Libano Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/libano/ geopolitica etc Fri, 03 Jan 2025 00:18:40 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Le missioni di Peacekeeping. 3: la guardia al bidone di Unifil in Sudovest asiatico https://ogzero.org/le-missioni-di-peacekeeping-3-la-guardia-al-bidone-di-unifil-in-sudovest-asiatico/ Thu, 02 Jan 2025 21:47:02 +0000 https://ogzero.org/?p=13568 Con questa terza puntata si conclude per ora lo studio di Fabiana Triburgo sulla giurisprudenza internazionale che regola le missioni dell’Onu e che esemplarmente sono state analizzate nelle due puntate precedenti in Congo (Monusco) e nei Balcani (Unmik). La missione oggetto di studio è una delle più citate negli ultimi tempi, ma l’intera  sua storia […]

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Con questa terza puntata si conclude per ora lo studio di Fabiana Triburgo sulla giurisprudenza internazionale che regola le missioni dell’Onu e che esemplarmente sono state analizzate nelle due puntate precedenti in Congo (Monusco) e nei Balcani (Unmik). La missione oggetto di studio è una delle più citate negli ultimi tempi, ma l’intera  sua storia è stata travagliata, perché finché la diplomazia internazionale era regolata dai principi scaturiti dall’equilibrio scaturito con la fine della Seconda guerra mondiale Unifil aveva posto un apparente argine al neocolonialismo ebraico.


Risoluzione 1701: La ventennale Blue Line dell’Unifil libanese

Mediante il medesimo meccanismo è stato istituito il Tribunale speciale per il Libano creato nel 2007 dalle Nazioni Unite con il governo libanese. L’accordo tuttavia non è stato ratificato dal parlamento libanese per cui l’attività del tribunale è stata imposta dal Consiglio di Sicurezza ex Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite con Risoluzione n. 1757 del 30 maggio 2007. Anche in Libano, terreno nel quale ancora oggi si scontrano Israele ed Hezbollah, è schierata dal 2006 una forza di pace delle Nazioni Unite: l’Unifil (United Nation Interim Force in Lebanon) per quasi vent’anni era riuscita a evitare che tra i due opposti schieramenti si verificassero più gravi eventi che avrebbero potuto far degenerare la situazione. Tuttavia i recenti scontri tra Hezbollah (o “Partito di Dio”) e Israele hanno portato a far riflettere più stati – a livello internazionale – sulla necessità di ritirare i propri soldati dalla Missione. La missione Unifil in realtà è stata originariamente istituita nel 1978 (Risoluzione n. 425/426) per confermare il ritiro delle forze israeliane, ripristinare la pace internazionale e assicurare che il governo del Libano riprendesse l’effettivo esercizio della sua autorità territoriale nell’area. Successivamente, nel 1982, con la Risoluzione n. 501 la missione è stata implementata e potenziata al fine di garantire la protezione e l’assistenza umanitaria alla popolazione. Il 1982 infatti è l’anno della prima guerra israelo-libanese, iniziata mediante l’operazione “Pace in Galilea” condotta da Israele per sradicare dal Sud del Libano la presenza di palestinesi armati che ipotizzava si nascondessero tra i profughi proseguendo poi fino a Beirut, città nella quale aveva sede l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina). Con l’intervento sotto il patrocinio delle Nazioni Unite si è cercato quindi di evitare un’ulteriore escalation della guerra per cui si è agevolata la partenza da Beirut per Tunisi del presidente dell’Olp Arafat e dei suoi uomini, costringendo gli altri appartenenti alle forze armate palestinesi a riversarsi nelle città limitrofe. Nel 2000 con il ritiro delle forze israeliane, la missione Unifil – mantenendosi nuovamente sul ripristino della pace e della sicurezza internazionale – è divenuta una missione di monitoraggio e di osservazione. Così nello stesso anno è stata istituita dalle forze dell’Onu la Blue Line ossia la demarcazione del confine tra i due stati lunga circa 51 chilometri come limite del ritiro delle forze militari israeliane dal Sud del Libano. Nel 2004 con la Risoluzione n. 1559 il Consiglio di Sicurezza ha richiesto il rigoroso rispetto dell’integrità territoriale e dell’indipendenza del Libano chiedendo ufficialmente il completo ritiro delle forze militari israeliane dal paese nonché il disarmo di tutte le forze militari sul campo, libanesi e non. Il 2006 invece è l’anno del secondo conflitto israelo-libanese iniziato con l’offensiva di Hezbollah contro una pattuglia dell’esercito israeliano e proseguito con la violenta reazione di Israele che aveva lo scopo di neutralizzare l’intero apparato di Hezbollah. È in questo contesto che l’11 agosto del 2006 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu è intervenuto con la Risoluzione n. 1701 che ha imposto l’immediata cessazione delle ostilità, il ritiro di Israele dal Sud del Libano, il supporto allo spiegamento delle forze libanesi in tutto il Libano meridionale, la garanzia dell’accesso umanitario alla popolazione civile, l’assicurazione del ritorno volontario e sicuro degli sfollati, nonché l’assistenza al governo libanese per impedire l’accesso irregolare di armi e per  proteggere i suoi confini. Infatti ancora oggi lo scopo della missione Unifil è quello di presidiare la cosiddetta “Blue Line”, ossia quella zona cuscinetto nella quale è consentito solo all’esercito libanese e ai peacekeepers dell’Onu di possedere armi ed equipaggiamento militare.

La Risoluzione n. 1701 è stata rinnovata ad agosto del 2024 con la quale il Consiglio di Sicurezza ha mantenuto per Unifil lo stesso mandato della Risoluzione del 2006 ma prolungandolo fino ad agosto 2025. Alla fine di settembre del 2024 tuttavia le Forze di difesa Israeliane (Idf) hanno ucciso un numero di persone equivalente a un mese di combattimenti nell’estate del 2006: tra la notte di domenica 22 settembre e martedì 24 settembre le vittime libanesi sono state oltre 550. L’obiettivo di Netanyahu è indebolire Hezbollah e il suo alleato iraniano per eliminare la minaccia dei razzi sul nord di Israele e quello di offrire a decine di migliaia di civili israeliani, sfollati da oltre un anno, di tornare alle proprie case. Non solo, Israele vuole costringere Hezbollah a ritirarsi dal fiume Litani a circa 40 chilometri dalla Blue Line che separa gli schieramenti militari in quanto non esiste ancora un confine internazionale riconosciuto tra il Libano e Israele. Il “Partito di Dio” dalla fine di ottobre del 2023, in seguito all’inizio della guerra israelo-palestinese, ha affermato di voler aderire al fronte anti-israeliano per accelerare la fine del progetto coloniale sionista aprendo il valico del Sud del Libano e dando sostegno a Hamas e ai palestinesi. Tuttavia, a partire dall’estate del 2024 lo stato israeliano perpetra l’assassinio di diversi capi di Hezbollah. In primo luogo, viene ucciso da Israele Fuad Situkr, alto comandante di Hezbollah e successivamente Hassan Nasrallah, storico leader alla guida di Hezbollah che ha visto il gruppo trasformarsi da una fazione di guerriglia alla forza politica più potente del Libano.
Netanyahu ha anche eliminato altri miliziani del partito facendo esplodere migliaia di “cerca persone” e “walkie talkie”, in loro dotazione, dando l’ordine di esecuzione mentre si trovava a New York presso il palazzo delle Nazioni Unite. Infine, il 30 settembre 2024 l’esercito israeliano è entrato direttamente in Libano con carri militari oltrepassando la Blue Line.

La forza Onu di mantenimento della pace ha ribadito che «qualsiasi attraversamento della linea blu viola la sovranità e l’integrità territoriale del Libano nonché la Risoluzione n. 1701 del 11 agosto 2006 dopo la guerra tra il Libano e Israele».

Da qui l’attacco israeliano contro le basi dell’Onu nel Sud del Libano, il 13 ottobre 2024. L’attacco è avvenuto dopo che nei giorni precedenti Israele ha chiesto alle truppe Unifil di spostarsi 5 km più a nord ma i soldati della missione hanno deciso di non muoversi. Con un comunicato ufficiale l’Unifil – rispetto all’attacco subito – ha dichiarato che un carro armato israeliano ha sparato contro una torretta di osservazione di una delle basi della missione più precisamente a Naqura, facendo cadere due operatori di pace di nazionalità indonesiana che sono stati ricoverati in ospedale. È stata inoltre ripetutamente colpita dalle forze militari israeliane la base principale della missione di pace sempre a Naqura.

Si ricorda che attualmente la missione Unifil – impiegata nel sud del Libano – conta oltre diecimila soldati provenienti da cinquanta paesi di cui sedici dell’Unione europea. Netanyahu ha affermato che l’Unifil deve evacuare il Sud del Libano poiché ritiene che i militari stiano fornendo «uno scudo umano ad Hezbollah». Nel novembre del 2024 c’è stato un secondo attacco alla missione con tre distinte operazioni militari mediante razzi (la prima verso il quartier generale dell’Unifil a Shama, la seconda colpendo una base della missione a Ramyet e l’ultima verso una pattuglia Unifil nei pressi del villaggio Kharbat Silim). Dopo il terzo attacco contro l’Unifil mediante il lancio di due razzi contro la “base UNP2-3” di Shama, nelle prime ore del 22 novembre 2024, l’Unifil ha dichiarato che gli ultimi due attacchi alla missione «sono avvenuti per opera di attori non statali presenti sul territorio libanese». Tuttavia si ricorda che la Missione non ha capacità sovrana, Hezbollah non ha interesse a collaborare con le Forze Onu e Israele non ha fiducia che questa possa assicurare la liberazione dal Libano meridionale dalla presenza di Hezbollah. In tale ottica solo il Consiglio di Sicurezza – che tuttavia, come noto, ha posizioni contrastanti al suo interno rispetto a tale conflitto – può dissuadere lo Stato ebraico dall’intensificare i suoi attacchi contro Unifil.

Per ora la comunità internazionale si accontenta dell’accordo del cessate il fuoco raggiunto alla fine di novembre 2024 tra i miliziani di Hamas e il governo israeliano ma emerge tutta l’impotenza dell’impianto Onu a fronteggiare effettivamente le guerre internazionali per cui quella Carta redatta all’indomani della Seconda guerra mondiale, più che un coercitivo impedimento affinché la pace e la sicurezza internazionale non vengano mai violate, sembra essere un nostalgico ricordo scritto di intenti e di speranze spesso smentito dalla realtà dei fatti.

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n. 8 – Siria (II): la Primavera e le “tre Sirie” https://ogzero.org/le-tre-sirie-non-tutte-voteranno-siria-8ii-specificita-della-primavera-siriana-e-attuale-situazione/ Wed, 26 May 2021 11:32:05 +0000 https://ogzero.org/?p=3552 Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella […]

L'articolo n. 8 – Siria (II): la Primavera e le “tre Sirie” proviene da OGzero.

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Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe umanitaria che ha fatto seguito allo scatenarsi del conflitto siriano dell’ultimo decennio, in un paese che oggi è diviso nelle tre Sirie che costituiscono una situazione geopolitica nuova.

L’autrice ha dapprima analizzato le attuali condizioni di siriani ormai integrati in realtà esterne al paese ai quali ora viene chiesto di rimpatriare, rischiando la vita e rinunciando alla nuova esistenza costruita faticosamente in esilio. L’analisi prosegue ora seguendo un percorso parzialmente a ritroso: le elezioni indette il prossimo 26 maggio, con una disamina della condizione economica e umanitaria in cui si svolgeranno e la specificità della Primavera araba nelle diverse regioni siriane; proseguirà poi collegando le modalità di protesta alla particolare peculiarità del regime alauita del clan al-Assad; le fasi della politica di Bashir – fino alla Primavera araba e dal 2011 in avanti.


n. 8, parte II

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il conflitto siriano

Specificità della Primavera siriana e attuale situazione

26 maggio 2021: elezioni siriane

Il conflitto armato siriano giunge in questo periodo a un processo importante che avverrà con le elezioni del prossimo 26 maggio. Invero molti non ravvisano, per varie ragioni in tale tornata elettorale, quella svolta tanto auspicata per il paese ormai dilaniato da una crisi umanitaria. Già nel 2014, sempre nel corso del conflitto, si sono tenute nel paese elezioni che hanno registrato la vittoria di Bashar al-Assad con circa l’80 per cento dei voti a favore. Tuttavia i presupposti che si pensava dovessero realizzarsi in occasione di tale ricorrenza istituzionale attuale, non si sono compiuti.

Ripartizione geopolitica del territorio

Queste elezioni diversamente da quelle tenutesi nel 2014 si svolgeranno in una condizione geopolitica completamente diversa: al momento le forze governative di Bashar al-Assad hanno il controllo di due terzi del territorio siriano, tanto che oggi più che di Siria si parla di “Sirie” essendo attualmente la Repubblica suddivisa in tre parti: la regione del Nord Ovest che vede come città principali Idlib e la parte a ovest della città di Aleppo, la regione a Est sotto l’amministrazione autonoma a maggioranza curda e l’area sottoposta al controllo del Regime che nel corso del conflitto ha recuperato diverse importanti e storiche roccaforti come la città di Damasco e la parte orientale della città di Aleppo, grazie soprattutto all’intervento delle milizie russe e filoiraniane.

Proprio per questa ripartizione geopolitica, oggi presente in Siria, le elezioni presidenziali non si svolgeranno in tutto il paese ma soltanto nelle aree poste sotto il controllo di Bashar al-Assad, nelle aree invece controllate dall’Amministrazione autonoma curda con buona probabilità saranno aperti i seggi solo nelle zone poste sotto il controllo di Damasco tra cui la città di Hasakah e Qamashil. Infine, nelle regioni ancora oggetto di conflitti armati da parte degli oppositori, in particolare nella parte Nord Ovest del paese, non vi sarà alcun nuovo round elettorale. Al momento Assad, tuttavia, sembra essere l’unico vero candidato e se vincesse le elezioni resterà al governo per altri sette anni. La lista dei 51 candidati dovrà infatti essere sottoposta alla Commissione elettorale secondo la Costituzione approvata in Siria nel 2012: i candidati devono ottenere il consenso di almeno 35 dei 250 membri dell’Assemblea popolare. Il raggiungimento di tale quota però sembra essere davvero irrealistico dato che il parlamento è dominato dal Partito ba’at al quale da anni appartiene la famiglia Assad e che ogni membro dell’Assemblea popolare può concedere il suo sostegno a un candidato soltanto.

Candidature e legittimazione della consultazione elettorale

Quindi è ragionevole pensare che l’Assemblea darà la possibilità soltanto ad altri tre individui, tra cui una donna, di potersi candidare al fianco di Assad per il ruolo di presidente: operazione questa che sembra essere di facciata, volta a lasciare intendere all’opinione pubblica internazionale che le elezioni si svolgeranno secondo un processo democratico.

Rispetto a questo va precisato che, come già accennato, alcuni membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, in particolare Francia, Usa e Regno Unito, hanno delegittimato anticipatamente il risultato elettorale che emergerà in esito alle elezioni del 26 maggio 2021 qualunque esso sia. Tale delegittimazione in primo luogo è intervenuta in ragione del fatto che le elezioni si svolgeranno in contrapposizione a quanto è stato stabilito con la risoluzione Onu n. 2254 adottata all’unanimità nel 2015, secondo la quale le elezioni si sarebbero dovute tenere con una supervisione internazionale e soltanto in esito all’adozione di una nuova Costituzione – ancora oggi in una fase d’impasse – che avrebbe dovuto garantire la loro trasparenza e la partecipazione da parte di tutti i cittadini siriani al voto.

La situazione economica e umanitaria nel paese

Il 15 marzo 2021 è ricorso il decennale dall’inizio del conflitto armato anche se questo si dovrebbe far coincidere con il mese di luglio del 2011, quando nacque la prima formazione ufficiale militare dei ribelli ossia l’Esercito siriano libero. Il 15 marzo 2011 iniziarono le proteste della popolazione civile nei confronti del regime guidato dal presidente Bashar al-Assad allora da undici anni al potere in Siria.

Della “primavera araba sirianagià citata insieme a quella in Tunisia, in Egitto, in Yemen e in Libia – analizzeremo in questo articolo in modo più approfondito dinamiche e caratteri peculiari. Tuttavia occorre far riferimento alla condizione generale in cui il paese si trova oggi.

Sanzioni e legame con il tracollo della banche libanesi: regime indebolito

L’attuale contesto siriano è caratterizzato da un aggravamento della situazione economica, in conseguenza anche delle sanzioni “Caesar” imposte dagli Stati Uniti il 17  giugno del 2020, alle quali  si aggiungono quelle del Regno Unito imposte proprio il 15 marzo del 2021, applicate prevalentemente ad aziende che investono nel paese – non molto comprensibili, considerata tale condizione economica soprattutto con riferimento agli effetti che queste comportano prevalentemente sulla condizione della popolazione civile – nonché da una forte svalutazione della lira siriana come abbiamo già avuto modo di rilevare con riferimento alla lira libanese.

Inoltre proprio il collasso del sistema bancario libanese dichiarato nel marzo del 2020 ha aggravato la situazione economica siriana in quanto il paese in passato aveva chiesto sostegno economico alle banche di Beirut proprio per evitare le conseguenze delle sanzioni “Caesar”.

Su una popolazione attuale di 17,5 milioni di abitanti sono circa 12 milioni le persone aventi bisogno di assistenza, essendo salito il tasso di povertà nell’ultimo periodo a circa il 90% della popolazione e viene stimato al 60% il crollo delle attività economiche. A ciò si deve aggiungere anche la complicata situazione determinatasi a seguito della diffusione del virus del Covid-19 in una situazione sanitaria già al collasso per il perdurante conflitto civile nel paese.

A causa della scarsità di risorse a disposizione del governo, vi è stato poi un indebolimento dell’esecutivo di Assad che ha prodotto come conseguenza la sospensione per qualche mese dell’avanzata delle forze lealiste verso il Nordovest del paese, nel quale sono ancora presenti le forze di opposizione e la sempre maggiore dipendenza dalle milizie russe e da quelle iraniane.

Tuttavia, Russia e Iran come vedremo devono oggi porre attenzione a non creare ancora più forti tensioni con la Turchia vista la sua ferrea volontà di mantenere una zona cuscinetto di 20-30 chilometri al confine con la Siria.

Bisogni primari e catastrofe umanitaria

Ne consegue che dieci anni dopo si può constatare che i bisogni umanitari della popolazione civile sono aumentati: dal cibo, alla casa, alle cure mediche e alle infrastrutture. Inoltre, come abbiamo accennato, non si può ignorare la condizione di circa 7 milioni di sfollati interni, numero impressionante se si aggiunge a quello di circa 6 milioni e mezzo di profughi che per il conflitto hanno lasciato il paese. Le famiglie in Siria non hanno la possibilità di comprare né cibo, né medicinali e “sopravvivono” attraverso il lavoro minorile, la riduzione dei pasti nei nuclei familiari e mediante attività illegali.

I minori sono quelli che preoccupano di più: spesso costretti ad abbandonare la scuola proprio per aiutare i genitori e i fratelli più piccoli lavorando. Ed è proprio tra i minori che si registra il drammatico aumento del numero di suicidi, soprattutto nel Nordovest del paese, dato che secondo Save the Children, nel Rapporto pubblicato il 29 aprile del 2021; il numero è salito di circa l’86 per cento in più rispetto all’anno precedente per cui in tale zona si è passati da 132 casi di suicidi all’inizio del 2020 fino a 246 a fine anno: quasi un tentativo di suicidio su cinque è di un bambino di età pari o inferiore a 15 anni.

 

Questa situazione è di una gravità senza precedenti e difficile da accettare penso per qualsiasi individuo. Occorre quindi soffermarsi un istante a pensare: se si arriva al compimento di tale atto possiamo solo immaginare quanto sia percepito ostile da parte dei bambini siriani l’ambiente in cui si trovano. Questi bambini sono minori che non hanno da diversi anni quasi alcuna possibilità di istruzione, cresciuti anno dopo anno nella guerra e ora anche nell’indigenza familiare e nella condizione della diffusione di un virus senza mezzi per contenerlo o curarlo. Per loro è assente ogni speranza per il futuro. Se più bambini arrivano a pensare questo vuol dire che si sta consumando una catastrofe. Quindi data l’analisi della situazione dei minori, con particolare riferimento al Nord Ovest del paese, appare più appropriato – considerata anche la suddivisione territoriale politica che attualmente si registra in Siria – cercare di dare uno sguardo in seguito partendo dalla situazione che emerge in ciascuna delle macroaree nelle quali oggi è suddivisa la repubblica, vivendo queste – pur se inserite nella generale crisi umanitaria ed economica che coinvolge l’intera nazione – una distinta situazione geopolitica che inevitabilmente si riflette sulla condizione delle collettività in esse presenti.  

La specificità della Primavera araba siriana

Come già accennato nel marzo del 2011 si innestava quell’onda di proteste popolari che diede origine alla cosiddetta “Primavera araba siriana”. Le proteste che cominciarono a sconvolgere anche il Medioriente, oltre al Nordafrica, iniziarono in Siria nella città di Dara’a, dopo che alcuni ragazzi avevano imbrattato i muri di una scuola con graffiti contro il presidente Bashar al-Assad (“Ora tocca a te, Dottore”) – riferendosi alla caduta del regime egiziano di Mubarak – ragione per la quale i ragazzi vennero immediatamente arrestati, picchiati e torturati. In realtà, nonostante la dura e sanguinaria repressione a esse inflitta, le proteste portate avanti da migliaia di siriani per lo più giovani, pur contestando fortemente il regime, non furono inizialmente espressione di un’istanza di destituzione del regime di Assad, quanto piuttosto di quella concernente il riconoscimento delle libertà civili come quella di stampa e quella legata alla manifestazione di pensiero nonché del riconoscimento dei diritti fondamentali in favore dei cittadini siriani.

Le tre Sirie

Già in questo carattere più moderato delle proteste si riscontra la prima differenza della “primavera siriana” rispetto ad altre “primavere” nate in opposizione a regimi dittatoriali come quello di Mubarak in Egitto. Non solo, i caratteri di tali moti portati avanti dieci anni fa in Siria sono da riscontrarsi peculiari anche rispetto ad altri fenomeni. In primo luogo, in Siria diversamente da quanto è avvenuto in Egitto, il potere militare era già da anni tenuto sotto controllo dalla famiglia Assad in quanto i suoi vertici sono profondamente legati al clan familiare del regime al potere in Siria: in particolare questo aspetto ha indirettamente implicato che il presidente della repubblica non fosse destituito ma anzi sostenuto, in conseguenza dalle proteste popolari, da parte delle milizie governative. Anche se, infatti per la prima volta l’esecutivo siriano, guidato da Muhammad al-Utri, zio della moglie di Assad, il 29 marzo è stato costretto alle dimissioni, a causa delle pressioni popolari, gli equilibri del regime di Damasco non sono crollati affatto.

In secondo luogo, la cosiddetta “primavera araba siriana” non solo non ha condotto alla nomina di un nuovo capo dello stato e all’instaurazione di un nuovo sistema di governo ma è sconfinata, come vedremo meglio, in un sanguinoso quanto lungo conflitto civile nel quale il potere centrale però è rimasto sempre presente e attivo militarmente.

Vedremo che, come nel caso della Libia, nel conflitto in cui sono sconfinate le proteste, nel tempo si sono inserite altre potenze internazionali, interessate sia al mantenimento della stabilità dell’area che al mantenimento dei propri interessi nel paese.

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n. 7 – Libano: dove tutto cambia perché nulla cambi https://ogzero.org/libano-dove-tutto-cambia-perche-nulla-cambi/ Sun, 02 May 2021 09:51:01 +0000 https://ogzero.org/?p=3278 Questo contributo di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria analizza le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medio Oriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose […]

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Questo contributo di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria analizza le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medio Oriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui l’attenzione è focalizzata sul Libano: dove tutto cambia perché nulla cambi.


n. 7

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

«Non vogliamo finire come il Libano»

A un passo dalla guerra civile

Tra i richiedenti la protezione internazionale che negli ultimi dieci anni ho avuto la possibilità di ascoltare, collaborando con colleghi esperti in materia e lavorando per delle associazioni – alcune delle quali presenti al “Tavolo Nazionale Asilo” – sia per la ricostruzione della loro storia personale – finalizzata all’audizione dinanzi alla Commissione Territoriale competente – sia per la redazione dei ricorsi, in opposizione alle decisioni assunte dalle Commissioni, non ho mai incontrato un cittadino libanese. Non intendo con questo dire che in altre realtà lavorative sia necessariamente avvenuta la medesima circostanza, ma si può affermare che la nazionalità libanese non è di certo tra quelle maggiormente rappresentative del fenomeno migratorio verso l’Europa o quantomeno verso l’Italia. Tuttavia, si può dichiarare con sicurezza che tale situazione sia destinata a rimanere immutata nel tempo?

Da alcune stime infatti risulta che nel 2020 siano stati circa 45.000 i libanesi fuggiti dal paese prevalentemente in direzione di Cipro per poi ripartire, per via aerea, verso la Grecia o il Nord Europa.

Lo stallo politico e la crisi economica e sanitaria

Dall’analisi del contesto geopolitico in cui si inserisce il Libano e per alcune sue peculiarità come l’aumento, negli anni più recenti, di un già elevato numero di profughi di altre nazionalità che lo stesso paese accoglie e, soprattutto, data la condizione di forte instabilità – a un passo dal conflitto civile – nella quale oggi esso si trova, lo scenario potrebbe evolversi in altro modo. Infatti, a mio avviso, tra i paesi del Medio Oriente che nel lungo periodo potrebbero essere maggiormente interessati dal fenomeno dell’emigrazione verso l’Europa vi è anche il Libano, trovandosi attualmente in una situazione politica di stallo ma con questioni altamente difficili da superare quali quella di un’importante crisi economica finanziaria – la peggiore dalla guerra civile che ha interessato il paese dal 1975 al 1990 – con una conseguente svalutazione della lira libanese e la mancanza di possibilità di accesso ai beni di prima necessità nonché al carburante, risorsa  essenziale ai fini dell’erogazione dell’energia elettrica.

Non solo, il paese deve anche affrontare la diffusione esponenziale del virus pandemico del Covid-19 tra la popolazione, in una situazione sanitaria che può definirsi drammatica e precaria, peggiorata dall’esplosione del 4 agosto 2020 e che ha comportato un ingente numero di morti e di feriti, la carenza di strutture sanitarie preposte per il contenimento e la cura del virus – così come quelle di  altre patologie – nonché la distruzione  di edifici scolastici e di formazione, di esercizi commerciali e soprattutto di abitazioni, provocando un numero elevato di libanesi senza fissa dimora nonché il peggioramento della condizione di vita dei numerosi rifugiati che, come detto precedentemente, da anni il paese accoglie.

Il valore politico della demografia e le influenze esterne

Tra questi vi sono non solo i rifugiati palestinesi ma anche un milione e mezzo di siriani, numeri assai rilevanti a livello demografico considerato che la popolazione libanese si compone di circa 4.000.000 di abitanti. Rispetto ad altri paesi, il Libano però non ha vissuto nel 2011 una “vera Primavera araba”. Le mobilitazioni di allora, come detto, essenzialmente legate alla situazione economica disastrata – sofferta principalmente dalla popolazione – così come alla richiesta dell’applicazione di criteri democratici, nell’esercizio del potere da parte dei governi centrali, non aveva dieci anni fa ragion di esservi in Libano che, rispetto ai paesi coinvolti nei tumulti del 2011, godeva di un sistema economico e politico migliore dal punto di vista democratico, anche se comunque bisognoso di riforme urgenti e necessarie sulla ripartizione del potere politico-confessionale. Il Libano è infatti un paese eterogeneo che ha subito per molti anni e ancora oggi subisce le tensioni tra le varie comunità in esso presenti e possiede una posizione geopolitica rilevante nell’area del Medio Oriente. Questo spiega in gran parte perché alle rivendicazioni di ciascuna comunità, nel corso della storia, si siano sempre inserite le agende politiche di attori esteri come l’Iran, l’Arabia Saudita e chiaramente Israele che hanno spesso contribuito ad alimentare le tensioni già preesistenti nelle comunità libanesi.

Inoltre, tra gli attori esteri va menzionata la Francia, potenza coloniale del Libano con la quale buona parte della popolazione ha legami storici e culturali e che oggi il presidente Macron vorrebbe avesse un ruolo più importante nel paese. Negli ultimi anni il Libano ha avvertito il contraccolpo di quanto stava avvenendo in Siria e soprattutto in Iraq, anche se in modo minore. Nel 2011 il paese infatti sembrava avesse un’economia fiorente ma in realtà il suo debito pubblico equivaleva al 40 per cento del proprio Pil (esattamente il Libano oggi detiene circa 53 miliardi di debito pubblico).

Le banche libanesi, a distanza di un decennio, sono crollate e sono stati bloccati da parte del governo tutti i conti corrente con il risultato che la popolazione civile, in tale grave situazione economica, non ha la possibilità di prelevare i propri risparmi.

La situazione in Libano ha cominciato a esacerbarsi nel marzo del 2019 quando il primo ministro libanese Hassan Diab ha dichiarato che non avrebbe pagato il debito derivante da un eurobond da 1,2 miliardi di dollari in scadenza nello stesso mese di marzo a causa della disastrata condizione-economico finanziaria che ha portato il paese al default.

Le proteste per le riforme e il potere delle banche

Dal 17 ottobre del 2019 di conseguenza la popolazione civile dinanzi a una situazione di instabilità politica ed economica senza precedenti ha cominciato a manifestare nelle strade delle città libanesi contro il sistema politico settario al governo nonché contro i banchieri ritenuti responsabili, a fronte di un sistema fortemente corrotto, di aver dominato malamente il paese per decenni. Durante le proteste i manifestanti hanno chiesto l’elaborazione di riforme economico-sociali e del sistema politico poiché la classe politica al potere è rimasta pressoché invariata, per cui oggi a governare vi sono i figli o nipoti di coloro i quali hanno governato il paese nei primi decenni dalla dichiarazione di indipendenza nel 1943.

Beirut 26 febbraio 2021: i manifestanti gettano pietre contro la Banca centrale del Libano (foto di Karim Naamani).

Da metà novembre del 2019 le banche inoltre hanno imposto un controllo dei capitali limitando l’accesso alle valute straniere, prime tra tutte il dollaro e l’euro, con una conseguente svalutazione della lira libanese che ha causato anche il graduale impoverimento dei ceti medio-bassi. Quando però, all’inizio del 2020, il paese – grazie ai moti di contestazione portati avanti dalla popolazione civile – stava operando un iniziale processo di cambiamento, è intervenuto il virus, concedendo un’inaspettata “salvezza” per l’oligarchia che fino allora era stata al potere e che stava rischiando una disfatta definitiva.

Il governo tecnico di unità nazionale

Infatti, proprio a causa di tale situazione, a gennaio del 2020 in Libano è stato formato un governo tecnico di unità nazionale guidato da Hassan Diab, una rottura rispetto al modello di governo di rappresentanza di tutte le forze politiche settarie presenti nel paese che lo aveva caratterizzato per 15 anni.

L’intento della formazione di un governo tecnico sebbene la sua creazione sia stata sostenuta da Hezbollah, non è stato altro che un banale escamotage da parte della precedente classe dirigente per evitare di assumersi la responsabilità di un sistema che ormai stava correndo senza sosta verso il baratro, ma che la popolazione civile stava denunciando ad alta voce durante i tumulti già nel 2019.

Il governo tecnico è nato quindi proprio con questa logica: assumersi la responsabilità e gli oneri di decisioni economiche altamente impopolari, data la situazione economica, lasciando immuni da tale difficile governance le rappresentanze settarie precedentemente al governo che ne erano state la causa, in modo che nel mentre avrebbero potuto meglio riorganizzarsi al fine di avere una chance di riscatto della propria posizione politica dinanzi all’opinione pubblica, concretizzata paradossalmente attraverso proprio la diffusione della pandemia.

La diffusione del virus infatti ha concesso ai poteri settari la possibilità di riscattarsi, mediante un aiuto diretto alle comunità delle quali sono espressione e che il governo tecnico, così impegnato a risolvere la questione economica generalizzata, non avrebbe certamente potuto compiere mediante un intervento capillare sanitario e di sostegno a favore delle singole realtà locali. In tale situazione il primo ministro del governo tecnico Diab si è trovato così in una posizione molto difficile che implicava, da una parte la gestione di una pandemia con tutte le misure restrittive che questa comporta e, dall’altra le forti ondate di proteste popolari.

Le proteste hanno coinvolto soprattutto le zone abitate da sunniti come le città di Tripoli e Sidone ma si sono registrati anche tumulti a nord della città di Beirut dove vi è un’alta percentuale di maroniti ossia membri della comunità civile cattolica presente nel paese. Proteste sporadiche invece vi sono state a sud, nelle quali Hezbollah ha un ruolo rilevante e nel centro-sud caratterizzato da frange organizzate rappresentanti del partito comunista libanese.

Il governo ombra di Diab

Va precisato, tuttavia che il governo di Diab è pur sempre un governo ombra manovrato in un modo non molto celato da parte della precedente élite politica. L’esecutivo è comunque controllato dai partiti della coalizione ossia dalla compresenza di Hezbollah e “Corrente patriottica libera” partito formato dall’attuale capo di stato Michel Aoun e da suo genero Gibran Bassil, dal “Partito delle Forze libanesi” e quello delle Falangi che si contendono insieme al partito di Aoun il consenso dei cristiani in prevalenza maroniti.

Il leader dell’allora opposizione Saad Hariri, oggi premier, è sostenuto dall’Arabia Saudita e dai francesi a guida delle comunità sunnite. Nella gestione dell’epidemia questo rinnovato potere settario appare come detto consolidarsi: basti pensare quanto sia stata difficile la cancellazione dei voli verso l’Iran e l’Italia proprio perché fortemente osteggiata da Hezbollah, sostenuto a sua volta da Amal movimento sciita vicino a Damasco – dopo aver dichiarato il 15 marzo 2020 lo stato di “mobilitazione generale” con le conseguenti chiusure e restrizioni necessarie al contenimento del virus.

Mobilitazione e non emergenza: il freno di Hezbollah

Si deve fare attenzione proprio a tale dichiarazione:  in Libano nel 2020 è stato dichiarato lo stato di “mobilitazione nazionale” ma non quello di “emergenza”  proprio a causa delle pressioni esercitate sul primo ministro da Hezbollah ostile a una concessione di maggiori poteri alle forze armate del governo libanese (LAF) in quanto rappresentano l’unica organizzazione istituzionale che mantiene un gradimento da parte della popolazione civile soprattutto di quella cristiana e a capo delle quali vi è un cristiano maronita, secondo il sistema di ripartizione delle quote al governo.

Tra le varie rappresentanze politiche va rilevato infatti che Hezbollah, probabilmente confidando sugli aiuti da parte dell’Iran, ha dichiarato sin da subito che si sarebbe occupato di gestire in prima linea l’emergenza Covid. Effettivamente il cosiddetto “Partito di Dio”, mettendo in campo decine di migliaia di medici e di paramedici per far fronte alla pandemia ha subito offerto la propria capacità di organizzazione e i propri avamposti logistici. Ciò non è estraneo alla sua natura: Hezbollah da anni fonda il suo potere su una vicinanza molto forte alle comunità locali e ha svolto la funzione di uno stato parallelo alle istituzioni spesso non presenti nelle aree rurali o in quelle più periferiche, dotando le comunità anche in passato, di scuole, ospedali, o organizzazioni a sostegno dell’edilizia e delle microimprese locali. Chiaramente il movimento sciita è anche una formazione totalitaria dotata di un proprio apparato di sicurezza e considerato dai tedeschi come un gruppo terrorista, non distinguendo più l’ala armata da quella politica del movimento. Se quindi il governo tecnico è stato costretto ad adottare, per la questione economica e per quella pandemica, decisioni totalmente impopolari, le vecchie élite al potere suddivise su base comunitaria, in modo spesso opportunistico, si sono avvicinate alle necessità concrete della popolazione civile, per esempio distribuendo cibo e test anti-Covid gratuiti e sanificando i quartieri appartenenti alla propria comunità di riferimento.

«Tutti ma proprio tutti!»

Tuttavia, i movimenti di protesta non guardano a nessuna appartenenza politica e si oppongono con il proprio slogan contro la corruzione nel paese al grido di «tutti e quando diciamo tutti intendiamo tutti!», mostrando in tale modo il malessere generalizzato sofferto per anni e ora quasi impossibile da reprimere, data la situazione di forte indigenza in cui si trova il Libano.

Alcuni tra i politici hanno ascoltato la voce dei manifestanti per cui il governo nel 2019 ha approvato all’unanimità un piano di riforme economiche. L’approvazione del piano è stata particolarmente rilevante in quanto ha consentito l’intervento del Fondo monetario internazionale. Tuttavia, nel 2020 il governo e il fondo monetario internazionale hanno sospeso i negoziati per la concessione dei finanziamenti al Libano: i negoziati sono in una fase di stallo in ragione del fatto che il governo, l’Associazione delle Banche e la Banca centrale non convergono in una posizione comune riguardo il calcolo delle perdite economiche registrate negli ultimi anni. Prima di erogare qualsiasi somma l’FMI pretende che vengano forniti dati certi e trasparenti dal punto di vista finanziario e che il governo libanese attui le riforme che sono già state approvate.

Dall’inizio della crisi economica nel 2019 sono decine i libanesi e gli stranieri presenti nel paese che si sono tolti la vita a causa della situazione economica. La sede dell’associazione delle banche è divenuta una sorta di base militare attaccata dai manifestanti che ne hanno chiesto la caduta. La società elettrica, come previsto all’inizio degli scontri, non avendo più carburante, ha cominciato a ridurre l’erogazione dell’energia elettrica in tutto il paese.

Le stime della Banca mondiale a fronte del Covid, in particolare quelle riferite allo stato di disoccupazione in Libano, sono destinate a peggiorare con il tempo. Il Libano, infatti, all’inizio della diffusione della pandemia ha cominciato a rallentare le attività fino alla decisione della totale chiusura il 15 marzo 2020 – anche se possiamo dire che questa non è stata mai rispettata dai libanesi in modo ferreo – insieme all’invito da parte del primo ministro rivolto alla popolazione di non uscire dalle proprie abitazioni salvo casi eccezionali e imponendo il coprifuoco notturno.

Le disparità sociali e l’assenza dello stato

La pandemia ha messo in risalto le disparità sociali già presenti nel paese dal punto di vista socio-economico e l’assenza dello stato centrale nelle aree periferiche lontane dalla capitale. Tale mancanza del potere istituzionale nelle zone rurali e periferiche hanno condotto all’acquisizione di un ruolo di maggiore importanza appunto da parte delle municipalità legate alle diverse comunità locali con l’effetto che queste spesso, ritenendosi una sorta di entità a sé stanti, hanno finito per discostarsi parzialmente o totalmente – mediante una diversa applicazione o non attuazione – dalle leggi o dalle direttive emanate del governo centrale.

Inoltre, deve essere anche valutata la condizione dei profughi in Libano che si si stimano circa in due milioni. Tuttavia, va precisato che il paese non è firmatario della Convenzione di Ginevra, motivo per il quale tali profughi non godono dello status di rifugiato imposto dalla stessa Convenzione. A partire dal 2014 il governo libanese ha ordinato all’Unhcr di interrompere la registrazione dei profughi siriani dei quali solo 900.000 sono stati registrati dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite. Su una popolazione di circa 4 milioni di abitanti i profughi presenti in Libano costituiscono un terzo della popolazione civile. In questa fase in cui gli stessi libanesi si trovano in una condizione di povertà e di vulnerabilità l’ingente accoglienza dei profughi nel paese ha costituito la causa di ulteriori scontri e tensioni.

Distruzione di un campo palestinese nel Nord del Libano (foto trentinness@hotmail.com)

Le infiltrazioni dei terroristi islamici

Per capire meglio il perché di tali condizioni di alta tensione tra la popolazione e i profughi occorre riflettere sul fatto che, a partire dal 2013, tra di loro spesso si sono infiltrati miliziani del sedicente Stato Islamico e del gruppo terrorista Jabhat al-Nusra, rendendosi responsabili di un numero rilevante di attentati di stampo terroristico sia nella capitale che in altre aree del Libano, operando attivamente fino al 2017. A titolo esemplificativo occorre citare la situazione della cittadina libanese di Arsal, a venti chilometri dal confine con la Siria, ossia una delle destinazioni principali dei profughi siriani (la cittadina è arrivata nel 2013 ad avere da 30.000 a 100.000 abitanti) e nell’agosto del 2014 ha subito un forte attacco da parte di un gruppo di miliziani siriani mossi dal duplice fine di aumentare la propria capacità di azione, approdando nel territorio libanese, e di contrastare Hezbollah sostenitore del regime di Bashar al-Assad. Tale attacco ha determinato l’inizio di un conflitto durato circa tre anni che ha finito con il consolidare, aumentare o diminuire il rilievo nello scenario geopolitico di alcuni attori internazionali coinvolti in esso anche solo indirettamente. Va precisato però che il successo iniziale dell’attacco armato con un numero elevato di ostaggi è stato conseguito grazie alla segreta alleanza tra l’allora sindaco di Arsal, Ali Hojairi e le milizie islamiste che, in questo modo, hanno avuto una maggiore conoscenza degli avamposti delle forze militari libanesi. Nonostante Hezbollah sia stato ampiamente criticato in quanto ritenuto responsabile dell’ingresso dei miliziani, dato il suo sostegno al regime siriano, sono state proprio le sue truppe a sferrare l’offensiva finale contro i miliziani nel 2017 nella stessa periferia della cittadina di Arsal con la conseguente decretazione della vittoria da parte di Hassan Nasrallah, leader del gruppo sciita che indubbiamente, dopo il conflitto, ha visto aumentare la propria capacità politica nel paese.

I negoziati con Israele

Questo ruolo di difensore dei confini territoriali libanesi era già stato svolto da Hezbollah in passato nelle operazioni militari nel 2000 e nel 2006 contro Israele ritenuto nemico storico del paese e che di recente è tornato alla ribalta nello scenario libanese proprio in relazione alla questione della delimitazione di confini. Il ministro uscente dei Lavori pubblici libanese di recente ha chiesto con l’emendamento al decreto n. 6433 proposto il 12 aprile 2021 di estendere l’area, ricca di idrocarburi, contesa da anni con Israele da 860 a 1432 chilometri quadrati. L’emendamento si pone all’interno delle dinamiche dei negoziati inaugurati il 14 ottobre del 2020 tra Libano e Israele – mediati dagli Sati Uniti e sotto l’egida delle Nazioni Unite – per la delimitazione dei propri territori in particolare della fascia a sud del paese definita blue line che ha visto in passato concentrarsi gli scontri più violenti tra i due stati in quanto entrambi sostengono che tale area rientri nella propria zona economica esclusiva (Zee) e dove da anni è presente il contingente italiano dell’Onu con la missione UNIFIL.

Pattugliamenti della Missione Unifil nella “blue line”

Tuttavia, il presidente Aoun ad aprile si è rifiutato di approvare tale emendamento. Alcuni hanno precisato che non vi è stato un rifiuto ma solo la richiesta di rinviare la questione alla trattazione nel corso di una riunione a livello governativo, viste le delicate conseguenze che potrebbero derivare dall’approvazione dell’emendamento in questo momento. Inoltre, anche se i negoziati riguardano solo i confini marittimi, c’è da dire che il Libano da anni rivendica anche le cosiddette fattorie di Sheeba, circa un chilometro quadrato da dove gli israeliani non si sono ritirati dal 2000 dopo l’occupazione del Sud del paese iniziata nel 1978 e dove Israele attualmente sta costruendo un muro.

La discriminazione nei confronti dei profughi siriani

Come dicevamo le misure restrittive anti-Covid-19 adottate come necessarie per il contrasto della diffusione della pandemia hanno finito per essere strumentalizzate dal governo centrale, così come dalle singole comunità locali presenti in Libano, con fini discriminatori contro i profughi. Basti pensare che all’inizio del 2020, quando ancora non erano state attivate per la popolazione civile le misure per il contrasto del virus, per il 40 per cento dei siriani veniva già imposto il regime di coprifuoco, per loro i test sono stati eseguiti solamente nel maggio dello scorso anno grazie all’intervento delle Nazioni Unite così come dalle ong già presenti da diversi anni come figure di riferimento nei campi dove questi risiedono. I profughi nel contesto pandemico non sono stati destinatari, diversamente dal resto della popolazione civile, di misure di informazione e di prevenzione necessarie per evitare i contagi. Non solo, in Libano si può essere curati gratuitamente solo in un ospedale a Beirut che difficilmente viene raggiunto dai profughi tanta è la contestazione generalizzata della loro presenza nel paese e dati gli atteggiamenti discriminatori spesso rivolti nei loro confronti. Vi è da dire che anche per molti libanesi provenienti dalle aree rurali è molto complesso raggiungere tale presidio ospedaliero gratuito nella capitale, stante la quasi totale assenza di mezzi di trasporto pubblico, determinata dalla crisi economica.

È chiaro che tutta questa situazione è diventata ancora più drammatica in seguito all’esplosione del 4 agosto 2020, della quale tratteremo in seguito in modo più approfondito, e in esito alla quale oltre a essere andate distrutte scuole e abitazioni sono stati gravemente danneggiati proprio gli stessi ospedali per cui i pazienti ricoverati a Beirut sono stati fatti evacuare in altri ospedali sul territorio nazionale.

Le violazioni della Convenzione di Ginevra

Sia le Nazioni Unite che le ong operano in Libano all’interno del contesto di un piano approvato dal governo insieme all’Onu nel 2015 per il miglioramento delle condizioni di vita tanto dei profughi siriani quanto della popolazione libanese in condizione di vulnerabilità. Il piano esplica i suoi effetti essenzialmente su due fronti: quello umanitario, attraverso l’applicazione di strumenti che possano fronteggiare l’emergenza e quello dello sviluppo, finalizzato all’integrazione dei profughi con la popolazione civile libanese che viene attuato mediante una progressiva inclusione dei profughi siriani nel mercato del lavoro in Libano potenziando anche a loro favore i servizi presenti a livello locale come scuole, ospedali e alloggi. Se però le misure sul fronte umanitario vengono effettivamente poste in essere, quelle volte all’integrazione dei profughi nel paese incontrano maggiori ostacoli nella loro attuazione, vista anche la posizione del presidente siriano Bashar al-Assad che negli ultimi anni sta premendo per il rimpatrio dei propri cittadini fuggiti all’estero in particolare proprio verso i territori libanesi. Al riguardo va sicuramente segnalato il Rapporto di Amnesty International del 23 marzo del 2021 I wish I would die che ha documentato presunte violazioni perpetrate dai servizi segreti militari libanesi contro i rifugiati siriani detenuti preventivamente con l’accusa di terrorismo e che hanno subito non solo la violazione del loro diritto a un equo processo ma anche atti qualificabili come torture, violenze sessuali e trattamenti disumani e degradanti.

Le ricerche sulle quali si basa il report sono state portate avanti dalla nota organizzazione internazionale tra giugno del 2020 e febbraio del 2021 e riguardano fatti avvenuti tra il 2014 e la fine del 2019: sono state intervistate 26 persone aventi una fascia di età compresa tra i 22 e i 55 anni e tra i quali vi sono anche due ragazzi che al momento dell’arresto avevano 15 e 16 anni e alcuni degli intervistati sono ancora in carcere.

Amnesty in esito alle indagini ha scritto due volte al ministero dell’Interno, della Difesa e della Giustizia chiedendo chiarezza. Occorre sottolineare che il Libano oltre a non aver ratificato la Convenzione di Ginevra ha approvato la legge contro la tortura solo nel 2017 ma anche durante la sua vigenza è stata più volte segnalata la sua mancata attuazione.

Fonte: Amnesty International

L’opportunismo dei partiti

È necessario tuttavia precisare che molte ong presenti in Libano possono operare oggi soltanto grazie all’appoggio di alcuni partiti politici e di confessioni religiose, presenti nelle comunità locali, riproponendo così quell’atteggiamento opportunistico che chiede come contropartita degli aiuti offerti ai profughi quella della realizzazione dei propri fini ed interessi personali in un’ottica di rafforzamento del proprio potere all’interno della vita politica in Libano.

Inoltre, c’è da dire che da ormai dieci anni la posizione comune delle fazioni politiche libanesi si è del tutto uniformata sulla posizione di un ritorno dei profughi siriani, nonostante l’intervento esemplare di alcune municipalità come quella di Bsharre, nel Nord del Libano. Tale elemento è fortemente allarmante, data la presenza al potere in Siria del regime contestato ma ancora guidato da Bashar al-Assad.

L’esplosione al porto: e Beirut diventa periferica

A ogni modo, come accennato sopra, la situazione nel paese è peggiorata in modo catastrofico per tutti i residenti in Libano a causa della duplice esplosione del 4 agosto del 2020 considerata la più potente deflagrazione non nucleare della storia e che ha avuto come epicentro proprio il porto di Beirut che, con la seconda esplosione, ha visto la distruzione di tutti i quartieri posizionati sul versante settentrionale della capitale e sulla costa. Fortunatamente una parte dell’esplosione si è riversata in mare ma circa 200 sono state le vittime e migliaia di persone, più di 6000, quelle gravemente ferite e al momento non è chiaro ancora se si tratti di un incidente o di un attentato.

Dopo l’esplosione del 4 agosto 2020 al porto di Beirut (foto Anna_Om).

L’esplosione per intenderci è stata pari a un decimo di quella di Hiroshima. Dalle immagini trasmesse dai media quest’estate a livello internazionale si nota che l’esplosione sia avvenuta in due tempi distinti: la prima con un impatto minore e di un colore tendente al grigiastro, l’altra, immediatamente dopo, di immensa portata e di colore prevalentemente rossastro con un’onda d’urto che ha provocato danni a sette chilometri di distanza dall’epicentro. Come dicevamo, con la deflagrazione, è stato colpito in primo luogo il porto della capitale storico luogo strategico economico commerciale del Medio Oriente e simbolo dell’economia imprenditoriale della città di Beirut che in una situazione già al limite dal punto di vista economico-finanziario, in esito a tale accadimento, ha subito un durissimo contraccolpo. Sono state invece colpite meno le zone centrali e a sud della città e sono stati del tutto risparmiati i quartieri occidentali e sud-occidentali.

Beirut in questo modo ha smesso, almeno per il momento di essere il centro di buona parte degli affari nell’area mediorientale. Inoltre, nonostante le dichiarazioni all’indomani dell’evento, dell’attuale leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, questa volta, il movimento politico religioso non ha messo in atto, come in seguito allo scoppio della pandemia, la mobilitazione di aiuti e di sostegno nei propri quartieri di riferimento.

In ogni caso dal 4 agosto 2020 Beirut non è più il centro ma una area periferica del Libano. Tuttavia, il fatto che non sia ancora chiaro se la deflagrazione sia la conseguenza di un incidente o invece di un atto volontario non implica l’impossibilità di formulare delle ipotesi in merito all’accaduto.

Le indagini e i dubbi

La prima ipotesi è sicuramente quella di un “errore umano” o meglio quella di una deflagrazione spontanea in conseguenza del degrado del materiale, costituito da circa 2750 tonnellate di nitrato di ammonio, ossia di un fertilizzante ma con proprietà esplosive, contenuto nell’hangar n. 12 al porto. La comunicazione dell’esistenza di tale materiale era stata più volte notificata alle autorità istituzionali, ossia al presidente Aoun, ai vari premier e ai ministri che si sono succeduti nel tempo.

La seconda ipotesi invece si basa sull’idea di un presunto attacco israeliano (Israele nega qualsiasi coinvolgimento) che avrebbe avuto come mira la mole di missili di Hezbollah presenti in quell’area ma che non ha tenuto conto della presenza di altro materiale suscettibile alla deflagrazione.

La terza ipotesi è riconducibile al fatto che l’evento tragico si è concretizzato in due momenti. Questo può voler dire che la prima esplosione sia derivata da un fatto volontario internazionale, connesso con il processo penale che in quella parte della capitale si stava svolgendo in conseguenza della morte per attentato nel 2005  del premier Rafiq al-Hariri, padre dell’attuale primo ministro, sostenuto dall’Arabia Saudita e non gradito per questo né da parte sciita ossia da Hezbollah – movimento a favore dell’ingerenza iraniana nel Paese – né dai siriani che rivendicano un’influenza estera prevalente nel paese. Secondo sempre tale teoria la seconda esplosione invece sarebbe stata del tutto involontaria.

Infine, la quarta ipotesi, è quella di un attentato premeditato di cui al momento l’autore è sconosciuto finalizzato proprio a far precipitare nel baratro il paese.

Inoltre il giudice Sawan – che inizialmente aveva intrapreso le prime indagini sull’accaduto e in particolare sui ministri che erano stati informati in passato della presenza del materiale esplosivo in prossimità del luogo della  deflagrazione – è stato destituito dalla Corte di Cassazione libanese e al suo posto è stato nominato un nuovo giudice che, sebbene sia considerato uomo valido a capo della Corte del Tribunale di Beirut, ha dato adito a dubbi circa l’imparzialità del potere giurisdizionale in merito alla vicenda.

Gli aiuti non proprio disinteressati

Le prime necessità dopo l’esplosione sono state quelle del rifornimento di medicinali, di alimenti e di materassi per dormire in strada, mentre dal punto di vista delle infrastrutture, è stata data priorità alla ricostruzione delle abitazioni, alcune delle quali patrimonio dell’Unesco. La popolazione, questa volta però, ha chiesto che i fondi derivanti dagli aiuti internazionali siano gestiti direttamente dalle ong e non dai governi locali e il presidente Macron ha dichiarato la necessità della tracciabilità dei medesimi. Infatti, il presidente francese ha visitato tempestivamente il paese esattamente due giorni dopo l’esplosione mentre a seguire immediatamente vi sono stati Russia, Iran, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Turchia e Stati Uniti che hanno inviato prevalentemente aiuti medici per la popolazione libanese. Tuttavia, tali aiuti non possono definirsi in tutti i casi “disinteressati” ma rivelano spesso piuttosto la volontà di taluni attori internazionali a sostituirsi al governo del paese in un momento in cui il rapporto di fiducia tra esecutivo e popolazione è totalmente logorato. Simile processo in Libano già si era determinato al momento della diffusione del virus del Covid-19 per cui il Libano è di nuovo oggi il campo su cui si muovono le tattiche geopolitiche di alcuni stati esteri. In questa logica Turchia e Qatar sono alleate tra loro e al loro intervento si oppongono Emirati Arabi Uniti e Russia. La Francia per i motivi succitati ha un ruolo prima facie prevalente mentre Israele ha dimostrato difficoltà a inserirsi in tali dinamiche.

Il divisivo intervento francese in rapporto allo scacchiere internazionale

Secondo l’analisi di questa spinta internazionale alla solidarietà prevale, per taluni, l’ipotesi che l’esplosione del 4 agosto non sia stata uno scoppio accidentale ma organizzato da chi avrebbe un interesse a detenere il potere in Libano; ardua risulta l’individuazione dei possibili mandanti, dati i molteplici attori della politica libanese e, al contempo, le numerose potenze estere che si fronteggiano in quest’area del Medio Oriente. L’immediata partecipazione francese dall’altra parte ha fermato almeno in una prima fase qualsiasi intervento di aiuto da parte dell’Unione Europea. L’Italia nelle vesti dell’allora premier al governo si è recata simbolicamente in Libano l’8 settembre dello scorso anno per dare il suo contributo in questa corsa agli aiuti portata avanti dalle grandi potenze internazionali e mantenendo come spesso avviene un ruolo più marginale. Dall’altra parte infatti il presidente francese in esito all’esplosione ha promesso di organizzare una raccolta fondi per gli aiuti umanitari e ha fissato l’agenda per la formazione di un nuovo esecutivo vantando in questo luogo una posizione maggiormente strategica rispetto a quella che detiene in Libia in cui, negli ultimi anni, hanno dominato Russia e Turchia nell’affermazione di un potere politico straniero da affiancare alle forze politiche locali. La presenza francese in Libano tuttavia divide fortemente e ciò si evince dalle dichiarazioni, in chiave polemica, della parte filosiriana, presente nel paese, la quale nell’agosto del 2020 – dopo le numerose proteste della popolazione civile che hanno portato alle dimissioni del primo ministro Diab – ha affermato che il nuovo premier incaricato dal Parlamento libanese di formare un governo, ossia Mustapha Adib, fosse particolarmente sostenuto da Macron.

Inoltre, la Francia ha affermato in più occasioni che l’ala militare di Hezbollah non debba essere considerata una diversa espressione di un gruppo politico al potere oggi in Libano, quanto piuttosto un gruppo terroristico come sostenuto in modo più drastico già dalla Germania ma completamente in disaccordo con l’opinione del Cremlino che considera il gruppo un rilevante partner politico e non un gruppo terrorista. D’altronde i rapporti tra Russia e Libano hanno radici profonde: Mosca ha aiutato fortemente Hezbollah nella guerra del 2006 in Libano al fine di rafforzare la propria posizione rispetto a Teheran. Infine, il presidente francese, fortemente contestato in Francia per la volontà di applicare misure di austerità economica, in Libano è stato destinatario di molteplici istanze di cambiamento da parte della popolazione civile libanese che ha chiesto di essere aiutata direttamente aggirando la classe politica libanese, ritenuta fortemente corrotta.

Il turnover ai vertici libanesi

Tuttavia, il 27 settembre 2020 il premier incaricato dal parlamento libanese Mustapha Adib si è dimesso e ha deciso di ritornare a svolgere il ruolo di ambasciatore in Germania.  A quel punto il presidente Emmanuel Macron ha contestato tutti i leader politici libanesi incluso il capo di stato Michel Aoun e ha attaccato duramente Hezbollah e Amal sostenendo che il suo principale interesse fosse quello di volere il superamento di un sistema politico confessionale, ma ciò che sembra emergere è piuttosto la volontà di mantenere protetti a ogni costo i propri interessi nell’area.

Nell’ottobre del 2020, il Parlamento ha deciso così di assegnare un nuovo mandato a Saad Hariri, leader del partito politico a carattere sunnita Movimento per il Futuro, già primo ministro del Libano dal 18 dicembre del 2016 al 19 dicembre del 2019, e precedentemente dal 14 febbraio 2005 dopo l’assassinio del padre Rafiq Hariri e, in seguito, da giugno 2009 a gennaio del 2011.

Attualmente il paese si trova comunque ancora in una situazione di stallo politico. Dal 22 ottobre del 2020 Saad Hariri si è impegnato a risanare la situazione politica del paese dopo aver ottenuto 65 voti su 120 da parte del Parlamento. Uscito di scena proprio dall’ottobre del 2019 per via delle proteste popolari, è stato chiamato nuovamente a guidare il Libano in conseguenza della tragica deflagrazione e delle dimissioni conseguenti a questa da parte dei suoi predecessori nell’arco di pochi mesi. A creare questa condizione di stallo sono le divergenze tra il capo di stato Aoun e lo stesso presidente Hariri per cui non si riesce a convergere in una posizione comune rispetto a una riforma della Costituzione.

«Il popolo non perdonerà»

Nel 2021 le proteste della popolazione civile contro la classe politica al potere sono di nuovo scoppiate la sera del 25 gennaio, nonostante le restrizioni e il coprifuoco imposti per via del Covid, a Beirut, a Tripoli nel Nord del Libano e nella città meridionale di Sidone.

Ciò in conseguenza del fatto che il governo, il 21 gennaio 2021, ha annunciato un’estensione delle suddette misure Covid fino all’8 febbraio del 2021 che hanno implicato la chiusura di numerose attività commerciali e uffici istituzionali in un paese al momento nel baratro per la crisi economico-finanziaria, resa nota nel marzo del 2019. Ciò è avvenuto a causa del sensibile aumento della curva dei contagi dopo che il governo libanese, prima delle festività natalizie, aveva concesso un allentamento delle misure per favorire la ripresa della disastrata economia libanese. Inoltre in Libano il 27, il 28 e il 31 gennaio 2021 gli scontri tra la popolazione e i militari hanno causato un secondo morto e si registrano circa 400 feriti dall’inizio delle manifestazioni popolari. A gennaio 2021 vi è stato anche l’attacco da parte dei manifestanti degli uffici del Comune a Beirut ma diversi violenti tumulti si sono verificati anche a Tripoli , definiti dal presidente Hariri crimini organizzati e premeditati. I principali rappresentanti delle comunità cristiane e musulmane libanesi hanno contestato nuovamente l’élite al potere, questa volta al grido “Il popolo non perdonerà. La storia non dimenticherà” chiedendo un governo di “salvezza nazionale”.

Proteste antigovernative in Libano (foto Anna_Om).

Niente aiuti senza un nuovo governo

Per tale ragione a febbraio del 2021 il premier Hariri e il presidente Macron si sono confrontati sulla situazione in un incontro privato all’Eliseo in particolare sugli ostacoli che si stanno determinando tra il leader e il presidente Aoun in merito alla formazione di un nuovo governo libanese, fondamentale per la concessione e l’elargizione delle donazioni delle varie potenze internazionali incluso il Fondo monetario internazionale, vista la perdurante situazione di corruzione. A tale situazione si aggiunge che nel marzo del 2021 la lira libanese ha raggiunto il suo minimo storico toccando quota 10.000 rispetto al dollaro Usa e la crescente svalutazione della moneta nazionale ha comportato un aumento del livello dei prezzi al 144 per cento per i beni di prima necessità. Dal mese di ottobre 2020 la valuta libanese ha infatti subito un calo pari al 70 per cento.

In un discorso in diretta televisiva il 17 marzo 2021 il presidente Aoun ha esortato il premier Hariri a formare un governo o a dimettersi, ma in realtà il premier ha già proposto al capo di stato una squadra il 9 dicembre 2020, composta da 18 ministri apartitici, che non ha ottenuto l’approvazione di Michel Aoun.

Il ministro dell’Interno libanese a fine marzo ha dichiarato che nell’ultimo periodo «c’è maggiore possibilità di violazioni di attentati e omicidi vari nel paese».

Il 22 marzo 2021 quindi si è tenuto un incontro tra il presidente del Libano Aoun e il premier designato Saad Hariri che, tuttavia, anche in questa circostanza non si è concluso con l’approvazione di un governo di salvezza nazionale. Hariri sostiene che l’incontro non ha avuto successo in quanto il capo di stato mette in atto comportamenti ostruzionistici derivanti dalla pretesa che nella squadra di governo vi sia a tutti i costi la maggioranza dei suoi alleati politici. Non solo, Aoun ha consegnato al premier una lista completa con già 18, 20, o 22 ministri con ancora solo alcuni posti vacanti. Hariri – che recentemente ha invitato pubblicamente anche Papa Francesco a far visita al paese come è avvenuto in Iraq – ha considerato tale gesto inaccettabile in quanto il comportamento è qualificabile come anticostituzionale, non essendo di competenza del capo dello stato formare il governo libanese.

Il fallimento delle politiche di sviluppo nel Mediterraneo orientale

La situazione che oggi si coglie in Libano, simile a quanto avvenuto recentemente in Iraq, in  Algeria e Tunisia negli ultimi anni, ha quindi qualcosa in comune con le primavere arabe del 2011; in questo caso specifico però non si tratta solo di destituire la testa di un regime quanto costruire qualcosa di soddisfacente per la popolazione civile che soffre della presenza degli stessi attori regionali del passato ma che mostra oggi, in modo evidente, la forte volontà di trovare soluzioni interne nonostante la vecchia élite politica che, come visto, non è ancora disposta a farsi da parte.

In conclusione, questa crisi può avere un impatto su una nuova ondata migratoria determinando un incremento esponenziale dei movimenti in fuga dal Libano in particolare dalla città di Tripoli: l’Italia ben presto si accorgerà del fallimento delle politiche di sviluppo nell’area del Mediterraneo orientale. A dimostrazione di ciò ci sono già i primi avvertimenti provenienti dalla Bosnia che, con riferimento a quanto sta avvenendo lungo la rotta balcanica, ha dichiarato: «Non vogliamo finire come il Libano».

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Popoli oppressi vs cinismo tattico: quale soluzione? https://ogzero.org/il-diritto-dei-popoli-all-autodeterminazione-le-lotte-comuni/ Fri, 26 Feb 2021 12:26:50 +0000 https://ogzero.org/?p=2482 Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Sartori pubblicato il 31 agosto 2014 dalla rivista “Etnie” (dove trovate, l’articolo in versione integrale) con il titolo “Indipendentismo e anarchismo: relazione impossibile?”. Ne riportiamo qui alcuni brani che danno un senso compiuto al concetto di autodeterminazione che ci interessa particolarmente quando riferito a popoli che lottano […]

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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Sartori pubblicato il 31 agosto 2014 dalla rivista “Etnie” (dove trovate, l’articolo in versione integrale) con il titolo “Indipendentismo e anarchismo: relazione impossibile?”. Ne riportiamo qui alcuni brani che danno un senso compiuto al concetto di autodeterminazione che ci interessa particolarmente quando riferito a popoli che lottano – al di là delle istanze religiose o nazionaliste – per la propria identità, con la volontà di liberare dal controllo dall’esterno di un territorio e delle genti che lo abitano.


Una premessa. Personalmente considero l’indipendentismo come uno degli aspetti assunti dalle lotte per i diritti e per l’autodeterminazione dei popoli. E l’indipendenza uno sbocco possibile, non un destino necessario.

Alla richiesta di analizzare la possibilità di un rapporto organico, stabile e strutturale tra anarchismo e indipendentismo di sinistra, ho sempre risposto con una buona dose di scetticismo.
Tuttavia, dato che le circostanze e le scelte mi avevano portato a solidarizzare con irlandesi, baschi, corsi, curdi e altri (in quanto vittime di una forma di oppressione, una delle tante che devastano questa “valle di lacrime”), senza mai rinnegare i miei trascorsi giovanili inequivocabilmente libertari, ho cercato di vivere dentro questa contraddizione. Per quanto mi è stato possibile, in base al principio della makhnovsina: «Con gli oppressi contro gli oppressori, sempre».
Che poi ci sia anche riuscito, questo è un altro paio di maniche.

L’apparato statale è indispensabile?

In una fase precedente, evidentemente in preda all’ecumenismo, mi ero spinto oltre, scrivendo che «lottare per il superamento della forma-stato a favore dell’autorganizzazione totale delle classi subalterne deriva da una concezione del mondo non dissimile da quella di chi teorizza il superamento dello stato-nazione per l’autorganizzazione della comunità popolare» 1). E mi salvavo l’anima aggiungendo un indispensabile “Forse”. Del resto le “nazioni senza stato” che hanno saputo sopravvivere, conservare tradizioni e linguaggi, combattere l’oppressione e lo sfruttamento e talvolta anche difendere la propria terra dal degrado, non dimostrano, magari senza volerlo, che l’apparato statale non è poi così indispensabile?
Penso quindi che tra libertari e indipendentisti di sinistra (“nazionalisti”? “nazionalitari”? “abertzale”?) ci si possa comunque sopportare, si possa convivere. E talvolta, di fronte al comune nemico del momento, solidarizzare, lottare insieme 2).

Lotte comuni e condivisione

La Storia infatti ha registrato lotte comuni contro capitalismo, fascismo e imperialismo, contro il nucleare e in difesa dell’ambiente, dei diritti umani e dei prigionieri…. Oltre naturalmente alla condivisione di repressione, galera, esilio. Non sono poi mancate reciproche contaminazioni, biografie familiari e personali che si sovrappongono, osmosi tra gruppi libertari e indipendentisti di sinistra.

[…]

Popoli manovrati

Ma negli ultimi anni lo scenario sembra essersi ulteriormente complicato. Non tanto per la possibilità, comunque scarse, di coniugare in maniera duratura le istanze libertarie con quelle indipendentiste. E nemmeno perché questi “nazionalisti” siano cambiati in peggio. Da parte mia mantengo un profondo rispetto per tutti quei militanti baschi, catalani, irlandesi o curdi (da Bobby Sands al Txiki) che hanno perso la vita cercando di coniugare liberazione nazionale e sociale.

Quello che è cambiato, sicuramente in peggio, è l’accresciuta capacità del sistema tecno-industriale-militare dominante (il “caro”, vecchio imperialismo, fase suprema eccetera eccetera) di strumentalizzare i movimenti di liberazione. Anche questo un “effetto collaterale” della globalizzazione? L’autodeterminazione rischia davvero di ridursi, come avvertiva il sociologo catalano Manuel Castells, a una variabile che si usa o si getta a seconda del caso?
Una questione che ovviamente non riguarda soltanto gli anarchici, ma tutta quella sinistra antagonista, non omologata e non addomesticata che ancora si confronta con il diritto dei popoli all’autodeterminazione.
Certo, per i colonizzatori il divide et impera non è una novità. Viene praticato con successo almeno dai tempi di Giulio Cesare.
Le milizie curde alleate della Turchia che (come ha riconosciuto il Parlamento curdo in esilio) parteciparono al massacro degli armeni durante il genocidio del 1915 possono aver fornito un protocollo per l’utilizzo da parte della Francia, e in seguito degli Usa, di alcune minoranze indocinesi contro la resistenza vietnamita. In Irlanda del Nord era il proletariato protestante, maggiormente garantito, a condurre la “guerra sporca” (omicidi settari, spesso indiscriminati) contro gli abitanti dei ghetti cattolici. Da sottolineare che entrambi, indigeni irlandesi e coloni scozzesi, erano di origine celtica (non germanica, come gli inglesi, angli e sassoni). Un elemento in più per sottolineare l’artificiosità e la strumentalità, a tutto vantaggio dell’imperialismo di Londra, della divisione in due comunità reciprocamente ostili.
Putin ha potuto “pacificare” la Cecenia con il ferro e con il fuoco, utilizzando anche bande di ex guerriglieri indipendentisti divenuti collaborazionisti. Sul piano religioso, sciiti e sunniti, a fasi alterne, vengono strumentalizzati in Medio Oriente. Lo stesso avviene con le popolazioni minorizzate – curdi, beluci, turcomanni – alimentando e armando le loro aspirazioni a una maggiore autonomia o all’indipendenza.

Contraddizioni e guerre tra poveri

Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e al-Da’wa, notoriamente filoiraniani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente gli Usa avrebbero utilizzato in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad al-Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?
Anche le “guerre tra poveri” che hanno insanguinato il subcontinente indiano danno l’impressione di essere state in parte manovrate. Nel 2007 alcuni gravi attentati compiuti in occasione di feste nazionali e anniversari dell’India, vennero inizialmente attribuiti ai gruppi islamici. Successivamente emerse la pista dei separatisti del nord-est (bodo, naga…). Nel secolo scorso lo scontro era stato particolarmente duro nell’Assam, dove la maggioranza della popolazione è induista. Dal 1989 al 1996 la guerriglia dei bodo (in maggioranza cristiani) avrebbe causato la morte di migliaia di persone. Nel dicembre 1996 un attentato al Brahamaputra Express, mentre attraversava l’Assam, provocò più di trecento morti. Ancora prima delle rivendicazioni, l’atto terroristico venne attribuito ai bodo che due giorni prima avevano fatto saltare un ponte ferroviario.

Strategia della tensione mascherata da lotta per l’autodeterminazione?

Molto probabilmente in alto loco qualcuno pensa che è “sempre meglio che si ammazzino tra di loro”, purché il controllo del territorio e delle risorse rimanga saldamente nelle mani di chi detiene il potere. Si tratti di un esercito di occupazione, di una multinazionale o di criminalità organizzata come nei pogrom di Ponticelli. E naturalmente anche l’oppresso, il diseredato di turno ci metterà “del suo”.
Un caso limite, a mio avviso, quello dei karen, in perenne fuga tra Birmania e Thailandia e che da qualche tempo verrebbero sostenuti da gruppi neofascisti europei.
Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale e di quelli autonomistici non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Non a caso Manuel Castells ha parlato di «indipendenze a geometria variabile», denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese «a seconda di chi, del come e del quando». Ricordava che osseti e abkhazi si erano ribellati contro la Georgia nello stesso periodo in cui i ceceni si sollevavano contro la Russia. Inizialmente gli Usa appoggiarono l’insurrezione cecena, ma tollerarono facilmente la repressione da parte della Georgia. Analogamente nel caso del Kosovo (dove è stata poi costruita un’immensa base statunitense) si è invocato il diritto all’autodeterminazione, mentre per il Tibet non si va oltre qualche protesta simbolica. Quanto agli uiguri, sembra quasi che non esistano come popolo.

Il cinismo tattico caso per caso

«Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione – ha scritto il sociologo catalano – sono frutto di un cinismo tattico» e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno «strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente». Gli esempi si sprecano. Pensiamo al diverso trattamento riservato ai curdi in Iraq, già praticamente autonomi (e alleati degli Usa a cui hanno consentito di installare alcune basi militari), mentre quelli della Turchia continuavano a essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, grande alleato degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. Nel 2010, dopo una serie di impiccagioni di militanti curdi che l’opinione pubblica mondiale aveva completamente ignorato, i curdi dell’Iran (Partito per una vita libera in Kurdistan, Pjak, considerato il ramo iraniano del Pkk attivo in Turchia) sembravano essersi rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva rivelato “Le Monde”, ma poi la situazione sembra essere cambiata).
Nel caso di Timor Est, la popolazione subì per anni un vero e proprio genocidio nell’indifferenza dell’opinione pubblica. Tra le poche eccezioni, negli anni Settanta, Noam Chomski e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip). Solo di fronte al rischio concreto di una dissoluzione dell’Indonesia intervennero le forze internazionali, ripescando l’ex guerrigliero Gusmão, leader del Frente revolucionària de Timor-Leste independente (Fretilin) per farne il presidente. Pare che inizialmente non ne fosse particolarmente entusiasta, dato che aspirava a ritirarsi dalla vita politica e darsi all’agricoltura. Paradossale che per garantire l’indipendenza di Timor Est venissero impiegati anche soldati inglesi provenienti dalle caserme di Belfast.
E a proposito di Belfast, due situazioni molto simili come l’Irlanda del Nord e il Paese basco negli ultimi anni sembravano aver imboccato strade antitetiche. Soluzione politica, abbandono della lotta armata da parte di Ira, Inla e delle principali milizie lealiste, liberazione dei prigionieri politici e cogestione del governo locale a Belfast e Derry.

Repressione, ancora casi di tortura, tregue effimere, illegalizzazione di partiti (Herri Batasuna, Batasuna, Bildu, Sortu…), associazioni ( Jarrai, Haika, Segi, Gestoras pro Amnistia, Askatasuna…) e giornali (“Egin”, “Egunkaria”) a Bilbo, Donosti e Gasteiz. Solo nel 2012, con la definitiva rinuncia alle armi di Eta e la possibilità per la “sinistra abertzale” di partecipare alle elezioni (con Sortu), si è riaperta la possibilità di una soluzione politica del conflitto. Ma al momento Arnaldo Otegi e altri esponenti indipendentisti rimangono ancora in galera (come se durante le trattative Blair avesse fatto arrestare Gerry Adams) e per i prigionieri politici baschi, in particolare per gli etarras, la situazione rimane molto difficile 3).
La mia ipotesi è che negli anni Novanta il «grande laboratorio a cielo aperto per la controinsurrezione» dell’Irlanda del Nord dovesse chiudere in vista della partecipazione britannica alle guerre in Afghanistan-Iraq e del ruolo fondamentale assunto da Londra. Meno convincente la tesi della conversione di Blair al cattolicesimo, anche se non si può mai dire. Quanto agli Usa, Clinton avrebbe agito per conservare il voto dei cittadini statunitensi di origine irlandese che solitamente votano per i Democratici.

L’ombra dei poteri globali

È ipotizzabile che in Irlanda del Nord la stessa Cia abbia dato una mano per togliere di mezzo qualche capo delle milizie lealiste (filobritanniche) che non aveva compreso la nuova situazione. Ipotesi formulata anche dal compianto Stefano Chiarini. Al contrario, già negli anni Novanta Washington inviava agenti della Cia nel Paese basco per coadiuvare l’apparato repressivo.
Il problema di “quale autodeterminazione” si pone soprattutto nel caso di stati nati dalla colonizzazione, dato che le loro frontiere sono state stabilite in base a trattati europei con cui si decideva arbitrariamente il destino delle popolazioni. I poteri globali reali (economici, militari, tecnologici) stabiliscono caso per caso, di volta in volta, se appoggiare una lotta di liberazione, legittimarne la repressione o anche inventarne una di sana pianta. Al limite della farsa l’episodio che ha visto un gruppo di aspiranti golpisti (quasi tutti membri di una loggia massonica) arruolare mercenari per sobillare la rivolta secessionista nel Cabinda, regione angolana ricca di petrolio. Episodio da segnalare per l’uso spregiudicato di due onlus (Freedom for Cabinda e Freedom for Cabinda Confederation) create appositamente per ricevere donazioni.

Alcuni casi esemplari, storici, di separatismo a puro uso e consumo di qualche potenza coloniale (come il Katanga di Tshombe nell’ex Congo belga) potrebbero tornare di attualità. Per esempio in Bolivia con Santa Cruz, capoluogo di una regione ricca, abitata prevalentemente da discendenti dei colonizzatori, che ha spinto per l’indipendenza. Chissà? Forse Evo Morales (il presidente boliviano esponente del Ma, Movimento al socialismo) ha rischiato davvero di finire come Lumumba, il presidente progressista del Congo, assassinato nel 1961 dagli sgherri di Tshombe al servizio dell’imperialismo belga.
E forse non è un caso che nel 2008, dopo anni di impegno a fianco dei popoli oppressi, la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip), riconosciuta dall’Onu e dall’Unesco, abbia definitivamente sospeso le sue attività. Fondata da Lelio Basso, la Lidlip è stata per trent’anni portavoce delle minoranze, delle popolazioni perseguitate, dei movimenti di liberazione dal colonialismo.

 

NOTE

1) Gianni Sartori, Catalogna – Storia di una nazione senza stato, ed. Scantabauchi, 2007.
2) Ovviamente mi riferisco all’indipendenza come sbocco di una lotta di liberazione, dall’oppressione coloniale classica, “da manuale”. Come nel caso di Algeria, Guinea Bissau, Mozambico, Angola, Irlanda… o dal “colonialismo interno” come potrebbe essere per i Paesi baschi, il Tibet e la Cecenia. A mio avviso si può legittimamente parlare di movimenti di liberazione quando la lotta è anche contro il sistema economico responsabile dell’oppressione (capitalismo, neoliberismo, capitalismo di stato…). Escludendo, per quanto mi riguarda, dall’interessante dibattito partiti come l’Adsav bretone, la Lega Nord o alcuni indipendentisti fiamminghi nostalgici del nazismo.
3) Ma l’auspicata soluzione politica del conflitto è tornata nuovamente al palo dopo la retata del 1° ottobre 2013 contro 18 esponenti di Herrira (tra cui il portavoce Benat Zarrabeitia). Il giudice Eloy Velasco ha accusato l’associazione basca per i diritti umani dei prigionieri politici di essere “un tentacolo di Eta” in quanto avrebbe organizzato manifestazioni di “esaltazione” dei prigionieri baschi.

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Antiche strade che decidono il destino https://ogzero.org/le-vie-del-controllo/ Sun, 17 Jan 2021 12:06:04 +0000 http://ogzero.org/?p=2238 Alto è sicurezza. Alto è potere. Alto domina il paesaggio e come mi illustrava nel 1980 con una nota di orgoglio il portavoce dell’insediamento israeliano tra Gerusalemme e Hebron nella Cisgiordania occupata: «da qui si vede tutto: il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro». Quaranta anni fa la colonizzazione ebraica in Palestina, a […]

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Alto è sicurezza. Alto è potere. Alto domina il paesaggio e come mi illustrava nel 1980 con una nota di orgoglio il portavoce dell’insediamento israeliano tra Gerusalemme e Hebron nella Cisgiordania occupata: «da qui si vede tutto: il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro». Quaranta anni fa la colonizzazione ebraica in Palestina, a macchia di leopardo e apparentemente senza coordinamento, appariva ancora un fenomeno destinato a soccombere presto. L’Egitto di Sadat aveva firmato la pace con Israele e, si diceva, prima o poi la leadership israeliana e quella palestinese avrebbero trovato una via d’uscita dal conflitto. Due popoli si contendevano la stessa terra. Si trattava di mettersi d’accordo soltanto su un compromesso. Ma quale?

Camp David, nel 1978: Begin, Carter e Sadat

Di chi è la terra?

«Là in fondo verso il mare – insisteva il colono (termine che fa pensare a un agricoltore ma nella realtà dei territori occupati è quasi sempre tutt’altra cosa) – ci sono Ashkelon e Ashdod, due nostre antiche città. E poi… si giri. Da quest’altro lato c’è la discesa verso il mar Morto. Vede quel tracciato? È un’antica strada romana». Invece di polemizzare lanciai una provocazione. «Credo di comprendere quello che sente. Sono romano e quella strada l’hanno costruito i miei antenati. Questa terra era nostra…».

Essere ebrei dentro e fuori da Israele

L’archeologia, molto spesso al servizio dell’occupazione, conferma la vasta presenza delle comunità israelitiche nell’antichità relegando in secondo piano o addirittura nascondendo il passato delle altre popolazioni che abitavano questa terra. Quello che Bibbia e Storia non confermano è la pretesa che Israele sia “la patria storica del popolo ebraico”. A respingere questa teoria alla base del sionismo religioso è tornato recentemente uno degli uomini politici israeliani più noti e battaglieri. Avraham Burg, figlio di uno dei fondatori dello stato e del Partito nazional-religioso, ha militato a lungo nel partito laburista, è stato presidente della knesset, il parlamento israeliano, e anche presidente dell’Agenzia Ebraica, l’organizzazione israeliana che sostiene l’ebraicità di Israele e opera in stretto collegamento con le comunità ebraiche in tutto il mondo. «Il patriarca Abramo scoprì Dio al di fuori delle frontiere della Terra d’Israele, le tribù divennero un popolo al di fuori della Terra d’Israele, la Torà fu data fuori dalla Terra d’Israele, e il Talmud di Babilonia, che è molto più importante del Talmud di Gerusalemme, fu scritto fuori della Terra d’Israele. E aggiunge: “Gli ultimi duemila anni, che hanno formato il giudaismo di questa generazione, si svolsero fuori d’Israele. L’attuale popolo ebraico non è nato in Israele”».

Quando la religione costruisce le “vie” dell’occupazione

È una polemica che riguarda il mondo ebraico ma anche chi vuole comprendere origine e strategia della destra israeliana e dei suoi alleati e il furto strisciante delle terre palestinesi. Se una lettura di comodo della religione è – qui come per altri credenti – uno strumento di lotta, pianificazione urbanistica e territoriale sono le armi con le quali va avanti, in modo sistematico, l’occupazione. I vasti quartieri costruiti negli anni immediatamente successivi alla presa di Gerusalemme Est dopo la guerra del 1967 e buona parte degli insediamenti in Cisgiordania sono usciti dalle penne di architetti e strateghi militari. Per loro era essenziale un modello capace di garantire la difesa della nuova popolazione dagli attacchi dall’esterno. Questi stessi pianificatori studiarono a fondo la storia della vasta rete stradale, non soltanto regionale, degli antichi romani, che a loro volta avevano avuto come insegnanti egizi, etruschi, greci. I nuovi conquistatori (all’inizio circondati da paesi nemici) avevano bisogno di vie capaci di consentire uno spostamento rapido di truppe e mezzi militari, spesso da un fronte all’altro. Dal Sinai al Golan o viceversa. Nei territori occupati la rete, oltre a garantire il rapido schieramento di soldati e polizia, ha il compito di facilitare il movimento dei coloni e ridurre al massimo il contatto tra loro e la popolazione palestinese.

Vie di confine e di occupazione (foto di Eric Salerno)

La scuola romana: strategie di colonizzazione

I resti ancora visibili di quella via romana minore indicati dal colono ebraico sul costone dal quale si dominano mare e deserto risalgono ai primi decenni del secondo secolo d.C.. Giulio Cesare, nel 46 a.C. cominciò la presa dell’Africa e la costruzione di intere città lungo la costa meridionale del Mediterraneo. Meno di cento anni dopo la via Nerva, dal nome dell’imperatore che l’aveva ordinata, fu completata da Traiano. Collegava gli insediamenti romani d’Occidente con Alessandria d’Egitto e con la rete viaria che li legava alla Palestina, sul mare, e ai monti e ai deserti all’interno dell’Arabia. Poco meno di duemila anni dopo, i genieri israeliani, hanno seguito gli insegnamenti della scuola romana nel tracciare, a partire dal 1967, la prima grande arteria voluta dal progetto politico dei laburisti per il futuro dei Territori. La Via Allon scorre da Nord a Sud lungo le montagne di Samaria e Giudea. Il suo nome si rifaceva a Yigal Allon, politico e militare israeliano. Il suo scopo era chiaro. Metteva in conto l’eventuale restituzione alla Giordania di parte dei territori occupati salvo Gerusalemme e un vasto corridoio di terra lungo le rive del fiume Giordano per garantire a Israele una minima profondità strategica rispetto ai paesi con cui era formalmente in guerra. Mentre la piattaforma del Likud, il partito di centro di cui oggi Netanyahu è il leader e l’esponente più noto, ha sempre rivendicato per lo stato d’Israele tutto il territorio tra il Mediterraneo e il Giordano, i laburisti apparivano disposti a negoziare anche se ritenevano che per la difesa del paese era necessario annettere almeno una parte, non densamente popolata, della Cisgiordania. Il piano Allon gettò le basi per la situazione attuale in quanto stabiliva la creazione in quel “corridoio” di insediamenti agricoli e residenziali. Dal 1967 al 1977 i governi laburisti, spronati da Shimon Peres – premio Nobel con Rabin e Arafat per gli accordi di Oslo – ne autorizzarono ben ventuno accanto agli avamposti militari, tutti in alto, come Masada. L’antica fortezza che domina il mar Morto e fu scelta, curiosamente, come simbolo della eroica resistenza ebraica antica ai romani: secondo la storia tramandata, i suoi difensori, ribelli contro l’occupazione, si uccisero per non finire in mano ai conquistatori.

La scuola romana: la rete viaria in tempo tra pace e guerra

Israele-Palestina, un pezzo di ciò che i cristiani conoscono come Terra Santa, è intrisa di richiami religiosi e altri legati alle conquiste antiche e meno. In Marco 8:27 si legge: «Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: “Chi dice la gente che io sia?”». La “via” era un antico tracciato romano poche centinaia di chilometri a nord di Masada. Collegava la Galilea con Damasco, il centro amministrativo di Roma, passando dalle alture del Golan, terra siriana che gli israeliani hanno annesso e colonizzato. Coltivazioni, colonie agricole, tanto filo spinato, campi ancora minati e scavi archeologici per dimostrare che gli ebrei abitavano l’altopiano strategico millenni fa. La linea di confine, disegnata da Gran Bretagna e Francia nel 1924, per definire Libano, Israele-Palestina e Siria, segue un tracciato di una delle più importanti arterie della rete stradale romana che tra Mediterraneo e fiume Giordano raggiungeva una lunghezza di mille chilometri. Nel 1983, sottolineando come quella rete fu probabilmente il più importante progetto dell’amministrazione imperiale romana, Israel Roll, uno dei maggiori archeologi israeliani, pubblicò un sommario delle ricerche fatte dagli studiosi a partire dall’Ottocento. «Come per molti imperi – sottolineava – le preoccupazioni maggiori di Roma riguardavano l’amministrazione della provincia nei periodi di calma, e l’organizzazione e trasporto di unità militari alle aree chiave nei momenti di guerra e ribellione». Israele ha imparato la lezione.

“Alto” è potere, sicurezza, controllo

In cima a un’altura sul Golan che si affaccia sulla linea d’armistizio e alcune cittadine siriane, accanto a una postazione della forza di pace dell’Onu e a un bar-ristorante per turisti e pellegrini, gli israeliani hanno piantato un palo con le distanze delle città vicine e più distanti. È là per indicare insieme paura e aggressività anche se, come confermano gli stessi generali israeliani, pochi pensano più a scontri ravvicinati: carri armati e forze di terra sono stati ridotti a favore di droni e missili. E questo, in qualche modo, dovrebbe ridurre anche la giustificazione israeliana per l’occupazione del territorio palestinese come cuscinetto difensivo contro il mondo arabo.

“Alto” è controllo (foto di Eric Salerno)

L’autostrada per l’annessione: il progetto di dominio

Le strade, ormai autostrade, sono così diventate strumento di occupazione e di strisciante annessione della Cisgiordania. Yehuda Shaul, come quasi tutti gli israeliani, ha fatto il servizio militare. È oggi è uno dei leader del movimento per la pace. «Tutti sono convinti che l’annessione della West Bank sia stata congelata con la firma degli accordi di normalizzazione con gli Emirati arabi uniti ma in realtà Israele continua ad accelerare i lavori sull’autostrada per lannessione attraverso lo sviluppo di infrastrutture che consentiranno di raddoppiare il numero dei coloni e di solidificare per sempre il nostro controllo sul popolo palestinese». Pochi giorni dopo la presentazione della sua denuncia, è arrivata da B’Tselem, l’ong ebraica per i diritti umani un’altra denuncia: «Non c’è metro quadrato tra il fiume Giordano e il Mediterraneo in cui un palestinese e un ebreo siano uguali». E per la prima volta l’organizzazione parla apertamente di apartheid. L’accusa è stata subito definita antisemitismo puro. Il nuovo piano urbanistico e stradario per la Cisgiordania occupata, però, sembra confermare l’imposizione e le paure dei pacifisti israeliani. Per almeno due motivi. Da una parte le autostrade in costruzione o già funzionanti creano corridoi e spazi separati per le due popolazioni. Dall’altra, la rete nuova sarà collegata a quella israeliana, sempre più vasta, per consentire un legame diretto tra le comunità all’interno della “linea verde” – i confini finora riconosciuti di Israele –- e quelli dei coloni nei territori occupati.

La conquista dell’Arabia e di quella parte del Vicino Oriente – da Gaza al Libano e nell’interno fino ad Aqaba, sul mar Rosso, e Petra nel deserto della Giordania – non fu formalmente festeggiata da Roma se non dopo il completamento della via Traiana Nova negli anni 120. Soltanto da allora cominciarono ad apparire monete con l’effige di Traiano su un lato, e sull’altro un cammello. Israele non ha ancora completato il suo progetto di dominio su tutto il territorio dal mar Mediterraneo al fiume Giordano.

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È cambiato qualcosa sotto i Cedri? https://ogzero.org/e-cambiato-qualcosa-sotto-i-cedri/ Tue, 10 Nov 2020 16:36:14 +0000 http://ogzero.org/?p=1713 Rappresentanze variabili solo all’università? Lo scorso 8 ottobre dal Libano una notizia è passata in sordina sui media internazionali, forse troppo in fretta considerata propria di una dimensione prettamente locale. Alle elezioni del Consiglio studentesco della Lebanese American University (Lau), per la prima volta nella storia dell’istituto, i candidati indipendenti hanno vinto tutti i seggi […]

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Rappresentanze variabili solo all’università?

Lo scorso 8 ottobre dal Libano una notizia è passata in sordina sui media internazionali, forse troppo in fretta considerata propria di una dimensione prettamente locale. Alle elezioni del Consiglio studentesco della Lebanese American University (Lau), per la prima volta nella storia dell’istituto, i candidati indipendenti hanno vinto tutti i seggi per cui gareggiavano, contro i ben più quotati e ben meglio “posizionati” candidati delle Forze libanesi (partito della destra cristiana nazionalista) e di Amal (partito sciita del presidente del parlamento, Nabih Berri, e alleato di Hezbollah).

Nel campus di Beirut, i candidati indipendenti – espressione nemmeno troppo indiretta dei moti di protesta anti-establishment esplosi in Libano il 17 ottobre 2019 – hanno ottenuto la maggioranza con 9 seggi su 15, concedendo ai candidati di Amal e delle Forze libanesi rispettivamente 4 e 2 seggi. Alle precedenti elezioni del 2019, avvenute poco prima dell’inizio delle proteste, gli indipendenti avevano ottenuto 2 seggi, contro gli 8 della coalizione composta da Forze libanesi, Futuro e Partito socialista progressista e i 5 di Amal e dei suoi alleati minori. Nel campus di Byblos, a nord della capitale, gli indipendenti hanno comunque ottenuto 5 seggi, i primi della storia dell’ateneo, contro i 9 delle Forze libanesi e solo uno per Amal.

I giovani non cedono più

«È cambiato qualcosa», dice a dire il vero senza troppa convinzione Mayssa, ex studentessa della Lau e sorella di Asma, che ha accompagnato all’Università il giorno della pubblicazione dei risultati. «Questo forse significa che i giovani non cedono più, e sono convinti che ci voglia un cambiamento. Cinque anni fa, quando ho votato io, mi ricordo i responsabili della campagna delle Forze libanesi, che arrivavano a offrire 200 dollari per un voto. Anche io una volta li ho accettati, sono sincera, non mi interessava la politica ed erano tanti soldi», aggiunge, mentre la sorella la prende bonariamente in giro.

Duecento dollari, in Libano, erano già una cifra considerevole prima della crisi economica che ha raggiunto il suo apice nel corso di quest’anno, e che ha fatto perdere alla lira libanese l’80 per cento del suo valore. Quando il tasso di cambio – mantenuto artificialmente stabile dalla Banca centrale, prima di schizzare fuori controllo da novembre 2019 – tra lira e dollaro era di 1,5, il salario minimo nel Paese dei Cedri ammontava a 450 dollari, anche se è alta la quota di popolazione che in Libano svolge lavori informali. Ora che il cambio si aggira sui 7 nel mercato nero, dopo essere arrivato anche a 10, quei duecento dollari non solo varrebbero oro ma sarebbero impossibili da reperire, perché le banche libanesi da 10 mesi hanno imposto severi limiti ai prelievi e il blocco dei conti in dollari. Se fino a due anni fa dollari e lire venivano usati indifferentemente sul mercato – al tasso di 1,5 –, oggi è del tutto impossibile, per un libanese, trovare della valuta forte sul mercato interno, a meno di non volerla cambiare a un tasso che gli prosciugherebbe il conto in banca.

Potere d’acquisto dissolto: la crisi è inarrestabile

Il paese è in una situazione di inarrestabile crisi economica, sociale, bancaria, procedurale e fiduciaria, che vede i libanesi in condizioni molto peggiori anche solo rispetto a un anno fa. Ha dichiarato il fallimento tecnico a marzo, dopo il mancato rimborso di 700 milioni in eurobond, fa i conti con uno dei debiti pubblici più alti al mondo, cresciuto del 2120 per cento dal 1990 a oggi), la scomparsa della classe media, una disoccupazione vicina al 40 per cento, un tasso di povertà del 50 per cento (contro il 28 di meno di due anni fa) e, secondo gli studi di Steve Hanke, professore di Economia applicata della Johns Hopkins University, è il primo stato del Medioriente ad aver sperimentato l’iperinflazione (413 per cento nell’ultimo anno).

Tutto ciò si è aggiunto a una preesistente mancanza o profonda carenza infrastrutturale – l’assenza di una rete elettrica nazionale che garantisca elettricità 24 ore su 24, l’assenza del trasporto pubblico e una tragica gestione dei rifiuti –, legata in parte alla corruzione endemica, in modo non dissimile da come quest’ultima alimenta le enormi sperequazioni economiche, e le differenze abissali tra il 5 per cento più ricco e il 20 per cento più povero in termini di sviluppo umano: il Libano è un paese dove, secondo le Nazioni Unite, l’1 per cento della popolazione detiene circa il 25 per cento del reddito nazionale. Un paese in cui, forse non a caso, i principali istituti di credito fino a due anni fa realizzavano profitti in alcuni casi superiori a quelli dei maggiori istituti britannici, come Standard Chartered, e nel quale almeno un quinto della popolazione vive in campi profughi, in condizioni di enormi difficoltà.

17 ottobre 2019: esplode il Movimento anti-establishment

Più che la pluricitata “tassa su whatsapp”, a provocare la rabbia dei libanesi, innescando il 17 ottobre 2019 una protesta anti-establishment improvvisa, trasversale, altamente partecipata, era stata proprio l’ennesima dimostrazione di carenze infrastrutturali e di negligenza, con la disastrosa gestione da parte delle autorità degli incendi scoppiati nelle foreste dello Chouf in quei giorni. Accortesi con colpevole ritardo della inagibilità dei velivoli antincendio Sikorski, che avrebbero necessitato di manutenzione, hanno dovuto chiedere aiuto a Cipro e Giordania.

Quel 17 ottobre, e almeno per altre due settimane senza mai veder intaccato il livello di partecipazione massiva (per poi comunque stabilizzarsi per mesi su cifre inferiori ma non trascurabili), migliaia di libanesi erano sembrati destarsi all’improvviso dalla loro condizione di “prigionieri di una garanzia”. La (percezione di una) “garanzia”, in particolare per le vecchie generazioni, sta nel confessionalismo, il particolare framework che regola la repubblica parlamentare libanese.

A ognuna delle diverse comunità libanesi – quelle cristiane e musulmane, divise nei vari riti, quella drusa e quella armena – viene garantita la rappresentanza in parlamento e nelle istituzioni pubbliche, con un sistema elettorale che permette a ogni libanese di votare unicamente per il candidato della propria confessione, che corre per il seggio a essa assegnato in una data area, sia nel voto municipale che in quello nazionale. Questo ordine delle cose, soprattutto agli occhi di chi ha vissuto il periodo della guerra civile (1975-1990), costituisce una sorta di assicurazione di rilevanza e rappresentatività, oltre che una tutela contro le eventuali dittature di maggioranze confessionali ai danni delle altre, in un paese in cui tanti over 50 hanno delle remore a metter piede in aree del paese popolate da appartenenti a confessioni che non sono le loro.

Questa garanzia, tuttavia, è anche l’alimento ideale del settarismo, e nutre una realtà in cui le appartenenze confessionali sembrano essere prioritarie rispetto a quella nazionale. Ognuno ha un’idea diversa di cosa sia e di chi sia il Libano, un aspetto ben esemplificato dal fatto che i manuali di storia dei licei arrivano al 1943, anno dell’indipendenza, e si guardano bene dall’affrontare i decenni successivi: men che mai la guerra civile, sulla quale ogni comunità ha la sua ricostruzione, i suoi colpevoli e i suoi innocenti, e dopo la quale non è mai avvenuto un vero processo di riconciliazione nazionale.

Il settarismo, a sua volta, si è dimostrato un ottimo recipiente di corruzione, o di un sistema che può essere definito neopatrimoniale, in base al quale i leader politici si assicurano la fedeltà degli elettori della loro comunità in cambio della concessione di agevolazioni, di un lavoro, dell’iscrizione scolastica dei figli, e della fornitura di servizi che dovrebbero essere forniti dallo stato. In molti, in Libano, sono allo stesso tempo prigionieri e beneficiari di questa logica, e molte delle persone scese in piazza hanno rivendicato proprio questa condizione: essere in sostanza costretti a votare gli stessi leader settari e corrotti, che in cambio del voto – e in virtù del controllo che esercitano sull’economia libanese – sono gli unici in grado di promettergli benefici, che talvolta risultano vitali. È quello che in Libano definirebbero wasta, e in Italia “raccomandazione”, anche se il significato è più esteso e la sua applicazione più pervasiva e sistematica, poiché in Libano è quasi impossibile trovare un lavoro senza la connessione diretta o indiretta col leader politico settario che ha interessi o potere in quell’azienda privata o in quell’istituzione pubblica. La corruzione, in Libano, mette tutti d’accordo: ormai nessuno, nemmeno i politici locali sotto l’occhio del ciclone proprio per esserne gli alfieri, rinuncia a menzionarla come il principale problema, testimoniato dal 127esimo posto nella classifica di Transparency international.

5 agosto 2020: esplode il porto di Beirut… ma qualcosa è cambiato?

L’inasprirsi della crisi economica, contestuale all’avvento della pandemia, a cui si è aggiunta l’esplosione al porto di Beirut, ha via via eroso il volume di partecipazione alle proteste, che ora sembrano attraversare una fase di stanca sia per il venir meno nelle piazze di chi un anno fa aveva da mangiare e oggi fa molta più fatica, sia per via di divisioni legate al timore di strumentalizzazioni della protesta da parte dei partiti settari che oggi sono all’opposizione, e che possono “giocare” sul malinteso tra moti anti-establishment e moti antigovernativi. Si è in certa misura insinuata – soprattutto tra i meno giovani che hanno partecipato – l’idea che la protesta, rimasta sempre “acefala” e non confessionale, potesse in realtà essere manipolata da alcune comunità sulle altre, che poi è lo stesso timore legato alla fine repentina del confessionalismo che i giovani più attivi hanno chiesto a gran voce, forse senza chiedersi fino in fondo quali garanzie possano saltare nel breve termine.

Tuttavia la strada in quella che rimane, a differenza dei regimi della regione incalzati dalla Primavera araba, una democrazia perlomeno sulla carta, è quella perseguita nelle elezioni alla Lau, anche se alle ultime elezioni parlamentari di due anni fa la piattaforma “Kilna Watani” ha ottenuto due soli seggi, nonostante il movimento di anti-establishment si fosse strutturato già dal 2015, l’anno della protesta contro la gestione dei rifiuti. Jad, che quando sono iniziate le proteste ha lasciato il suo lavoro ben pagato negli Emirati arabi uniti per ritrasferirsi nel suo Libano, dove è ancora disoccupato, non ha dubbi: «I partiti sono macchine di propaganda e di corruzione, lo sappiamo che alle prossime elezioni l’80 per cento di quelli che sono in parlamento ci ritorneranno. Ma dobbiamo provarci anche se la strada è lunga, perché qualcosa è cambiato».

La foto di copertina è di Layal Jebran.

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Considerazioni sul Libano che vanno oltre il Libano https://ogzero.org/considerazioni-sul-libano-che-vanno-oltre-il-libano/ Thu, 03 Sep 2020 09:08:42 +0000 http://ogzero.org/?p=1121 Archiviare i rapporti di forza coloniali in questo periodo di nazionalismi esasperati può ricondurre a modelli vecchi di secoli, anziché soddisfare le richieste di emancipazione dei popoli repressi: l'impero ottomano e quello russo tentano di ricreare le antiche sfere di influenza.

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«Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: “la Padania è una repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore”». Parole di Umberto Bossi nella sua dichiarazione d’indipendenza della Padania, 15 settembre 1996. Una sfida, una provocazione politica. Ma anche la realtà di un mondo in cui le Nazioni, come sono state disegnate negli ultimi secoli, non necessariamente corrispondono agli elementi coesivi che finora hanno consentito loro di sopravvivere in pace.

Anni fa sentivo un giovane militare israeliano stanco della guerra contro l’indipendentismo palestinese affermare: «A cosa serve tutto questo. Presto il mondo sarà globalizzato e le nazioni, come le conosciamo oggi, non esisteranno più. Ognuno vivrà dove meglio si trova». Quel futuro (non solo per il Covid) c’è e non c’è. E invece assistiamo a una lenta e spesso cruenta trasformazione del mondo come fu tracciato nella sabbia o sulle cime dei monti dai nostri nonni e bisnonni. Divisioni e non consolidamento.

Confini tracciati altrove

Da Bossi e la Padania, tra razzismo e settarismo religioso, non è difficile approdare sulle sponde meridionali del Mediterraneo. Non soltanto perché sono poche ore d’aereo ma perché il Vicino Oriente come lo vediamo sulle cartine geografiche e nelle cronache dei telegiornali, fu creato o disegnato nel Castello Devachan a Sanremo tra il 19 e il 26 aprile 1920 e consolidato – si fa per dire – pochi mesi dopo a Sèvres, in una antica fabbrica di porcellane a sud di Parigi. Il tutto sulle rovine di uno dei più longevi, affascinanti, poco studiati e spesso incompresi imperi della storia. Di cui anche il minuscolo territorio che conosciamo come Libano faceva parte.

Segno di cambiamento degli equilibri

L’esplosione del 4 agosto 2020 a Beirut, che ha ucciso oltre 200 persone e ferito altre 7000 devastando vaste zone della capitale libanese, ha riportato il paese dei cedri sulle prime pagine dei giornali. Accanto a dubbi, incertezze, ipotesi (attentato o incidente?) sono riprese le considerazioni sulla stabilità, direi quasi la sopravvivenza, del piccolo paese creato dalla Francia e di cui Parigi sembra rivendicare un diritto di tutela se non di più. I legami tra Francia e Libano risalgono al XVI secolo quando la monarchia parigina si rivolse al sultano ottomano per proteggere i cristiani di una regione che, dalla nascita di Gesù in poi, il mondo religioso cresciuto attorno alla sua memoria definisce “Terra santa” ma che per 623 anni, dal 1299 al 1922, faceva parte di uno degli imperi più longevi e potenti e spesso più illuminati della storia controllando, in nome dell’islam sunnita, fette importanti dell’Europa e dell’Asia.

Dove le feroci Crociate dei cristiani d’Europa non riuscirono nel loro intento di dominare la terra d’altri, la forza militare e la diplomazia degli imperi più recenti del vecchio continente ebbero maggiore successo. Con la sconfitta tedesca nella Prima guerra mondiale e la conseguente distruzione del suo alleato di comodo – l’impero Ottomano appunto – francesi, inglesi e italiani (con il consenso dello zar di tutte le Russie) si divisero le spoglie. Non fu un processo indolore. Il trattato di Sèvres provocò la reazione immediata dei nazionalisti turchi sopravvissuti alla sconfitta del vecchio impero. Mustafa Kemal Atatürk, il padre della Turchia moderna, guidò una serie di guerre per cacciare francesi, italiani, greci dall’Anatolia e dopo appena tre anni, con il Trattato di Losanna, gli europei furono costretti a fare un piccolo passo indietro riconoscendo i confini della Turchia di oggi. Un prezzo relativamente modesto visto come Gran Bretagna e Francia erano riusciti a consolidare la loro presenza nel Vicino Oriente e determinare la realtà di nuove entità come Siria, Iraq, e a gettare le basi, con il patto semiclandestino di Sykes-Picot (16 maggio 1916), per la creazione di Israele. Nelle loro menti probabilmente più che un regalo ai sionisti ebrei (peraltro quasi tutti europei) doveva essere un elemento di disturbo nel mondo arabo dominato dalle due anime principali dell’islam.

Mandato coloniale permanente?

Torniamo al Libano. La Società delle Nazioni, ratificando l’accordo Sykes-Picot, affidò la Grande Siria (la Siria attuale e cinque province che costituiscono l’attuale Libano) al controllo diretto della Francia. E Parigi agendo da padrone colonialista, nel settembre 1920 istituì la Repubblica libanese con Beirut come capitale sul territorio allora in gran parte cristiana ma con una forte minoranza musulmana (oggi maggioranza) e drusa. Il paese divenne indipendente alla fine della Seconda guerra mondiale. Fu adottata una Costituzione che voleva garantire i diritti delle varie comunità con un sistema di divisione del potere. Per molti anni ha funzionato trasformando il piccolo stato sulle rive del Mediterraneo in una specie di Svizzera del Medio Oriente: nel bene e nel male.

Gli sviluppi politici nella regione dopo la creazione dello stato d’Israele e, più di recente, con la rivoluzione khomeinista in Iran, assommato ai grandi cambiamenti demografici in Libano, hanno portato alla situazione che vediamo oggi. Con una provocatoria petizione online firmata da 60000 tra residenti e membri della grande e influente diaspora libanese, è stato chiesto alla Francia di tornare a prendersi cura del Libano con un nuovo Mandato. «La Francia non lascerà mai il Libano», parole del leader francese Macron in visita a Beirut devastata dall’esplosione al porto. «Il cuore del popolo francese batte ancora al polso di Beirut». Solo retorica o il neocolonialismo francese fatica a morire? Per sottolineare il legame storico, Macron ha fatto il bis tornando a Beirut il 1° settembre, cento anni dopo quel famoso “Mandato”. Ancora parole, ma forse la consapevolezza che troppi fattori, locali e regionali, giocano contro un ruolo di Parigi che vada oltre eventuali piogge di euro per sostenere un sistema corrotto e fallimentare. Di sicuro, con la divisione del potere costituzionale che non rispecchia più la realtà demografica del Libano, il futuro della piccola nazione è sempre più in bilico in un mondo in cui montano le tendenze autonomiste, si inasprisce lo scontro tra Iran e Arabia saudita, gestori delle due verità contrapposte dell’islam, e prendono impeto le aspirazioni di vecchie potenze imperiali, tra cui la Turchia. Una nota: gli stati nazionali radicati nella storia della regione di cui parliamo sono appena quattro: Egitto, Iran, Yemen e Turchia.

Il passato, un incubo rinnovabile

La disgregazione dell’Unione sovietica e della Jugoslavia hanno aggiunto nuove nazioni all’Onu e si è parlato molto negli ultimi anni di ridisegnare i confini del Medio Oriente per soddisfare le istanze, per esempio, dei curdi, traditi dalle spartizioni postimpero Ottomano. Stesse ipotesi aleggiano per risolvere il conflitto interno della Libia, altra realtà complessa disegnata dall’Italia coloniale dopo la cacciata dei turchi da Cirenaica e Tripolitania. In essenza, è in corso nel bacino del Mediterraneo un grande gioco i cui protagonisti rispecchiano più il passato che un’idea rivoluzionaria per il futuro. Mentre la Francia rincorre la sua gloria appassita e la Russia agisce pensando non tanto all’Urss, di relativamente breve memoria storica, quanto al grande impero degli zar che molti osservatori tendono a dimenticare, la Turchia (membro della Nato, formalmente alleato dell’Occidente e, purtroppo, più volte respinta come possibile membro dell’Unione europea) sembra voler ripristinare la gloria dell’impero d’Oriente e dell’islam sunnita che dominarono per sei secoli sulle rovine dell’impero cristiano di Costantinopoli. La nuova classe dirigente turca e buona parte degli ufficiali superiori rivendicano quanto meno un ruolo di potenza regionale soprattutto sul Vicino Oriente islamico.

Per i servizi segreti israeliani, che guardano con simpatia alle mosse di Macron, e per la Cia, in uno stato di confusione anche per la politica attuale della Casa Bianca, la Turchia di Erdoğan (in corso di collisione con la Grecia per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nel Mediterraneo) «è più pericolosa dell’Iran» degli ayatollah. Di sicuro l’estensione della presenza militare di Ankara – dalla Libia a Siria, Libano settentrionale, Iraq, Qatar, Afghanistan, Somalia e i Balcani – non è mai stata tanto vasta dai giorni dell’Impero Ottomano. L’accordo tra gli Emirati arabi uniti (che hanno paura dell’Iran) e Israele (nemico principale di Tehran) fa parte del Grande gioco regionale che mette in difficoltà soprattutto le pedine più piccole e deboli. Quelle create a tavolino.

Assisteremo a nuove guerre e alla creazione di nuovi confini? Una piccola scintilla potrebbe far esplodere le istanze autonomiste di cui conflitti religiosi e tribali sono i sintomi sempre più evidenti. Se la nostra Padania non è veramente a rischio perché non vi esistono le condizioni fondamentali per rivendicare l’autodeterminazione, non è così per molte delle realtà nel Vicino Oriente (e non soltanto) dove vi sono popoli riconosciuti come tali sottomessi da governi non rappresentativi che li discrimina come razza, credo o colore.

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Che cos’è la trappola Daesh? https://ogzero.org/che-cose-la-trappola-daesh/ Sun, 29 Mar 2020 14:30:21 +0000 http://ogzero.org/?p=37 Intervista di Lorenzo Avellino a Pierre-Jean Luizard La trappola Daesh si riferisce alla volontà deliberata dello Stato islamico di provocare la reazione del maggior numero di attori possibili, stati arabi in testa, come la Turchia, l’Iran ma andando anche oltre – ossia all’Europa – in una dichiarazione di guerra universale a tutti quanti. Ciò aiuta […]

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Intervista di Lorenzo Avellino a Pierre-Jean Luizard

La trappola Daesh si riferisce alla volontà deliberata dello Stato islamico di provocare la reazione del maggior numero di attori possibili, stati arabi in testa, come la Turchia, l’Iran ma andando anche oltre – ossia all’Europa – in una dichiarazione di guerra universale a tutti quanti. Ciò aiuta lo Stato islamico a presentarsi agli occhi delle popolazioni che controlla come uno dei legittimi eredi delle primavere arabe e delle società civili che si sono sollevate contro i regimi repressivi e che hanno avuto come solo risposta, in Iraq, in Siria o altrove, la repressione e l’autoritarismo.

Si può dire che la trappola Daech ha funzionato nella misura in cui gli stati arabi (in particolare lo stato iracheno e siriano) e i paesi occidentali hanno reagito alle campagne di terrorismo sui propri territori lanciandosi in una guerra attraverso una coalizione internazionale di cui si cerca ancora di capire, un anno dopo la sua formazione, gli obiettivi politici (a parte quello di eliminare ciò che viene presentato come un semplice movimento terroristico). Tutto ciò corrisponde esattamente a quanto ricercato dallo Stato islamico ossia far dichiarare ai paesi occidentali una guerra contro di sé prima di avere definito gli obiettivi di guerra e suscitare un’alleanza tra gli stati occidentali e gli stati in loco. Lo Stato islamico è in effetti assolutamente cosciente della situazione di avanzata decomposizione delle istituzioni statali mediorientali e del fatto che tale decomposizione ha un carattere irreversibile che rende la campagna militare magari produttiva sul piano militare ma totalmente controproducente dal punto di vista politico. Tutti gli stati occidentali appaiono così come alleati di istituzioni moribonde.

Ciò che lei fa nel libro è storicizzare il fenomeno Stato islamico. Parlava prima di frazionamento e decomposizione degli stati mediorientali. Qual è la traiettoria di questi stati e come lo Stato islamico è riuscito a inserirvisi, con un notevole intuito politico?

Lo Stato islamico rivendica uno Stato multinazionale che cancella le frontiere, in particolare le frontiere ereditate del periodo dei mandati e si appoggia sul fallimento di un certo numero di stati, in primis lo stato iracheno poi quello siriano. Lo Stato islamico non perde occasione di mostrare che si relaziona con la storia moderna della regione e con le circostanze che hanno portato alla formazione degli stati arabi che, non bisogna scordarlo, sono tutti – eccezion fatta per l’Egitto – delle creazioni coloniali che sono state imposte con la forza militare dalle grandi potenze dell’epoca, la Gran Bretagna e la Francia. Questa operazione è stata fatta a partire dalla concezione che era allora dominante in Europa, ossia quella che la nazione è il fondamento di ogni tipo di sovranità. Le cose erano però ben diverse in Medio oriente, nella misura in cui solamente nel Levante (Libano, Palestina e Siria) cominciava a farsi strada l’idea di cosa potesse essere una nazione araba ma in Iraq e in gran parte del Medio oriente l’idea stessa di nazione era totalmente estranea. Ci si sentiva arabi, profondamente arabi, ma questo sentimento si riferiva più a ciò che chiamerei “arabità” – uruba – e non all'”arabismo” ossia a un nazionalismo etnico esclusivo. La miglior prova è il fatto che i dirigenti politici e religiosi delle tribù arabe in Iraq erano, in maggioranza, iraniani di nascita e di nazionalità e ciò non poneva alcun problema. C’erano certo delle identità molto forti in Medio oriente, secondo una gerarchia che andava dall’identità locale a quella tribale, confessionale e culturale e che differenziavano in particolare gli arabi dai curdi ma queste identità non si sono assolutamente espresse attraverso i nuovi stati nazionali. I nuovi stati nazionali fondati dalla Francia e la Gran Bretagna sono stati osteggiati dalle maggioranze. In Iraq gli sciiti maggioritari si sono rivoltati contro i mandati e l’occupazione britannica. Ciò è successo anche in Siria, dove l’esercito di Faysal –  animatore della Rivolta araba contro l’Impero ottomano sobillata dagli Alleati – ha affrontato le truppe del generale francese Gouraud in nome di un regno arabo unito, di una Grande Siria che doveva includere il Libano, la Palestina e anche una parte del nord dell’Iraq. C’è stato quindi un gioco di prestigio da parte delle potenze mandatarie che hanno provato a far credere di aver importato una cittadinanza irachena, siriana e libanese quando invece si sono appoggiate su delle minoranze: arabe sunnite in Iraq, mentre la Francia ha diviso la Siria in una serie di stati confessionali. Tutto ciò è stato fatto in modo che le maggioranze fossero escluse del potere a beneficio delle minoranze. La miglior illustrazione di questo processo è la fondazione del Grande Libano, quando la Siria è stata privata di province a maggioranza sciita e sunnita al sud e al nord del Libano, in particolare della grande città di Tripoli, per poter creare uno stato che si voleva presentare come il solo stato a maggioranza cristiana del Medio oriente. Bisogna ricordarsi che, allora, i protagonisti di questa politica confessionale in Francia erano élite repubblicane e laiche in lotta contro la chiesa cattolica. Ma ciò che valeva in Francia non valeva in Libano. In particolare le politiche francesi si sono appoggiate molto sulle congregazioni cattoliche, che erano state espulse in Francia nel 1901 e che si sono ritrovate in esilio a Beirut e nella montagna libanese messe quindi al servizio del progetto confessionale. Progetto che sappiamo essere stato un fallimento visto che ha avuto come risultato il confessionalismo che è oggi rifiutato dalla maggior parte della popolazione che lo vede come responsabile delle guerre civili.

Nella conclusione del libro lei dice che le difficoltà ad affrontare lo Stato islamico derivano da un’incapacità dell’Occidente di assumersi il suo passato coloniale e punta il dito contro questa sorta di “spaccatura” tra i valori proclamati a parole in quell’epoca e il fatto che siano stati una copertura per una dominazione imperiale. Ecco quindi che la storia ritorna attraverso lo Stato islamico…

L’Occidente non si assume il suo passato coloniale. Ma il punto è che non può assumerselo! È anche questa la trappola che ci tende lo Stato islamico, lo si vede benissimo attraverso la sua rivista in inglese “Dabiq” che illustra ampiamente le contraddizioni delle politiche occidentali e il fatto che i nostri universalismi basati sui Lumi sono serviti come legittimazione alle conquiste coloniali. La cosa peggiore è che ciò è stato spesso fatto in completa buona fede. Quando leggiamo i discorsi di Jules Ferry – il padre della scuola laica francese – per legittimare la colonizzazione della Tunisia, non vi troviamo altro che buone intenzioni, quelle di una missione civilizzatrice dell’Europa rispetto a popoli che sarebbero meno civili. E cosa dimostra il loro inferiore grado di civilizzazione? Il loro attaccamento alla religione. Per le élites francesi, l’attaccamento dei musulmani all’islam mostrava la necessità degli arabi di essere civilizzati e visto che non si arriva alla civiltà dall’oggi al domani bisognava essere guidati da potenze democratiche e secolarizzate come la Francia e la Gran Bretagna. I 14 punti del presidente americano Wilson in favore dell’autodeterminazione dei popoli sono serviti a legittimare l’imposizione dei mandati, ultima forma di colonizzazione anche se limitata nello spazio, perché c’erano delle frontiere, e nel tempo, perché avevano una data limite. Questi mandati hanno soprattutto istituito degli stati e dei sistemi politici che hanno condizionato la vita politica della regione per più di un secolo nella misura in cui le élite locali, una volta battute militarmente dalle truppe francesi e britanniche, poco a poco hanno abbandonato le loro utopie e non hanno quindi avuto altro obiettivo che quello di controllare gli stati a cui si erano inizialmente opposti. Alla fine degli anni Venti i nazionalisti arabi usano la retorica dell’unità araba unicamente per avere una certa popolarità ma appena sono al potere è evidente che ciò che interessa loro non è certo l’unità ma il controllo di stati che non riusciranno mai ad aprire uno spazio pubblico e a stabilire una cittadinanza condivisa per tutti. Dietro la retorica nazionalista araba si celavano infatti strategie comunitarie, familiari, regionali e confessionali come si può oggi vedere chiaramente in particolare in Iraq e in Siria dove non ci sono più partiti politici ma solo partiti comunitari, arabi e curdi, e gli stessi partiti arabi sono divisi tra loro in sciiti, sunniti e alauiti.

Nel libro lei indica che è come se lo Stato islamico facesse di tutto per inscenare uno “scontro di civiltà” in una sorta di gioco di specchi con il libro di Huntington. Come questo aspetto rientra nella trappola Daech?

Come si deduce da ciò che ho appena detto, la base sociale e politica dello Stato islamico è molto locale. È proprio ciò che fa la sua forza, il fatto che si sia impiantato in alcuni quartieri delle grandi città. Il problema dello Stato islamico però è diventato quello di trascendere un localismo molto forte e ciò è stato fatto attraverso l’universalismo. Questo universalismo, a livello di discorso, si può ottenere esclusivamente attraverso una messa in scena che gli consenta di legare la lotta sul posto contro uno stato predatore e assassino con la lotta su grande scala tra il “vero” islam e le potenze occidentali presentate come “crociate”. Questo ha permesso allo Stato islamico di occultare il carattere molto locale della sua base in Medio oriente e di sviluppare una propaganda che all’universalismo occidentale oppone un altro universalismo, che non comprende più solo gli interessi locali degli arabi sunniti d’Iraq o di Siria ma che è un appello a difendere il “vero” islam e la umma islamica contro i “crociati”. Un’illustrazione dell’efficacia di questa tattica è l’arrivo massiccio di combattenti stranieri originari di paesi musulmani ma anche europei che vengono a dare un viso a questa nuova coalizione islamica che ha intenzione di combattere l’altra coalizione di “miscredenti”, come veniamo chiamati.

Lei segnala anche questo altro paradosso dello Stato islamico: un progetto cosmopolita ma che deve la sua attrattiva a un ancoraggio territoriale. Per la prima volta un gruppo salafita si mette ad applicare la sharia, addirittura ad instaurare il califfato qui e ora. Pensa che sia questa la differenza principale tra lo Stato islamico e gli altri gruppi salafiti?

L’instaurazione del califfato è un’utopia comune a tutti i gruppi salafiti ed è un obiettivo comune di tutti i gruppi jihadisti, che siano alleati con lo Stato islamico o che siano legati ad al Qaeda. C’è semplicemente una differenza di timing. Al Qaeda rimprovera allo Stato islamico di aver bruciato le tappe e di aver voluto territorializzare la fondazione del califfato troppo presto, prima di aver avuto le basi sufficienti per la sua sovranità. Lo Stato islamico, al contrario, ha una visione che afferma che il fatto di possedere un territorio al di là delle frontiere – siamo in un jihad globale – e delle istituzioni è il miglior modo per riunire tutti quelli che vorrebbero unirsi al jihad mentre invece, nella visione dello Stato islamico, al Qaeda resterà sempre condannata ad essere prigioniera di questioni locali. La fondazione di uno Stato e la sua proclamazione, nel discorso dello Stato islamico, gli permette di trascendere i limiti della propria base locale.

Se, al momento dell’uscita della prima edizione francese del libro, il risultato della scommessa dello Stato islamico risultava incerta ora è sempre più definita visto che la stessa struttura statale del califfato è sempre più in difficoltà. Oltre a storicizzare il fenomeno Daech, lei mette anche in luce le cause sociali che hanno portato alla nascita dello Stato islamico. Cause sociali che sono ben lungi dall’essere risolte. Che ne sarà del califfato dopo il califfato?

I paesi occidentali e più in generale della coalizione anti-Daesh fanno finta che lo Stato islamico sia il responsabile del caos in Medio Oriente quando invece il caos precede lo Stato islamico anzi è proprio quello che ha permesso a Daesh di diventare ciò che è. Quindi una sconfitta militare di Daesh senza soluzioni politiche affidabili non risolverebbe nulla e, per esempio, se Daesh perde terreno sul campo, se il califfato diventa sempre più virtuale e meno territoriale, vedremo molto rapidamente le altre questioni – al momento occultate dalla preminenza dello Stato islamico – tornare alla ribalta. Tra queste questioni c’è ovviamente quella curda, che è molto complessa dal momento che si presenta in maniera parecchio diversa in Turchia, in Siria e in Iraq inglobando però oggi tutta la regione, ci sono poi le relazioni tra i curdi e i sunniti, tra i curdi e gli sciiti, tra i sunniti e gli sciiti. La soluzione a volte presa in considerazione di un Iraq federale “a tre”, a mio avviso, non è fattibile perché oggi assistiamo a un processo da cui non c’è ritorno, bisognerebbe che ci fossero degli interlocutori ma gli interlocutori arabi sunniti che hanno fatto il gioco del governo di Bagdad non hanno nessun futuro, prendiamo Atheel al-Nujaifi, che è oggi sostenuto da curdi e vicino alla Turchia. È stato l’ex-governatore di Mosul prima dell’arrivo dello Stato islamico ed è probabilmente una delle persone più odiate di Mosul, che si ricorda bene le condizioni che erano loro imposte prima dell’arrivo di Daesh. Non ci sono quindi, nel quadro delle istituzioni attuali, riforme possibili che permettano ad ognuno di trovare il proprio posto. In caso di sconfitta militare lo Stato Islamico sceglierà l’opzione della guerriglia invece che della difesa di un territorio. Si assisterà a una diffusione, mentre la territorializzazione era, nonostante tutto, una forma di contenimento dello Stato islamico. Rischieremo invece di avere uno Stato islamico che si diffonde fino a Bagdad come è stato già il caso negli anni Novanta. Ricordo che possiamo far risalire l’origine dello Stato islamico, militarmente, alla regione di Helebce, in Kurdistan, lungo la frontiera iraniana. È stata la volontà delle truppe dell’Unione patriottica del Kurdistan di Ǧahlāl Tāhlabānī di espellerli da questa regione che ha permesso la diffusione dei combattenti jihadisti nella zona araba arrivando quindi alla formazione di Daesh negli anni Duemila. Rischiamo quindi di avere lo stesso fenomeno in Iraq mentre in Siria è probabile che la perdita del progetto iniziale dello Stato islamico avrà come effetto l’unificazione dei ranghi jihadisti e in particolare di quelli di al-Qaeda con quelli dello Stato islamico.

Parigi, 30 agosto 2016

Cfr. La trappola Daesh. Lo Stato Islamico o la Storia che ritorna, di Pierre-Jean Luizard, con una prefazione di Alberto Negri, introduzione di Franco Cardini, Torino, Rosenberg & Sellier, 2016, disponibile in libreria e sulle principali piattaforme online.

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