Lukashenko Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/lukashenko/ geopolitica etc Sat, 24 Dec 2022 14:03:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Il ruolino di marcia di un sistema basato sull’escalation bellica https://ogzero.org/il-ruolino-di-marcia-di-un-sistema-basato-sullescalation-bellica/ Fri, 23 Dec 2022 15:58:01 +0000 https://ogzero.org/?p=9888 La messinscena delle prime mosse per un negoziato Consumati un po’ di arsenali, uccise 250.000 persone tra civili e militari nella pianura sarmata, misurate alleanze e potenzialità di imporre la propria supremazia, sembra che 3 incontri contemporanei lancino segnali precisi alle cancellerie internazionali: Zelensky con il cappello in mano a Washington, Putin a organizzare le […]

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La messinscena delle prime mosse per un negoziato

Consumati un po’ di arsenali, uccise 250.000 persone tra civili e militari nella pianura sarmata, misurate alleanze e potenzialità di imporre la propria supremazia, sembra che 3 incontri contemporanei lancino segnali precisi alle cancellerie internazionali: Zelensky con il cappello in mano a Washington, Putin a organizzare le truppe a Minsk, Medvedev a ricevere ordini a Pechino. Bisogna trovare una nuova area dove proseguire la guerra ibrida mondiale con lo scopo di misurarsi in preparazione del redde rationem.

Come si è arrivati qui

Si sono definitivamente composti in un unico giorno (il primo del gelido inverno nella steppa di famose ritirate della Storia) gli schieramenti e i ruoli dei singoli in questa che, come si era capito dal 24 febbraio, era la prima fase di una lunghissima guerra ibrida tra potenze – intrecciate dalla medesima ideologia neoliberista che impone complicati legami – da combattere sulla estesa scacchiera globale, con interessi ed economie dipendenti l’una dall’altra, ma a un punto di rottura dato dall’impressione di essere equiparabili e dunque entrambe le fazioni ritengono di potersi candidare al controllo globale come potenza di riferimento: gli Usa a difendere la propria supremazia, le potenze non democratiche a proporre il loro modello di sviluppo – comunque all’interno della visione capitalista del mondo.

La disposizione sul palcoscenico

E allora si usano media e incontri per marcare il territorio in vista della lenta composizione della disputa. Localmente: Biden prepara il terreno a un nuovo piano Marshall da aggiungere agli 85 miliardi già erogati per ricostruire e “mangiarsi” l’Ucraina come gli Usa hanno iniziato a fare dal 2014 di Maidan, quando Kiev era un satellite di Mosca (ha cominciato a parlarne “Fortune” già il 7 dicembre).
Intanto i russi attivano anche Lukašenka per annettersi quanto più territorio possibile e fare da cuscinetto al confine con la Nato, arrivando alle trattative con il massimo risultato possibile («La Russia fornisce alla Belarus’ petrolio e gas a condizioni molto favorevoli e preferenziali», ha commentato Interfax a proposito della visita a Minsk, ma come fa notare “ValigiaBlu“, Putin ha dichiarato che avevano concordato di «dare priorità all’addestramento delle nostre truppe… ci forniremo reciprocamente le armi necessarie e produrremo insieme nuovo materiale militare… per l’eventuale uso di munizioni aviotrasportate con una testata speciale») e arrivando gradualmente all’annessione della Bielorussia. Ognuno potrà investire in piani di ricostruzione che faranno girare denaro utile per una nuova spirale virtuosa economico-finanziaria.
Globalmente la Cina si schiera, schermendosi – probabilmente anche per partecipare agli appalti – e senza impegnarsi direttamente in questa Prima guerra del confronto del mondo contro la Nato (che Trump aveva azzerato e Biden resuscitato, investendo una quantità di miliardi inimmaginabile), detentrice di una primazia in parte erosa dal multilateralismo di forze intermedie pronte a schierarsi in modo autonomo volta per volta, come la Turchia – appartenente alla Nato! – o l’India (due specchiati esempi di democratura), o anche i paesi del Golfo sempre più impegnati in attività di maquillage, ma anche di autonomizzazione dallo schieramento filoamericano.

«Servitor vostro»

Medvedev non è omologo di Xi, ma può ricevere indicazioni che tutte le diplomazie interpretano come invito a ritornare a una situazione in cui si possano scambiare merci con minori sanzioni o dazi; la guerra si deve spostare su altri piani, in modo che la Cina possa acquisire ulteriori avanzamenti; per uscire dalla sindrome del Giappone targata 1990 – incapace di progredire con lo stesso ritmo e quindi imploso nella sua scalata al cielo. Esistono altre potenze indopacifiche che stanno crescendo d’importanza e infatti si rinnovano i periodici scontri alla frontiera himalayana con l’India.

Lukashenka non è omologo di Putin, ma si adatta bene al ruolo di subordinato nella alleanza militare – utile per mostrare quel che resta dei muscoli di Mosca per arrivare a un primo negoziato che chiuda il contenzioso in quell’area, in attesa che si sposti altrove (e si stanno ammassando armi attorno all’Iran). Intanto è utile mostrare che almeno sulla Bielorussia il Cremlino può ancora contare ed è l’area che in questo momento è geograficamente fondamentale controllare e dove accumulare minacciosi missili logistici e strumenti ipersonici.

Zelensky non è omologo di Biden, ma è il terzo fantoccio (dagli occhi umani, non come quelli da killer come Putin nei folkloristici ritratti di Biden, fintamente gaffeur) che serve ai tre potenti della terra per lanciare messaggi agli altri due. Zelenski va a prendere gli spiccioli, oltre ai Patriot da schierare contro le dotazioni nucleari collocate contemporaneamente alla frontiera bielorussa dall’esercito russo, sapendo che poi arriveranno i soldi per la ricostruzione. E rilancia le richieste nel monologo al parlamento, mancava solo un elenco alla Leporello (ma questa volta come lista della spesa); dei tre incontri quello davvero mediatico e diffuso su ogni media è il kolossal americano, dove anche i dettagli come gli abiti indossati dai due protagonisti sono funzionali a lanciare messaggi precisi e assegnare ruoli. Zelensky è il buffone di corte in ogni senso, comprendendo pure la facoltà di asserire verità scomode, ovviamente a maggior lustro del monarca e Biden non è re Lear infatti Zelensky non ha mai la medesima statura, non solo fisicamente.

Uno schema bellico inesorabile

La concomitanza dei tre eventi non si configura come complotto globale di un’oligarchia che interpreta in modi diversi il neoliberismo e che quindi trova contrapposti gli interessi delle potenze che si misurano per spartire aree di influenza e ruoli in concorrenza e individuano volta per volta territori che si prestino al confronto perché si tratta di aree di crisi incancrenite (da anni si assisteva alle provocazioni sulle pipeline ucraine; il conflitto in Nagorno Karabakh da decenni volutamente irrisolto e costantemente rinfocolato dai vincitori; come quello del Kosovo, dove sta montando da un paio di mesi la tensione che cova dalla “fine” della guerra di Clinton tra opposti nazionalismi, coccolati apposta dai rispettivi riferimenti…); oppure nuovi protagonisti molto potenti e militarmente approvvigionati e minacciosi come le petropotenze emergenti che usano vetrine diverse – per ora strategicamente collegate con una facciata culturale (il marchio Louvre nel deserto in cambio dell’acquisto di Rafele e altre connessioni vantaggiose per Parigi), velata da megaeventi sportivi (il mondiale di football invernale, imposto a suon di corruzione e interpretando in modo ancora diverso il verbo unico capitalista) e che hanno una concezione del sistema socio-politico ancora più oligarchico e fondato sull’oppressione e la cancellazione della maggior parte dei diritti civili, usando la tradizione come collante per i poteri forti interni.

Automatismi di un ruolino di marcia bellico

Piuttosto che un accordo per svolgere ciascuno un ruolo in commedia distribuito da una regia collettiva (una pièce complottista), si può concepire questo snodo epocale come il processo innescato che non può non passare attraverso tappe inevitabili costituite da molteplici guerre. Quei conflitti che, finché non hanno coinvolto equilibri europei, erano rimasti nella percezione occidentale a bassa intensità, mentre ora si manifestano con distruzioni di arsenali e migliaia di vittime civili anche in Europa, non più solo nel Sud del mondo, dove si sparge il sale sulle ferite non rimarginate mai, per suppurare periodicamente e far esplodere furiosi combattimenti utili per sostituire localmente il predatore di turno: infatti Biden è stato spinto a finanziare potentemente il continente africano per tentare di contrastare la penetrazione di Cina, Turchia e Russia, proprio mentre non è ancora del tutto sopita la guerra in Tigray ed esplode un nuovo focolaio nel Sud dell’Etiopia per l’insorgenza dell’Oromia.

Un’ipotesi che si può avanzare sulla base delle prime mosse di incontri diplomatici ad alto livello tra non omologhi, che usano gli incontri per dettare la politica delle macrofazioni e assistere alla conseguente disposizione delle alleanze, è che si cerchi ora di comporre molto lentamente la questione ucraina, lasciandola però accuratamente non del tutto risolta; contemporaneamente preparando nuovi conflitti in aree significative per il confronto tra le maxipotenze, che possano montare ben più che per una proxy war, a impattare su una nuova emergenza (energetica, lievitando prezzi per fibrillazioni borsiste? religiosa, per induzione jihadista?…) e poi confrontarsi in un nuovo scacchiere (Taiwan?) più vicino al confronto diretto e risolutivo.

Il senso del capitalismo per la guerra

Dunque fa tutto parte della vera Guerra tra Usa e Cina, che non finirà se non trovando un’uscita dal sistema capitalistico, motore mobile che necessita e si alimenta di quel costante conflitto, perché il capitalismo ha bisogno sempre di incrementare il profitto, triturandovi tutto: industria del divertimento, alimentare, consumo di beni… industria bellica.

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N. 20 – Polonia e Unione Europea: il segnale non intercettato dell’imminente conflitto in Ucraina https://ogzero.org/polonia-e-unione-europea-il-segnale-non-intercettato/ Mon, 27 Jun 2022 17:33:53 +0000 https://ogzero.org/?p=7994 I campanelli di allarme che non sono stati ascoltati erano tutti nel vacillare degli assetti politici dell’Europa centrale. Attraverso una lettura attenta anche dal punto di vista giuridico delle normative, Fabiana Triburgo fa emergere i cavilli e le deroghe che rendono possibile una strumentalizzazione del migrante che corrisponde alle strategie politiche e geopolitiche degli stati […]

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I campanelli di allarme che non sono stati ascoltati erano tutti nel vacillare degli assetti politici dell’Europa centrale. Attraverso una lettura attenta anche dal punto di vista giuridico delle normative, Fabiana Triburgo fa emergere i cavilli e le deroghe che rendono possibile una strumentalizzazione del migrante che corrisponde alle strategie politiche e geopolitiche degli stati membri (e non) dell’Unione Europea in difficoltà attraverso patti e accordi che rendono possibile attuare respingimenti illegali, costruire ancora muri e campi di detenzione con la scusa di false emergenze. In questo saggio si analizza il caso di Polonia e Unione Europea, nel suo sviluppo all’interno di un contesto più ampio di interessi internazionali scatenatisi con la guerra ucraina.


Risulta sempre più evidente come i flussi dei movimenti umani non siano semplicemente fenomeni da valutare nell’ambito dei temi riguardanti le politiche migratorie di uno o più stati o più specificatamente rispetto al sistema normativo in materia ma piuttosto qualificabili quali eventi che nascondono questioni, giochi di forza e interessi geopolitici dei quali sono la diretta conseguenza e, non come si potrebbe superficialmente pensare, la causa. Ciò emerge anche rispetto al conflitto armato in corso in Ucraina: rileggere all’indietro alcuni accadimenti della storia degli ultimi due anni dell’Europa orientale ci consente di comprendere come il fenomeno migratorio, così come era andato strutturandosi già nell’agosto del 2021 e ancor prima – almeno negli intenti di due attori statali dell’area ossia Russia e Bielorussia – fosse uno dei primi e più rilevanti campanelli d’allarme che gli assetti politici – apparentemente calcificati a livello geografico lungo la nuova cortina di ferro – stavano cominciando a vacillare. Gli eventi verificatisi a partire dal 2020 potrebbero dunque essere definiti iniziali scosse di terremoto che, a distanza di oltre trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, hanno risvegliato il sottosuolo degli equilibri internazionali creando delle faglie o – visti gli attuali sviluppi del conflitto ucraino – vere e proprie voragini, simbolo di questioni silenti ma non certo più esistenti. Occorre dunque per l’analisi dei flussi migratori nell’Europa orientale – certamente anomali, per come sono andati delineandosi, ma non particolarmente emergenziali quantitativamente come invece si è voluto lasciare intendere – tornare indietro all’estate del 2020 quando il presidente bielorusso Lukashenko, in carica dal 1994, è stato rieletto con circa l’80% dei voti favorevoli ma al contempo accusato di brogli elettorali al punto da essere destinatario di violente proteste da parte della popolazione civile finalizzate a far cadere il regime. A questo punto il primo elemento rilevante è che l’ondata di proteste che interessò gran parte della popolazione bielorussa anche prima delle elezioni venne foraggiata dalla Lituania e dalla Polonia.

Proteste a gennaio 2014 a Kiev (foto Roman Mikhailiuk / Shutterstock).

La strumentalizzazione dei migranti

In particolare, la Polonia costituisce l’ultimo avamposto dell’Alleanza Atlantica o meglio ancora l’ultimo stato satellite degli Stati Uniti a livello militare in quell’area. Con gli Stati Uniti la Polonia vanta solidi patti di cooperazione e intese che non sono esattamente speculari rispetto al tipo di relazioni che la Polonia intrattiene con l’Unione, pur essendone a tutti gli effetti un paese membro.

Il tentativo quindi di Polonia e Lituania in quel momento di voler far entrare la Bielorussia nella sfera di influenza posta dall’altro lato della cosiddetta “nuova cortina di ferro”, cercando di rafforzarla a proprio vantaggio, è stata percepita come una pericolosa provocazione dal regime di Lukashenko che ha quindi prontamente provveduto a chiedere il sostegno militare e politico del capo del Cremlino Vladimir Putin che è riuscito a sedare le proteste popolari nel paese a lui alleato e con il quale ha successivamente sottoscritto 28 programmi per l’unione statale.

Si pensi come negli ultimi anni il presidente russo prima in Siria ma a gennaio del 2021 anche in Kazakistan, sia intervenuto su esplicita richiesta dei leader al potere per mantenere lo status quo a livello politico, spesso con il beneplacito di buona parte della comunità internazionale, sebbene non palesemente espresso. Tutto questo per far riflettere che a livello politico il leader di uno stato acquisisce sempre più potere nella misura in cui altri attori statali gli attribuiscono un ruolo fondamentale nel dirimere talune annose questioni internazionali. Tuttavia, la crisi di governo bielorussa e l’intervento del capo del Cremlino che in un primo momento sembrava fosse una vicenda eccezionale – risolta ristabilendo l’allineamento al preesistente asse della cortina di ferro – nascondeva evidentemente proiezioni geopolitiche molto più ambiziose, emerse un anno dopo, proprio mediante quella che è stata definita “strumentalizzazione della questione migratoria”.

Le proteste in Kazakhstan.

Il piano orchestrato

Iniziata apparentemente come una pressione migratoria che Minsk intendeva porre limitatamente al confine lituano e che, come si scrisse allora, venne attuata per lanciare un messaggio all’Unione Europea in ragione delle sanzioni applicate alla Bielorussia in seguito al dirottamento dell’aereo della Ryanair con a bordo i due dissidenti del regime di Lukashenko, a settembre dello stesso anno raggiungeva invero risvolti ben più allarmanti. Infatti, con la spinta dei migranti attuata da Minsk al confine con la Polonia si delineavano più nettamente i profili di un piano orchestrato ad hoc del quale – anche qualora il presidente russo non si voglia definire il regista – non si può non qualificare quale complice, avendo mostrato di non voler intervenire nella vicenda, nonostante – considerati  i rapporti con la Bielorussia – avrebbe potuto fermarla in qualsiasi momento e tenuto conto degli ignorati appelli di sostegno più volte avanzati telefonicamente dall’allora cancelliera tedesca Angela Merkel.

In realtà si può affermare che l’appoggio della Russia a Minsk nella questione migratoria è stato la conditio sine qua non affinché essa si realizzasse. Al riguardo non si dimentichi che la quasi totalità dei migranti, prima spinti al confine bielorusso verso la Lituania e in seguito verso la Polonia, provenissero dal Medioriente – principalmente iracheni curdi, afghani e siriani – e che beneficiarono di un rilevante numero di rilasci di visti turistici per la Bielorussia nella quale arrivarono attraverso compagnie aeree turche. Non si può sottovalutare infatti che la Russia vanti un rapporto privilegiato con la Turchia: i due paesi – come più volte detto – sono in una condizione di continuo antagonismo nello scacchiere internazionale ma dimostrano di avere un reciproco rispetto nelle decisioni in politica estera. Ciò si traduce nel fatto che quando le circostanze lo richiedono sono in grado di stringere accordi, compromessi, alleanze per fronteggiare le questioni che man mano si presentano, soprattutto in situazioni di conflitti armati come in Nagorno Karabakh o ancor di più in Siria relativamente alla questione dei curdi.

Ascolta “Mosca chiude: autarchia senza prospettive” su Spreaker.

Il ruolo della Turchia

Non si può del tutto escludere dunque il coinvolgimento, almeno in un primo momento, della Turchia in questa specifica strumentalizzazione dei migranti portata avanti da Minsk. D’altra parte la Turchia è già avvezza a tattiche, o meglio strategie, basate sulla questione migratoria per il soddisfacimento dei propri interessi espansionistici ma anche puramente economici. Basti pensare al più volte citato accordo di 6 miliardi di euro elargiti dall’Unione Europea alla Turchia – recentemente rinnovato – per “l’accoglienza/trattenimento” nel proprio territorio dei profughi siriani per scongiurare la solita “invasione” che avrebbe coinvolto il vecchio continente.

E, di nuovo, i diritti violati

Come si può tristemente constatare tuttavia la cosiddetta invasione non sarebbe mai avvenuta e non ci sarebbe alcuna questione geopolitica in merito sulla quale discutere nell’ipotesi di obbligatoria ed equa ripartizione dei flussi migratori nei 28 stati dell’Unione, attraverso piani di ricollocamento, ancorati a indici demografici e del prodotto interno lordo dei paesi di destinazione. In questa sede ciò che interessa è la continua violazione dei diritti fondamentali dei migranti attuata dalla Polonia a partire da settembre 2021 quando le forze armate bielorusse cominciarono a scortarli verso quel tratto di confine tra i due stati. Va preliminarmente sottolineato che la Polonia – trovatasi in tale situazione – ha deciso di agire fin da subito in completa autonomia, senza consultare o dar seguito alle istanze – come vedremo in seguito prevalentemente di facciata – provenienti dalle istituzioni dell’Unione rispetto alla “crisi migratoria (?!)” che si stava verificando sul proprio territorio. A settembre del 2021 quindi il capo di stato polacco con l’approvazione del Parlamento proclama lo stato di emergenza che poi rinnova prontamente nel mese di novembre. Ai migranti dunque – anche richiedenti asilo – non viene data la possibilità di entrare nel territorio polacco e di presentare la domanda di protezione internazionale. Uomini singoli, soggetti vulnerabili tra cui minori, nuclei familiari e donne incinte vengono fatti stazionare al di fuori dei check point polacchi all’addiaccio.

Tuttavia, l’intento di ignorare esseri umani in difficoltà e respingerli prima dell’ingresso, oltre a violazioni formali del diritto internazionale – primo tra tutti il principio di non-refoulement – e del diritto europeo in materia d’asilo, ha causato la morte nel 2021 di ben 21 persone!

Ci si potrebbe fermare su questo dato che per la sua gravità non ammette giustificazioni di sorta e non solo con riferimento all’Unione ma a tutti i paesi membri che non sono intervenuti nella vicenda. La discussione invece in modo sterile si è sviluppata sul fatto che a Spagna, Grecia e Italia non è stato mai offerto alcun sostegno con arrivi numericamente più elevati. Ci si chiede perché in tali situazioni invece di fare confronti non si convoglino le forze politiche dell’Unione per cogliere l’occasione  di un atteggiamento politico diverso e per rivedere gli assiomi europei attuati – diversi da quelli teorizzati – dando un segnale forte, in modo tale che nessuna strumentalizzazione dei migranti produca più effetti sull’Unione o su uno dei paesi membri e non perché venga ignorata o repressa ma perché vengano rispettate le norme sul diritto d’asilo già vigenti e finalmente messo in atto il principio di solidarietà di cui all’art. 78 del trattato sul funzionamento dell’Unione.

Il punto debole dell’Unione

È chiaro infatti che a livello internazionale gli stati che hanno proiezioni egemoniche, spesso in contrasto con gli interessi del vecchio continente, hanno ben compreso – vedi Russia e Turchia – come la questione migratoria sia il vero, grande punto debole dell’Unione con il quale ricattarla, dato che non riesce in alcun modo a gestirla, se non cercando di renderla invisibile e traghettandola al di là dei propri confini. Tuttavia, visto che a quanto pare il fatto che degli esseri umani siano lasciati in tali indegne e mortifere condizioni non desta alcuna indignazione e non comporta mutamenti delle tattiche degli stati membri forse è il caso di cominciare più cinicamente a riflettere sulle conseguenze politiche ed economiche (che forse interessano maggiormente) che il perpetrare di tali comportamenti implicano e che sono ben più gravi rispetto all’adozione di un’accoglienza condivisa dei migranti soprattutto in un  caso come quello della Polonia rispetto al quale, data anche l’estensione del suo territorio e il numero di rifugiati accolti è un’eresia definire crisi o situazione di emergenza migratoria l’arrivo di 10.000 migranti!

Muri e centri di detenzione

Nonostante ciò sono stati apportati emendamenti alla normativa nazionale polacca in materia di migrazione – che a quanto pare però non vengono applicati (fortunatamente, anche se non si capisce la differenza con gli altri profughi) ai profughi ucraini – rendendola più restrittiva così come era avvenuto in Lituania e sempre alla stessa stregua si è realizzata la costruzione di un muro al confine con la Bielorussia lungo circa 186 chilometri e alto 5 metri e mezzo oltre, alla costruzione di ulteriori tre centri di detenzione all’interno dei quali in ogni stanza sono ammassate circa 22 persone in meno di 2 metri quadri ciascuno per potersi muovere.

Istituzioni in difficoltà

Nessuna novità quindi o quasi. Infatti, per quanto riguarda l’analisi dei profili giuridici, rispetto a tale vicenda, va posta attenzione sulla proposta di regolamento avanzata alla fine del 2021 dalla Commissione europea riguardo le misure che gli stati membri possono adottare in caso di strumentalizzazione dei flussi migratori ossia la “Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio volta ad affrontare le situazioni di strumentalizzazioni nel settore della migrazione e l’asilo”.

Prima di entrare nel merito del testo va preliminarmente detto che se un’istituzione europea “alla bisogna” compone un testo giuridico ad hoc per fronteggiare una situazione squisitamente politica – quando tra l’altro si è presentata già una proposta di regolamento europeo nei casi di crisi e di forza maggiore nel settore della migrazione e dell’asilo” – dimostra di essere in palese difficoltà.

Tuttavia, anche in questo testo normativo non solo non si evidenzia alcun cambiamento di visione ma si è andati ben oltre ogni limite del rispetto dei diritti fondamentali degli individui migranti per cui si auspica vivamente che il Parlamento europeo non approvi tale proposta, assurda sotto il profilo giuridico.

Nella relazione introduttiva alla proposta di regolamento viene delineato l’ambito di applicazione del medesimo ancorandolo a quelle situazioni nelle quali gli attori statali utilizzino «i flussi migratori come strumento per fini politici, per destabilizzare l’Unione europea e i suoi Stati membri».

Il diavolo sta nei dettagli

A conferma della singolarità del testo normativo in oggetto e del suo contenuto squisitamente politico – dettato da un evidente senso di preoccupazione rispetto alla situazione allora in corso – si noti come in esso vi siano, in modo del tutto inconsueto per un atto giuridico, addirittura specifici riferimenti alla situazione geopolitica in prossimità di quel confine che emergono mediante l’impiego di espressioni quali «in risposta alla strumentalizzazione delle persone da parte del regime bielorusso» o mediante l’utilizzo di termini politici – o ancor meglio propri del gergo militare – per definire la  strumentalizzazione, come per esempio «attacco ibrido in corso lanciato dal regime bielorusso alle frontiere dell’UE».

C’è da dire infatti che nella proposta di regolamento non viene data alcuna puntuale definizione giuridica del termine “strumentalizzazione” – rendendo più estesa e quindi più pericolosa l’applicazione del regolamento a situazioni che potrebbero verificarsi in futuro – tanto che per ricavarla è necessario far riferimento ad un altro testo giuridico (già analizzato nell’articolo relativo ai flussi migratori al confine Ventimiglia-Menton) ossia la proposta di modifica del Regolamento Shenghen del 14 dicembre 2021 che all’art. 2 (con l’introduzione del punto 27) stabilisce che

la «strumentalizzazione dei migranti è la situazione in cui un paese terzo istiga flussi migratori irregolari  verso l’Unione incoraggiando o favorendo attivamente lo spostamento verso le frontiere esterne di cittadini di paesi terzi già presenti sul suo territorio o che transitino sul suo territorio se tali azioni denotano l’intenzione del paese terzo di destabilizzare l’Unione».

Per quanto attiene alle conseguenze della “strumentalizzazione” inoltre è necessario che la natura delle azioni del paese terzo sia potenzialmente tale «da mettere a repentaglio le funzioni essenziali dello stato quali la sua integrità territoriale, il mantenimento dell’ordine pubblico o la salvaguardia della sicurezza nazionale». Sono chiaramente delle conseguenze gravissime ma dato che la proposta di regolamento in esame è stata stilata specificatamente per la situazione al confine polacco-bielorusso, o comunque in conseguenza di questa, ci si chiede:

può realmente l’arrivo di circa 10.000 migranti in Polonia potenzialmente mettere a repentaglio l’integrità del suo territorio, il mantenimento del suo ordine pubblico o mettere a rischio la sicurezza nazionale?!

Anomalie e volute mancanze

Inoltre, si fa riferimento alla solita dizione “migranti irregolari” quando, come noto, il richiedente asilo è irregolare nella quasi totalità dei casi perché in fuga dal proprio paese d’origine – e non è certamente ammissibile che nell’ipotesi della strumentalizzazione attuata da uno stato terzo – non abbia il medesimo diritto di altri richiedenti a presentare la domanda di protezione internazionale! Per di più altre anomalie – o meglio volute mancanze – si rilevano nel testo del regolamento: non vi è alcuna menzione di indicatori, in particolare di tipo quantistico, con i quali delineare la strumentalizzazione, per cui – ragionando per assurdo – anche due soli migranti strumentalizzati potrebbero portare all’applicazione del regolamento. Ancora più pericoloso è che il regolamento, qualora venga applicato, sia idoneo a comportare gravissime deroghe al rispetto dei diritti fondamentali in materia d’asilo.

Deroghe e cavilli

La prima deroga è relativa alla registrazione delle domande d’asilo prevista all’art. 2 (“Procedura di emergenza per la gestione dell’asilo in una situazione di strumentalizzazione”): in caso di domande presentate alla frontiera, tra l’altro in punti specifici, il termine è di ben 4 settimane per la loro registrazione (e non per l’esame!), durante le quali ovviamente i profughi restano al di fuori del territorio dell’Unione. In secondo luogo, lo stato può decidere alle sue frontiere o più genericamente nelle zone di transito, «sull’ammissibilità e il merito di tutte le domande» registrate nell’arco del periodo in cui il regolamento viene applicato. Ciò quindi senza alcun riferimento alla nazionalità di alcuni profughi come i cittadini afgani per i quali sarebbe facilmente ipotizzabile una palese fondatezza della domanda di protezione internazionale.

L’unica priorità legata alla visibile fondatezza delle domande è quella data a quelle presentate dai minori o dai nuclei familiari ma ciò che è fondamentale ricordare è che comunque tutta la procedura anche in questi casi è una procedura squisitamente di frontiera! All’art. 4 (“Procedura di emergenza per la gestione dei rimpatri in una situazione di strumentalizzazione”) si deroga inoltre rispetto al regolamento sulla procedura d’asilo e all’applicazione della direttiva rimpatri: viene meno in questo modo il diritto ad un ricorso effettivo in caso di rigetto della domanda di protezione internazionale.

Più esattamente resta il diritto alla presentazione del ricorso ma senza che questo implichi un diritto di permanenza nel territorio dell’Unione nelle more dell’attesa di una decisione in merito e ciò a meno che non venga accolta un’istanza di sospensiva degli effetti della decisione di rigetto del ricorso.

Si precisa tuttavia che qualora l’istanza di sospensiva non venga comunque accolta è disposto l’allontanamento immediato del richiedente asilo, pur se «nel rispetto del principio di non refoulement».

Inoltre, l’ipocrisia di questa proposta di regolamento si riscontra tanto nell’articolo 3 che nell’articolo 5. Nel primo infatti (“Condizioni materiali di accoglienza”) si fa riferimento a misure di accoglienza «diverse» nel caso di applicazione del regolamento e non inferiori come in realtà sono – cercando di celare i propri intenti – dietro l’espressione «in grado di soddisfare le esigenze essenziali del migrante»: si noti al riguardo quanta discrezionalità possa nascondersi dietro al termine «esigenze essenziali». Nell’articolo 5 invece (“Misure di sostegno e solidarietà”) si raggiunge l’apice dell’assurdo. La solidarietà degli altri paesi membri, qualora venga richiesta, prevista nei confronti dello stato membro vittima di una strumentalizzazione dei migranti – anche se per inciso le vere vittime della strumentalizzazione sono i migranti stessi – non è certamente quella di una ripartizione per quote dei profughi tra gli stati ma l’impiego di «misure di sviluppo delle capacità, misure a supporto dei rimpatri» che vuol dire il semplice invio di funzionari e personale appartenenti agli altri stati membri per fronteggiare la situazione “emergenziale” nonché  provvedimenti operativi a sostegno dei rimpatri.

È chiaro quindi come anche in questa circostanza l’intento reale della Commissione, con tale proposta, non sia quello di offrire a livello europeo un supporto allo stato in una situazione “emergenziale” dal punto di vista migratorio, ma quello di assicurarsi il rinforzo delle misure di frontiera al fine di porre velocemente fine a tale situazione cercando di attuare il rinvio degli individui arrivati alle porte del territorio dell’Unione il più velocemente possibile.

Gli eventi tuttavia sono sempre un passo avanti nell’imprevedibilità del loro verificarsi rispetto a qualsiasi logica o tentativo di controllo sia esso da parte degli esseri umani, degli attori statali o delle istituzioni europee e internazionali.

La solidarietà “mirata”

Alla fine del 2021 si scrisse tale proposta per l’arrivo di circa 10.000 migranti, inconsapevoli che da lì a poco si sarebbe scatenato un conflitto di portata internazionale in Ucraina alle porte dell’Unione in ragione del quale, per l’arrivo di milioni di profughi, sarebbero caduti di fatto come le tessere di un domino gli emendamenti polacchi in materia di migrazione insieme ad ogni velleità europea di contenimento e con la conseguente apertura dei confini degli stati membri. Perché dunque non pensare prima a rendere effettiva la solidarietà europea per esseri umani che avevano e hanno gli stessi diritti dei cittadini ucraini? E ancora, non conviene riflettere come per interessi economici ed energetici si è scesi a patti e sotto ricatto del leader del Cremlino e come forse non si stia facendo lo stesso errore individuando Erdoǧan come mediatore per la risoluzione di tale conflitto, considerato come detto che egli stesso è sospettato di essere stato complice della pressione iniziale dei flussi migratori al confine con la Lituania? Corsi e ricorsi storici a quanto pare spesso nulla insegnano.

barriere e ostacoli

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I contorni geopolitici della crisi polacco-bielorussa https://ogzero.org/nuova-fase-di-squilibrio-in-europa/ Sun, 05 Dec 2021 15:40:59 +0000 https://ogzero.org/?p=5526 Mentre i media mainstream hanno già distolto lo sguardo dal confine polacco-bielorusso, i problemi aperti (che in buona parte sono ancora lì!) dall’ammassamento di migliaia di migranti provenienti da diverse regioni dell’Asia in cerca di approdo in Germania restano squadernati e rimandano alla nuova fase di squilibrio in Europa apertasi ai confini della Russia, prima […]

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Mentre i media mainstream hanno già distolto lo sguardo dal confine polacco-bielorusso, i problemi aperti (che in buona parte sono ancora lì!) dall’ammassamento di migliaia di migranti provenienti da diverse regioni dell’Asia in cerca di approdo in Germania restano squadernati e rimandano alla nuova fase di squilibrio in Europa apertasi ai confini della Russia, prima con la guerra nel Donbass nel 2014 e poi con le manifestazioni antiregime in Bielorussia nell’estate del 2020.


Il menu dei telegiornali russi di queste ultime settimane rappresentano, da questo punto di vista, l’altra faccia della propaganda polacca della “guerra ibrida” che sarebbe stata scatenata da Alexander Lukashenko (con il pieno sostegno di Putin) ai confini occidentali della Bielorussia.

I programmi d’informazione della Federazione, va da sé, continuano a battere quasi su un solo tasto: esiste un tentativo di aggressione e di isolamento della Russia che usa tutti gli strumenti di intimidazione. La portavoce del ministero degli Esteri russo Marya Zacharova, per sottolineare questo aspetto ha persino fatto un po’ di pubblicità a la Repubblica definendo una “deliziosa sciocchezza” un articolo di Maurizio Molinari intitolato senza troppe metafore Carri armati e migranti: la morsa di Putin sull’Europa. Secondo Zacharova, nel valutare la situazione al confine tra Russia e Ucraina, Molinari si concentra solo sulle “fobie americane” senza impegnarsi nel fact-checking. Non ci vuole un gran impegno per mettere in luce le rozzezze geopolitiche del direttore de la Repubblica e così la diplomatica russa ha spiegato che «non c’è nessuna base», non ci sono «basi militari in Russia», ma «c’è solo un dispiegamento di unità delle forze armate russe sul suo territorio nazionale», che «è strettamente il nostro diritto sovrano, non viola i requisiti degli obblighi internazionali e si riferisce, come piace dire alla Nato tra gli altri, alle “attività di routine”». D’altro canto, il governo russo, vestiti i panni improbabili dei difensori dei diritti dei  migranti e tolta dalla naftalina dell’era sovietica la retorica antimperialista ha “consigliato” la UE «di cercare le vere cause della crisi migratoria […] vecchie dichiarazioni dei leader della coalizione anti-irachena e anti-Libia, i capi di stato e di governo di quei paesi hanno stimolato la Primavera Araba e si sono impegnati  a destabilizzare per 20 anni l’Afghanistan».

Bruxelles e Varsavia: benzina sul fuoco

La Bielorussia, ormai legatasi mani e piedi alla Russia, ha forse cinicamente cercato – facendo atterrare a Minsk grazie a compagnie aeree bielorusse compiacenti migliaia di improbabili turisti afgani e iracheni come ha voluto sottolineare Igor Stankevich sul portale di “Open Democracy” – di buttare altra benzina sul fuoco dei già difficili rapporti tra Bruxelles e Varsavia ma l’operazione, alla fine dei conti, non sembra riuscita. Se la Bielorussia ha deliberatamente deciso di portare i rifugiati dal Medio Oriente in Europa per imporre di riaprire i cieli del Vecchio Continente alla Belavia (la compagnia aerea di stato bielorussa che sta subendo gigantesche perdite per le sanzioni), l’operazione è fallita.

Su questo terreno non c’era possibilità di trattativa o di scambio ed è strano che Lukashenko abbia potuto illudersi.

E come sempre… il North Stream 2 è centrale

Angela Merkel – ancora per ora cancelliera in attesa che si formi il nuovo gabinetto tedesco – ha tentato in tutti i modi di disinnescare la crisi dichiarandosi perfino disponibile ad assorbire, in diversi municipi tedeschi che si erano detti disponibili all’accoglienza, i migranti al confine bielorusso-polacco, ma è stata frenata non solo dal fronte dei paesi di Visegrad e baltici ma soprattutto dagli Usa. Le ragioni tedesche erano evidenti: si vuole ancora tentare di condurre in porto la messa in opera del gasdotto North Stream 2 aggiungendo qualche migliaio di rifugiati alle decine di migliaia che raggiungono il paese durante l’anno seguendo le più diverse rotte. Che la partita energetica possa essere motivo di scambio politico tra Mosca e Berlino lo ha da sempre chiaro il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki. Non è un caso che quest’ultimo, bypassando Merkel, abbia fatto appello al possibile cancelliere della Germania, il leader dei socialdemocratici, Olaf Scholz. «Nord Stream 2 deve essere fermato», ha chiesto il premier polacco a Spd. I migranti puzzano sì, ma di gas: basterà rammentare che il regolatore tedesco ha sospeso la certificazione della Nord Stream in un quadro in cui i futures sul gas in Europa stanno continuando ad aumentare e hanno superato  più di una volta in novembre la soglia critica di 1200 dollari per 1000 metri cubi.

Una dinamica in cui la Bielorussia dopo la crisi politica interna del 2020 non può più giocare il ruolo che le piaceva di più: acquistare dalla Russia idrocarburi a prezzi sussidiati e rivenderli in Europa, Polonia e Ucraina tra le altre.

Fonte Agi

Il ruolo dell’Ucraina

Già l’Ucraina. Nella crisi polacco-bielorussa il suo ruolo sembra marginale (anche se forse parte dei migranti sembra essere giunto in Bielorussia via terra anche da lì) ma così non è.

Ben pochi osservatori internazionali hanno mostrato di voler intendere cosa sta succedendo di strategicamente importante nelle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, ormai da 7 anni fuori dal controllo giurisdizionale di Kiev. Il presidente russo, lo scorso 17 novembre, ha firmato il decreto che gli abitanti delle due repubbliche autoproclamate dell’Ucraina orientale  aspettavano da diversi anni. La Russia ha aperto completamente i suoi mercati ai beni prodotti nel Donbass, il che la aiuterà a invertire il suo degrado economico e la fuga della popolazione verso la vicina Rostov sul Don. Si tratta di un evento storico perché si tratta del passo definitivo de facto di incorporazione delle Repubbliche “ribelli” alla Russia. Un de facto che viene discussa apertamente nei think-thank internazionali. Nikolaus von Twickel, per esempio, uno degli autori del libro Beyond the Frozen Conflicts. Scenarios of Separatist Conflicts in Eastern Europe, crede che il Donbass sia stato annesso dalla Russia nello stesso modo in cui sette anni fa fu annessa la Crimea. Von Twickel è anche l’autore di un rapporto che analizza gli eventi relativi al conflitto nell’Ucraina orientale nel 2020 e nel 2021 intitolato per l’appunto Verso l’annessione di fatto.

Donetsk e Lugansk: l’economia dei documenti

Nel 2017, la Russia aveva riconosciuto molti documenti emessi nelle repubbliche di Donetsk e di Lugansk, dalle carte d’identità ai diplomi scolastici dal 2019; è stato reso facilissimo ai residenti del Donbass acquisire la cittadinanza russa e quindi il passaporto, mantenendo formalmente quello ucraino. Ora, nel 2021, le imprese locali saranno uguali a quelle russe dal punto di vista giuridico. In primo luogo, saranno riconosciuti i certificati per i prodotti fabbricati nelle Repubbliche. In precedenza, questi certificati, presentati alla dogana e ad altre autorità della Federazione Russa, dovevano essere ucraini – ovvero del “paese d’origine” ufficiale. In secondo luogo, con poche eccezioni, le quote sulle esportazioni verso la Federazione Russa saranno abolite per le imprese di Donetsk e Lugansk. In terzo luogo, i produttori del Donbass saranno collegati al sistema di approvvigionamento statale, cioè uno dei clienti per loro sarà lo stesso stato russo. Difficilmente, come alcuni sognano, ci sarà uno sviluppo significativo dell’economia di quelle regioni (che continuano a essere legate alla produzione di carbone e di altri settori economici “decotti” per il mercato mondiale).

Tuttavia il significato politico è chiaro: si tratta di un addio alle trattative basate sui protocolli di Minsk e del Formato Normandia, nella cui adozione, guarda caso, proprio Lukashenko aveva giocato il ruolo di pacere tra “fratelli slavi” nel 2014.

Tamburi di guerra sulla frontiera ucraina

Lo stesso giorno il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov con una mossa senza precedenti e violando il protocollo diplomatico ha pubblicato parte della corrispondenza recente tra diplomazie russe, tedesche e francesi a proposito delle trattative per giungere a un nuovo incontro per ottenere la pace in Ucraina orientale. Da cui emerge – in particolare dalle missive franco-tedesche ai russi – la volontà di non voler coinvolgere direttamente le repubbliche autoproclamate nella trattativa. Difficile dire cosa succederà a breve ma lo Stato maggiore ucraino sostenuto in particolare dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti sta battendo da mesi i tamburi di guerra e innervosendo sempre di più la Russia. Il 22 novembre scorso il ministro della Difesa russo Sergey Shoigu ha denunciato che recentemente c’è stato un marcato aumento dell’attività dei bombardieri strategici dell’aeronautica statunitense vicino ai confini della Russia. Secondo il capo della Difesa russa, circa 30 sortite di aerei della Nato ai confini della Russia sono state registrate nell’ultimo mese, ovvero 2,5 volte di più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Sarebbe questo aumento dell’attivismo della Nato ad aver spinto ad ammassare 90-100.000 soldati russi non lontano dalla frontiera ucraina: ormai un confronto armato nel Sudest Europa che coinvolga la Russia non è più fantascienza e in tale disgraziata ipotesi, è certo che la Bielorussia giocheerebbe un ruolo non marginale.

Immagini scattate il 9 novembre e pubblicate dal Center for Strategic and International Studies: mezzi e truppe russe in continuo aumento fuori dalla città russa di Yelnya.

La posta in gioco

In un editoriale in occasione di uno dei tanti anniversari della nascita della Russia imperiale (2 novembre 1721: incoronazione di Pietro I dopo la vittoria delle “Guerra del Nord”) su “Rossijskaja Gazeta”, Fyodr Lukyanov uno dei politologi oggi più vicini al presidente russo, ha sostenuto che

«la particolarità della Russia è quella di aver ricevuto uno shock molto recente per gli standard storici. In effetti, l’anniversario coincide quasi con un altro – il trentesimo anniversario della scomparsa dell’Urss – considerata da alcuni come l’ultima incarnazione veramente imperiale nella storia russa [si potrebbe discutere]. La freschezza del trauma della disintegrazione aggiunge amarezza e impulsività alla politica da un lato, ma dall’altro rende il paese e il popolo più resiliente di fronte ai nuovi shock inevitabili su scala globale, dato che l’intero quadro internazionale sta cambiando. E in questo senso, l’ultimo sopravvissuto ha più “anticorpi” per la prossima ondata di cataclismi».

La Russia sicuramente è uno dei paesi più coscienti della posta in gioco (la sua sopravvivenza in primis) e sta cercando disperatamente di prepararsi al futuro. Ma è una corsa contro il tempo in cui la forza di volontà putiniana ha solo un peso relativo.

L'articolo I contorni geopolitici della crisi polacco-bielorussa proviene da OGzero.

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n. 12 – Baltico: ordigni umani sparati sul confine bielo-lituano https://ogzero.org/la-rotta-baltica-e-migranti-da-iraq-e-dal-sud-del-mondo/ Tue, 31 Aug 2021 15:20:08 +0000 https://ogzero.org/?p=4576 La rotta baltica è diventata un modello esemplare dei destini di chi è costretto a fuggire dalla sua terra e di come la loro sorte sia strumentalizzata dai governi in funzione geopolitica. Giunti a questo punto del percorso, avendo analizzato i motivi delle popolazioni che hanno dovuto lasciare le loro case, OGzero ha chiesto a […]

L'articolo n. 12 – Baltico: ordigni umani sparati sul confine bielo-lituano proviene da OGzero.

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La rotta baltica è diventata un modello esemplare dei destini di chi è costretto a fuggire dalla sua terra e di come la loro sorte sia strumentalizzata dai governi in funzione geopolitica. Giunti a questo punto del percorso, avendo analizzato i motivi delle popolazioni che hanno dovuto lasciare le loro case, OGzero ha chiesto a Fabiana Triburgo di cominciare la disamina delle caratteristiche delle piste seguite per raggiungere l’Occidente proprio con questa rotta, quella più settentrionale. Si tratta di iniziare la nuova sezione dedicata alle migrazioni del terzo millennio in un modo geograficamente anodino, ma la scelta trova una motivazione squisitamente geopolitica, che rievoca l’approccio turco e ribadisce il fatto che la chiusura europea alimenta le peggiori democrature, che sfruttano timori indotti dai sovranisti di ogni nazionalità.

Infatti Lukashenka, il satrapo bielorusso sopravvissuto all’Unione Sovietica e sostenuto da Putin, attrae migranti – in particolare iracheni – da lanciare poi come  battaglioni di disperati all’assalto del confine lituano come ricatto per ottenere la revisione di sanzioni da parte dell’UE (soprattutto dopo la fuga proprio in Polonia dell’atleta olimpionica Krystina Tsimanovskaya). La reazione scomposta dei paesi baltici (che prevedono un muro di metallo alto 4 metri e lungo 508 chilometri!), e in generale dell’Unione europea, è sintomatica della scelta di chiusura inumana di società terrorizzate dal sovranismo imperante: l’accusa è di “hybrid warfare”. I baltici e gli scandinavi pensavano di essere sufficientemente distanti dalle zone interessate dall’esodo, e ora invece devono rivedere la loro politica di chiusura all’interno dell’Unione: ora sono le loro frontiere a essere direttamente attraversate. Non possono più fare finta che non sia un loro problema il disastro prodotto nel Sud del mondo dal sistema di cui fanno parte; l’unica soluzione che sono riusciti a mettere in atto, come riporta “The Guardian”, è il respingimento in Bielorussia di 700 persone a settimana, dichiarando lo stato di emergenza fino al 10 novembre.

E quindi con questo pezzo inauguriamo lo studio degli itinerari intrapresi, delle vessazioni che costellano le rotte, dell’ipocrisia che i migranti affrontano a ogni chilometro coperto, spesso ricoprendolo ulteriori ennesime volte in seguito a respingimenti, deportazioni, abusi, violenze… divise. 


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Rotta baltica e migranti da Iraq e dal Sud del mondo

Da pochi mesi la nazionalità irachena risulta quella maggiormente presente tra i migranti che percorrono una nuova rotta, quella baltica che interessa Bielorussia e Lituania e che sta facendo scattare il solito allarme “sicurezza interna” per l’Unione europea e per alcuni dei paesi membri. Bielorussia e Lituania condividono circa 600 chilometri di territorio di un confine facilmente arginabile essendo costituito per lo più da sterpaglie e torrenti.

Fino a due mesi fa la rotta era battuta esclusivamente da bielorussi oppositori di Lukashenka molti dei quali – come la leader Svetlana Tichanovskaya – hanno trovato rifugio proprio in Lituania. Tuttavia, le sanzioni dell’Unione Europea imposte a Minsk a sostegno delle manifestazioni della popolazione bielorussa – durante le quali il presidente Lukashenka è stato accusato di brogli elettorali – hanno esacerbato la vicenda trasformandola in un fenomeno di tensioni geopolitiche sulla questione migratoria che coinvolgono diversi paesi. Sulla rotta Minsk-Vilnius è stato rilevato il passaggio di circa 4000 migranti solo nell’anno 2021 provenienti dall’Iraq prevalentemente ma anche in porzione più esigua dalla Siria, dall’Afghanistan nonché dalla Repubblica democratica del Congo, dalla Guinea e dal Camerun a fronte delle 74 presenze di migranti registrate nell’intero 2020.

Il presidente Lukashenka infatti, mandante lo scorso maggio del dirottamento del volo Ryanair diretto in Lituania con a bordo l’oppositore Roman Protesevich, in risposta alle sanzioni europee ha invitato i migranti – che battono soprattutto le altre due rotte migratorie, quella dell’Egeo e quella Balcanica – a recarsi in Bielorussia specificando che

Minsk «non fermerà nessuno. Non siamo noi la loro destinazione finale: loro vogliono andare nella calda e illuminata Europa».

Soldati dell’esercito lituano depongono concertina al confine con la Bielorussia

Al riguardo occorre rilevare che sono gli stessi agenti bielorussi spesso in borghese a indicare ai migranti i punti di accesso alla frontiera lituana distante 150 chilometri da Minsk. Atto questo senza dubbio provocatorio che tuttavia ha fin da subito determinato nell’Unione Europea la solita fobia dell’invasione con il conseguente dispiegamento («in aiuto di Vilnius») di forze di pattugliamento capeggiate da Frontex, almeno 60 uomini, dotati di attrezzature militari e tecnologiche e finanziamenti sia per la costruzione di un muro di filo spinato lungo l’intera linea di confine tra Bielorussa e Lituania che per la costruzione di centri di detenzione in Lituania, accusando chiaramente la Bielorussia di aver strumentalizzato i migranti ma dimostrando di essere al contempo caduta nella trappola. L’UE è infatti corsa ai ripari: la Commissaria agli Affari interni dell’Unione Ylva Johansson ha subito dichiarato la necessità di barriere fisiche per gli ingressi irregolari dei migranti specificando poi mediante un portavoce di Bruxelles che la Commissione non finanzia direttamente la costruzione di barriere ma soltanto – con la solita narrativa di circostanza – «soluzioni integrate di gestione delle frontiere».

Corridoi aerei malati

Sembra che non si riesca proprio a comprendere che la gestione delle politiche migratorie così concepita è un punto debole dell’Unione talmente palese internazionalmente da divenire uno strumento di ricatto della potenza locale di turno a seconda degli interessi in gioco, vedi al riguardo la Turchia e da ultima la Bielorussa. I voli verso Minsk non partono infatti soltanto da Baghdad ma anche da Istanbul che recentemente ha ricevuto il secondo ingente pagamento da parte dell’UE per la “gestione dei flussi migratori”. In particolare, la rotta Istanbul-Minsk rispetto alla quale prima di luglio registrava voli tre volte a settimana ora ne prevede uno al giorno. Inoltre, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e l’alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell – che di recente si è incontrato con il ministro degli Esteri iracheno Fuad Hussein – nonché altri membri della diplomazia dell’Unione stanno cercando di interrompere i voli delle due principali compagnie aeree che gestiscono le tratte verso Minsk ossia la Fly Baghdad e in particolare l’Iraqi Airways che per ora ha sospeso i voli fino al 15 agosto. Nella vicenda però sono coinvolte anche società di leasing che forniscono aeromobili alla compagnia bielorussa Belavia e che hanno sede nell’UE in Irlanda e in Danimarca rispettivamente con la SMBC Aviation Capital e con la Nordic Aviation Capital.

Solita risposta: respingimenti, detenzioni arbitrarie, rimpatri, botte, assassini e abusi

Infine il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha incontrato il primo ministro iracheno al-Kadhimi: insomma, se i migranti restano bloccati, l’Unione europea invece si “muove” molto sulla rotta Baghdad-Minsk-Vilnius pressata da Germania, Austria e Repubblica Ceca [gli stessi che vorrebbero permanessero i rimpatrii di afgani verso il paese dei loro aguzzini talebani]. Tutto ciò in violazione della normativa sul diritto d’asilo dell’Unione e di quella sui diritti umani dato che, secondo le testimonianze, alcuni migranti – recentemente respinti dalla Lituania – non solo non hanno avuto la possibilità di chiedere asilo, pur avendo fatto ingresso nel territorio dell’UE, e non hanno neanche ricevuto alcuna informativa rispetto ai loro diritti in qualità di richiedenti asilo, ma hanno perfino riportato ferite e segni di violenza che in alcuni casi hanno richiesto il ricovero.

Come se ciò non bastasse infatti si denuncia l’approvazione da parte del parlamento lituano, il 13 luglio scorso, di una nuova legge sulla migrazione e l’asilo in base alla quale è consentito il trattenimento dei migranti anche richiedenti asilo fino a sei mesi nei Centri detentivi lituani nonché l’immediata espulsione dei medesimi, senza possibilità di appello, in caso di rigetto della domanda d’asilo, qualora si abbia l’opportunità che venga effettivamente valutata. Ultima speranza quindi resta il Summit europeo del 18 agosto che la preoccupata Bruxelles ha deciso di dedicare interamente alla questione della rotta baltica durante il quale si auspica si accolgano effettivamente soluzioni alternative a respingimenti e detenzioni con il maggior ricorso al ricollocamento dei migranti entrati in Lituania all’interno dei paesi dell’UE.

Bruxelles sarà ancora così miope da farsi sfuggire anche quest’occasione?

Polonia-Bielorussia_Sedia

Giuseppe Sedia, “il manifesto”, 2 ottobre 2021

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Destini dirottati: equilibri in bilico nella Federazione russa https://ogzero.org/destini-dirottati-gli-equilibri-della-federazione-russa-in-bilico/ Fri, 28 May 2021 17:40:35 +0000 https://ogzero.org/?p=3678 La vicenda del “dirottamento” del volo Ryanair sui cieli della Bielorussia ha riportato in auge il tema del destino del piccolo paese slavo, dopo i tumultuosi mesi seguiti alle presidenziali del 9 agosto scorso che hanno riconfermato – tra violenze della polizia e manifestazioni oceaniche dell’opposizione – Alexander Lukashenko alla presidenza della Repubblica. Il tema […]

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La vicenda del “dirottamento” del volo Ryanair sui cieli della Bielorussia ha riportato in auge il tema del destino del piccolo paese slavo, dopo i tumultuosi mesi seguiti alle presidenziali del 9 agosto scorso che hanno riconfermato – tra violenze della polizia e manifestazioni oceaniche dell’opposizione – Alexander Lukashenko alla presidenza della Repubblica. Il tema è scottante perché già come scrivemmo nel giugno scorso, rimanda alle prospettive non solo per la Bielorussia e per tutte quelle realtà che un tempo si definivano il “Vicino estero” russo ma soprattutto del destino della Federazione russa stessa, ovvero del vero oggetto del contendere.

Il traghettatore filoccidentale o il golpe soft?

Per lungo tempo – almeno dal 2018 – Vladimir Putin è stato tentato da un soft putsch a Minsk che portasse ai vertici dello stato bielorusso Victor Babariko, esperto banchiere con molti agganci a Mosca, soprattutto a Gazprom. Un’incertezza durata fino a dopo il 20 agosto 2020 quando dopo l’avvelenamento di Alexey Navalny, lo “Zar” ha sentito “odore di bruciato” (cioè si è convinto che ci fosse un tentativo dei paesi baltici e della Polonia di imporre una transizione filoccidentale alla Bielorussia, via manifestazioni di massa) e ha riconfermato il pieno endorsement al governo di Minsk, non solo a parole, ma nei fatti, tanto è vero che la stessa operazione dell’arresto del fondatore di “Nexta” sarebbe stata gestita tra Atene e Minsk proprio dai servizi russi. Dopo lo sgonfiamento delle manifestazioni antiregime (in larga parte determinate dall’insipienza del gruppo dirigente dell’opposizione ancor prima che dalla repressione) l’ipotesi di “golpe soft” che porti al governo di Minsk un traghettatore del paese verso una “Nuova Bielorussia” continua a circolare all’interno di molte cancellerie europee come ci ha confermato una nostra autorevole fonte dell’opposizione bielorussa oggi in esilio a Londra. L’idea che circola insistentemente sarebbe quella di proporre un uomo dell’esercito “rinnovatore e filoccidentale” che però non sia inviso (se non addirittura gradito) a Mosca. Si riproporrebbe così – seppur in un contesto diverso – l’accordo sottobanco sulla Polonia post-1981 quando il generale Wojciech Jaruzelski pilotò il colpo di stato del 13 dicembre. Come diventò evidente in seguito la mossa sovietica fu realizzata tenendo conto delle esigenze occidentali e rappresentò il punto di equilibrio tra la Dottrina Breznev e la conferma dell’impegno da parte di Varsavia con il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale a pagare i debiti contratti negli anni Settanta.

Il North Stream 2 a rischio

Una variabile che difficilmente oggi potrebbe andare in porto sia perché Lukashenko non sembra disposto a farsi deporre, sia perché Putin potrebbe accettare di valutare tale possibilità solo nel quadro di una trattativa globale che tenga insieme perlomeno la questione del Donbass ma soprattutto il destino dei gasdotti russi in Europa (e in questo senso andrebbe la disponibilità Usa a congelare le sanzioni contro North Stream 2). Secondo Sofia Solomofova del sempre ben informato portale Vzgljad in questi giorni soprattutto Londra starebbe lavorando per far saltare definitivamente il completamento di North Stream 2. Ma soprattutto Boris Johnson punterebbe a bloccare l’altro grande progetto russo: il gasdotto (che attraverserebbe inevitabilmente la Bielorussia e quindi fonte di finanziamento per il regime di Lukashenko), che dovrebbe portare in Germania dalla Siberia Occidentale materia prima per un volume complessivo di 33 miliardi di metri cubi di gas entro il 2022.

La posa della pipeline del Nord Stream 2 nel Mar Baltico (foto Axel Schmidt / © Nord Stream 2).

L’Europa è alla svolta green: o meglio, cambia fornitori…

Schierata ormai apertamente contro la collaborazione energetica tra Russia e UE c’è ora anche il capo della Commissione europea Ursula von der Leyen la quale in questa fase non vorrebbe dare nessuna boccata di respiro all’economia russa. Quello che sarebbe assolutamente da evitare per von der Leyen è che «la Russia tenti di modernizzare la sua economia con i proventi del settore del petrolio e del gas». L’Unione Europea del resto, nel quadro della svolta verso la green economy ha già dichiarato che smetterà di consumare idrocarburi entro il 2050 e nel frattempo potrebbe fare sempre più a meno dell’energia russa puntando non tanto sul gas americano trasportato via mare (che costa davvero troppo) quanto piuttosto sui giacimenti in Algeria e sulle enormi riserve dell’Azerbaigian.

… e la Russia cambia clienti

Igor Yushkov, esperto dell’Università della Finanza del governo della Federazione russa e del Fondo nazionale per la Sicurezza energetica ritiene che ormai Mosca dovrebbe pensare seriamente ad abbandonare l’idea di restare semplicemente una potenza energetica (che rappresenta ancora oggi il 35% del suo Pil) per puntare a una diversificazione della propria economia che guardi all’Asia. Un processo che sarebbe, seppur forse troppo lentamente, già in corso: la Banca mondiale – non a caso – ha rivisto al rialzo le stime per la crescita economica russa che grazie alla scelta “no-lockdown” durante la pandemia dovrebbe crescere con una media del 2,5%-3,5% malgrado i ricavi russi sugli idrocarburi si siano ridotti del 30% nel  2020, l’annus horribilis per eccellenza dell’economia mondiale del Secondo dopoguerra.

Parola d’ordine: diversificare

Sia chiaro, mancando la Russia di una mercato finanziario adeguato alle sue pretese di potenza regionale petrolio e gas restano per ora, come già successe dopo il crack del 1998  (sperando che il prezzo del petrolio continui a restare stabilmente oltre i 40 dollari al barile) la base per qualsiasi ipotesi di differenziazione della propria economia, ma alcune dinamiche sembrano comunque già visibili. In due settori principalmente: agricoltura e industria metallurgica.

1) Agricoltura

Già da qualche anno la Russia sta conoscendo un vero e proprio boom dell’agricoltura dovuto alla modernizzazione delle aziende agricole che l’hanno riportata a vertici mondiali tra gli esportatori di grano (era stato il grande punto di forza dell’economia zarista e la principale debolezza di tutta l’economia sovietica dopo le collettivizzazioni forzate dell’era staliniana). Ma non solo. La Russia putiniana è diventata autosufficiente dal punto di vista delle esigenze del mercato interno nella produzione di carne di manzo (limitando le importazioni a quote provenienti dall’America Latina) e addirittura ha iniziato a inondare i mercati asiatici di proprio pollame e carne suina. E successi significativi il mondo agricolo russo li sta ottenendo anche nella produzione di zucchero, olio di semi e, parzialmente, anche nella produzione di frutta bio.

2) Industria metallurgica

Negli ultimi anni la Rust Belt russa è stata completamente modernizzata. Un esempio lampante dello sviluppo delle industrie ad alta tecnologia russa è la cantieristica (la Russia è leader nella produzione di navi rompighiaccio) e la costruzione di aeromobili. Stiamo parlando principalmente del progetto All Siberian (progettazione e produzione sono stati realizzati a Irkutsk) dell’innovativo aereo civile di linea Irkut Ms-21 a fusoliera stretta, un bireattore monoplano ad ala bassa che non solo dovrebbe sostituire già quest’anno i desueti Tupolev Tu-154 e Tu-204/2014, ma pure altamente concorrenziale rispetto a Airubus e Boeing (e non a caso tale progetto è finito sotto sanzione Usa già da tempo) sul mercato mondiale.

destini dirottati

Il nuovo velivolo di produzione All Siberian.

Business as usual: la resa dei conti tra Bielorussia e Ucraina

La nuova crisi  tra Russia  e Occidente nella variante bielorussa sarebbe quindi una faccenda di business as usual e di rotte energetiche, e assai meno una “querelle antifascista”.  Solo degli inguaribili ingenui come alcuni rossobruni di casa nostra del resto sono riusciti a vedere dietro l’operazione di pirateria aerea di Lukashenko una “svolta antifascista” di Minsk (il suo appello contro una fantomatica ondata “neonazista” in Bielorussia è apparsa davvero bizzarra) e che avrà come ricaduta inevitabile una resa dei conti, a questo punto definitiva, tra Bielorussia e Ucraina. Non che Roman Protasevich e la sua fidanzata non siano stati realmente in prima fila prima nella fase finale delle manifestazioni armate dell’estrema destra in Piazza Maidan e poi  a combattere nel Battaglione Azov in Ucraina orientale sette anni fa, ma la faccenda – per quanto grave – risale a quando Protasevich aveva poco più di 18 anni e successivamente egli ha ripetutamente affermato di aver rotto ogni relazione con il mondo dell’estrema destra. L’ex neofascista preoccupava Lukashenko per altri motivi. In primo luogo per i suoi rapporti con la Cia, da cui nel 2017 ha ottenuto i finanziamenti per aprire il suo fortunato canale telegram “Nexta (oltre un milione di iscritti) – una vera e propria spina nel fianco per Lukashenko – che ha avuto un ruolo non del tutto marginale nelle mobilitazioni dello scorso autunno.

Roman Protasevich

Giochi regionali

Per capire cosa significa la rottura definitiva tra Zelensky e Lukashenko oggi in corso basterà ricordare due aspetti significativi nelle relazioni tra i due paesi slavi. Dopo il cessate il fuoco del 2014 nel Donbass fu proprio il presidente bielorusso a proporsi come mediatore tra Putin e l’allora presidente ucraino Petr Poroshenko, e non a caso la Bielorussia, in quel contesto, non riconobbe l’annessione russa della Crimea (anche se poi non votò le risoluzioni Onu di condanna della Federazione russa). Ora Minsk non potrà più giocare il ruolo dell’ago della bilancia su questo terreno e ciò implica la rottura verticale delle relazioni anche con Ankara che ancora qualche settimana fa ha dichiarato apertamente di voler essere l’alfiere degli interessi di Kiev nella regione, a prescindere dal ruolo che gli Usa vogliano giocare in Ucraina (dove Monsanto ha messo gli occhi sulle fertilissime terre nere).

Mini-Urss: la svolta occidentale rimarrà una chimera?

L’isolamento internazionale di Lukashenko è ormai pressoché totale  e ciò potrebbe far rinascere le aspirazioni mai sopite di Mosca alla formazione di una Confederazione panrussa (una mini-Urss di cui farebbero sostanzialmente parte solo Russia e Bielorussia), e di conseguenza Lukashenko diverrebbe solo un leader regionale. Se l’operazione andasse in porto ciò dovrà avvenire forzatamente entro il 2024, in occasione della rielezione di Putin alla presidenza fino al 2030 e blinderebbe dal punto di vista politico-militare la Bielorussia. A questo punto la svolta filoccidentale di Minsk diverrebbe una chimera e questo spiega perché Polonia e paesi Baltici insistano per un rapido cambio nei rapporti di forza tra Russia e paesi Nato a Est.

A restare schiacciato in un gioco ormai apertamente geopolitico rischia di restare l’ampio movimento democratico e femminista bielorusso dei mesi scorsi che aveva con intelligenza tentato di sottrarsi dalla scelta di schierarsi al di qua o al di là di quella invisibile cortina di ferro che divide ancora l’Europa nel 2021.

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Minsk: perché l’opposizione non ha rovesciato il regime? https://ogzero.org/minsk-perche-lopposizione-non-ha-rovesciato-il-regime/ Fri, 08 Jan 2021 12:49:46 +0000 http://ogzero.org/?p=2187 In Bielorussia proseguono le manifestazioni di protesta contro il regime di Alexander Lukashenko anche in questo gelido inverno. I riflettori dei media occidentali si sono andati via via spegnendo sulla tragedia di un popolo imprigionato da un bizzarro dittatore e con l’avanzare della stagione fredda anche le mobilitazioni autorganizzate in molte città si sono rarefatte. […]

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In Bielorussia proseguono le manifestazioni di protesta contro il regime di Alexander Lukashenko anche in questo gelido inverno. I riflettori dei media occidentali si sono andati via via spegnendo sulla tragedia di un popolo imprigionato da un bizzarro dittatore e con l’avanzare della stagione fredda anche le mobilitazioni autorganizzate in molte città si sono rarefatte. Da più di un mese i gruppi dell’opposizione e i collettivi informali di caseggiato a Minsk hanno deciso di evitare l’organizzazione di manifestazioni centrali che aveva punteggiato la straordinaria estate bielorussa, e si sono concentrati su iniziative di quartiere. Per far “passare ’a nuttata”, ma soprattutto per evitare un impietoso confronto tra le mobilitazioni oceaniche di qualche mese fa e quelle che l’opposizione sarebbe in grado di mettere in campo ora.

proteste a Minsk

Proteste oceaniche a Minsk in agosto 2020 (foto di Ruslan Kalnitsky)

Dunque a cinque mesi dall’inizio delle proteste seguite alle presidenziali, elezioni-farsa del 9 agosto scorso, la prospettiva di un cambio di regime appare oggi meno probabile, almeno a breve termine. E molti si chiedono: perché l’opposizione non è riuscita a rovesciare il Conducator di Minsk? Quali sono stati i suoi limiti? E, soprattutto, quali sono le prospettive?

Per rispondere a queste domande varrà la pena fare un passo indietro, anzi due.

Perché non hanno rovesciato il Conducator?

La società bielorussa già da anni appare divisa. Da una parte ci sono i settori più dinamici della società, raccolti intorno alla nuovissima industria hi-tech, al commercio al minuto, a un crescente movimento femminista (non tout court riconducibile per tematiche e radicalità a quello occidentale), alla gioventù delle aree metropolitane che richiedono a gran voce allentamento dell’autoritarismo, della grettezza misogina, un nuovo ascensore sociale che permetta l’ascesa non solo per chi è legato all’apparato presidenziale o alla filiera dell’industria statale. Si tratta di settori sociali urbani e metropolitani solo parzialmente riconducibili a una tendenza verso l’integrazione con il mercato dell’Unione Europea e ai suoi “valori”.

L’economia bielorussa è rimasta dall’epoca sovietica profondamente integrata a quella sovietica e la sua industria continua ad avere come mercato di sbocco (per il 60%) il mercato russo. La Russia volente o nolente, anche per i profondi legami culturali, resta un fattore della chiave per la Bielorussia, e lo resterà verosimilmente anche nel futuro. Non è un caso che solo raramente – e solo dopo che Putin ha chiaramente espresso il suo endorsement per Lukashenko – sono apparsi dei cartelli antirussi durante le manifestazioni dell’opposizione. Dall’altra parte, il regime continua a raccogliere un certo consenso – seppur passivo – nel vasto mondo agricolo bielorusso, il cui export è praticamente solo in direzione di Mosca e dell’apparato amministrativo. Un primo errore dell’opposizione è stato sottovalutare questa parte della società.

Il ruolo della classe operaia: la vendita della pelle dell’orso bielorusso

L’irrisione di “Sasha 3%” dopo un improbabile sondaggio che dava il presidente in carica una popolarità ridottissima se è servita inizialmente a dar coraggio a una opposizione marginalizzata, ha finito per diventare un boomerang quando una parte del movimento antiregime ha iniziato a credere che Lukashenko avesse perso completamente contatto con la società civile. Non essendoci elezioni libere e non manipolate nel paese è difficile valutare il grado di consenso attuale di Lukashenko ma è immaginabile pensare che possa godere ancora del 40-50% di sostegno. Ripetiamo, passivo ma sufficientemente ampio. In mezzo ai due schieramenti, c’è essenzialmente, la classe operaia. Una vasta working class composta di tradizionalissime tute blu, per nulla postfordista, che rappresenta ancora oggi nel paese slavo la metà della popolazione attiva.

Negli anni Novanta del secolo scorso e nel primo decennio del nuovo millennio questa classe operaia fu la spina dorsale del regime bielorusso. A differenza degli altri paesi ex sovietici infatti Lukashenko aveva impedito la privatizzazione di buona parte delle imprese e, malgrado i bassi salari, la piena occupazione era stata garantita assieme al mantenimento del welfare seppur in salsa sovietica. Ma le cose sono iniziate a cambiare negli ultimi anni quando i salari reali hanno cominciato a ridursi, è stata avviata la “riforma” del sistema previdenziale con l’aumento dell’età pensionabile e sono state introdotte forme di lavoro precario e tra le tute blu è iniziata a serpeggiare l’inquietudine. Si può ritenere che la maggioranza dei lavoratori delle grandi impresi delle grandi città il 9 agosto 2020 abbiano votato per la candidata unitaria dell’opposizione Svetlana Tichanovskaya, seppur con qualche perplessità.

opposizione

Svetlana Tichanovskaya, leader dell’opposizione al regime, con le sue collaboratrici (foto di Svetlana Turchenick)

Il malumore latente degli operai nei confronti del regime è poi venuto fuori in modo ancora più evidente dopo la mattanza di stile cileno contro i manifestanti seguita alle poderose manifestazioni della prima settimana dopo le elezioni-farsa che portarono alla morte di 4 persone, a decine di feriti gravi, a migliaia di arresti e alle torture in carcere. Nel giro di pochi giorni, in quel frangente, gli operai scesero in sciopero e in assemblea e misero di fatto la parola fine alle violenze più efferate degli Omon e delle forze dell’ordine. Ma non si spinsero oltre, non abbatterono il regime con lo sciopero generale. Non solo, e non soprattutto perché, la macchina repressivo-paternalistica dei “direttori rossi” si mise in moto per far rientrare gli scioperi, ma in particolare perché non si fidarono di un’ipotesi – quella propugnata dalla “direzione” del movimento di opposizione – che allude a privatizzazione e turbo-neoliberismo per la Bielorussia di domani.

La sottile linea rossa: limite invalicabile per il Cremlino

D’altro canto la presunta “direzione” del movimento si è squagliata o è stata repressa rapidamente. Ciò che è rimasto in campo è un vasto movimento semispontaneo articolato e ramificato di comitati di quartiere, studenteschi e collettivi femministi difficilmente riconducibile a ipotesi politiche definite. Un elemento di ricchezza che rappresenta al contempo un elemento di debolezza di fronte a un sistema repressivo che non ha subito defezioni e fratture particolari. Allo stesso tempo il sostegno di Putin a Lukashenko è stato in grado di stabilizzare negli ultimi mesi la situazione interna.

La traiettoria della crisi bielorussa resta una pedina decisiva nella scacchiera politica estera russa. Dmitry Peskov, il portavoce di Putin, ha sostenuto in una recente intervista televisiva, che la Bielorussia “resta una linea rossa” da non superare per i paesi occidentali e lo stesso vale per la Moldavia, o meglio ancora per la Transnistria: lo sgretolamento delle ultime cittadelle ex sovietiche alleate di Mosca rende agitati, inevitabilmente, i sonni al Cremlino.

Il livello di benessere dei cittadini bielorussi ha continuato a contrarsi, lentamente ma inesorabilmente, negli ultimi anni. Dopo aver raggiunto il suo apice nel 2014 quando, secondo la Banca mondiale, il Pil pro capite aveva raggiunto gli 8300 dollari al tasso attuale di cambio, nel 2019 si è attestato a 6700 dollari. Il confronto con la vicina Polonia dove è quasi il triplo, continua a essere, da questo punto di vista, impietoso. La gestione – disastrosa, in tutta una prima fase da parte di Lukashenko – della pandemia è stata corretta in una posizione non apertamente “negazionista” anche se di lockdown non si è mai parlato e Mosca ora sta mandando a Minsk già decine di migliaia di dosi di vaccino anti-Covid19. Mosca ha teso una mano alla repubblica bielorussa già da settembre: durante un incontro ai massimi vertici a Soci il presidente russo non è stato prodigo solo di un sostegno formale a Lukashenko, ma ha concordato un prestito a Minsk per un importo di 1,5 miliardi di dollari.

Il dispendioso paternalismo energetico russo potrà contenere il malcontento?

In precedenza Mosca aveva sovvenzionato una media del 10% del Pil bielorusso attraverso prestiti, sconti sul petrolio e gas, altre regalie. La stessa centrale nucleare appena costruita da Rosatom sul territorio del piccolo paese slavo è stata di fatto completamente finanziata da Mosca e non verrà, verosimilmente, mai ripagata. Si tratta di una politica di patronato che un alleato come la Russia, anche in epoca sovietica, ha sempre tradizionalmente sviluppato, per tenere al guinzaglio i paesi delle allora “democrazie popolari”, però costosa e non priva di rischi.

Riprenderanno dunque vigore le manifestazioni con i primi tepori primaverili? C’è da ritenere di sì. La società bielorussa appare ormai frantumata e le contraddizioni apertesi non appaiono più ricomponibili. L’ipotesi che si vada verso uno scenario polacco appare verosimile. Dopo l’esplosione di Solidarność il generale Yaruzelski, negli anni Ottanta del XX secolo, riuscì a mantenere a galla il paese con l’aiuto del “grande fratello” russo per qualche anno, ma non riuscì mai a stabilizzare definitivamente la situazione. Per Lukashenko si tratta di un incubo, ma le alternative per lui non sono molte. Un effetto di trascinamento della crisi, allo stesso tempo, spingerebbe il movimento democratico sempre più nelle braccia dei paesi occidentali come già successe a Varsavia, i quali anelano a trasformare la Bielorussia in una sorta di Svizzera tax-free con forza-lavoro a basso prezzo. Una soluzione a cui guardano con particolare interesse i paesi del gruppo di Visegrád e i baltici. In questo contesto la Bielorussia rischierebbe di trasformarsi in un altro tassello di quella filiera di paesi dell’Unione Europea, politicamente reazionari soprattutto per quanto riguarda i diritti civili e dei lavoratori.

Boiardi bielorussi in orbita moscovita: disperati epigoni di Sasha

Una prospettiva che i facitori della politica estera del Cremlino vogliono disperatamente evitare. Per mantenere la sua influenza in Bielorussia, Mosca intende creare una rete di leader politici, strutture, think tank e anche una rete informativa. A questo proposito, si sta sviluppando la cosiddetta “Strategia di lavoro nella Repubblica di Bielorussia”, per giungere alla formazione di un partito di opposizione moderato filorusso, che secondo il portale “The Insider”, dovrebbe denominarsi “Diritto del popolo”. Già da settembre-ottobre si starebbe alacremente lavorando a questa soluzione dopo che Lukashenko si è rifiutato di scarcerare Viktor Babariko, il candidato più moderato tra quelli non ammessi al voto di quest’estate e legato a doppio filo con il colosso del gas russo Gazprom.

Tra gli uomini che dovrebbero far salpare a breve il “partito russo” ci sarebbero il presidente del consiglio di amministrazione dell’associazione Assistenza e sviluppo Maxim Leonenkov, il fondatore della Ferment Valery Bestolkov, il presidente del consiglio di amministrazione di Farmland Ivan Logovoy, il direttore del Centro per la trasformazione digitale Maxim Tarasevich, il presidente di Confindustria bielorussa Alexander Shvets, il cofondatore della Ipm Business School, Pavel Daneiko. Un pacchetto di mischia di tecnocrati pronto a gestire l’addio di Lukashenko senza allentare gli storici legami con Mosca. L’obiettivo sarebbe quello di trovare consenso nella “classe media” bielorussa con un programma ben calibrato di privatizzazioni di piccole e medie imprese e un ampliamento e modernizzazione del sistema distributivo. Che l’operazione possa riuscire è dubbio, anche perché rischia di essere una gara contro il tempo. E il tempo a Minsk rischia di scadere, se non è già scaduto.

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