizzazione delle relazioni internazionali basata sui valori di “eguaglianza e inclusività”. Un messaggio che strizza l’occhio al Sud globale, sempre più emarginato dai sodalizi occidentali tra “like-minded country”. Siamo di fronte a un “gran plan”? Difficile a dirsi. Negli Stati uniti però i recenti sviluppi hanno già alzato il livello di allarme.

Secondo il senatore dell’Oklahoma, Jim Inhofe: «Cina e Russia stanno usando l’Africa per espandere la loro influenza [internazionale] e la loro estensione militare».

Il vantaggio di Pechino si misura in decenni di investimenti

“L’unione fa la forza”, dicevano gli antichi. D’altronde, l’arrivo tardivo dei capitali russi difficilmente rappresenterà una minaccia per gli interessi cinesi. Con venti anni di vantaggio, oggi la presenza del gigante asiatico beneficia della messa a sistema di una strategia di soft power che spazia dagli investimenti nei media, all’assistenza sanitaria passando per gli scambi people-to-people. Nei piani africani del Cremlino non sembra esserci nulla di lontanamente paragonabile.

Allo stesso tempo, sebbene le operazioni mercenarie di Mosca rischino di destabilizzare ulteriormente il continente, la preannunciata apertura di basi militari russe nella regione (ben sei) potrebbe persino tornar utile alla Cina. Come ammesso nell’ultimo libro bianco sulla Difesa pubblicato dal Consiglio di stato, l’esercito cinese non è ancora in grado di proteggere pienamente gli interessi nazionali oltremare a causa delle carenze logistiche e dell’insufficienza dei mezzi difensivi navali e aerei. Secondo il documento, alcuni di questi impedimenti sono aggirabili coltivando rapporti sinergici con altri paesi. Dalla crisi di Crimea, Cina e Russia hanno cementato le relazioni bilaterali con un focus militare molto forte. Sebbene dagli anni Ottanta Pechino rifugga le alleanze in senso proprio, il partenariato con Mosca sembra un gradino sopra le usuali consorterie cinesi per uniformità di interessi e visione globale.

La partnership competitiva, ma globale… dunque anche africana

L’instabilità politica in Africa apre uno spiraglio per la definizione di una “strategia” di sicurezza sino-russa nei paesi terzi. Un segno in questa direzione arriva dalla risposta concertata di Mosca e Pechino in sede Onu alla crisi del Tigray, così come ai colpi di stato in Sudan e Mali.

Dopo il ritiro americano in Afghanistan il coordinamento militare con Putin è diventato sempre più centrale per Xi. Lo è anche nel continente oltre l’Oceano indiano, dove Mosca può mettere a frutto l’esperienza militare maturata in Medio Oriente, un’area con profondi legami economici e culturali all’Africa. Le manovre aeree e marittime eseguite congiuntamente dai due giganti nell’Indopacifico, nel Mediterraneo e nel Mar arabico, costituiscono un precedente duplicabile nei teatri africani. Ma fino a che punto? Samuel Ramani, ricercatore della Oxford University, evidenzia diversi ostacoli: la storica diffidenza reciproca, la sovrapposizione tra interessi regionali spesso contrastanti, e la mancanza di un coordinamento sul campo ancora limitato ai tavoli multilaterali. È indicativo che, posizionati su fronti opposti in Libia e Sudan, Pechino e Mosca non abbiano mai tenuto colloqui bilaterali specifici sul continente. Nemmeno il tema del terrorismo è riuscito a ispirare una reazione pianificata in tandem.

Sono tutti aspetti che sommati compongono una sagoma dai contorni sfumati. Quella che Ramani definisce una “partnership competitiva” tra aspiranti grandi potenze. Non semplici amici, né avversari e nemmeno alleati. Almeno per ora.

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Un Sahel di spine per Macron. Mali e Françafrique https://ogzero.org/un-sahel-di-spine-per-macron-mali-e-francafrique/ Fri, 21 Jan 2022 01:11:24 +0000 https://ogzero.org/?p=5902 Il Sahel in generale e il Mali in particolare è un’espressione della Françafrique da cui trarre indizi utili sulla reale influenza neocoloniale francese. L’impegno di Macron, all’inizio come alla fine del suo settennato, ha usato ogni arma nell’area pur di mantenere il proprio suggello: contingenti di occupazione militare con un tributo di sangue e denaro […]

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Il Sahel in generale e il Mali in particolare è un’espressione della Françafrique da cui trarre indizi utili sulla reale influenza neocoloniale francese. L’impegno di Macron, all’inizio come alla fine del suo settennato, ha usato ogni arma nell’area pur di mantenere il proprio suggello: contingenti di occupazione militare con un tributo di sangue e denaro non indifferente; elargizioni per blandire le oligarchie locali, sistematicamente eliminate fisicamente o esautorate; investimenti attraverso multinazionali, sostituite da potenze emergenti come Turchia – sulla cui penetrazione del mercato africano riprendiamo un articolo di Emanuele Giordana per “Atlante delle Guerre” e Cina, oppure scalzate dalla presenza politico-militare dei filoputiniani…

Uno degli spunti a cui teniamo dall’inizio della avventura di OGzero è quello relativo al neocolonialismo e stiamo cercando di accumulare materiali per avviare uno Studium relativo che possa sfociare in una produzione dedicata. L’articolo pubblicato il 16 gennaio dagli amici di “AfricaRivista”, che ringraziamo per averci consentito di riprenderlo, fa parte  di questo novero di analisi, interpretazioni, testi… che ritroverete assemblati in un dossier ora in embrione.


Lenta dissoluzione degli asset francesi in Mali

Con le elezioni presidenziali alle porte in Francia, il Mali rimane una spina nel fianco per il presidente Macron. L’operazione militare Barkhane non ha sortito gli effetti sperati. Se si vuole fare un bilancio, questo è del tutto negativo. Sulla Francia incombe lo spettro Afghanistan. Che fare? è la domanda già di Černyševskij attorno alla quale Angelo Ferrari gira per inserire alcuni degli elementi in gioco.

L’occupazione militare: il Mali apre alla Russia

Il Mali è una spina nel fianco del presidente francese, Emmanuel Macron, e lo sarà anche per chi verrà dopo di lui all’Eliseo, ammesso che perda le elezioni. Rimane, tuttavia, una patata bollente da gestire, anche in prospettiva delle presidenziali francesi. Se il Mali, e in pratica in tutti i paesi francofoni del Sahel, è uno degli stati più “ostili” alla Francia, l’opinione transalpina non è certo morbida nel giudicare la presenza francese in quell’area. Il ritiro di parte degli effettivi francesi impegnati nell’operazione Barkhane è dovuto all’impasse in cui si è ficcata Parigi proprio con quell’operazione. Il bilancio di 9 anni di presenza nell’area – prima con l’operazione Serval voluta dall’ex presidente François Hollande all’inizio del 2013, diventata Barkhane l’anno successivo, con l’estensione al G5 Sahel (Ciad, Niger Burkina Faso e Mauritania) – sembra essere fallimentare o, quantomeno, poco convincente. Intervento militare, per altro, lasciato in eredità a Macron. Risultati reali e concreti sono poco visibili, soprattutto per la popolazione locale che negli anni ha visto un peggioramento della sicurezza interna ma anche di quella economica e sociale.

L’obiettivo dell’operazione militare francese in Mali – richiesta dall’allora governo di Ibrahim Boubacar Keita – era quello di impedire ai gruppi jihadisti di prendere il potere ed evitare il crollo dello stato. I gruppi terroristici non hanno preso il potere, ma hanno allargato le loro aree di influenza rendendo lo stato – così come altri nell’area del Sahel – oltre che instabile, ostaggio delle loro scorribande. Se si vuole fare un bilancio, questo è del tutto negativo.

Il presidente francese, dovendo gestire un’opinione pubblica interna ostile, è riuscito a ridimensionare l’operazione militare, coinvolgendo gli stati della regione ma, soprattutto, ha convinto l’Europa della necessità di un intervento diretto perché la questione terrorismo, e quella dei flussi migratori, riguarda tutti. Nasce così la task force Takuba. Ma rimane l’imbarazzo e l’impasse. A maggior ragione oggi visto che il potere in Mali è nelle mani dei militari che hanno sovvertito il governo civile con ben due colpi di stato. Il paese è ancora più debole e il presidente francese non può prendere decisioni nette, vista la campagna elettorale in corso per le presidenziali. A Macron è stato facile annullare la visita ufficiale a Bamako del 20 e 21 dicembre scorso. La scusa, la nuova ondata di Covid. Sarebbe stato particolarmente imbarazzante per l’inquilino dell’Eliseo dover giustificare un viaggio nella capitale maliana dove avrebbe dovuto incontrare un capo di stato golpista e non eletto, il colonnello Assimi Goita. Non solo. La transizione voluta dai golpisti è ancora lontana dal terminare e la promessa di elezioni per un ritorno dei civili alla guida del paese, a oggi, pare un miraggio. Non ci sono date precise, si sa solo che la transizione, e quindi il potere di Goita, durerà ancora a lungo.

L’impasse rimane mentre gli affari parlano ormai russo

I francesi, tuttavia, sono ancora presenti nel centro del paese, nonostante le basi di Kidal, Tessalit e Timbuctu siano state riconsegnate all’esercito maliano. L’impasse rimane e potrebbe durare a lungo. Sulla Francia incombe lo spettro Afghanistan. Cosa fare? Seguire l’esempio americano, cioè un ritiro rapido e completo delle truppe? Gli scenari che si potrebbero verificare sono identici, se non peggiori, di quelli che si sono avuti in Afghanistan, con l’aggravante che il contraccolpo si sentirebbe in tutto il Sahel. Le “postazioni” non rimarrebbero sguarnite, ma verrebbero riempite da forze ostili a Parigi. Una su tutte: la Russia. Il Cremlino, a differenza dell’Eliseo, non sta a guardare. Interviene, non certo direttamente, ma attraverso la milizia di mercenari Wagner che, nonostante quello che possa affermare il governo di Bamako, sono già presenti nel paese. I maliani passerebbero dalla padella alla brace? Forse. Di sicuro hanno più “stima” dei russi che dei francesi. Il passato coloniale di Parigi è un macigno non rimosso. I russi, invece, hanno gioco facile visto che si presentano come un paese che non è stato una potenza coloniale e non ha nessuna intenzione di interferire nelle questioni politiche interne della nazione e vuole solo fare affari. I russi, poi, usano ad arte la propaganda sui social, estremamente efficace per manipolare le opinioni pubbliche a loro favore e non mettono gli scarponi direttamente sul terreno, ma facendo fare il lavoro sporco, appunto, ai mercenari della Wagner. L’espansione della propria presenza in Africa è uno degli intenti evidenti, usando l’arma che gli è più congeniale: armi, addestramento militare, lasciando l’intervento diretto ai mercenari; l’altro obiettivo è rappresentato dalla crescita della presenza russa nelle aziende minerarie, così da garantirsi l’approvvigionamento di materie prime strategiche. Quest’ultima è la vera moneta di scambio. Quindi, poco importa se devono trattare con governi legittimi o meno, purché si facciano affari.

Macron, dunque, sembra essere sotto scacco. Non può fare nulla, nuocerebbe alla sua campagna elettorale per le presidenziali, ma non può nemmeno permettersi di lasciare le cose così come stanno, il danno economico sarebbe maggiore rispetto ai benefici che potrebbe avere sulla sua opinione pubblica. Dunque, il Mali rimane una spina nel fianco e lo rimarrà anche dopo le presidenziali francesi, chiunque vinca. Poi c’è il Mali, inteso come golpisti, non certo la popolazione. Quest’ultima vorrebbe arrivare, e molto presto, a elezioni libere che restituiscano il potere ai civili. La giunta militare alla guida del paese no, nonostante le parole di circostanza. Anzi. Il governo fa affidamento sulla presenza dei paramilitari russi della Wagner per mantenersi al potere a qualunque costo, qualsiasi cosa accada, e alimentando la retorica antifrancese.

Ma tutta questa vicenda dimostra anche un’altra cosa: l’opzione militare non è l’unica via, anzi non è la strada da percorrere per la costruzione di uno stato solido capace di rispondere ai bisogni reali della popolazione: salute, educazione, lavoro. Un minimo di benessere oltre che di sicurezza.

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I francesi non se ne sono mai andati dal Sahel. Parte 1 – Il Ciad prima di Déby https://ogzero.org/il-sahel-e-in-ebollizione-i-francesi-non-se-ne-sono-mai-andati-dal-sahel-parte-1-il-ciad-prima-di-deby/ Mon, 03 May 2021 08:56:24 +0000 https://ogzero.org/?p=3299 Inauguriamo con questo intervento di Eric Salerno, e con il successivo di Angelo Ferrari, cui si aggiunge un podcast finale che raccoglie un’analisi di Luca Raineri, una serie di articoli imperniati sul Ciad e la sua importanza per la regione del Sahel.  Le strategie neocoloniali si sono adeguate subito all’emancipazione africana che nel 1960 portò […]

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Inauguriamo con questo intervento di Eric Salerno, e con il successivo di Angelo Ferrari, cui si aggiunge un podcast finale che raccoglie un’analisi di Luca Raineri, una serie di articoli imperniati sul Ciad e la sua importanza per la regione del Sahel. 

Le strategie neocoloniali si sono adeguate subito all’emancipazione africana che nel 1960 portò all’indipendenza di 17 nazioni, dopo il processo di decolonizzazione seguito alla Seconda guerra mondiale. A sessant’anni di distanza la reazione alle richieste di autodeterminazione rimangono invariate: repressione attraverso governi-fantoccio di leader militari addestrati in accademie, installati al potere con lo scopo di depredare le risorse del territorio; appoggio dei conflitti etnici, che spesso nascondono strutture economiche in competizione per le stesse risorse della terra. Il Sahel è in ebollizione e la morte improvvisa di Idriss Déby, il gendarme di Francia usato negli ultimi 30 anni da tutti gli inquilini dell’Eliseo per interventi militari in tutta l’area, crea ulteriori tensioni, ribellioni e istanze anticoloniali. 


Il cuore della Françafrique

Tessalit è adagiato su un pendio che dal Sahara algerino scivola dolcemente verso il cuore del Mali. Nel 1969 le poche casupole di fango impastato circondate dalle acacie in fiore (mimose che si difendono con spine capaci di forare pneumatici) ruotavano attorno alla vecchia caserma della Legione straniera francese. Il suo comandante, un giovane ufficiale, ci accolse con tè e biscotti, un giradischi impolverato, tanti 33 giri di musica classica e la realtà di un mondo in transizione. Mezzo secolo dopo, quel mondo è ancora alla ricerca della sua vera identità. È Storia o soltanto cronaca quella degli ultimi cinquanta anni che si ripete mentre la maggioranza degli osservatori si concentra sul presente e guarda nell’attesa del nuovo il futuro sempre incerto? La scienza ha fatto balzi incredibili. Il mondo si è aperto come mai nella storia dell’umanità era accaduto. E, purtroppo, sbagliamo se crediamo che vecchie abitudini possano sparire con la stessa velocità.

Tissalit 1969

Dall’emancipazione panafricanista dei padri dell’indipendentismo (1960)…

Quellufficiale era arrivato a bordo di un fuoristrada di fabbricazione sovietica ad accogliere i quattro viaggiatori italiani che attendevano davanti al suo ufficio che era anche il suo domicilio. Era tirato a lucido. Indossava una divisa appena stirata. Lui, il capitano, era responsabile del “governatorato” nel quale ci trovavamo. Il suo francese era perfetto. Aveva studiato a Bamako, la capitale. Poi il servizio militare e l’accademia militare di St. Cyr in Francia, il luogo in cui i colonialisti, un po’ snob, avevano forgiato gli uomini in divisa che avrebbero dovuto guidare l’Impero. Il Mali, però, aveva scelto una strada autonoma. Il suo leader, Modibo Keïta, come molti altri padri della nuova Africa indipendente, si era appoggiato a sinistra, prima all’Urss, infine alla Cina. Lui, il capitano, era appena tornato da Mosca, l’ultima tappa nel suo percorso ma, ci confidò, preferiva St.Cyr. Si parlò più dell’Europa che del Mali e l’indomani ci chiedemmo per quale motivo l’ufficiale era sembrato restio a discutere le vicende del proprio paese. Qualche settimana dopo il nostro rientro in Italia, viaggio di piacere non di lavoro, lo ritrovai fotografato su un’altra jeep mentre sfilava a Bamako, la capitale del Mali. Un colpo di stato militare, caldeggiato da Parigi, aveva cambiato le carte in tavola.

… alle controrivoluzioni fomentate nelle accademie militari neocoloniali (fine anni Sessanta)

Sono oltre trenta le nazioni africane che hanno avuto, o hanno ancora, leader usciti dai ranghi delle forze armate. St. Cyr, era l’accademia dei francofoni; Sandhurst quella per la formazione iniziale degli ufficiali dell’esercito britannico. Felix Malloum, presidente e primo ministro del Ciad dal 1975 al 1978, era un prodotto dell’accademia militare francese, il suo “vicino” a nord, Muammar el Gheddafi di quello britannico. Jean-Bedel Bokassa, uno dei peggiori dittatori nella storia del continente, imperatore della Repubblica centrafricana, a sud del Ciad, aveva alle spalle una lunga carriera militare con le forze armate francesi. E merita di essere ricordato il sottufficiale Idi Amin Dada, che grazie a Gran Bretagna e Israele rovesciò con un golpe il progressista Milton Obote. Amin e Bokassa, re e imperatore, vengono spacciati per espressioni di unAfrica senza cultura. Invece sonoFigli della vecchia Europa: il titolo su un mio articolo del dicembre 1976 che cito solo per sottolineare come il mondo allora era consapevole dei giochi delle vecchie potenze. Tanto che a Parigi due anni dopo, Germania, Belgio e Gran Bretagna – ex potenze coloniali –- e Stati Uniti fecero capire senza mezzi termini che non si fidavano della politica di Valéry Giscard d’Estaing, come se loro fossero espressione di un mondo migliore.

Il conflitto etnico: l’altra faccia del neocolonialismo

Il Sahel è in ebollizione

Goukouni Ouaddei, presidente del Ciad dal marzo all’aprile 1979 e dal settembre 1979 al giugno 1982 non ha mai indossato la divisa. Rappresentava, però, un’altra realtà fondamentale del continente africano: il conflitto etnico, risultato in gran parte della politica coloniale e dai confini decisi a tavolino in Europa.

La prima volta che lo incontrai fu in una camera buia di un albergo di Tripoli dove godeva della protezione del leader libico e si preparava a tornare in patria. Aveva appeso alla parete una cartina del suo paese e mi spiegò la complessità della situazione geopolitica.

Il Sahel è in ebollizione

Goukouni Ouaddei illustra mappe rappresentanti le spartizioni del Sahel nel 1981. Non cambia molto

La geografia di ieri è la stessa di oggi. La politica, in qualche modo, pure. L’avrei rivisto, quel “protetto” del leader libico, a N’djamena dove nel 1981, ero arrivato dalla capitale libica a bordo di un aereo su cui avevano preso posto una manciata di giornalisti e una delegazione del governo di Tripoli che andava a festeggiare, diciamo così, il ritiro delle forze armate libiche dalla capitale ciadiana devastata dalla guerra.

“Il Messaggero”, 12 aprile 1981

Resistenza del Tibesti contro le appropriazioni coloniali: dai Senoussi (1935) ai Toubou (1973)

Per cercare di comprendere il passato, il presente e probabilmente il futuro, è fondamentale quella cartina appesa da Ouaddei alla parete della sua camera d’albergo. Lui, come mi raccontò allora, era figlio di Ouaddei Kichidemi, derde, ossia la maggiore autorità religiosa e politica dei Toubou del Tibesti, la vasta, impervia catena montagnosa che cavalca il confine tra Ciad e Libia. Là nacque l’ordine religioso dei Senoussi, la stessa che guidò la rivolta della Cirenaica contro il colonialismo italiano e che soffrì maggiormente per la violenza della repressione – genocidio – ordinata da Mussolini e perpetrata dal generale Graziani, criminale di guerra italiano.


Lo sceicco sulla forca

Si calcola che all’incirca ottantamila libici siano costretti a lasciare i loro villaggi per arrivare dopo una lunga peregrinazione, scortati dall’esercito, nei baraccamenti costruiti in pieno deserto, cinti di filo spinato e vigilati da postazioni armate. Le condizioni igieniche nei campi sono terribili, inoltre scarseggiano l’acqua e il cibo, tutto questo determina fra i deportati un altissimo tasso di mortalità. Alcune altre decine di migliaia di libici riescono a sottrarsi alla deportazione e si rifugiano in Egitto. La crudele strategia di Graziani funziona a meraviglia, alla fine della campagna “pacificatrice” la popolazione della Cirenaica si sarà ridotta di oltre un quarto.

Troncato con le reclusioni nei campi il nesso vitale fra i guerriglieri e la loro gente, Graziani può condurre la sua feroce offensiva. I reparti italiani e coloniali possono finalmente scorrazzare lungo le piste del deserto, sorvolate e sorvegliate, mitragliate e bombardate dall’aeronautica. Le oasi della resistenza vengono occupate l’una dopo l’altra. Eppure la resistenza rimane agguerrita e determinata. Di fronte allo spietato generale italiano si erge una figura destinata a entrare nella leggenda, quella di Omar al-Mukhtar, uno sceicco aderente alla confraternita senussita che comanda l’insurrezione armata in Cirenaica e si ritaglierà nella storia libica il ruolo di eroe nazionale.

Ma la sua determinazione non basta, le bande di al-Mukhtar possono ben poco contro un nemico che alla moderna organizzazione militare associa una brutalità medievale, un nemico che incendia i villaggi, avvelena i pozzi, sequestra i beni dei capi senussiti, bombarda l’oasi di Cufra, nido dei ribelli, ricorrendo addirittura a quegli stessi aggressivi chimici che pochi anni prima, sottoscrivendo un solenne patto internazionale, l’Italia si è impegnata a mettere al bando. Per impedire i contatti della guerriglia con il santuario egiziano, dove si rifugiano i ribelli e da dove arrivano aiuti e rifornimenti, viene costruita lungo la frontiera, nel deserto fra il mare e l’oasi di Giarabub, una barriera di filo spinato lunga 270 chilometri.

[Alfredo Venturi, Il casco di sughero, p. 80, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020]

 

Nel 1935, come al solito, i padroni di allora – Italia e Francia – giocarono una piccola partita a Monopoli con la terra degli altri. Con un trattato che prese nome dai suoi firmatari, Mussolini e Laval, la Francia cedette all’Italia un pezzo della terra dei Toubou come premio per la partecipazione di Roma alla Prima guerra mondiale e, ancora più importante, alla rinuncia italiana a rivendicare come propria la colonia francese della Tunisia abitata da molti italiani. Nel 1955 re Idriss I “restituì” il territorio (114.000 kmq) alla Francia. Nel 1973, la Libia di Gheddafi pensando ai giacimenti di uranio e altri minerali rari nella striscia invase quel territorio e citando laccordo Mussolini-Laval, lo annesse nel 1976. Curiosamente tutte le fazioni ciadiane, per contestare le pretese libico, citarono il più vecchio accordo (1899) tra Francia e Regno Unito.

Il Sahel è in ebollizione

Fazioni ciadiane in Guerra per l’uranio delle potenze occidentali (1975)

E qui dobbiamo ritornare, appunto, alle fazioni ciadiane, alla decolonizzazione, alle rivendicazioni tribali e regionali, alle alleanze interne ed esterne. E al bottino. Goukouni Ouaddei entrò nel mondo politico come militante del Fronte nazionale di liberazione del Ciad (Frolinat) che rappresentava le istanze delle popolazioni delle zone centrali e nordiche contro la dominazione dei sudisti rappresentati dal presidente Francois Tombalbaye, considerato uno strumento dellegemonia politica di Parigi nel paese. Il suo assassinio nel corso di un golpe militare nel 1975 aprì ufficialmente, si potrebbe dire, la guerra per le risorse – ingenti depositi di petrolio e uranio – che avrebbero dovuto trasformare radicalmente l’economia del paese e le condizioni della sua popolazione.

Il Sahel è in ebollizione

Eric Salerno, L’intervento libico in Ciad, “Il Messaggero”, 16 gennaio 1981

Da allora gli attori esterni hanno dominato la scena in una competizione che ha visto anni di guerra civile e gli interventi diretti della Libia di Gheddafi e della Francia spesso a sostegno alternato dei medesimi attori interni.

Teatrino di fantocci incrociati (primi anni Ottanta)

Così nell’aprile 1981 ritrovai Goukouni Ouaddei in una N’Djamena devastata dalla guerra civile dove era tornato a riprendere il potere grazie all’apparato militare libico che aveva invaso il paese. L’altalena delle alleanze incrociate e degli interventi armati per “stabilizzare il Ciad”, come spiegarono Parigi e i suoi alleati occidentali e non solo, non si è mai fermata da allora.

Il Sahel è in ebollizione

“Il Messaggero”, 16 aprile 1981

 

Nel giugno 1982 senza le truppe libiche a sostegno, Ouaddei fu costretto (da vecchi alleati come Hissene Habrè, l’uomo su cui per un certo periodo la Francia aveva puntato) a tornare al suo albergo tripolino e ripresero i giochi. Nel 1984, per 48 ore, ci fu una nuova sceneggiata nella capitale libica. Gheddafi e un inviato speciale di Mitterand si misero alla ricerca di un “terzo uomo” da sostituire ai due vecchi attori. La cronaca di quegli anni è solo storia di scontri armati, follie politiche e diplomatiche e di una popolazione divisa dalle radici tribali, religiose ed economiche (pastori contro agricoltori) a cui non viene consentito di trovare una via pacifica verso il futuro.

Il Sahel è in ebollizione

Un paese poverissimo, gendarme francese: la caserma Ciad

Il Ciad oggi è ancora uno dei paesi più poveri del mondo. Il 42 percento della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e secondo l’International Crisis Group, tra il 30 e il 40 per cento del bilancio annuale del paese viene destinato, guarda caso, alle spese militari. In questi giorni, dopo la morte di Idriss Déby Into, il cui ruolo di presidente è stato, per proclama dei militari, ereditato dal figlio, c’è un tentativo di mediazione da parte degli altri quattro paesi del Sahel (Mauritania, Burkina Faso, Mali e Niger) per trovare un punto d’incontro tra le tre correnti politico-militari su un possibile governo di unità nazionale. Un compito oggi probabilmente più difficile e complesso di ieri. Quella fascia del continente africano, come altre più a sud, è presa tra vari conflitti incrociati dove mai come prima l’Islam viene usato come arma di conquista e distruzione e nuovi attori, come la Cina e soprattutto la Turchia, guadagnano nuovi spazi e alleanze economiche e politiche.

 

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n. 2 – Mali e Niger: conflitti e instabilità nel Sahel https://ogzero.org/n-2-mali-e-niger-conflitti-e-instabilita-nel-sahel/ Sun, 11 Apr 2021 08:22:10 +0000 https://ogzero.org/?p=2912 Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere […]

L'articolo n. 2 – Mali e Niger: conflitti e instabilità nel Sahel proviene da OGzero.

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Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui il secondo contributo, focalizzato sulla regione del Sahel.


n. 2

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Sahel: estrema povertà, crescita demografica e marginalità delle comunità periferiche

Secondo l’interpretazione dell’Unione Europea a far parte di quest’area sono i cosiddetti paesi del G5, ossia Mali, Mauritania, Burkina Faso, Ciad e Niger. Nell’area è presente un forte attivismo dei gruppi armati jihadisti in particolare nei territori del Mali, Niger e Mauritania, favoriti anche dai confini estremamente porosi tra i tre paesi. Ad ogni modo tutti gli stati appartenenti all’area del Sahel sono oggi interessati da traffici illeciti di armi, droga e di uomini nonché da massicci fenomeni migratori che spingono l’Europa a esternalizzare nella regione le sue frontiere, come vedremo in seguito. I paesi del Sahel infatti si trovano in una condizione di instabilità dalla caduta del regime di Gheddafi in Libia. Già nel 2014 emergeva la drammatica condizione del Sahel: estrema povertà dell’area, forte crescita demografica e marginalità delle comunità periferiche. Questi fenomeni sono stati acuiti proprio dalla caduta di Gheddafi, dalle Primavere Arabe determinate nel Nord del continente africano, e dalla diffusione degli estremisti di matrice fondamentalista.

Le missioni Onu

Soprattutto in ragione della presenza di gruppi terroristi nei territori del Sahel è dovuto l’intervento di forze internazionali ed europee nell’area con la missione Onu Minusma, missione di pace nella regione del Mali, e rispettivamente con le missioni europee: Eucap in Niger per fornire assistenza alle forze di sicurezza interne al paese e per un maggiore coordinamento con altri paesi del Sahel, in particolare con Mali e Mauritania, Eucap in Mali con lo scopo di difendere la democrazia già flebile per ristabilire l’autorità di uno stato in un territorio dove le forze jihadiste sembrano inarrestabili. Infine, si segnalano l’Eutm, ossia la missione europea per fornire assistenza e mentoring alle forze armate maliane, e la Racc missione europea per consentire in Mauritania e in Ciad una maggiore e più stabile presenza europea.

Missione Minusma in Mali (foto del Ministero della Difesa dei Paesi Bassi)

Il mese di marzo è stato interessato da diversi scontri tra le ramificazioni di al-Qaeda e l’Isis nel Sahel, nella regione delle tre frontiere tra Burkina Faso, Mali e Niger. Il conflitto si è verificato da ultimo tra il gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani ossia lo Jnim affiliato ad al-Qaeda e l’Isgs ossia lo Stato Islamico nel grande Sahara. Secondo l’istituto per gli studi di politica internazionale tale conflitto può essere legittimamente qualificato come uno dei più cruenti al mondo.

Conflitti e instabilità nel Sahel

Video propagandistico rilasciato dalle milizie Jnim (foto Menastream)

Jnim e Isgs condividono origini comuni nella rete di al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi). Tra i due gruppi infatti vi erano legami personali e di lungo periodo basati anche su azioni coordinate per affrontare nemici che allora erano comuni, contraddistinti dalla mancanza assoluta di lotte intestine jihadiste tra loro.

Tuttavia, negli ultimi anni si sono strutturati in maniera diversa: l’Isgs si è fondato nel 2015 dopo essersi separato da al-Mourabiton, movimento affiliato ad al-Qaeda. Tuttavia, il suo rapporto con al-Qaeda non è mai terminato e anzi, ancora oggi, si riscontrano tra loro accordi, collusioni e relazioni di coesistenza nel territorio.  Lo Jnim, fondato invece nel 2017, ha riunito diversi gruppi jihadisti disparati in diverse aree, tra cui proprio il gruppo al-Mourabiton e il gruppo jihadista burkinabè Ansarul Islam.

L’Isgs, gruppo piccolo e oscuro, dotato di una rudimentale infrastruttura multimediale ha saputo sfruttare l’assenza dello stato nelle comunità remote, intercettando le sensazioni di abbandono della popolazione civile e gli interessi delle comunità pastorali presenti nell’area, al contempo non ha dimostrato alcuna reticenza a incorporare anche unità dello Jnim, indebolite o marginalizzate. Lo Jnim nello stesso periodo ha preferito maggiormente rafforzare il suo processo d’integrazione nell’Isis. Nel 2019 con un’azione simultanea le due forze jihadiste hanno preso possesso della regione al confine dei tre stati costringendo al ritiro gli eserciti locali. Oggi l’Isgs sfida apertamente lo Jnim vantandosi delle sue vittorie su questo. Lo Jnim scredita apertamente l’Isgs per le vittime civili a causa dei suoi militanti.  A questa situazione si aggiunge la pressione delle forze militari contro il terrorismo, guidate dalla Francia nella missione Barkhane. È necessario quindi interrogarsi come sia nata tale missione e a che punto si trovi oggi rispetto ai fini precostituiti in passato e che legittimano la sua esistenza nella regione del Sahel.

I francesi nel Sahel: i movimenti in Azawad

La Francia era stata già presente militarmente nell’area del Sahel con la missione Serval. Il presidente Hollande nel 2013 è intervenuto con tale operazione in esito ad alcuni accadimenti di particolare rilievo che avevano interessato il Mali. Dopo la caduta di Gheddafi, infatti, la maggiore instabilità del Sahel si era riscontrata nei territori sahariani del Nord del Mali, nella regione dell’Azawad, che dopo l’indipendenza dalla Francia nel 1960, sono passati a Bamako.

La caduta del regime dittatoriale libico infatti ha provocato la formazione di movimenti filoindipendentisti tuareg nei quali militavano non solo cittadini maliani, ma anche altri cittadini africani con un background militare non indifferente. Alcuni di loro provenivano proprio dalle fila militari lealiste di Gheddafi. Tali militanti insieme hanno fondato l’Mnla, ossia il Movimento di Liberazione dell’Azawad. Questo fenomeno e la concomitante condizione di malcontento nelle caserme militari e l’incapacità delle forze militari maliane di fermare gli stessi movimenti filo-indipendentisti, nonché l’appoggio fornito ai tuareg da parte di al-Qaeda, hanno contribuito in modo fondamentale alla determinazione del colpo di stato nel dicembre 2012 in Mali. Il colpo di stato è stato infatti condotto dai tuareg e dai gruppi estremisti islamici. Tuttavia, dopo il colpo di stato, i gruppi estremisti hanno sempre più limitato la presenza dei tuareg negli interventi militari e hanno portato il conflitto sempre più a sud del paese fino ad arrivare a Konna, località non lontana dalla capitale Bamako. A questo punto il governo maliano ha chiesto aiuto e supporto a Parigi e alle forze militari francesi, in accordo con la comunità economica degli stati dell’Africa occidentale.

Dall’operazione Serval a Barkhane

L’operazione Serval, quindi, prima attraverso dei bombardamenti aerei, poi con dei gruppi militari di terra, costringendo i ribelli a fuggire nuovamente a Nord, ha consentito che Bamako riacquisisse il controllo di quasi tutto il territorio del Mali. In seguito a tale operazione, nel 2014, i francesi con l’operazione Barkhane, sono intervenuti nuovamente a livello militare in Africa, non solo in Mali, ma anche in tutta la regione del Sahel comprendente i cinque stati sopracitati. L’operazione Serval, quindi, è stata ristrutturata e rinominata.

I colpi di stato

In ogni caso questa volta, nonostante la presenza militare della Francia, ad agosto del 2020, si è verificato un nuovo colpo di stato simile a quello del 2012. Infatti, vi è stato l’ammutinamento della base militare a Katim e il presidente Ibrahim Boubacar Keita è stato rimosso. Ritorna l’elemento comune al colpo di stato del 2012 del malcontento delle Forze armate del Mali rispetto al governo centrale.  Ad agosto del 2020 Amnesty International con un comunicato si è detta estremamente preoccupata per l’arresto dell’ormai ex presidente del Mali, Ibrahim Boubacar Keita, dell’ex primo ministro Boubou Cissé e di altri esponenti del deposto governo a opera del Comitato nazionale per la Salvezza del Popolo, autore del colpo di stato del 18 agosto 2020. L’organizzazione ha chiesto alla giunta militare che ha assunto il potere di liberare tutte le persone arrestate – tranne quelle per cui possono provare che siano state autrici di crimini riconosciuti dal diritto internazionale – e di impegnarsi a rispettare i diritti umani. Amnesty International ha espresso preoccupazione anche per la notizia riguardante la morte di 4 persone e il ferimento di 15 colpite da armi da fuoco in circostanze ancora poco chiare. Il colpo di stato si è verificato, come specifica l’organizzazione umanitaria, in un contesto di forte crisi politica, nata in seguito alla proclamazione dei risultati delle elezioni legislative dell’aprile del 2020 e acuitasi durante le proteste di massa, promosse e dirette, dal mese di giugno, dal Movimento 5 giugno Fronte patriottico di resistenza. Il 10 luglio scorso le proteste, infatti, ricorda Amnesty erano state soppresse dalle forze di sicurezza con estrema brutalità. Alla fine della giornata i morti erano stati almeno 14 e i feriti 300. La crisi istituzionale, infatti, è stata esacerbata dalla questione Covid, che ha provocato numerosi scioperi e un peggioramento del sistema educativo. Per tali motivi il presidente ha deciso il rinvio delle elezioni legislative in Mali e, in seguito, i giudici della Corte Costituzionale in Mali hanno accolto il ricorso dell’ex presidente Boubacar Keita assegnandogli 8 seggi in più rispetto a quanti ne risultavano dall’esito delle votazioni. Questo è stato uno degli elementi che ha portato al colpo di stato questa estate.

Milizie e gruppi terroristici

In tutta l’area del Sahel, ad ogni modo, si rileva la presenza costante di gruppi terroristi ed è per questo che molte forze internazionali ed europee hanno deciso di intervenire negli ultimi anni nella regione. Tra tali gruppi terroristici, tuttavia, ci sono state molte tensioni negli ultimi anni come tra al-Qaeda e Stato Islamico nel Sahel, per cui oggi, con riferimento alla regione, si parla di “terrorismo non unitario”. Tuttavia, vi sono anche moltissimi gruppi armati non terroristici (groupes armés non identifiès) che sono da considerarsi comunque pericolosi come quelli terroristici e così anche le forze armate maliane autrici di molteplici abusi che rappresentano un terzo delle violenze perpetrate nell’area. È bene, tuttavia, soffermarsi sui gruppi non terroristici presenti nell’area. La proliferazione di gruppi non statali armati nel Sahel ha determinato violenza e insicurezza nella regione; tali gruppi, come visto, oltre a quelli estremisti violenti, sono gruppi armati politicamente motivati, le milizie di autodifesa, i gruppi di sicurezza locali. L’aumento di tutti i gruppi armati presenti nella regione riflette in ogni caso l’incapacità degli stati del Sahel di esercitare il monopolio della forza in modo da proteggere efficacemente i loro cittadini e preservare l’integrità del territorio. Gli attori non statali infatti operano in modo scioccante in spazi in cui la presenza dello stato è debole o contestata, come per esempio le aree rurali e di confine, così come le aree maggiormente periferiche. Il Niger – nonostante una politica che afferma “tolleranza zero” verso le milizie locali e i gruppi di autodifesa – non è stato risparmiato dai gruppi estremistici violenti che stanno guadagnando sempre più terreno nel territorio nigerino. In Mali, invece, le regioni di Mopti e di Segon, interessate da conflitti secolari, da una limitata presenza delle forze di sicurezza dello stato e da un facile accesso alle armi, hanno condotto alla creazione di gruppi locali di autodifesa su base comunitaria e di milizie locali.

Ascolta “Le frontiere liquide del Sahel” su Spreaker.

I gruppi armati non violenti ed estremisti, ma politicamente motivati, invece in Mali sono stati ritenuti ufficialmente partner legittimi per lo stato con cui lavorare, come è avvenuto con gli accordi di pace e di riconciliazione del 2015.

Barkhane: una missione controversa

In questo scenario è importante capire quali siano dunque le prospettive per l’operazione Barkhane nel Sahel. Macron, infatti, ha ribadito l’impegno della Francia nell’area del Sahel con la missione, senza una diminuzione delle forze armate militari impiegate nell’area. L’obiettivo principale di Macron è quello di annientare militarmente i principali gruppi terroristi jihadisti che hanno fatto del Sahel la propria roccaforte. Barkhane è la più ingente missione europea su suolo africano e fornisce training, mentoring, supporto logistico ed intelligence alle forze armate e all’intelligence dei paesi del G5, in un’ottica di cooperazione governativa della politica di sicurezza contro il terrorismo. Tale ultima dichiarazione del presidente francese ha destato non poco stupore in ambito internazionale poiché Macron aveva precedentemente comunicato la volontà di ritirare circa 600 uomini facenti parte dell’unità di supporto in Burkhinabé, facendo trapelare l’intento di rimodulazione dell’intervento del contingente, in linea con parte dell’opinione pubblica francese che ha assunto opinioni critiche sulla missione.

Takouba: quando Barkhane non basta

Infatti, la Francia nella missione ha visto il verificarsi di molteplici incidenti e 55 vittime tra i militari francesi nonostante con Barkhane si siano riportati dei “successi” come l’uccisione di Abdelmalek Proukdel, il leader di al-Qaeda nel Maghreb islamico. La missione viene criticata perché concepita solo sotto il profilo militare e diversa dagli approcci degli stati G5 e delle Nazioni Unite che concepiscono come strumento utile per lo state-building, la riduzione dei conflitti e la capacità di negoziare con i principali gruppi insorgenti nell’area in quanto darebbe a Parigi la possibilità di strutturarsi come presenza di medio-lungo periodo nella regione del Sahel.

Conflitti e instabilità nel Sahel

Operazioni della Missione Takouba

Su queste basi infatti sembrerebbe nata l’idea della missione francese Takouba, ossia una missione che implicherebbe il coinvolgimento di altri paesi in sostegno alla propria attività militare nel Sahel alla quale hanno già aderito, a livello intenzionale, Belgio, Danimarca, Italia, Estonia, Olanda e Repubblica Ceca. Tuttavia, la missione Takouba sembra fondarsi più su un approccio massimalista che riflessivo, ossia poiché Barkhane non sta funzionando come previsto, occorre aggiungere altro supporto militare e quindi chiedere ad altri paesi europei di partecipare alla propria missione militare con forze congiunte.

Al proposito Antonio Mazzeo può approfondire l’aspetto relativo all’impegno militare, estendendo il discorso a strategie neocolonialiste

Ascolta “Missioni coloniali in Sahel: tassello della guerra globale e della spartizione del mercato africano” su Spreaker.

Le armi come aiuti umanitari

I conflitti armati nel Sahel hanno coinciso con un aumento di importazione delle armi da parte dei paesi G5, in particolare Mali e Burkina Faso. Alcuni di questi trasferimenti sono stati finanziati dall’Unione Europea o sono stati consegnati come aiuti umanitari da parte della Francia, del Qatar o degli Emirati Arabi Uniti. Secondo il Sipri, infatti, diverse grandi potenze stanno usando le forniture di armi come uno strumento di politica estera per aumentare l’influenza nell’area.

Inoltre, in Niger si è registrata negli ultimi giorni una recrudescenza dei conflitti che desta grande preoccupazione a livello internazionale. Il 15 marzo 2021 sono rimaste uccise 58 persone e si registrano molti feriti in seguito all’attacco sferrato contro gli abitanti dei villaggi che facevano ritorno dal mercato settimanale di Banibangou, nella regione di Tilabèri, in prossimità del confine con il Mali.

Insicurezza interna

Gli autori di questa strage anche in questa circostanza sono ritenuti “gruppi armati non identificati”; il medesimo giorno i gruppi hanno attaccato anche il villaggio di Darey Dey nel quale sono rimasti uccisi tutti gli abitanti e si sono verificati episodi di saccheggio, devastazioni e incendi. Lo scopo di tali attacchi è quello di costringere la popolazione locale, attraverso atti violenti e vandalici, a lasciare i territori di appartenenza. La sessa zona di Tilabèri, tra l’altro, era stata interessata a gennaio del 2020, da un’uccisione di massa rivendicata, in questo caso, dallo Stato Islamico nel Grande Sahara.

Ancora, il 21 marzo 2021 sono stati uccisi 40 civili nei villaggi di Intazayene, Bakorat, e AkiFakit nel distretto di Tillia, nella regione di Tahoua, sempre in prossimità del confine con il Mali. La regione stessa ospita diversi rifugiati maliani. In questa zona di confine normalmente operano diversi gruppi terroristi, in particolare lo Stato Islamico nel Grande Sahara. Anche la responsabilità di questo ulteriore drammatico evento viene attribuita a “non meglio identificati individui armati”.  In realtà, a causa dell’attacco nel distretto di Tillia, di domenica 21 marzo, è salito a 137 il bilancio delle vittime.

Tra dicembre 2020 e marzo 2021, mentre in Niger erano in corso le elezioni, infatti, sono state uccise complessivamente circa 262 persone, tutte civili, la maggior parte proprio da gruppi armati non identificati. La questione si incardina proprio nell’impossibilità di comprendere il fenomeno alla base di tali attacchi poiché quasi nessuno di essi è stato rivendicato. La tesi prevalente è quella, al momento, che tali gruppi armati non identificati vogliano operare, attraverso le proprie attività criminali, una sorta di pulizia etnica.

In questo momento storico dunque il Niger si trova ad affrontare, oltre agli atti di natura terroristica anche gli scontri politici determinati dagli esiti delle votazioni elettorali del 21 febbraio del 2021 che hanno decretato la vittoria ufficiale di Mahamane Bazoum, contestata fortemente dall’altro candidato, Mahamane Ousmane che ha denunciato brogli e ha promesso forti proteste nel paese. Per Bazoum, quindi, che assumerà la carica il prossimo, 2 aprile 2021, la questione securitaria è certamente la prima da affrontare.

Fonti:

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Costa d’Avorio: partita a scacchi con quarto incomodo https://ogzero.org/costa_davorio_partita_a_scacchi_con_quarto_incomodo/ Fri, 09 Oct 2020 15:33:58 +0000 http://ogzero.org/?p=1451 Manca poco meno di un mese al primo turno delle presidenziali in Costa d’Avorio e i giochi rimangono più che mai aperti. Non solo e non tanto perché un favorito c’è e non c’è. Le candidature sono state depositate. Alassane Ouattara, presidente uscente, si ricandida per un terzo mandato, con non poche polemiche e contestazioni […]

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Manca poco meno di un mese al primo turno delle presidenziali in Costa d’Avorio e i giochi rimangono più che mai aperti. Non solo e non tanto perché un favorito c’è e non c’è. Le candidature sono state depositate. Alassane Ouattara, presidente uscente, si ricandida per un terzo mandato, con non poche polemiche e contestazioni che sono sfociate in violenza con morti, feriti e arresti. Non proprio il clima ideale per affrontare la campagna elettorale.

A sfidare il 78enne Ouattara ci saranno i suoi rivali storici Henri Konan Bédié, 86 anni, e Laurent Gbagbo, 75 anni, candidato dai suoi supporter senza una sua dichiarazione in tal senso. Tutte e tre ex presidenti che rappresentano la gerontocrazia del paese.

E il cambio generazionale?

Lo sperato e inizialmente voluto cambio generazionale non c’è stato. Sullo sfondo, tuttavia, rimane la candidatura di Guillaume Soro – 48 anni – anch’essa, come quella di Gbagbo, presentata in contumacia, visto che vive in Francia per sfuggire a una condanna a 20 anni di carcere comminata da un tribunale ivoriano. Ma le cose potrebbero cambiare. L’ex potenza coloniale, la Francia, è molto preoccupata per il clima di tensione nel paese, che non accenna a diminuire, anzi sta crescendo facendo aleggiare i fantasmi del 2010, quando la crisi postpresidenziali, sfociò in una guerra civile con oltre 3000 morti e una nazione allo stremo. La Costa d’Avorio, negli ultimi dieci anni, è stata relativamente stabile ed è cresciuta costantemente negli anni, salvo la frenata di quest’anno dovuta al coronavirus. Abidjan, inoltre, ha rappresentato un punto stabile al confine di una regione estremamente turbolenta, il Sahel, che non trova pace per l’imperversare delle forze jihadiste dove la Francia, appunto, è impegnata nel contrasto al terrorismo con 5000 uomini, ma che, nonostante la potenza di fuoco, non riesce a venirne a capo.

La Francia occupata su più fronti non vuol perdere la Costa d’Avorio

Il colpo di stato in Mali, ha aggravato ulteriormente lo scenario regionale. Tuttavia, proprio durante le cerimonie per il sessantesimo anniversario dell’indipendenza del paese, il colonnello Assimi Goita, capo della giunta al potere in Mali, ha chiesto ai suoi concittadini di sostenere le forze alleate straniere presenti in Mali, citando in particolare la forza francese Barkhane, le forze di pace Minusma (Onu) e quella europea Tabouka. La presenza in Mali, da sette anni, dei soldati francesi e della missione Onu è stata però oggetto di contestazioni da parte dell’opinione pubblica. È del tutto evidente che per la Francia perdere una base solida e stabile come la Costa d’Avorio sarebbe una sciagura. Paese oltretutto già toccato dal terrorismo e i cui confini con Mali e Burkina Faso sono permeabili al jihadismo.

L’incontro privato parigino

Molti osservatori, proprio per questo, attendevano i risultati della visita di Ouattara a Parigi, visita privata, compreso un incontro con Emmanuelle Macron, che si è rivelato una bomba. Secondo le indiscrezioni riportate da “Jeune Afrique”, il presidente francese – preoccupato per le tensioni socio-politiche provocate dal terzo mandato del presidente ivoriano – durante una colazione di lavoro, il 4 settembre, avrebbe chiesto a Ouattara di “rimandare le elezioni”, ritirare la sua candidatura, così da permettere anche il ritiro di quelle di Bédié e di Gbagbo. Secondo Macron questo scenario potrebbe facilitare l’apertura di un dialogo con i principali oppositori del presidente ivoriano e trovare un successore condiviso per arrivare a “un cambiamento generazionale”, inizialmente promesso. Ouattara, sempre secondo le indiscrezioni di “Jeune Afrique”, avrebbe rifiutato.

Di certo l’intervento di Macron è un’esplicita e diretta – non gradita da molti – interferenza negli affari interni di un paese sovrano. Se la notizia fosse vera – e non c’è da dubitarne vista l’autorevolezza di “Jeune Afrique” – rivoluzionerebbe lo scenario politico ivoriano. Il rifiuto di Ouattara alla proposta di Macron potrebbe essere letto come un volere “prendere tempo” e verificare le intenzioni di Bédié e di Gbagbo, proprio perché non vuole rimanere con il cerino in mano. Oppure in una risposta di facciata più funzionale alla sua immagine interna. E, poi, c’è l’attivismo di Soro, molto popolare sui social in patria e anche in Francia, dove concentra la sua campagna contro la condanna in contumacia in patria, senza la presenza dei suoi avvocati. Da lui ritenuta una condanna politica.

Il pericolo della deriva etnica

E, poi, a distanza di poco più di un mese, arrivano le dichiarazioni del presidente del Fronte popolare ivoriano (Fpi, all’opposizione), Pascal Affi N’Guessan, che ha chiesto il rinvio di tre mesi delle elezioni presidenziali o l’avvio di una fase di transizione di almeno 12 mesi. La richiesta sarebbe stata avanzata in occasione di un incontro con una missione congiunta della Communauté économique des états de l’Afrique de l’Ouest (Cedeao), dell’Union africaine e delle Nazioni Unite. Insomma qualcosa, su questo fronte si muove. Bédié, invece, a tal proposito, non ha detto nulla. L’iniziativa della diplomazia francese, evidentemente, è stata a tutto campo e ha coinvolto, con molta probabilità, tutte le parti coinvolte nell’intricato puzzle ivoriano. La notizia, inoltre, rivela la forte preoccupazione del presidente francese su una possibile degenerazione del clima socio-politico del paese. In particolare la deriva etnica che potrebbe diventare predominante nella campagna elettorale.

Un dibattito in punta di diritto

L’opposizione punta il dito contro il presidente uscente invocando la Costituzione del paese che prevede solo due mandati presidenziali. L’opposizione si aggrappa a questo, ed è comprensibile. Dal canto suo Ouattara e la maggioranza di governo, sostengono che un terzo mandato sia possibile proprio perché la nuova Costituzione del 2016 ha rinnovato l’intera architettura istituzionale del paese e non può quindi essere considerata in continuità con la precedente. La candidatura di Ouattara, sostengono, è legittima; addirittura potrebbe candidarsi per un quarto mandato. Tutti si augurano che la vicenda si risolva in punta di diritto, anche se sembra molto difficile che accada. La confusione politica nel paese è alta, non solo nel partito di maggioranza, ma anche tra i ranghi dell’opposizione. Fragilità istituzionale e politica che si evidenziano guardando, semplicemente, all’età dei candidati forti alla presidenza: Ouattara, 78 anni; Henri Konan Bédié, 86 anni, anch’egli ex presidente e Gbagbo, 75 anni.

Alleanze e strategie incrociate

Il presidente uscente, nel marzo scorso, aveva annunciato la volontà di non ricandidarsi per lasciare «spazio alle nuove generazioni» e successivamente aveva designato il suo primo ministro, Amadou Gon Coulibaly (61 anni), come successore e candidato alle presidenziali. La malattia e la morte del premier, l’8 luglio, hanno rimescolato le carte, gettando nel caos il Rassemblement des Houphouëtistes pour la democratie et la paix (Rhdp), partito di governo. L’unica scelta possibile, a quel punto, era riproporre la candidatura di Ouattara, l’unico in grado di ricompattare il partito, anche dopo la defezione dell’ex ministro degli Esteri, Marcel Amon-Tanoh, ex braccio destro del presidente, che ha deciso di candidarsi e di fondare un suo partito.

La sfida elettorale si giocherà, comunque, tra Ouattara e il suo rivale Henri Konan Bédié, presidente del Parti Démocratique de la Côte d’Ivoire (Pdci), all’opposizione, che ha promesso di istituire “un governo di salute pubblica, aperto a tutte le principali sensibilità politiche” del paese, se verrà eletto alle presidenziali del 31 ottobre. Bédié ha anche definito “illegale” una candidatura di Ouattara per un terzo mandato. Bédié chiede, inoltre, il ritorno nel paese dell’ex presidente Laurent Gbagbo, con il quale ha annunciato di aver raggiunto un accordo per una possibile alleanza elettorale al secondo turno: un’alleanza tra ex presidenti, a cui si unirebbe anche Guillaume Soro – nonostante la condanna a 20 anni non ha rinunciato alla candidatura alle presidenziali, anche se è costretto a vivere all’estero per evitare il carcere – che si è detto d’accordo a fare fronte comune in un eventuale ballottaggio contro Ouattara, per scongiurarne la vittoria.

Cherchez la femme: Simone Gbagbo

Ad accendere la miccia delle proteste, tuttavia, è stata l’ex first lady ivoriana, Simone Gbagbo, rompendo il suo tradizionale silenzio e definendo la candidatura di Ouattara “irricevibile”, sostenendo che un capo di stato «non può dire una cosa e smentirsi immediatamente dopo. Soprattutto di fronte alla nazione. Il rispetto per la propria parola deve essere più che mai osservato in politica». Le proteste, infatti, sono scoppiate proprio a Bonoua, cittadina d’origine dell’ex first lady. Una manifestazione di protesta, che si è tenuta nonostante il divieto imposto dalle autorità, è sfociata in violenze dopo l’intervento delle forze dell’ordine e l’uccisione di un giovane, sembra morto in seguito agli spari della polizia. Il commissariato è stato incendiato, mentre alcuni dimostranti si sono rivoltati contro gli agenti e contro lo stesso commissario. Anche nella capitale economica Abidjan alcuni sostenitori dell’opposizione hanno sfidato il divieto di manifestare. La tensione è cresciuta pure a Daoukro, caposaldo di Bédié. Anche ad Abidjan hanno cominciato a circolare giovani armati di mazze e machete che parrebbero in combutta con la polizia, in particolare nel quartiere di Yopougon.

Simone Gbagbo, inoltre, ha chiesto al presidente Ouattara di riconsiderare la condanna a 20 anni di carcere del marito come gesto di “riappacificazione nazionale”, chiedendo «al capo dello stato di approvare una legge sull’amnistia per rendere nuovamente eleggibile il signor Laurent Gbagbo. Lo invito a rilasciargli un passaporto diplomatico. È una questione di diritto. E lo invito a liberare tutti i prigionieri della crisi postelettorale e a facilitare il ritorno di migliaia di esiliati». Tuttavia, non è ancora chiaro se Gbagbo, che risiede in Belgio, accetterà la richiesta del proprio partito, il Front populaire ivoirien, di tornare in patria dopo essere stato assolto dall’accusa di crimini di guerra dalla Corte penale internazionale lo scorso anno.

Bonoua, inoltre, è sempre stato teatro di proteste. C’è solo da sperare che sia un episodio sporadico e non l’inizio di proteste più diffuse.

Niente colpi di mano…

I fantasmi del passato, infatti, continuano ad aleggiare sulla Costa d’Avorio. Il paese ricorda ancora la crisi del 2010 quando si scatenò una vera e propria guerra civile, ci furono più di 3000 morti. Sono molti gli analisti che non credono che si possa ripresentare uno scenario come quello del 2010, di sicuro ci sarà un inasprimento del clima politico – come già sta avvenendo.

Non ci sono avversari che possano approfittare della fragilità istituzionale e politica per mettere in atto un colpo di mano. Il Front populaire non ha la forza e la capacità di mettere in atto uno scenario di questo tipo. Il partito di Bédié, il Pdci, non ha nel dna questo tipo di soluzione. Nel paese non ci sono soggetti che possano dare una spallata a un’architettura istituzionale seppur fragilizzata. Non si intravedono, inoltre, le condizioni né regionali né internazionali perché uno scenario simile a quello del 2010 si possa ripetere. Una Costa d’Avorio fragile e instabile non è nei piani di nessuno. Basti pensare che – nei mesi precoronavirus – il porto di Abidjan movimentava il 40 per cento delle merci della regione, oltre che la metà della massa monetaria.

Non è un caso, infatti, che la decisione di mettere fine al franco Cfa, la cosiddetta moneta coloniale, sia stata annunciata dal presidente francese, Emmanuel Macron, proprio durante la sua ultima visita ad Abidjan, durante una conferenza stampa congiunta con il capo di stato ivoriano, Ouattara, anche se l’entrata in vigore della moneta unica, Eco, è stata rinviata di almeno cinque anni.

… ma non esiste un mediatore politico

Rimane, e forte, l’incognita etnica. Il rischio è che i falchi, di tutte le parti politiche, facciano leva sullo scontro/confronto etnico e comunitario e questo non sarebbe un bene per il paese. E i segnali che ciò possa accadere ci sono tutti. E le vicende etniche non si risolvono in punta di diritto – come la questione del terzo mandato –, ma attraverso la mediazione politica.

Non c’è, per ora, un soggetto autorevole e sopra le parti che possa condurre questa mediazione. Molto dipenderà dal partito al potere, ma anche dall’opposizione. Non è ancora chiaro se questa riuscirà a trovare una composizione, uscendo anch’essa dalla confusione. L’iniziativa di Macron si inserisce proprio in questo contesto. Una Costa d’Avorio fragile e instabile non è nei piani della Francia.

 

 

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Tuareg, i curdi dell’Africa? https://ogzero.org/il-deserto-diventa-pantano-in-libia/ Fri, 02 Oct 2020 11:28:43 +0000 http://ogzero.org/?p=1333 L'indipendenza e autodeterminazione dei popoli del Fezzan e della Nigeria passa attraverso la collaborazione tra tuareg e tebu, ma anche contro il neocolonialismo occidentale, soprattutto francese, che mira a controllare oro, uranio, petrolio, acqua e vuole imporre la sua presenza militare attraverso missioni Onu con il pretesto di combattere il jihadismo, con cui brevemente e riconoscendo l'errore il popolo azawad si era alleato nel 2013

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Se non proprio malevola, almeno superficiale.

Così almeno mi era apparsa la semplificazione mediatica con cui si proiettava lo spettro jihadista sull’ultima – per ora – ribellione tuareg. Arrivando a sostenere che certe etnie del Mali non potevano essere altro che “vittime o complici dell’islamismo più feroce”.

Tertium non datur.

In realtà – credo – la questione è più complessa. Si doveva, almeno, precisare quale fosse – e quale sostanzialmente sia – la condizione in cui versano i tuareg. Quella di una “nazione senza stato” che vive, si sposta e – se del caso – combatte ben oltre i ristretti confini del Mali. Per inciso. Appare evidente l’analogia con la nazione curda, ugualmente frantumata da vari confini statali, più o meno artificiosi, a seguito dei ben noti processi di “decolonizzazione controllata” del secolo scorso.

Invece si è cercato di interpretare la diffusione, il dilagare dell’islamismo radicale come effetto collaterale del “rientro” (in realtà una dispersione) delle “milizie nomadi” (in parte costituite da combattenti tuareg) già “alleate del beduino Gheddafi”. Senza interrogarsi in merito alle ragioni che avevano spinto molti tuareg, legati o meno al Mnla (Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad) in Libia.

Indipendenza e autodeterminazione azawad

Alla fine del Novecento le lotte per l’indipendenza (o almeno per l’autonomia, il decentramento) e gli scontri armati tra le milizie tuareg e gli eserciti di Mali e Niger risultarono deleteri soprattutto per le popolazioni civili, oggetto di repressione e brutali massacri.

Come per esempio nel 1990 a Tchin Tabaraden in Niger.

E forse non è un caso che anche attualmente nel Niger permangano gruppi armati che lottano per l’autodeterminazione. Tra questi il Mnj (Mouvement des Nigériens pour la justice).

Oltre alla liberazione dei prigionieri politici tuareg e alla possibilità di svolgere liberamente attività politica, il Mnj esige dal governo di Niamey la fine dello sfruttamento coloniale dei territori abitati dai tuareg (vedi le miniere di uranio, devastanti per la salute della gente, in mano alle multinazionali straniere come la francese Areva).

Altra organizzazione armata in parte ancora operativa (o almeno nel primo decennio del XXI secolo) il Front des forces de redressement. Avrebbe (meglio il condizionale in attesa di conferme) invece deposto definitivamente le armi il Front patriotique nigérien.

La svolta islamista: faida interna e non conversione religiosa

Comunque, tornando alla caduta di Gheddafi, all’epoca buona parte dei tuareg prese la via del ritorno. Talvolta portandosi appresso una discreta quantità di armamenti sofisticati. Salvo poi – magari incautamente – venderle a gruppi jihadisti ben riforniti di petrodollari. Peggio ancora. Qualche ex esponente del Mnla (vedi Iyad Ag Ghali) si era avvicinato da tempo alle milizie jihadiste, anche in contrapposizione con gli ex compagni di lotta.

Più che una conversione religiosa, la vedrei come il risultato di personalismi, concorrenze e faide interne.

Risaliva al 6 aprile 2012 la dichiarazione unilaterale di indipendenza dell’Azawad che di fatto aveva temporaneamente spaccato il Mali in due. Ma dopo nemmeno venti giorni – forse per inesperienza, stupidità o sotto minaccia come nei matrimoni forzati – alcuni referenti del Mnla presenti sul campo firmavano un accordo-capestro con Ansar al-Din, gruppo islamista finanziato da al-Qaeda nel Maghreb islamico. Con la velleitaria creazione di un Consiglio transitorio dello Stato Islamico dell’Azawad formato da 40 membri, 20 del Mnla e 20 di Ansar al-Din.

Risvolto grave, l’applicazione della sharia e la costituzione della polizia islamica (hisba).

A sua parziale giustificazione Bilal Ag Sherif, segretario del Mnla e firmatario dell’accordo, sosteneva di aver agito per evitare una guerra interna tra tuareg e convincere i fratelli integrati in Ansar al-Din ad abbandonarne i ranghi.

Un accordo che era lecito definire una “mostruosità” e appunto come tale veniva sconfessato dal coordinamento dei responsabili del Mnla.

Il portavoce del Mnla Habaye Ag Mohamed riteneva «inconciliabile con la linea politica del Mnla l’atteggiamento fondamentalista e in particolare il jihadismo salafita portato avanti da Ansar al-Din».

Bilal Ag Sherif, firmatario del documento, veniva richiamato all’ordine e costretto a rompere tale accordo.

Per Nina Valet Intalou, esponente dell’Ufficio esecutivo del Mnla, bisognava «rigettare categoricamente questo accordo, perché cercare di evitare una guerra fratricida non significa accettare il diktat imposto da gruppi oscurantisti».

Il documento, spiegava: «era stato firmato pensando che i nostri fratelli tuareg schierati con Ansar al-Din avrebbero lasciato questa organizzazione terroristica. Avremmo potuto accettare uno Stato islamico democratico, pensando che noi siamo già musulmani. Ma il documento proposto da Iyad Ag Ghali è veramente contrario agli obiettivi del Mnla e alla nostra cultura. Quello che lui vorrebbe è uno stato talebano».

Ovviamente nel 2012 il confronto veniva spontaneo con i talebani. Oggi probabilmente si evocherebbe lo spettro dell’Isis.

Donne e giovani protestano contro i fondamentalisti

A conferma dell’estraneità tra il movimento per l’autodeterminazione tuareg e l’integralismo islamista, già il 5 e il 6 giugno 2012 centinaia di donne e di giovani della città di Kidal scendevano in strada per protestare contro i fondamentalisti. Successivamente, nella notte tra il 7 e l’8 giugno, si registravano scontri armati tra i militanti di Mnla e quelli di Ansar al-Din.

Purtroppo la storia della lotta tuareg per l’autodeterminazione (sia indipendentista che autonomista) è da sempre attraversata da scissioni e conflitti interni.

Lo stesso leader di Ansar al-Din, Iyad Ag Ghali, in precedenza si era distinto come promotore delle rivolte degli anni Novanta del secolo scorso.

Ma, almeno fino al 2012, le istanze dell’islamismo radicale non avevano – pare – trovato spazio significativo all’interno del movimento tuareg, da sempre sostanzialmente laico.

Successivamente, nel giro di qualche mese, il Nord del Mali finiva quasi completamente in mani jihadiste (oltre ad Ansar al-Din, erano entrati in azione anche il Mujao (Movimento unicità e jihad nell’Africa dell’Ovest) e direttamente Aqmi, Al-Qaïda au Maghreb islamique). Ma con la riunione internazionale di Bamako del 19 ottobre 2012 si avviava quel «progetto di intervento militare credibile» richiesto nella settimana precedente alla Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest (Cedao) e all’Unione Africana. La Francia riusciva a coinvolgere i 15 paesi membri del Consiglio di Sicurezza e porre la questione sotto il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite (in quanto la situazione del paese africano costituiva «una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale»). Il resto è cosa nota. Prima l’intervento diretto dell’esercito francese (aviazione, forze speciali…) per riprendere il controllo di Gao, Timbuctù, Kidal, Tessalit… con l’Operazione Serval (dal nome di un felino africano) dal gennaio 2013 alla metà del 2014.

Operativi da gennaio anche alcune centinaia di soldati africani (provenienti da Niger, Benin, Nigeria e Togo) della Missione internazionale di sostegno al Mali (Misma).

Barkhane e Takouba ma la guerra non si ferma

Poi – dopo la costituzione della missione onusiana Minisma (Mission Multidimensionelle Intégrée des Nations Unies pour la Stabilisation au Mali) e una serie di operazioni dai nomi più o meno pittoreschi (Dragon, Constrictor, Centaure, Epervier…) dall’agosto 2014 l’intervento contro le bande salafite assumeva la veste di un dispositivo regionale: l’operazione Barkhane (dal nome di una duna “migrante” nel deserto) a cui partecipavano Mauritania, Burkina Faso, Ciad, Mali e Niger (comunque sottoposti alla direzione dell’Esagono).

Ma la guerra non si è fermata. Nemmeno dopo migliaia di morti e centinaia di migliaia di sfollati. Un tragico bilancio a cui si deve aggiungere la denuncia di sistematiche violazioni dei diritti umani. Opera soprattutto di soldati africani nei confronti di civili arabi e tuareg (sbrigativamente – e comodamente – identificati come salafiti). Nel frattempo ha visto la luce anche Takouba (“spada di legno” – quella dell’Onore – in tamashek, la lingua dei tuareg), denominazione per le forze speciali europee che dovrebbero sostenere le truppe maliane nella lotta contro il terrorismo jihadista.

Stando alle dichiarazioni della ministra della Difesa francese Florence Parly, Takouba era già stata preannunciata da Macron in occasione dell’incontro di Pau, quello indetto proprio per tacitare le voci sul dissenso africano all’intervento francese.

Quanto al governo di Bamako, va riconosciuto che fin dal 2012 – in prossimità dei territori occupati dalle milizie jihadiste – venivano allestiti alcuni campi di addestramento.

Tuttavia – vuoi per mancanza di mezzi, vuoi per imperizia – risultavano alquanto scadenti. Con i volontari alloggiati in strutture provvisorie, senza armi e addirittura scarsamente riforniti di generi alimentari (letteralmente “alla fame” secondo alcuni visitatori, nemmeno in grado di compiere l’addestramento). Com’era prevedibile, molti disertarono per raggiungere Ansar al-Din e il Mujao, Organizzazioni ben finanziate, in grado di garantire «assistenza economica alle famiglie di ogni combattente vivo o morto e un’abitazione fino al momento in cui i figli saranno in grado di sposarsi».

Un copione che si va ripetendo su larga scala anche in questi giorni.

Contraddizioni in seno ai popoli

Un bel casino, certamente. Senza dimenticare che oltre ai durevoli, tenaci contenziosi tra popolazioni indigene e governi statali ne permangono altri – non meno devastanti – tra le popolazioni stesse.

Troppo spesso strumentalizzati dai governi (e anche in questo Gheddafi aveva fatto scuola) in nome del sempre attuale “divide et impera”.

Come quello tra tuareg e tebu (il “Popolo delle Rocce”) chiamati ikaraden dai tuareg.

Un breve riepilogo

Nei suoi 40 anni di permanenza al potere Gheddafi aveva abilmente alimentato le reciproche ostilità tra le tribù arabe e alcune “minoranze” (in realtà popolazioni minorizzate in quanto separate dai confini statali, come i curdi o anche i baschi) presenti nel Sud della Libia: tebu e tuareg. Utilizzando gli scontri interetnici per controllare, discriminare, emarginare e reprimere. E i tuareg – in particolare nelle zone di frontiera – per far pressione su Algeria, Niger e Mali.

Dopo il 2011, con la caduta del regime, esplodevano le istanze di maggior autonomia politica da parte dei tebu per il controllo delle zone petrolifere e aurifere e delle vie di comunicazione. In particolare dei check-point utilizzati per sfruttare proficuamente i vari traffici legali e illegali (armi, medicinali, derrate alimentari, droga, alcolici e anche esseri umani).

Mentre la Libia sprofondava nel conflitto, in questo decennio i Tebu si sono imposti – talvolta anche violentemente – alle altre tribù (sia arabe che tuareg, se pur in diversa misura e in maniera differenziata) per trarre benefico dalla nuova situazione generatasi con la caduta ingloriosa del Colonnello. Nei territori meridionali della Libia – lì dove coabitano le varie etnie – sono presenti in grande quantità non solo l’ambita risorsa petrolifera, ma anche minerali rari e perfino l’acqua (per la presenza di vaste falde freatiche). Acqua di cui usufruiscono le popolazioni (il 90 per cento dei libici) che vivono nel Nord del paese.

Tuareg e tebu: scontri etnici tra apolidi

Non si deve comunque generalizzare. Occorre valutare la complessità delle relazioni che si vanno instaurando di volta in volta, di luogo in luogo. Relazioni, si diceva, varie e variabili (differenziate, variegate…), sia politicamente che economicamente.

Per esempio nel contenzioso per il controllo delle risorse tra tebu e tuareg nel Fezzan (nel Sudovest del paese) per un certo periodo sembrava prevalere l’aspetto militare, lo scontro armato.

In passato, in quanto minoranze non arabe, sia tebu che tuareg avevano subito evidenti discriminazioni (entrambi manipolati in funzione della politica “panafricana” di Gheddafi), ma in diversa misura.

Così, mentre migliaia sia di tuareg sia di tebu si ritrovavano sostanzialmente nella medesima condizione di apolidi, per i primi esisteva la possibilità di integrarsi vantaggiosamente nel sistema della sicurezza interna. Godendo quindi della possibilità di armarsi adeguatamente e di facilitazioni in campo economico (permessi di lavoro, accesso all’amministrazione…).

Gheddafi il garante dei tuareg

Del resto Gheddafi si presentava talvolta come un “garante”, un “sostegno”, un protettore anche dei tuareg del Mali e del Niger. Perfino nei confronti dei loro governi dai quali effettivamente subivano discriminazioni e repressione.

Questo può spiegare la posizione assunta nel 2011 dai tuareg libici (a cui si aggregarono molti altri provenienti da Mali e Niger) che si schierarono con il regime.

Una scelta che in seguito avrebbero pagato duramente.

Ad aggravare ulteriormente il conflitto tra le due etnie, la chiusura nel 2014 della frontiera tra Libia e Algeria fino ad allora vantaggiosamente controllata dai tuareg. Di colpo questi si scoprivano privati di una preziosa fonte di reddito in quanto flussi commerciali, traffici e contrabbando venivano dirottati sulla frontiera con il Niger, tradizionalmente controllata dai Tebu. L’altra frontiera del Sud della Libia, quella con il Ciad, dal 2013 è interessata da un imponente traffico di oro estratto, spesso artigianalmente, dalle miniere del Fezzan. Anche questo un traffico gestito principalmente dai tebu.

La scelta infelice di una parte dei tuareg (ormai in difficoltà anche sul piano sanitario) di allearsi militarmente con elementi integralisti forniva ai tebu l’occasione per tacciarli di “terrorismo” (assimilandoli ai salafiti) e di presentarsi all’opinione pubblica internazionale come garanti della lotta al medesimo nel Sud della Libia. Così per esempio vennero interpretati gli scontri sanguinosi – con decine di vittime – del settembre 2014 a Ubari (storicamente feudo tuareg del Fezzan, ma con una forte presenza tebu) tra milizie tebu e tuareg. Scontri scoppiati inizialmente non certo per questioni ideologiche o religiose, ma semplicemente per il controllo dei check-point e di una stazione di servizio (oltre che, beninteso, dei cospicui giacimenti petroliferi della zona).

Il paradosso della riconciliazione

Per la cronaca. In un primo momento i tuareg ebbero la meglio, ma successivamente, nel 2019, persero nuovamente il controllo dei giacimenti, stavolta per mano dell’Esercito nazionale libico (Anl).

In questa circostanza le milizie tuareg e tebu si “riconciliarono” e costituirono un fronte comune per combattere contro l’esercito del generale Haftar.

Ennesimo paradosso del conflitto libico (talvolta, benevolmente, definito un ginepraio, ma più spesso un “autentico pantano”)?

Forse non proprio se pensiamo all’accordo di pace faticosamente conseguito e sottoscritto dalle due comunità nel 2015 a Doha.

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Galassia jihadista in Sahel https://ogzero.org/galassia-jihadista-in-sahel/ Mon, 06 Jul 2020 07:30:44 +0000 http://ogzero.org/?p=383 La guerra contro la diversità intraislamica: spettacolarizzazione della violenza tra brand dall’outbidding fino all’uccisione di Droukdel La pandemia di Covid 19 ha colpito il continente africano in modo più contenuto rispetto a gran parte del mondo, anche se non si può certo dire che lo abbia risparmiato. Nel quadrante del Sahel, una fascia di territorio […]

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La guerra contro la diversità intraislamica: spettacolarizzazione della violenza tra brand dall’outbidding fino all’uccisione di Droukdel

La pandemia di Covid 19 ha colpito il continente africano in modo più contenuto rispetto a gran parte del mondo, anche se non si può certo dire che lo abbia risparmiato. Nel quadrante del Sahel, una fascia di territorio dell’Africa subsahariana che comprende o lambisce una decina di paesi – Senegal, Mauritania, Ciad, Mali, Algeria, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Camerun, Eritrea e Sudan – sono stati finora (a metà giugno) registrati in aggregato circa 60mila casi di Coronavirus, con un numero di decessi superiore ai 2mila. I picchi sono stati registrati prevedibilmente nei paesi più densamente abitati, come la Nigeria (16mila casi) e il Camerun (quasi 10mila).

L’emergenza sanitaria globale ha avuto sul pubblico europeo l’effetto di cristallizzare la percezione degli avvenimenti non correlati al coronavirus, come se sul mondo ci fosse un’unica finestra, affacciata sull’epidemia. È però bene tener presente che la pandemia non ha arrestato alcuni processi in corso, anzi, in alcuni casi li ha rafforzati. È anzi possibile sostenere che se essa non si fosse verificata probabilmente oggi si parlerebbe proprio del Sahel come l’area più calda e instabile del pianeta. È in questa porzione di mondo che la galassia jihadista mostra le evoluzioni e prefigura le prospettive più preoccupanti.

Nel solo mese di marzo, in corrispondenza dell’innalzamento del picco dei contagi in gran parte dei paesi del Sahel, i gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda e all’Isis hanno compiuto attentati sanguinari in Camerun, Nigeria, Burkina Faso (dove alla fine di aprile si contano quasi 900mila sfollati interni, aumentati di quasi 300mila da febbraio), Mali e Ciad, uccidendo centinaia di persone. D’altronde proprio in quei giorni l’Isis aveva diffuso un comunicato in cui invitava i suoi affiliati a «non avere pietà e lanciare attacchi contro gli infedeli durante la pandemia», considerata di per sé dall’organizzazione terroristica come una «punizione divina per i non musulmani».

Il 24 marzo, la fazione di Boko Haram guidata da Abubakar Shekau ha ucciso 94 soldati ciadiani in un’imboscata nei pressi del Lago Ciad, mentre nelle stesse ore perdevano la vita 47 soldati nigeriani in un’altra azione condotta dall’Islamic State in West Africa Province (Iswap), ossia l’organismo affiliato a Daesh in cui è confluita una parte dell’organizzazione Boko Haram. Pochi giorni prima, il 19 marzo, in Mali altri 29 soldati venivano uccisi in un attacco condotto dai miliziani qaedisti di Jama’a Nusrat al Islam wa al Muslimin (Gsim).

Nel mese di febbraio sono stati almeno tre gli attentati terroristici coordinati tra i due gruppi, che nel Levante arabo si fanno la guerra l’uno contro l’altro mentre in Africa occidentale, da qualche mese, sembravano aver iniziato a unire gli sforzi per prendere il controllo del territorio di stati politicamente e militarmente deboli. «I combattenti dei due gruppi sembrano coordinarsi negli attacchi e sembrano dividersi aree di influenza nel Sahel, concludendo accordi», aveva detto a fine febbraio alla Associated Press il generale delle Forze speciali americane, Dagvin Anderson. L’evoluzione del protagonismo operativo e dei rapporti tra al-Qaeda e Isis in questo quadrante sono aspetti che richiedono alcune riflessioni, perché il pesante deterioramento delle condizioni di sicurezza nel Sahel occidentale è in corso almeno da cinque anni, e anche perché potrebbero generare alcuni paradossi. Secondo le stime dell’International Centre for Counter-terrorism, con base in Olanda, solo nel 2019 sono state 4mila le persone che in quest’area hanno perso la vita in attentati condotti da organizzazioni terroristiche locali e transnazionali, riconducibili a Isis o al-Qaeda.

Questo scenario ha incontrato un punto di possibile svolta lo scorso 3 giugno, quando le Forze speciali francesi coinvolte nell’operazione Barkhane (cominciata nel luglio 2014) hanno individuato e ucciso in Mali l’algerino Abdelmalek Droukdel, capo di al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi).

3 giugno 2020: annuncio dell’uccisione di Abdelmalek Droukdel, capo e fondatore di al-Qaeda nel Maghreb islamico, in Mali ad opera della missione Barkhane

Abdelmalek Droukdel, laureato in chimica, ex veterano del Gis algerino, esperto in particolare di esplosivi, non era solo il responsabile della “internazionalizzazione” del jihad nella stessa Algeria e nel Sahel, della saldatura di movimenti di guerriglia locali al più ampio e transnazionale jihadismo globalista di al-Qaeda; era anche l’ultimo leader di etnia araba di al-Qaeda nel Maghreb (Aqmi). La sua morte suggerisce innanzitutto che il jihadismo locale rappresentato ora soprattutto dal Gsim è ben avviato in un processo di “africanizzazione” che passerà per il contestuale sfaldamento di Aqmi, più riconducibile a una leadership militare e a ideologi arabi, spesso legati alle prime generazioni di qaedisti (quelli che hanno combattuto contro i sovietici in Afghanistan).

Come spiega in un report del 2018 Djallil Lounnas, il Gsim è oggi il più potente gruppo jihadista attivo nel Sahel. È stato creato nel marzo 2017, risultato della fusione di quattro formazioni: il ramo saheliano di Aqmi guidato da Yahya Abu Al-Hammam (all’anagrafe Djamel Okacha, anch’esso poi ucciso dai francesi nel febbraio 2019); Al-Mourabitoun, formazione qaedista capeggiata da Mokhtar Belmokhtar; Ansareddine, milizia di ispirazione salafita con a capo Iyad Ag Ghali (sul quale si tornerà più avanti); e la katiba (battaglione) Macina, già precedentemente legata alla stessa Ansareddine, alla cui testa c’è il jihadista maliano di etnia peul-fulani, Amadou Koufa.

La guida del Gsim è stata assunta proprio da Iyad Ag Ghali: di etnia tuareg, Ghali ha lunghi trascorsi tra le fila delle legioni internazionali di Gheddafi. Poi è diventato un contrabbandiere, nemico del governo di Bamako, con cui all’inizio del nuovo millennio si riappacifica fino a ottenere l’incarico di consigliere culturale a Jedda, in Arabia Saudita, da cui sarà però espulso nel 2010 proprio per aver provato ad allacciare contatti con al-Qaeda. Nel 2011 prova a intestarsi la guida del Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (Mnla), una formazione di ribelli laici di etnia tuareg che vorrebbero l’indipendenza della regione, tenendosi ben a distanza da al-Qaeda. Fallisce nel progetto di farsi eleggere alla guida del gruppo e decide di fondare Ansareddine, col sostegno finanziario di al-Qaeda. Nel 2012 una guerra civile si esaurirà con il sostanziale inglobamento dello stesso Mnla nel Consiglio di Transizione dello Stato islamico Azawad.

È proprio ad Abdelmalek Droukdel e al capo di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, che Iyad Ag Ghali, il giorno della dichiarazione ufficiale di istituzione del Gsim, giura fedeltà. Ma non solo. La saldatura del Gsim al network jihadista globale è evidente quando ai nomi dei due terroristi si aggiunge quello di Hibatullah Akhunzada, leader dei Talebani afghani, riconosciuto qualche tempo prima “comandante dei credenti” dai vertici del gruppo fondato da Osama Bin Laden. La decisione di includerlo, inoltre, conferma un altro aspetto importante: il Gsim rigetta l’idea della fedeltà allo Stato Islamico proclamato a Mosul (Iraq) nell’estate 2014 da Abu Bakr al-Baghdadi. Da un punto di vista geopolitico, invece, si tratta di una risposta alla creazione – avvenuta ufficialmente nel 2014 – del G5 Sahel, una piattaforma di coordinamento soprattutto sui temi di sicurezza da parte di Mauritania, Burkina Faso, Ciad, Mali e Niger, sotto la leadership francese.

Parallelamente, nell’Est e nel Sud del Mali, nei pressi dei confini con Burkina Faso e Niger, è nato nel maggio 2015 il meno numeroso (circa 450 combattenti) tra gli “Stati islamici” dichiarati in giro per il mondo dalla comparsa sulla scena di Abu Bakr al-Baghdadi. Lo Stato islamico del Sahara maggiore (Isgs) è il risultato di una scissione all’interno del citato movimento qaedista di al-Murabitoun, che a sua volta è nato nel 2013 come “joint venture” tra il Mujao (Movimento per l’unicità del Jihad in Africa occidentale) e la katiba Mulaththamin (“battaglione degli inturbantati”) di Belmokhtar, separatosi dall’Aqmi. La nascita formale dell’Isgs viene riconosciuta dall’Isis, che ne proclama l’affiliazione ufficiale, oltre un anno dopo, nell’ottobre 2016.

Il motivo risiede nella sua scarsa popolarità locale rapportata a quella del Gsim, ben più radicato, e nel maggiore riguardo che i vertici dello Stato islamico hanno verso un altro Stato islamico, quello delle province dell’Africa occidentale (Iswap), in particolare la Nigeria. Si tratta di Boko Haram, il gruppo attivo dal 2009 e balzato agli orrori delle cronache occidentali soprattutto dopo il rapimento delle 276 ragazze chibok. Nel 2015 si affilia all’Isis, assumendo la denominazione di Iswap e diventando la più numerosa formazione jihadista riconducibile all’Isis di tutta l’Africa (quasi 4mila uomini). La guida nell’estate 2016 è affidata direttamente da al-Baghdadi ad Abu Musab al-Barnawi, figlio del fondatore di Boko Haram, Mohammad Yusuf, mentre una costola dell’Iswap continuerà a operare come Boko Haram, sotto il comando dell’irrequieto Abubakar Shekau (per certi versi marginalizzato dai vertici dell’Isis, anche se formalmente ancora affiliato).

I rapporti tra al-Qaeda e l’Isis sono sempre stati difficili. Se però in Siria e Iraq le battaglie tra i due gruppi (soprattutto nelle espressioni dello Stato islamico del Levante e di Jabhat al Nusra, ramo siriano di al-Qaeda) sono state frequenti e diffuse, nel Sahel c’è stata un’unica battaglia nel giugno 2015 all’interno della regione Gao (Mali), tra Aqmi e Isgs, nella quale il capo di questi ultimi, Adnan Abu Walid al-Sahrawi, venne gravemente ferito. Per il resto, i due gruppi hanno sempre evitato scontri diretti.

Al-Qaeda e Isis differiscono soprattutto negli obiettivi strategici: se per al-Qaeda la creazione di un “Califfato mondiale” è un obiettivo ultimo, quasi filosofico, lontano, sviluppo naturale di una strategia con cui si intende “sfinire” l’Occidente attraverso la realizzazione di attentati, scatenando reazioni militari che poi dovrebbero indurre le popolazioni arabe a insorgere contro quest’ultimo, creando alla fine uno Stato islamico, per l’Isis la fondazione di uno Stato islamico in un dato territorio è un fine concreto, immediato.

Se per al-Qaeda i musulmani dovrebbero colpire gli infedeli ovunque per perseguire una strategia che porti all’istituzione futura di uno Stato islamico, per l’Isis le azioni militari vanno realizzate anche col fine di difendere il territorio già amministrato. Dal punto di vista operativo e strettamente militare, poi, l’Isis rispetto ad al-Qaeda rivendica anche l’uccisione di altri musulmani nelle sue azioni terroristiche, e soprattutto non si limita a esse: gli uomini fedeli al Califfato sono infatti addestrati al combattimento regolare, e partecipano a battaglie convenzionali proprio per conquistare via via porzioni di territorio.

L’Isis ha ancora un suo quartier generale e si finanzia in modo sistematico, anche con la vendita del petrolio, mentre al-Qaeda è ormai frammentata in una miriade di formazioni locali e reperisce risorse soprattutto attraverso i rapimenti. Il fatto che l’Isis abbia creato uno stato, che emetteva addirittura dei passaporti e per un certo periodo è arrivato a battere moneta, spiega anche la sua maggiore capacità di attrazione di “lupi solitari”, di radicalizzati che vengono facilmente coinvolti in una impresa in qualche modo “patriottica”, a difesa di uno stato vero e proprio, anziché di una semplice idea, o promessa.

Nel Sahel, nonostante l’inimicizia ideologica tra Gsim e Isgs, alla fine del 2019 le due formazioni sembravano alle prese con una fase di convergenza tattica, sancita anche dai comunicati stampa diffusi da alcuni loro teologi. Poi, però, è successo qualcosa: i miliziani dell’Isgs, in pieno “stile Isis”, hanno condotto alcune operazioni militari contro soldati nigeriani, ciadiani, maliani e burkinabé, rilasciando i soliti filmati spettacolari a uso propagandistico. Ciò, nell’immediato, ha provocato un’ondata di defezioni dal Gsim allo stesso Isgs. Così, la prospettiva che l’Isgs si saldasse con l’Iswap (che negli ultimi mesi ha marginalizzato i qaedisti di Ansaru), arrivando a controllare potenzialmente un territorio più grande di quello controllato dall’Isis tra Siria e Iraq, ha spinto il Gsim – che rimane il gruppo più potente nell’area – a prendere delle contromisure, sotto forma di un rinnovato protagonismo militare.

L’uccisione di Droukdel arriva in un momento che gli osservatori hanno ragione di ritenere delicatissimo: sembra infatti che l’algerino sia stato eliminato pochi giorni prima di prendere parte a un summit convocato proprio in Mali da Iyad Ag Ghali, capo del Gsim, forse per riorganizzare una strategia contro l’Isis in chiave marcatamente transnazionale, facendola discendere da un coordinamento con i leader arabi di al-Qaeda e cercando di indebolire i leader locali come Amadou Koufa (e come lo stesso Ghali, che ha però rapporti di lungo corso con jihadisti afghani, pakistani e arabi). Secondo altri, invece, Droukdel stava svolgendo un compito speculare: mediare una pace tra l’Isgs di al- Sahrawi (e Iswap) e il Gsim, anche per scongiurare l’ipotesi di un negoziato tra questi ultimi e il governo maliano di Ibrahim Boubakar Keita, alle prese con forti proteste popolari. Come hanno più volte ricordato alcuni report di Amnesty International, solo tra febbraio e aprile del 2020 tra Mali, Burkina Faso e Niger ci sono state circa 200 uccisioni extragiudiziali commesse sui civili dai diversi eserciti locali, con tutto quel che ne consegue in termini di possibilità di reclutamento per i gruppi jihadisti.

Secondo l’analista Colin Clarke sul “Washington post” il motivo principale per cui al-Qaeda e Isis – pur non scontrandosi apertamente e con eguale frequenza nel Sahel, rispetto a quanto fanno in Iraq e in Siria – evitano di sancire forme ufficiali di cooperazione risiede nel timore che rendere pubblico un tale sviluppo possa stimolare un rafforzamento dei dispositivi antiterrorismo e delle risposte militari dei paesi interessati e dell’Occidente.

Seguendo il ragionamento, è possibile sostenere che in Occidente la notizia di una tensione o di un conflitto tra al-Qaeda e l’Isis (nelle loro espressioni locali saheliane) venga accolta positivamente, poiché suggerisce l’idea che combattendosi tra loro i due gruppi finiscano per indebolirsi a vicenda, fino a distruggersi. C’è però un paradosso, spesso sottovalutato, che poggia anche su alcune basi empiriche: per molti versi la competizione locale tra due organizzazioni terroristiche è benefica per queste ultime, al di là degli effettivi sacrificati e delle risorse impiegate, perché rafforza e rende più diffuse le dinamiche di reclutamento, oltre a stimolare l’innovazione e la creatività, attraverso un processo che l’esperta di terrorismo Miriam Bloom ha definito di “outbidding”, teso ad attirare simpatizzanti e affiliati.

In sostanza, se due gruppi terroristici sono nemici tra loro, il protagonismo dell’uno sarà di volta in volta imitato o superato in sofisticazione e letalità dal protagonismo dell’altro, in un circolo vizioso di spettacolarizzazione della violenza finalizzata all’affermazione, del quale ovviamente fanno le spese i civili coinvolti in attentati. Un esempio lo si è avuto lo scorso marzo, quando gli uomini di Abubakar Shekau (Boko Haram) hanno realizzato il più sanguinoso attentato della storia del Ciad, “solo” per rispondere a una analoga azione dell’Iswap. Come ricorda Brian Phillips su “Foreign Policy”, la rivalità tra organizzazioni terroristiche può rafforzare la loro capacità di sopravvivenza, poiché può spingere i civili a prender parte per l’una o per l’altra, stimola l’innovazione (come un’azienda in crisi), fornisce nuovi incentivi e motivazioni agli affiliati, e non ultimo può far deragliare dei processi di pace (come quello che il governo del Mali vorrebbe portare avanti con il Gsim). Questo vale a maggior ragione per gruppi che hanno obiettivi politici diversi, anziché convergenti.

Per questo il caso del Sahel è particolarmente delicato: senza un negoziato di pace è inverosimile la sconfitta delle centinaia di gruppi jihadisti diffusi in un territorio perlopiù ostile, impervio, in cui è difficile condurre operazioni vincenti in modo convenzionale e in cui le rivendicazioni economiche, sociali e umanitarie rendono sempre fertile il terreno del reclutamento. Se la guerra tra Isis e al-Qaeda dovesse esplodere anche nel Sahel, come accaduto in Siria e Iraq, ciò potrebbe indurre l’Isis a giocare la carta del deragliamento programmatico delle prospettive di pace, arrivando a giocare un ruolo via via sempre più centrale, fino a replicare lo scenario del 2012, in cui in Mali venne imposto un regime simil-talebano, dal quale venivano lanciati altri attacchi nella regione. La morte di Droukdel paradossalmente può avere due effetti speculari: finire per rafforzare la prospettiva di un accordo di pace tra governo maliano e Gsim oppure scongiurarlo, favorendo una integrazione tra un Gsim oggi più “africanizzato” e l’universo jihadista dell’Isis.

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Lo Spirito del tempo che percorre il territorio del Sahel https://ogzero.org/lo-spirito-del-tempo-che-percorre-il-territorio-del-sahel/ Mon, 06 Jul 2020 07:28:38 +0000 http://ogzero.org/?p=393 Nei due anni che vanno dal maggio 2018 al giugno 2020 nel territorio del Sahel si sono verificati cambiamenti che forse oltrepassano i rivolgimenti di una pandemia, poiché sta recedendo la graduale estensione del controllo di Aqmi (al-Qaeda del Maghreb islamico), ma con appoggi saharawi laicissimi, tuareg nomadi che combattevano peul stanziali, con cui han […]

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Nei due anni che vanno dal maggio 2018 al giugno 2020 nel territorio del Sahel si sono verificati cambiamenti che forse oltrepassano i rivolgimenti di una pandemia, poiché sta recedendo la graduale estensione del controllo di Aqmi (al-Qaeda del Maghreb islamico), ma con appoggi saharawi laicissimi, tuareg nomadi che combattevano peul stanziali, con cui han finito con il convergere nella lotta contro gli invasori coloniali occidentali, dando una patina di legittimazione religiosa a conflitti le cui motivazioni vanno ricercate tra entità locali divise tradizionalmente, che cercano di controllare le vie dei traffici illeciti (la droga sovvenziona Daesh) e dei migranti, che sostanzialmente coincidono… e dall’altro lato ci sono settori di collaborazionisti con le politiche antiterroriste di potenze europee, in primis la Francia.

Importante è sottolineare che il Sahel comprende un’area periferica tra le più povere al mondo, con scarso accesso all’acqua, soprattutto a seguito del progressivo prosciugamento del lago Ciad, e con nessuna tradizione nazionale, in quanto fino a pochi anni fa molti erano privi di documenti che attestassero l’appartenenza a uno stato.

Il 4 maggio 2018 avevamo registrato un intervento radiofonico lucidissimo e ancora molto illuminante di Luca Raineri che qui trovate inserito in tre parti per avviare un’analisi incentrata sul Sahel nel momento in cui si assiste a frenetiche manovre a più livelli per sostituire le influenze. Qui è descritto il quadro relativo al contesto, fatto di frontiere liquide e guerre a bassa intensità, al contrario della Siria, dove i brand jihadisti si sono combattuti apertamente:

Ascolta “Giochi di influenze nel Sahel” su Spreaker.

Oltre al passaggio di merci tra Africa subsahariana e Maghreb, quali risorse del territorio sono appetibili ora? Luca Raineri parla di Uranio – più che di petrolio i cui giacimenti maliani sono di scarso valore –, una manna per la voracità delle centrali nucleari francesi, ma meno per il Niger dopo il tracollo del prezzo dell’uranio a seguito del disastro di Fukushima, che ha imposto la ricerca di alternative. Per cui va studiata anche la trasformazione di quell’area dedita alla pastorizia e ora crogiolo e snodo degli interessi globali per quel che riguardano i traffici di armi (crocevia delle guerre in Mali e in Libia), droga e migranti (tra i principali affari dei tuareg, alternativamente impegnati nel contenimento dell’espansione dell’Isis e nella alleanza con lo stesso Daesh contro le forze antiterrorismo del Fc-G5s)

 

Ascolta “Quali interessi economici si intersecano nel crocevia di traffici del Sahel?” su Spreaker.

Forse assistiamo ora al ridimensionamento di quell’interventismo del Marocco a cui alludeva nel maggio 2018 Luca Raineri, che vedeva la monarchia alawide contrapporsi all’Iran, che da sempre cerca di fomentare disordini nell’area per destabilizzarla, eversione avversata dal Marocco. Peraltro più che i gruppetti eversivi stavano cominciando a diventare maggioritarie talune fazioni che mirano a imporre la shari’ia per via di una spinta democratica delle popolazioni.

Ascolta “Le frontiere liquide del Sahel” su Spreaker.

Interessante la ricostruzione della storia del jihad in Sahel e della situazione attuale dopo l’eliminazione a Talahandak dell’emiro algerino Abd al-Malik Droukdel (leader di Aqmi, basata sulla promozione di alleanze claniche) e il conseguente rafforzamento della componente saheliana del jihad qaidista e la definitiva africanizzazione del jihad in Sahel (e infatti si stanno ampliando gli attacchi etnici nel Mopti che contrappone dogon e fulani), che Lorenzo Forlani ha fornito a OGzero con questo Punctum.

 

 

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La presenza militare cinese in Africa orientale https://ogzero.org/la-tanzania-tra-risorse-naturali-e-interessi-cinesi/ Sun, 12 Apr 2020 12:21:28 +0000 http://ogzero.org/?p=130 Boots on the ground La guerra fredda è un lontano ricordo. Eppure Russia e Usa hanno ripreso le ostilità, e dove? In Africa. Mosca sta cercando di riprendersi una qualche centralità nel continente africano, favorita, anche, dalle mutate condizioni politiche. Crollato il muro di Berlino, infatti, su tutto il continente si sono scatenate numerose guerre […]

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Boots on the ground

La guerra fredda è un lontano ricordo. Eppure Russia e Usa hanno ripreso le ostilità, e dove? In Africa. Mosca sta cercando di riprendersi una qualche centralità nel continente africano, favorita, anche, dalle mutate condizioni politiche. Crollato il muro di Berlino, infatti, su tutto il continente si sono scatenate numerose guerre che non avevano più nessun legame con gli amici di un tempo – America e Unione Sovietica – ma, semplicemente, rappresentavano il tentativo di riposizionarsi e trovare nuovi amici attraverso l’accaparramento delle risorse naturali. Finito, non del tutto per la verità, quel periodo, ora è “guerra” commerciale, ma anche militare, di tutti contro tutti. L’Occidente ha deciso che è giunto il momento di arginare l’influenza cinese che, ormai, ha le mani su tutto il continente, nessun paese escluso. La Russia non ci sta e non vuole, certo, rimanere ai margini. Mosca sta in maniera sistematica espandendo la sua incidenza militare e strategica nel continente. E tutto ciò allarma, e non poco, le cancellerie occidentali. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno ben marcato il territorio attraverso il comando Africom. Oltre ai 4000 militari di stanza a Gibuti, la missione americana, dispone di 34 siti militari, 14 basi principali e 20 postazioni secondarie a supporto della lotta al terrorismo. In tutto oltre 7000 militari. Le presenze più significative sono in Somalia, Niger, Kenya, Mali e Camerun. 

Tornare a essere protagonisti in Africa, significa anche rafforzare la presenza militare. Un obbligo dettato dal fatto che la Cina ha già messo gli “scarponi” sul terreno attraverso le missioni di peacekeeping. I caschi blu cinesi, tuttavia, dispiegati in Africa – circa 2500 – sono concentrati nelle aeree di particolare interesse per Pechino. Non è un caso che mille di questi siano in Sud Sudan dove la Cina ha investito molto nel petrolio e altri 400 in Mali.

Frag tratto da Mal d’Africa, di Raffaele Masto e Angelo Ferrari, postfazione di Marco Trovato, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

 

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