Leonardo Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/leonardo/ geopolitica etc Sun, 21 Jan 2024 09:53:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Il crogiolo caucasico tra i confini fittizi dei vincitori https://ogzero.org/il-crogiolo-caucasico-tra-i-confini-fittizi-dei-vincitori/ Mon, 09 Oct 2023 23:43:29 +0000 https://ogzero.org/?p=11677 Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – […]

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Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – soprattutto dall’esterno – si sono fatti prevalere contrasti etnici a condivisione di territorio tradizionalmente abitato da famiglie eterogenee, condizionate da invasioni e dominazioni variabili e costanti. E quando soffiano i venti nazionalisti si scompaginano le comunità per creare stati usati per soffocarle, ognuno secondo la propria tradizione verso il vicino; in questo caso è sintomatico come i paesi islamici più lontani come l’Algeria definiscano gli armeni cristiani colonizzatori, mentre l’Iran sciita come il popolo azero appoggi Erevan per mere questioni di metri di confine da salvaguardare, mentre il miglior alleato dei “fratelli altaici” azeri è il vicino sunnita Erdoğan, interessato alla creazione di un unico territorio ottomano senza interruzioni di confini.
Ciò che rende ancora più impellente l’abbandono della terra avita da parte della ex maggioranza armena fuggita dall’Artsakh è la ferocia autoritaria del regime dinastico ex sovietico… mentre perdurano i bombardamenti turchi sui curdi e i sionisti passano per vittime, pur essendo Nethanyauh dalla parte dei carnefici, come gli Aliyev o il despota Erdoğan; tutti in qualche modo collegati e con interessi intrecciati, tra le vittime dei contenziosi decennali mancano solo i saharawi. 


La secolare replica del genocidio armeno

L’attuale violenza (massacri, deportazioni…) subita dagli armeni rievoca fatalmente il genocidio del 1915.
C’ è ancora spazio per una qualsivoglia “soluzione politica” che garantisca minimamente i diritti della popolazione armena del Nagorno-Karabach?
Meglio non raccontarsi balle. Ormai – a meno di imprevedibili eventi di portata planetaria – la questione è chiusa definitivamente. Anzi, potrebbe anche andare peggio.
Non si può infatti escludere che dopo l’Artsakh venga invasa anche la stessa Armenia, in particolare il corridoio per congiungere l’esclave azera di Karki al confine con l’Iran (e la Turchia).

Vediamo intanto di riepilogare la tragica catena degli ultimi tre anni.
I bombardamenti azeri del 19 settembre avevano riportato nella cronaca un conflitto forzatamente dimenticato, tuttavia l’attacco di Baku contro il Nagorno-Karabach e quanto poi avvenuto ai danni del popolo armeno non calava inspiegabilmente dal cielo. Come già si era ipotizzato in agosto.
Era perlomeno probabile.
Il Nagorno Karabakh era una repubblica autoproclamata (ribattezzata con l’antico nome di Artsaj) abitata in prevalenza da armeni, ma posta forzatamente all’interno dei confini dell’Azerbaijan. E che già prima del 1991 si batteva per la propria indipendenza.

Pulizia etnica alternata

Nel conflitto del 1988-1994 la vittoria era andata agli armeni con la conseguente espulsione di migliaia di azeri.

Nella Seconda guerra del Nagorno-Karabach (autunno 2020) le parti si invertirono e per oltre 40 giorni l’esercito azero si scatenò sulla popolazione civile compiendo ogni genere di efferatezze. Qualificabili come una brutale pulizia etnica.
Al punto che molti armeni in fuga riesumarono i loro cari dalle tombe e fuggirono con le bare fissate al portapacchi delle auto dopo aver incendiato la propria casa.

L’evanescente interposizione russa

In realtà solo un terzo della provincia indipendentista era passato sotto il controllo di Baku, ma erano chiare le intenzioni di completare l’opera quanto prima. Nonostante la poco convinta opera di interposizione dei soldati di Mosca, soprattutto dopo che l’Armenia aveva accettato di partecipare a esercitazioni congiunte con truppe Nato (direi un autogol di Erevan).
Ovviamente anche all’odierna (definitiva?) sconfitta degli Armeni (anche per essere stati isolati e privati di mezzi di sussistenza da circa nove mesi) di fronte alle preponderanti forze azere, date le premesse, era fatalmente scontata.

Neottomanesimo via Baku

Smantellata l’amministrazione armena della enclave ribelle, Baku ha dichiarato di volere «integrarla totalmente nella società e nello Stato azeri».

Quanto alle voci di una possibile concessione di “autonomia”, la cosa appare piuttosto fantasiosa. Se nell’Azerbaigian non gode di alcun riconoscimento la consistente “minoranza” Talish (una popolazione di lingua iraniana che supera il milione di persone) cosa potrebbe toccare ai circa 120.000 armeni del Nagorno-Karabach? Peraltro ormai fuggiti nella quasi totalità e poco propensi a rientrare nonostante le rassicurazioni del governo di Baku.

La coltre di gas

Dal canto suo l’Unione Europea si guarda bene dall’intervenire pensando ai consistenti accordi con l’Azerbaijan in materia di gas.

Solidarietà al popolo armeno è stata espressa vigorosamente dal Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (Knk).

Nel comunicato ha denunciato «la tragedia umana che avviene sotto gli occhi del mondo nell’Artsakh (Alto Karabach) dove un centinaio di migliaia di Armeni sono costretti all’esilio». E il Knk ricordava anche le immagini terribili del 2020 con «i soldati azeri che tagliavano nasi e orecchie ai civili e vandalizzavano i monasteri».

Ovvio il parallelismo con quanto avviene “nelle zone curde occupate dalla Turchia” (il principale alleato dell’Azerbaigian).
Ma esiste anche un altro timore, ossia che “se cade l’Artsaj, cade anche l’Armenia”.

Una lingua di terra turca a unire Caspio e Mediterraneo

Già nel 2020 l’Azerbaijan aveva occupato territori ufficialmente dell’Armenia nella regione di Syunik. Una lingua di terra che si frappone alla dichiarata intenzione di Turchia e Azerbaijan di unire il Mediterraneo con il Caspio via terra. Ricordo che Turchia e Azerbaigian sono già confinanti grazie all’enclave azera di Najicheván che – toh, coincidenza! – Erdogan ha appena visitato per la prima volta.

Forse paradossalmente (visto che gli azeri sono in maggioranza sciiti come gli iraniani) l’unico paese con cui l’Armenia mantiene stabili e diretti rapporti commerciali (nel 2020 forse s’aspettava anche sostegno militare, ma invano) è l’Iran. La perdita della regione di Syunik le sarebbe quindi fatale.

L’analogo trattamento turco destinato ai curdi

Per il Knk comunque non ci sono dubbi «Si tratta di pulizia etnica orchestrata dall’Azerbaigian e dalla Turchia., motivata dall’ambizione geopolitica pan-turca che intende riunire queste due nazioni (…). Dopo 108 anni il popolo armeno si ritrova di nuovo vittima di massacri e deportazioni orchestrati dalle forze statali animate da odio razzista verso la cultura e il popolo armeno. Di conseguenza la pulizia etnica attualmente in corso nell’Artsakh deve essere considerata come la continuazione del genocidio armeno del 1915 perpetrato dai Giovani Turchi».
E conclude paragonando le attuali sofferenze degli armeni a quelle analogamente patite dai curdi a Shengal, Afrin e Serêkaniyê: «Nomi e vittime di questi massacri possono cambiare, ma le motivazioni rimangono identiche».

Diretto interventismo turco nell’area curdo-armena

Risalendo all’ottobre 2020 già allora appariva evidente come il conflitto tra Armenia e Azerbaijan fosse propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia.
Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si andava sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti (sunniti) provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri (sciiti) contro gli armeni cristiani.
Un destino, quello della cittadina al confine turco-armeno di Kars, analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanli nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste.

Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe stato quindi di che stupirsi se «da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars».

D’altra parte era quasi scontato che Erdogan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto, mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.

Niente di nuovo

2009

Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione.
Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale “Hurriyet” ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993. Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdoğan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.
Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Anche per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista, quasi un progressista, comunque non un seguace di Erdoğan) si trattava nientemeno che di una «abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne» esprimendo «inquietudine per l’avvenire del paese» (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).

Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan, chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.

1988

Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica Repubblica d’Armenia.
E il 20 febbraio 1988 – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno/azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Agdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armeni. Nei disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. È il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.

Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.
Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno-Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 lo statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.

1991

In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera – la proposta di uno stato indipendente sarà approvata con il 99% dei voti.
A questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).
Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.
A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.
Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e – discretamente e solo a livello logistico – la Grecia.
Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex Urss (russi e ucraini).

Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.
Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti. Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14% del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (cessate il fuoco del 12 maggio) prendevano il via sotto la supervisione di Mosca.

Il fallimento del Gruppo di Minsk

1994

Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato Osce) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.
Tuttavia – almeno col senno di poi – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.

Qualche considerazione in merito alle efficaci operazioni propagandistiche (soprattutto da parte di Baku e Ankara) rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato. Forse perché – tutto sommato – già allora conveniva schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale, Armenia.
Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il Nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974. Per non parlare della continua evocazione di una – non documentata – partecipazione di militanti del Pkk ai combattimenti (a fianco degli armeni ovviamente).

Nel frattempo (gli affari sono affari) la Francia non smetteva di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non era e non è l’unico paese a farlo naturalmente (vedi l’Italia che dovrebbe fornire anche minisommergibili). Ma la cosa appariva stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Per esempio, all’epoca, nella querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.
Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku colpivano direttamente la popolazione di Stepanakert.

E già allora in qualche modo il conflitto tra Armenia e Azerbaijan appariva propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne era addirittura la “vetrina”). Intravedendo una prosecuzione (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.

Due parole poi sul ruolo assunto da Teheran

Anche se poteva apparire incongrua, da più parti si formulava l’ipotesi di un Iran deciso a schierarsi con l’Armenia nel conflitto con l’Azerbaijan.
Incongrua soprattutto pensando che in entrambi i paesi, Iran e Azerbaijan, è prevalente la fede sciita.

Ma poi (come forse era lecito aspettarsi) alcuni autorevoli esponenti politici iraniani erano intervenuti dichiarando che «l’Iran non sceglie l’Armenia a sfavore dell’Azerbaijan».

Il giornalista Raman Ghavami si diceva convinto che «sia probabile che dovremo assistere a una significativa collaborazione tra l’Iran, la Turchia, l’Azerbaijan (e presumibilmente anche la Russia a questo punto, N.d.A.) sia sull’Armenia, sia su altre questioni che interessano la regione».

Si sarebbe andato infatti configurando un nuovo livello di sostanziale collaborazione nelle relazioni tra Azerbaijan e Iran. Addirittura Teheran avrebbe (notizia non confermata) richiesto all’Armenia di “restituire” (nientemeno ?!?) il Nagorno-Karabakh a Baku.

Per Raman Ghavami in realtà l’Iran «da sempre preferisce rapportarsi con gli azeri sciiti piuttosto che con gli Armeni». Come avveniva già molto prima dell’insediarsi del regime degli ayatollah.

Nuovo intreccio dei destini armeni e curdi

A tale riguardo riporta l’esempio della provincia dell’Azerbaijan occidentale (posta entro i confini iraniani) che in passato era abitata prevalentemente da curdi e armeni.
Ma tale demografia venne scientificamente modificata, nel corso del Ventesimo secolo, dai vari governi persiani che vi trasferirono popolazioni azere. Sia per allontanarvi i curdi, sia per arginare gli effetti collaterali del contenzioso turco-armeno entro i confini persiani.
Molti armeni e curdi vennero – di fatto – costretti a lasciare le loro case.
Inoltre, in tale maniera, si creava una artificiosa separazione tra le popolazioni curde di Iraq, Turchia e Siria e quelle in Iran. Cambiando anche la denominazione geografica. Da Aturpatakan a quella di Azerbaijan occidentale.

Altro elemento di tensione tra Erevan e Teheran – sempre secondo Raman Ghavami – deriverebbe dal ruolo della chiesa armena nell’incremento di conversioni al cristianesimo da parte di una fetta di popolazione iraniana.

Legami finanziari Teheran-Baku

Da sottolineare poi l’importanza vitale, per un paese come l’Iran sottoposto a sanzioni, dei legami finanziari con l’Azerbaijan. Ricordava sempre Raman Ghavami come, non a caso, la succursale della Melli Bank a Baku è seconda per dimensioni soltanto a quella della sede centrale di Teheran.
Un altro elemento rivelatore sarebbe il modo in cui, rispettivamente, Baku ed Erevan hanno reagito alla cosiddetta “Campagna di massima pressione” sull’Iran in materia di sanzioni: mentre gli scambi commerciali tra Armenia e Iran si riducevano del 30%, quelli con l’Azerbaijan si intensificavano.
Ad alimentare la tensione poi, il riconoscimento da parte dell’Armenia di Gerusalemme come capitale di Israele. Una avventata presa di posizione di cui Erevan potrebbe in seguito essersi pentita. Vedi il successivo contenzioso (e ritiro dell’ambasciatore) a causa della vendita da parte di Israele di droni kamikaze IAI HAROP all’Azerbaijan.

Ulteriore complicazione (ma anche questa era forse prevedibile) la notizia che erano già in atto scontri armati tra i mercenari di Ankara inviati in Azerbaijan (presumibilmente jihadisti, sicuramente sunniti) e gli azeri sciiti.

Insomma, il solito groviglio mediorientale.

La spartizione di Astana: Russia e Turchia e gli oleodotti dell’Artzakh

Nel novembre 2020 si concretizzava poi un vero capolavoro di cinico realismo: gli accordi con cui Russia e Turchia si spartivano il Nagorno-Karabakh garantendosi il controllo della vasta rete di oleodotti che attraversano (o attraverseranno) il territorio storicamente conteso tra Armenia e Azerbaijan. Paese, quest’ultimo che fornisce alla Turchia un quinto delle sue importazioni di gas naturale (oltre a ingenti quantità di barili di petrolio dal Mar Caspio) direttamente all’hub di Ceyhan.
E qualche briciola non di poco conto andava anche al Belpaese (se abbiamo interpretato correttamente le dichiarazioni di Di Maio).
Ricapitoliamo. Il 10 novembre 2020 l’Armenia (il paese sconfitto) e l’Azerbaijan (il vincitore) firmavano un “accordo di pace” sotto la tutela ufficiale di Mosca e ufficiosa di Ankara.

Mentre le colonne dei profughi dal Nagorno-Karabakh) si allungavano per abbandonare il paese invaso dagli “alleati” (ascari?) di Ankara (l’esercito azero e le milizie mercenarie jihadiste qui inviate dai territori già invasi della Siria), iniziava il dispiegamento lungo la linea di contatto dei duemila – inizialmente – soldati russi (presumibilmente integrati con truppe turche, sul modello delle “pattuglie-miste” nel Nord della Siria). Durata prevista della loro presenza, cinque anni rinnovabili.

Un risultato niente male per Erdogan che vedeva ratificata la sua alleanza strategica con Baku. Così come venivano confermate le conquiste azere (almeno trecento insediamenti tra cui Susi, strategicamente rilevante). Non meno rilevante, l’acquisizione da parte dell’Azerbaijan di un collegamento diretto con Nachichevan (la sua enclave) e quindi con la Turchia.

Ovviamente gli armeni non l’avevano presa bene. A farne le spese il primo ministro Nikol Pashinyan (un leader “di plastica” secondo alcuni commentatori, messo su dall’Occidente un paio di anni prima per allontanare l’Armenia dal suo alleato tradizionale russo) di cui la piazza ha richiesto le immediate dimissioni.
Gli eventi sono noti: il palazzo del governo letteralmente preso d’assalto, il parlamento occupato e il presidente Ararat Mirzanyan che quasi rischiava di essere linciato dalla folla inferocita. I manifestanti erano anche andati a cercare direttamente a casa sua il primo ministro (presumibilmente non per una pacata conversazione), ma senza trovarlo (buon per lui, naturalmente).

L’interesse italico

a sei zampe…

Si diceva delle vaghe (o svagate?) dichiarazioni di Di Maio («Monitoreremo con attenzione gli sviluppi nelle aree dove si registra un particolare attivismo turco, vigilando affinché siano tutelati il rispetto del diritto internazionale, gli interessi italiani anche economici e con l’obiettivo di scongiurare qualsiasi escalation»). E chi vuol intendere...intenda.

Del resto, con buona pace della piccola Armenia, la cooperazione con l’Azerbaijan è da tempo consolidata. L’Italia – oltre che il maggior destinatario delle esportazioni petrolifere – risulta essere uno dei principali partner commerciali di Baku con un interscambio annuale – si calcola – di sei miliardi di euro. Sarebbero almeno tremila le imprese italiane che hanno investito nella repubblica caucasica. Risaltano in particolare Eni e Unicredit con interessi stimati in seicento milioni di dollari.

… e Leonardo-Finmeccanica

Cooperazione quindi ben consolidata, si diceva. Ma non solo in campo energetico. Magari indirettamente, anche militare. Risale, per dirne una, al 2012 la vendita di una decina di elicotteri Augusta Westland (società controllata da Leonardo-Finmeccanica), ufficialmente per uso civile (ma vengono in mente gli elicotteri venduti alla Turchia negli anni Novanta, su cui poi venivano applicate le mitragliere vendute separatamente). Nel 2017 l’amministratore delegato di Leonardo firmava a Baku – sotto lo sguardo del ministro Calenda – un accordo con la Socar (società statale petrolifera azera) per incrementare la sicurezza e l’efficienza delle infrastrutture energetiche grazie appunto alle tecnologie italiche.

Con un diretto riferimento al gasdotto di 4000 chilometri che la Socar stava realizzando per far giungere in Puglia e quindi in Europa (vedi la questione del Tap), dopo aver attraversato la Georgia, la Turchia, la Grecia e l’Albania, i previsti 20 miliardi di metri cubi (annuali) di gas di provenienza dall’Azerbaijan. Particolarmente rilevante e significativo il ruolo assunto da alcune aziende italiane (Snam S.p.A. di San Donato Milanese, Saipem, Eni, Maire Tecnimont…). Appare evidente come in tale contesto l’Armenia sia ormai fuori gioco, estromessa, marginalizzata (nonostante – a titolo di parziale consolazione – qualche ipocrita piagnisteo sul genocidio subito da parte della Turchia).

L’onnipresente invasività israeliana

Tornando alla breve, ma comunque devastante, guerra intercorsa nel 2020 tra Erevan e Baku, andrebbe poi approfondito il ruolo assuntovi da Israele.
Se la Turchia sembra aver fornito a Baku – oltre ai mercenari jihadisti – aerei e droni, cosa avrà fornito Israele? In qualche modo deve aver comunque contribuito visto che durante i festeggiamenti per la schiacciante vittoria, i manifestanti azeri inalberavano e sventolavano, oltre al vessillo nazionale e alle bandiere turche, numerosi drappi con la Stella di David.

Risalgono invece ai primi di ottobre (2023) le rivelazioni dell’intelligence francese sul fatto che i comandi militari azeri avrebbero ringraziato sentitamente Israele per il sostegno nel recente attacco al Nagorno-Karabach. Sia a livello espressamente militare (armamenti vari, soprattutto droni della Israel Aerospace Industries, della Rafael Advanced Defense Systems e della Israel Militari Industries), sia di intelligence (Mossad e Aman’s Unit 8200).
Sempre da fonti dell’Esagono risulta che nel corso del conflitto di settembre una quindicina di aerei cargo azeri sono atterrati nell’area militare di Ouda (Negev). Circa un centinaio di altri aerei cargo azeri erano ugualmente qui atterrati nel corso degli ultimi sei-sette anni. Presumibilmente non per rifornirsi di pompelmi. Inoltre Israele avrebbe fornito anche sostegno nel campo della Cyber Warfare (tramite l’Nso Group).
A ulteriore conferma dello stretto rapporto con Baku, il ministro israeliano della difesa si è recato recentemente nella capitale azera per verificare di persona l’efficacia del sostegno israeliano all’Azerbaijan.

Un bel caos geopolitico comunque

Proxy war disequilibrata

E arriviamo al febbraio di quest’anno, quando mentre a Erevan si ricordavano le vittime del pogrom del 1988, in Iran gli armeni manifestavano a sostegno della repubblica dell’Artsakh. Niente di strano.
Anche all’epoca dell’attacco dell’Azerbaijan ai territori armeni della Repubblica dell’Artsakh (con il sostegno di Ankara) nel 2020, c’era chi si aspettava un maggiore sostegno all’Armenia da parte dell’Iran, in linea con una certa tradizione. Dal canto suo Israele non mancava di mostrare sostegno (fornendo droni presumibilmente) alle richieste azere, ovviamente in chiave antiraniana. Misteri della geopolitica. Anche se poi sappiamo che le cose andarono diversamente, resta il fatto che comunque in Iran gli armeni costituiscono una minoranza tutto sommato tutelata, garantita (sicuramente più di altre, vedi curdi obeluci) e anche la causa dell’Artsakh gode ancora di qualche simpatia.

Commemorazioni dei massacri passati, in preparazione di quelli presenti

O almeno così sembrava leggendo la notizia del raduno di solidarietà con la popolazione armena della Repubblica dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) che si era tenuto presso il monastero di Sourp Amenaprguitch (Santo Salvatore) di Ispahan nella mattinata del 24 febbraio 2023 (nonostante, ci dicono, le condizioni atmosferiche inclementi). Oltre alle comunità armene di Nor Jugha (Nuova Djulfa, un quartiere di Ispahan fondato dagli armeni di Djulfa nel Diciassettesimo secolo) e di Shahinshahr, erano presenti molti armeni provenienti da ogni parte dell’Iran.
Numerosi gli interventi e i messaggi arrivati a sostegno alla causa della popolazione armena della Repubblica (de facto, anche se non riconosciuta in ambito onusiano) dell’Artsakh.

Quasi contemporaneamente, due giorni dopo, in Armenia venivano commemorate le vittime del massacro di Sumgaït (quartiere industriale a nord di Baku). Il presidente armeno Vahagn Khatchatourian con il primo ministro Nikol Pašinyan, il presidente del parlamento Alen Simonyan e altre figure istituzionali si sono recati al memoriale di Tsitsernakaberd a Erevan deponendo una corona e mazzi di fiori.
Il memoriale ricorda le persone uccise nei pogrom avvenuti (con la probabile complicità delle autorità azere) nel febbraio 1988 a Sumgaït, Kirovabad e Baku. Il massacro (in qualche modo un preludio alla guerra del 1992 in quanto legato alla questione del Nagorno Karabakh) sarebbe stato innescato da rifugiati azeri provenienti dalle città armene. Almeno ufficialmente. In realtà i responsabili andrebbero identificati tra i circa duemila limitčiki (operai immigrati delle fabbriche chimiche) a cui le autorità avevano distribuito alcolici in sovrabbondanza.
Se le fonti ufficiali azere parlarono soltanto di trentadue vittime, per gli armeni queste furono centinaia. Addirittura millecinquecento secondo il partito armeno Dashnak (oltre a centinaia di stupri).
Inoltre i militari inviati per fermare i disordini impiegarono ben due giorni per percorrere i circa trenta chilometri che separano Baku da Sumgaït. Vennero arrestate centinaia di persone, ma i processi si conclusero senza sostanziali condanne.

Guerra annunciata, forza di pace distratta

Tutti defilati… tranne i curdi

Nel marzo 2023, pressata da più parti affinché intervenisse, finalmente Mosca aveva parlato tramite il ministero della Difesa, accusando Baku di aver violato gli accordi sul Nagorno-Karabakh del 2020. Meglio tardi che mai, anche se la Federazione Russa appariva sempre più incerta (o disinteressata?) al destino dell’Armenia, praticamente abbandonata a se stessa (quasi da tutti sia chiaro, non solo dalla Russia; con la nobile eccezione dei curdi).
Eppure i segnali della possibilità di un ennesimo conflitto (guerra a relativamente “bassa intensità”) non erano mancati. Il 5 marzo si era registrato un altro scontro armato nel corridoio di Lachin (per gli azeri, di Zangezur) tra Stepanakert e Goris, bloccato ormai da tre mesi da presunti “manifestanti ecologisti” azeri. La sparatoria era avvenuta tra la polizia armena e i militari azeri che avevano arbitrariamente fermato un veicolo e – nonostante fosse costata la vita di cinque persone – era passata quasi inosservata.
Invano Nikol Pašinyan, primo ministro di Erevan, aveva richiesto, rivolto anche al tribunale internazionale dell’Onu, l’istituzione di una missione internazionale di indagine sulla situazione in cui veniva a trovarsi l’unica via di collegamento tra l’Armenia e la repubblica del Nagorno-Karabakh, ormai ridotta alla condizione di enclave sotto assedio, con oltre 120.000 persone di etnia armena sprovviste di cibo e medicinali. In base all’accordo trilaterale del 9 novembre 2020 (e riconfermato per ben due volte nel 2021 e ancora nell’ottobre 2022), alla Russia spettava il compito di controllare e assicurare i trasporti nel “corridoio” con una sua forza di pace.

Estrattivismo abusivo e pretestuoso ecologismo

Il pretesto avanzato dai sedicenti “ecologisti” azeri che da mesi bloccavano il passaggio sarebbe quello di poter controllare le miniere (private, non statali) di Gyzylbulag (oro) e di Demirl (rame e molibdeno) dove gli armeni avrebbero compiuto “estrazioni illegali”.
Dopo le ripetute accuse di “mancata osservanza dell’impegno di controllo”, fino a quel momento da parte di Mosca erano giunte soltanto rassicurazioni verbali (dicembre 2022). Ma anche la dichiarazione che «le forze di pace possono agire soltanto quando entrambe le parti sono d’accordo».

«Gli azeri continuano ad avanzare pretese massimaliste, senza concedere alcuna forma di compromesso», aveva denunciato Vagram Balayan, presidente della commissione affari esteri dell’assemblea nazionale del Nagorno-Karabakh. Sostanzialmente in quanto Baku “non intende riconoscere l’esistenza del Nagorno-Karabakh e del popolo dell’Artsakh”. Ossia, detta fuori dai denti, “vogliono soltanto farci scomparire dalla storia” (come sembra confermato dagli ultimi eventi). Costringendo gli armeni a scegliere tra un’evacuazione “volontaria” e la deportazione.

Fine annunciata

E intanto con il mese di agosto il tragico epilogo si profilava all’orizzonte.
Con gli Armeni del Nagorno-Karabakh ormai presi per fame, in un articolo di quei giorni mi ero chiesto se «si può già parlare di genocidio o dobbiamo aspettare qualche migliaio di morti per inedia?».
Domanda retorica ovviamente.

A un certo punto l’evidente, colpevole, latitanza della Russia (storicamente “protettrice “ della piccola Armenia) sulla questione del Nagorno-Karabakh sembrava aver lasciato campo aperto all’intervento pacificatore – o perlomeno a un tentativo di mediazione – di Unione Europea e Stati Uniti.
Ma l’irrisolta questione del Corridoio di Lachin (unico corridoio tra Armenia e Nagorno-Karabakh) conduceva fatalmente al nulla di fatto. E intanto per gli armeni del Nagorno-Karabakh la situazione continuava a peggiorare.
Chi in quei giorni aveva avuto la possibilità di percorrere le strade di Stepanakert parlava di lunghe file di persone che – dopo ore di attesa – ottenevano letteralmente un tozzo di pane. Per non parlare di quanti crollavano – sempre letteralmente – a terra a causa della fame. Almeno 120.000 persone colpite dall’isolamento totale e dalla conseguente crisi umanitaria (sia a livello sanitario che alimentare).
Senza dimenticare che – ovviamente – l’Azerbaigian da tempo aveva provveduto a interrompere il rifornimento di gas. Difficoltoso, in netto calo, anche quelli di energia elettrica e di acqua. A rischio le riserve idriche con tutte le prevedibili conseguenze.
Quanto all’alimentazione ormai si era ridotti alle ultime scorte di pane e angurie. Il peggioramento si era andato accentuando da quando veniva impedito (con posti di blocco installati illegalmente dall’Azerbaigian) l’accesso anche alla Croce Rossa e alle truppe russe di interposizione che comunque finora avevano rifornito di cibo – oltre che di medicinali – la popolazione armena.

Silenzio tombale e pennivendoli distratti

Bloccato da mesi alla frontiera anche un convoglio di aiuti umanitari (oltre una ventina di camion) inviato da Erevan.
In pratica, un grande campo di concentramento.
Al punto che un cittadino armeno gravemente ammalato, mentre veniva trasportato dalla Croce Rossa in un ospedale dell’Armenia (e quindi sotto protezione umanitaria internazionale), veniva sequestrato, privato del passaporto, sottoposto a interrogatorio e spedito a Baku dove – pare – sarebbe stato anche processato per eventi risalenti al primo conflitto scoppiato in Nagorno-Karabakh negli anni Novanta.

E ogni appello rivolto alle autorità e organizzazioni internazionali (Unione Europea, Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Russia, Gruppo di Minsk…) era destinato a restare inascoltato.
Con un preciso riferimento al blocco del Corridoio di Lachin operato dall’Azerbaijan, un ex esponente della Corte Penale Internazionale, l’avvocato argentino Luis Moreno Ocampo, aveva espressamente evocato un possibile genocidio.
Ma la sua appariva la classica “voce che grida nel deserto”. Quello dell’informazione almeno.

Poi la conferma dei peggiori timori con il tragico epilogo avviato il 19 di settembre.


Il giorno dopo la Guerra lampo dei fratelli turcofoni avevamo sentito Simone Zoppellaro, la cui analisi consentiva di comprendere nei dettagli cause e conseguenze delal dissoluzione dell’indipendenza dell’Artzakh

“Cala un sipario plumbeo sull’Artsakh”.

L'articolo Il crogiolo caucasico tra i confini fittizi dei vincitori proviene da OGzero.

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LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A NOVEMBRE https://ogzero.org/studium/la-guerra-viene-con-le-armi-lo-spaccio-a-novembre/ Thu, 05 Jan 2023 09:28:05 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=9930 L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A NOVEMBRE proviene da OGzero.

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Miniere di guerra di prossimità africana

In Africa subsahariana i cinque maggiori importatori di armi sono stati Angola, Nigeria, Etiopia, Mali e Botswana. Resta un grande importatore l’Egitto che con il più 73% diventa il terzo importatore di armi a livello globale (Focus di “Atlante delle Guerre”, 29 marzo 2022).

Gianni Sartori ci ha fornito un testo foriero di molteplici spunti di lettura paralleli: a cavallo tra risorse africane, compagnie minerarie, approvvigionamenti di armi e conflitti, presenti e futuri.
Alle tradizionali estrazioni del continente (oro, argento, diamanti, rame, manganese) si aggiungono le basi dei nuovi oggetti: coltan, cobalto, grafite, litio… e gli scenari sono quelli ad alta tensione di Zimbabwe, Sudafrica, Marocco, Mali, Burkina Faso, Congo…


E PER LE GRANDI COMPAGNIE GLI AFFARI VANNO A GONFIE VELE
PREANNUNCIANDO FUTURI CONFLITTI

di Gianni Sartori

Se, come recitava negli anni settanta la rivista “Hérodote” (di cui conservo gelosamente due-tre numeri dell’edizione italiana pubblicati dal mai dimenticato Bertani): «La geografia serve a fare la guerra», parafrasando possiamo aggiungere che “la geologia la determina”. O quantomeno la indirizza e alimenta.
Per cui volendo azzardare ipotesi sui futuri conflitti sarebbe opportuno munirsi di aggiornate carte minerarie.

Litio, cobalto, stagno, rame, grafite, nickel… risultano indispensabili per quella fantomatica “transizione energetica” (dove l’unico verde identificabile sembra quello dei dollari, quelli di una volta almeno) a cui tendono in maniera talvolta spasmodica compagnie minerarie e produttori di automobili. Con il continente africano che al momento sembra essere quello più ambito.

Secondo le compagnie minerarie e alcuni governi (africani e non) molte risorse minerarie (litio, rame, stagno, cobalto…) finora sarebbero state non adeguatamente sfruttate (o addirittura “trascurate”). Oggi si intende rimediare riattivando antiche miniere e aprendone di nuove (e pazienza per l’ambiente e le popolazioni indigene, ovviamente).


ZIMBABWE E LITIO

Pare che l’ex Rhodesia, oggi Zimbabwe, sia uno dei pochi paesi africani dotati di vaste riserve di Lithium. Nel senso di “litio”, il minerale (simbolo Li, numero atomico 3, peso atomico 6,94; nessun riferimento ai Nirvana quindi) essenziale per le batterie dei veicoli elettrici.
E se questo ha già scatenato le comprensibili brame delle grandi compagnie minerarie, finora aveva mobilitato soprattutto schiere di minatori individuali (“artigianali”). Sui quali tuttavia stanno calando pesanti restrizioni ministeriali. In pratica non potranno più esportare il materiale grezzo estratto, spesso fortunosamente, da terreni non necessariamente di loro proprietà e da miniere abbandonate.

Una restrizione che non dovrà interessare le miniere di livello industriale in quanto dovrebbero esportare solo materiale trattato, un “concentrato di litio”. Miniere comunque ancora in fase di realizzazione, dato che l’unica importante produttrice di litio è quella di Bikita. Nello stesso tempo il governo di Harare intende favorire aziende locali per la trasformazione in loco del minerale così che possa venir utilizzato direttamente dall’industria dei veicoli elettrici. Risale a novembre l’accordo firmato con la TsingShan Holding per un impianto in grado di produrre il concentrato di litio (“AgenziaNova”). 


100 %

Avanzamento



GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE Traffico 2022


Ventotto i Paesi in cui Wagner avrebbe operato, diciotto dei quali africani: Libia, Repubblica Centrafricana, Mozambico, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Mali, Madagascar e Zimbabwe tanto per citarne alcuni (“AnalisiDifesa”). E Wagner è lì solo per curare gli interessi minerari di Mosca

Il primo vertice Russia-Africa, tenutosi nel 2019, ha fatto parlare di “ritorno della Russia in Africa” dopo anni di disimpegno a sud del Sahara. Il rinvio del secondo vertice, che avrebbe dovuto tenersi alla fine del 2022 in Africa, ha apparentemente messo in luce le vulnerabilità economiche e politiche della Russia alla luce della sua guerra di aggressione contro l’Ucraina. Eppure, l’impegno diplomatico e di sicurezza della Russia in Africa sembra continuare senza sosta. Che impatto ha la guerra in Ucraina sulle relazioni della Russia con i Paesi africani? Come stanno reagendo alla guerra? Cosa possiamo aspettarci dal futuro ruolo e dalla presenza della Russia nel continente? (ISPI)

Per l’Africa, con una perdita annua di quattro milioni di ettari di foreste, questo è “mal comune” (ma senza “gaudio” ovviamente). In base agli atti recentemente pubblicati dalla National Academy of Sciences, l’aumento esponenziale delle attività estrattive in aree forestali costituisce il 47% (oltre tremila e duecento chilometri quadrati) della distruzione delle foreste tropicali dal 2000 a oggi. Soprattutto in Ghana, Tanzania, Zimbabwe e Costa d’Avorio.

Contemporaneamente anche Biden ha rivolto l’attenzione degli Usa all’Africa abbandonata da Trump (e in parte prima da Obama), convocando un summit di metà dicembre per contrastare la presenza sinorussa nel continente (ISPI): Guinea, Sudan, Mali, Zimbabwe, Burkina Faso ed Eritrea sono rimaste fouri dalla lista degli invitati. Invece Teodoro Obiang, l’autocrate guineano più longevo al mondo, risultava tra gli invitati: la Guinea equatoriale è tra i porti nevralgici per ogni tipo di merci, legali o meno.

Tutti paesi dove la tensione per il controllo di queste risorse si fa più forte, creando strategie esterne e appoggi da potenze locali. Smerci di armi… ma gli stati che intendono proteggere i loro minerali “rari” e preziosi non si dotano di armi che possono competere con le potenze interessate allo sfruttamento dele miniere, o per avversare le milizie che fanno gli interessi di quegli stati, piuttosto si dotano di elicotteri per il controllo delle rivolte della popolazione, indignata dalla corruzione e dal saccheggio di risorse nazionali.



In Zimbbwe è operativo il MiG21 nella versione J7, copia non autorizzata del Fishbed realizzata in Cina (“AnalisiDifesa”)

Nel gennaio 2022, lo Zimbabwe era al 93° posto sui 142 paesi considerati nella classifica annuale della GFP con PwrIndx di 2,2498 (laddove lo zero sarebbe “perfetto”).
Il Generale di Brigata Mike Nicholas Sango, ambasciatore dello Zimbabwe presso la Federazione Russa, ha detto che «la politica della Russia nei confronti dello Zimbabwe negli ultimi anni si è evoluta in modo positivo. L’impegno del Governo dello Zimbabwe con la Federazione Russa è storicamente radicato nel contributo del nuovo stato al raggiungimento della libertà e della nazione da parte dello Zimbabwe nel 1980» (“Africa24”).
Secondo lui, il presidente della Repubblica dello Zimbabwe, Emmerson Dambudzo Mnangagwa, ha visitato Mosca nel 2019. Da allora, ci sono state visite reciproche di ministri e parlamentari. All’inizio di giugno 2022, la presidente del Consiglio Federale, Valentina Matviyenko, ha visitato lo Zimbabwe. I militari dello Zimbabwe hanno partecipato ai Giochi dell’Esercito nel corso degli anni e ai Giochi dell’Esercito di metà agosto 2022.
E non a caso i russi hanno voluto scambiare Viktor Bout, il mercante di armi.

Russia
Mentre Washington domina il mercato globale delle armi di alta gamma e ad alta tecnologia, la Russia si è ritagliata un posto di primo piano come fornitore mondiale di armi economiche, ma a bassa tecnologia, talvolta descritte come “armi di valore”. Queste includono nuove varianti di equipaggiamenti sovietici e russi come i carri armati T-72 e T-80, pezzi di artiglieria trainati come il D-30, obici semoventi come il 2S1 Gvozdika e il 2S19 Msta, lanciarazzi multipli semoventi come il BM-27 Uragan e il BM-30 Smerch, il sistema di difesa missilistica S-300 e i veicoli corazzati per il trasporto di personale come il BMP-3 e il BTR-70.

Cina
Sebbene i paesi a basso reddito come Myanmar, Zambia e Zimbabwe acquistino solo armi di questa categoria, anche i paesi a medio reddito come Brasile, India e Thailandia, che partecipano a segmenti del mercato di fascia alta, acquistano grandi forniture di armi di valore. Nel 2022, la spesa per la difesa dei paesi principalmente africani, asiatici e latinoamericani che compongono il mercato di valore ammonterà a 246 miliardi di dollari. Dal momento che le aziende americane di solito non competono nel mercato delle armi di valore, le difficoltà della Russia hanno creato un vuoto. E il paese pronto a riempirlo è la Cina. Se non controllata, Pechino potrebbe utilizzare le vendite di attrezzature per la difesa per costruire relazioni più forti con le élite al potere e per assicurarsi basi all’estero, limitando potenzialmente la capacità di manovra delle forze armate statunitensi in tutto il mondo. L’espansione delle vendite di armi cinesi minerebbe l’influenza degli Stati Uniti nella competizione geostrategica in corso. Ma questo esito non è ancora inevitabile. Gli Stati Uniti e i loro alleati sono ancora in tempo per fornire sostituti alle armi russe a prezzi accessibili e contrastare così le ambizioni della Cina. La Cina vanta sei delle 25 maggiori aziende di difesa del mondo. Sebbene l’attuale quota del cinque per cento del mercato globale degli armamenti sia significativamente inferiore al 19 per cento della Russia, ciò indica il potenziale della Cina di espandere la propria quota di mercato. La Cina ha diversi vantaggi distinti che potrebbero permetterle di dominare il mercato del valore.
L’approccio cinese all’esportazione di armi è transazionale, libero da preoccupazioni sui diritti umani o sulla stabilità del regime. La Cina scambia armi non solo in cambio di un compenso finanziario, ma anche per l’accesso ai porti e alle risorse naturali degli stati destinatari. In parte, fornendo armi di valore come radar, missili e veicoli blindati al Venezuela e all’Iran, per esempio, Pechino si è assicurata un accesso costante al petrolio di quei Paesi. La maggior parte dei paesi dell’Africa subsahariana utilizza armi cinesi, ma le vendite alla regione rappresentano solo il 19% delle esportazioni cinesi. Oltre il 75% delle esportazioni cinesi è destinato ai paesi asiatici dove la Cina ha iniziato a espandere la propria rete di produzione industriale. Il Pakistan, per esempio, ora coproduce molti sistemi d’arma cinesi, come il carro armato Al-Khalid e il caccia JF-17 Thunder. Più di recente, oltre alle armi di valore, la Cina ha iniziato a vendere sistemi d’arma di fascia più alta a clienti importanti: ad aprile ha iniziato a vendere missili antiaerei alla Serbia e a giugno l’Argentina ha segnalato interesse per i jet da combattimento JF-17. La Cina è ora il più grande esportatore di droni al mondo e ha iniziato a vendere i suoi Wing Loong e i modelli CH-4 a clienti che prima acquistavano droni britannici, francesi, russi e statunitensi: un elenco di paesi che comprende Egitto, Iraq, Giordania e Arabia Saudita. (“ForeignAffairs”)
Secondo il “Jane’s Defence Weekly”, quasi il 70% dei veicoli militari blindati presenti in tutti i 54 paesi africani sono di origine cinese, mentre quasi il 20% di tutti i veicoli militari del continente sono stati forniti dalla Cina.
Citando un rapporto dell’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), l’outlet ha sottolineato che, emergendo come quarto fornitore globale di armi, la Cina ha rappresentato il 4,6% del totale delle esportazioni di armi globali tra il 2017 e il 2021.
Di questo totale di esportazioni di armi globali, il 10% è stato destinato a paesi africani. Etiopia, Sudan, Nigeria, Tanzania, Camerun, Zimbabwe, Zambia, Gabon, Algeria, Namibia, Ghana, Burundi, Kenya e Mozambico sono stati i principali importatori di armi cinesi negli ultimi cinque anni (“Asia News International”).

Zimbabwe

«Lo Zimbabwe è forse il più longevo beneficiario africano dell’assistenza alle forze di sicurezza (SFA) da parte della Cina», affermano due ricercatori senior del Peace Research Institute di Oslo, Ilaria Carrozza e Nicholas Marsh, nello studio pubblicato sul Journal of Global Security Studies.

La Cina ha fornito addestramento militare ai membri del Fronte patriottico dell’Unione nazionale africana dello Zimbabwe, guidato da Mugabe, durante la sua lotta per la liberazione. Tra le persone addestrate c’era anche il presidente Emmerson Mnangagwa, salito al potere cinque anni fa dopo il colpo di stato che ha spodestato Mugabe.

«Questo sostegno ha contribuito a suggellare un rapporto di sicurezza tra la Cina e la leadership dello Zimbabwe che dura tuttora», si legge nello studio.

L’assistenza alle forze di sicurezza comprende donazioni, in genere di attrezzature militari e di addestramento, che mirano a migliorare la capacità delle forze di sicurezza di un paese beneficiario, ha affermato Carrozza.
Lo Zimbabwe è stato tagliato fuori dai mercati globali dei capitali nei due decenni trascorsi da quando gli Stati Uniti e altri paesi occidentali hanno imposto sanzioni ad Harare per le violazioni dei diritti umani e la confisca delle terre agli agricoltori bianchi, lasciando a Pechino il ruolo di principale finanziatore di progetti infrastrutturali come dighe idroelettriche, aeroporti e strade (SCMP).

SUDAFRICA: MEGLIO IL LITIO DEL CARBONE? DIPENDE…

di Gianni Sartori

Dal 2023 (stando a una recente dichiarazione) la Compagnia mineraria Marula Mining (All Star Minerals) darà il via alla vendita di litio a una filiale della lussemburghese Traxys. Quanto alla provenienza del minerale, sarebbe la miniera di Blesberg, in disuso da tempo e riaperta nel dicembre 2022. Anche se per ora i lavori proseguono lentamente e su piccola scala, in attesa di ulteriori perforazioni e carotaggi.

Oltre al litio (sotto forma di spodumene che qui lo contiene con percentuali tra il 6 e il 7 %), la miniera sarebbe in grado di fornire anche tantalio.

Ma in materia di miniere non son tutte rose e fiori per il Sudafrica. Le miniere abbandonate di carbone, per esempio, rappresentano – oltre che un potenziale pericolo – una documentata fonte di inquinamento per le sorgenti e le falde acquifere, una grave minaccia per la salute delle popolazioni. O almeno questo è quanto sostiene Human Rights Watch in un suo recente rapporto (The Forever Mines : Perpetual Rights Risks from Unrehabilitated Coal Mines in Mpumalanga, South Africa ) con cui accusa il governo sudafricano di non garantire la bonifica, il risanamento delle miniere abbandonate. Di non aver fatto nulla per rimediare a tale “eredità tossica”.

E ovviamente vengono messe sotto accusa anche le compagnie minerarie che «per anni hanno tratto profitti dallo sfruttamento del carbone, ignorando però le proprie responsabilità al momento di ripulire, bonificare il degrado, l’inquinamento che si sono lasciate alle spalle».

Lasciando sovente alle comunità locali l’onere di rimediare ai danni.

  1. Alla realizzazione del dossier di Human Rights Watch hanno contribuito decine di esponenti delle comunità locali (compresi i genitori dei numerosi bambini che hanno perso la vita precipitando in pozzi a cielo aperto), rappresentanti di associazioni locali e di ong, ricercatori universitari e personale sanitario. E anche molti “minatori individuali” o che operavano comunque a livello artigianale, al di fuori delle compagnie minerarie. In genere tra i residui di quelle abbandonate con gravi conseguenze per la salute. Come ha ben documentato Human Rights Watch riportando oltre 300 decessi di questi “zama – zama”. Deceduti in gran parte per il crollo dei tunnel, in minor misura per intossicazione da gas o incidenti con esplosivi). Inevitabile un raffronto con i garimpeiros di Brasile e dintorni o con i minatori (in genera persone anziane o giovanissime) che scavano (scavano?!) tra i residui, gli scarti delle miniere boliviane.

Su 2300 miniere prese in esame e classificate “ad alto rischio” (tra cui sono centinaia quelle di carbone), soltanto 27 sono state bonificate in Sudafrica. Si tratta di quelle da cui si ricavava l’amianto (in genere “amianto nero”, più nocivo, ma meno costoso da estrarre e che ha distrutto la salute di migliaia e migliaia di minatori neri).

Specificatamente per quelle di carbone, si è potuto documentare come i residui minerari esposti alle intemperie contribuiscano ad aumentare notevolmente l’acidità dell’acqua e dei terreni. Il fenomeno conosciuto come ”drenaggio minerario acido” provoca sia l’inquinamento delle acque che la sterilizzazione dei terreni, oltre a corrodere e danneggiare irreparabilmente le infrastrutture di approvvigionamento dell’acqua potabile.

Se l’UE è il principale partner commerciale del paese, la Cina è presente in misura sempre maggiore con investimenti di varia natura

Decine di compagnie minerarie sudafricane si rifiutano di rendere pubblici i loro piani sociali e di lavoro, o SLP, come richiesto dalla legge. Senza l’accesso a questi documenti, le comunità hanno difficoltà a valutare gli impegni sociali delle compagnie minerarie o a ritenerle responsabili. Questi piani dovrebbero descrivere in dettaglio come le aziende sosterranno la creazione di posti di lavoro e il miglioramento dei servizi nelle città in cui estraggono. L’organizzazione no-profit Mining Affected Communities United in Action (MACUA) stima che tra il 70 e il 90% delle miniere in Sudafrica non pubblichino i loro piani.

Fondata nel 2011, la miniera di Kolomela, a 22 chilometri dalla città di Postmasburg, nella provincia di Northern Cape, produce ogni anno oltre 9 milioni di tonnellate di minerale di ferro. Dal 2021, Kolomela, che è di proprietà della filiale locale del gigante minerario Anglo American, Kumba Iron Ore, ha respinto gli sforzi del MACUA e dei membri della comunità per ottenere una copia dello SLP 2020-2024 della miniera (“Mongabay”).

Oggi il Sudafrica non è più leader mondiale della produzione dell’oro, sebbene secondo le stime dell’US Geological Survey detenga il 50% delle risorse aurifere del pianeta, ma è ancora in testa a livello continentale. Le riserve però iniziano ad esaurirsi e il paese è passato dal 15% della produzione mondiale al 12%.

Questa situazione, con la diminuzione delle miniere e la perdita del lavoro, non ha fatto che peggiorare le condizioni di vita e di lavoro dei minatori, uomini, donne e bambini che accettano condizioni lavorative degradanti e rischiano di morire per poter sopravvivere. Una miniera dismessa è terreno fertile per minatori illegali che cercano l’ultimo filone in autonomia o con l’aiuto degli ultimi tra i disperati. Tra il 2004 e il 2015 un terzo delle 180.000 persone che lavoravano nel settore minerario sudafricano sono state licenziate. Molte sono tornate alle miniere da sole, illegalmente (“Orovilla”). Imponenti e ricorrenti scioperi hanno prodotto scontri e massacri della polizia a difesa di istituzioni e investitori cinesi ed europei, che hanno chiesto all’ex sindacalista compagno di Mandela Ramaphosa di eliminare tasse e promesse di maggiori diritti per i lavoratori: «Le lotte che lo attraversano, tanto dei minatori neri e spesso migranti quanto delle popolazioni nere locali, trascendono il più delle volte i confini nazionali, proprio a causa del carattere non-nazionale dei bersagli e delle rivendicazioni in reazione al Trade, Development and Co-operation Agreement: il piano di liberalizzazioni previsto dall’accordo ha infatti imposto leggi sul lavoro, riduzione dei salari, privatizzazione delle aziende statali, leggi sull’immigrazione e tagli alla spesa pubblica in nome di un “rilancio” dell’economia sudafricana. instaurando un regime commerciale preferenziale tra l’UE e il Sudafrica, con la creazione progressiva di zone di libero scambio (ZLS) per la libera circolazione delle merci. Questo vale sia per gli scambi commerciali, sia per gli investimenti, definendo di fatto l’UE come principale partner economico del Sudafrica. Secondo un modello ormai diffuso su scala globale e di cui l’Ue si fa promotrice, le zone economiche… Se l’UE è il principale partner commerciale del paese, la Cina è presente in misura sempre maggiore con investimenti di varia natura. Come si legge sul sito di Taung Gold, una delle principali società finanziarie cinesi attiva principalmente nel settore minerario, la Cina “è profondamente consapevole dell’importanza degli investimenti cinesi in Sudafrica”. Taung Gold è da oltre un decennio una delle molte imprese della Repubblica Popolare che investono in Sud Africa, soprattutto nel settore minerario. Tra gli esempi più significativi vi è l’acquisizione da parte del Gruppo Jinchuan e del China-Africa Development Fund del 45% di Wesizwe Platinum, una junior mining company» (“ConnessioniPrecarie”). E allora, come riportava “Il Post” nel luglio 2019, i vertici militari sudafricani avevano deciso di usare l’esercito per reprimere le proteste e gli scontri iniziati dopo che l’ex presidente Jacob Zuma era stato incarcerato nel luglio per un episodio di corruzione da parte della francese Thales: una tangente relativa all’acquisto di una partita di armi nel 1999. La difesa dell’ex presidente e del suo sistema di corruzione è solo la miccia che ha fatto esplodere la rabbia, temuta da Pretoria, ma anche da UE e Cina: «Le rivolte sono il prodotto delle disuguaglianze crescenti che la fine dell’apartheid non ha saputo ridurre, e di rivalità politiche all’interno del partito al potere, l’African national congress (Anc)»; Zuma è un populista zulu, eroico combattente da giovane, e anche questi elementi sono alla base delle rivolte contro le barriere sociali sostituite dagli stranieri al posto di quelle razziali. Alla fine si sono visti anche i carri armati Olifant e sono arrivati 25.000 soldati ad appoggiare le forze di polizia. L’ultimo bilancio avrebbe parlato di 212 vititme e migliaia di feriti e arresti.

Perciò le necessità di armi dell’esercito sudafricano deve rispondere al contenimento di rivolte interne: infatti nella più imponente esercitazione militare dell’esercito sudafricano tenutasi nel novembre 2022 (Vuk’uhlome – “alzati e armati” in lingua zulu) ha testato la capacità e lo stato di preparazione della forza terrestre, supportata dalle Forze Speciali SA, dall’Aeronautica Militare SA (SAAF), dal Servizio Sanitario Militare SA (SAMHS), dalla Divisione di Polizia Militare e dalla Divisione Servizi Legali. Durante il Distinguished Visitors’ Day dell’esercitazione sono state dimostrate numerose capacità, che vanno dalla gestione dei disordini civili al lancio di forze aeree con il paracadute, agli attacchi di precisione con razzi e artiglieria, alle operazioni di controinsurrezione, agli attacchi di fanteria… Le Forze speciali, con le loro armi e i loro veicoli, hanno svolto un ruolo importante nella battaglia simulata, che ha visto il coinvolgimento di veicoli corazzati, tra cui i carri armati Olifant.

L’Aeronautica militare ha sostenuto l’esercitazione con aerei da trasporto Cessna Caravan e C212, elicotteri da trasporto/utilità Oryx e A109 e un elicottero d’attacco Rooivalk. Quest’ultimo non ha sparato, ma due caccia-addestratori Hawk Mk 120 hanno sganciato bombe sul poligono di Lohatla. La SANDF è penalizzata da un massiccio sottofinanziamento aggravato da una lista crescente di compiti, oltre che dall’invecchiamento dell’equipaggiamento – non è chiaro quando riceverà i nuovi veicoli da combattimento di fanteria Badger da Denel. Tra le recenti acquisizioni figurano i fucili di precisione Truvelo, i lanciagranate da 40 mm Milkor, i fucili senza rinculo Carl Gustaf Saab, i veicoli con cannone antiaereo ZSU-23-2 montati su Land Cruiser e i veicoli con mortaio Scorpion da 60/80 millimetri (tutti con ogni evidenza sistemi di contenimento interni e non di difesa da potenze straniere). Una grande esposizione dell’industria della difesa ha fatto parte dell’esercitazione Vuk’uhlome, con più di mezza dozzina di aziende che hanno esposto i loro prodotti. Tra queste, Reutech (radar e torrette d’arma), Canvas and Tent (alloggi da campo), Rheinmetall Denel Munition (energia verde), Global Command and Control Technologies (soluzioni di comando e controllo), Dinkwanyana Aerospace (veicoli aerei senza pilota), OTT Solutions (veicoli corazzati, tra cui il dimostratore Ratel Service Life Extension) e Denel. Quest’ultima ha presentato i suoi veicoli da combattimento per la fanteria Badger e RG41, i veicoli corazzati per il trasporto di personale RG21 e RG31 e l’obice semovente T5-52. SVI Engineering ha portato nell’area espositiva due dei suoi veicoli blindati (Max 3 e Max 9). L’azienda ha anche fornito veicoli da mortaio Scorpion alla SANDF (“DefenceWeb”). Ma i 9 velivoli C-47TP in servizio con il 35° Squadron della South Africa Air Force sarebbero quasi tutti a terra in attesa che la società Armscor reperisca sul mercato pezzi di ricambio; le difficoltà economiche della Difesa sudafricana si riflettono pesantemente sulle capacità della SAAF che da mesi tiene a terra per mancanza di ricambi e assistenza l’intera flotta di 26 velivoli da combattimento SAAB Jas 39 Gripen (“AnalisiDifesa”).

LA COMPAGNIA MAROCCHINA MANAGEM FARA’ AFFARI D’“ORO”

di Gianni Sartori

Novità rilevanti anche dal Marocco con l’ormai centenaria compagnia Managem sempre più “leader regionale” (ma con aspirazioni evidentemente “continentali”) nell’industria mineraria africana. Da circa vent’anni va ampliando il suo raggio d’intervento in Sudan (oro), Gabon, RdC (sarà mica per il coltan?) e Guinea (ancora per l’oro).

Verso la fine di dicembre il direttore generale di Managem ha annunciato di aver sottoscritto un accordo (una transazione del valore di circa 280 milioni di dollari) con la canadese Iamgold Corporation per acquisire la proprietà di alcuni progetti di estrazione aurifera in Mali (progetto Diakha-Siribaya), Senegal (progetti Boto, Boto ovest, Daorala, Senala ovest) e Guinea (progetto Karita): una striscia unica di territorio conteso tra Senegal, Mali e Guinea: Bambouk Assets che il Marocco si è attribuito con la dichiarata intenzione di aumentare la propria produzione di oro dato che finora si era posizionata ben lontana dai livelli di produzione di compagnie come Iamgold, Endeavoure, B2Gold o Kinross Gold.

ESCALATION MAGHREBINA

A questi territori, per quanto contigui, va assicurata la sicurezza, perciò il Marocco si riarma e si fa forte delle alleanze strette con Usa e Israele.

Per un controllo capillare della sicurezza nell’estrazione mineraria la prima mossa fondamentale è il controllo dall’alto del territorio e infatti in combutta con Sabca (l’impresa marocchina dell’aerospaziale) troviamo Sabena– di Blueberry Group – e Lockhead impegnatee nel progetto di realizzare la prima officin di manutenzione dei C130, essenziale per la sovranità del Marocco. I media riferiscono di piani marocchini per l’acquisto di 22 elicotteri T129 ATAK per un valore di 1,3 miliardi di dollari. L’accordo si aggiungerebbe a un ordine per 36 elicotteri d’attacco AH-64E Apache e relative attrezzature, per un costo stimato di 4,25 miliardi di dollari. Riconoscendo l’importanza della superiorità aerea nel contrastare qualsiasi minaccia alla sicurezza nazionale che possa derivare dalla crescente instabilità del Sahel e dell’Algeria, il Marocco ha anche ordinato altre 25 unità di caccia F-16C/D Block 72, che porteranno il numero totale della flotta di F-16 del Marocco a 48 unità. L’evoluzione della strategia militare del Marocco pone inoltre particolare enfasi sulla guerra con i droni, utilizzata contro la resistenza saharawi; e proprio in seguito allo strappo di Trump con l’imposizione degli Accordi di Abraham in cambio del riconoscimento della occupazione illegittima del Sahara occidentale da parte di Rabat è stata agevolata la partnership con Israele, il cui capo di stato maggiore a luglio fece la prima visita a Rabat, secondo Reuter per rafforzare la cooperazione militare e quindi “AnalisiDifesa” informava in ottobre che l’esercito del Marocco aveva acquistato 150 UAV WanderB e ThunderB dall’israeliana BlueBird Aero Systems.
La Reuters ha riferito che gli Stati Uniti hanno proceduto con la vendita al Marocco di quattro droni MQ-9B SeaGuardian e di armi a guida di precisione per un valore di 1 miliardo di dollari. I media israeliani hanno anche riferito che il Marocco sta cercando il sistema di difesa aerea e missilistica Barak MX in un accordo del valore di oltre 500 milioni di dollari. Il Marocco ha già acquistato indirettamente gli UAV Heron di IAI e altri UAV dell’unità Bluebird di IAI, oltre a sistemi di veicoli robotici di pattugliamento di Elbit Systems e intercettatori di droni di Skylock. Negli ultimi due anni, il Marocco ha aumentato le importazioni di droni. Li ha acquistati da diversi paesi come Cina, Turchia, Francia e Israele, costituendo così una vera e propria flotta, probabilmente la più sviluppata del Nordafrica, secondo gli specialisti. (“Challenge”).

Il Marocco intende mettere in produzione droni di fabbricazione propria con tecnologia israeliana e perciò ha realizzato un partenariato con i belgi di Orizio, gruppo aerospaziale che costruirà un centro di manutenzione per F-16 e elicotteri a Benslimane. La spesa per la Difesa ha raggiunto il 5,2% del pil marocchino.


L’operazione di addestramento “Desert Shield”, svoltasi a novembre con forze congiunte russe e algerine al confine con il Marocco, coincide con un’escalation del riarmo regionale. L’Algeria ha annunciato che aumenterà a 23 miliardi di dollari il suo budget militare del 130 per cento nel 2023 per raggiungere il 12 per cento del suo prodotto interno lordo grazie all’aumento dei prezzi del gas e del petrolio. Di questi, 5 miliardi sono destinati a operazioni fuori dai confini in seguito all’estinzione dell’Operazione Barkhane nel vicino Mali a supporto della milizia Wagner. Mosca è il maggior fornitore di armi di Algeri (in particolare i carri armati T-90M, nuova versione di quelli datati 1993 e usati ancora in Siria dall’esercito russo; i missili terra-aria S-350 e Buk-M2, corrispondenti ai Barak-8 israeliani in dotazione a Rabat), che partecipa a tutte le manovre congiunte dell’esercito russo. Algeri ha stipulato un contratto di 12 miliardi di dollari per l’acquisto di caccia Sukhoi SU-75 “Checkmate” Viste le debacle delle armi russe (proprio quei residuati bellici dei BMP-1 e 2 in dotazione all’esercito algerino) può darsi che il budget sproporzionato sia volto a differenziare le fonti di approvvigionamento, ipotizza Abdelhak Bassou a “Le360”: «Questo aumento del budget potrebbe essere spiegato dal desiderio del governo algerino di calmare gli occidentali acquistando armi da loro. Un modo per soddisfare tutti. Ma è ovvio che più la Russia si isola sulla scena internazionale, più i suoi satelliti si isolano. A meno che non ci sia una svolta e l’Algeria cambi le carte in tavola».
Ad alimentare le tensioni nella regione si aggiunge anche l’Iran, alleato di Putin, che ha confermato ufficialmente la fornitura dei suoi droni all’esercito algerino e al gruppo separatista del Polisario, gli stessi usati dalla Russia nella sua guerra contro l’Ucraina (“l’Opinione”).

I due paesi sono divisi non solo dai. Fosfati saharawi, ma anche dai percorsi di gasdotti: quello algerino interrotto nell’ottobre 2021 (al momento del riconoscimento di Madrid della sovranità spagnola sul Sahara occidentale) e che transitava dal Marocco per convogliare gas in Spagna; e quello che dalla Nigeria, lungo tutta la costa atlantica, porterebbe off-shore fino in Spagna la pipeline (“JeuneAfrique”).

Dunque di nuovo sono i minerali dietro a un consistente riarmo… Come in Sahel e Centrafrica.

ESTRAZIONE ED ESPORTAZIONE IN SAHEL.
MINERALI DI VALORE DOPO L’USCITA DAI CONFINI

di Gianni Sartori
IL MALI VERSO LA LIBERALIZZAZIONE DEL SETTORE?

Mentre il regime militare del Mali annunciava la creazione di una compagnia mineraria nazionale, quasi contemporaneamente (ai primi di dicembre), dal ministero delle Miniere arrivava un comunicato con cui sostanzialmente si apriva la strada a ulteriori liberalizzazioni in materia di “permessi di esplorazione e permessi di sfruttamento minerario”.
Con ogni probabilità, viste le recenti difficoltà incontrate nel settore, lo stato ritiene così di attrarre investimenti stranieri nello sfruttamento delle risorse minerarie.

Ma non tutti esultano, ovviamente. Per esempio i portavoce del Consiglio locale della gioventù della zona aurifera di Kenieba (regione di Kayes, dove già sono attive una mezza dozzina di società minerarie) hanno protestato vigorosamente in quanto «prima di concedere i permessi di esplorazione e di sfruttamento, si deve consultare la popolazione». Soprattutto per “valutare l’impatto ambientale” e sapendo che «verranno espropriate terre coltivabili per cui alla popolazione si dovranno quantomeno offrire delle adeguate compensazioni».
Attualmente tra i minerali estratti in Mali, l’oro rappresenta il 10% del pil e circa l’80% delle esportazioni.

STERILI POLEMICHE SUL BURKINA FASO?

Da segnalare anche la polemica (strumentale?) scatenata dal presidente del Ghana Nana Akufo-Addo mentre si trovava (guarda caso) a Washington, accusando il Burkina Faso di aver ceduto alla compagnia russa Wagner una miniera d’oro a pagamento dell’intervento militare contro l’insorgenza jihadista.
Notizia immediatamente smentita da Simon Pierre Boussim, ministro di Energia, Miniere e Cave, nella conferenza stampa del 20 dicembre, organizzata con l’ITIE-Burkina (Comitato per la Trasparenza nelle Industrie Estrattive) nella capitale Ouagadougou dell’ex Alto Volta.

In realtà in Burkina Faso esiste già una presenza russa in campo minerario (si parla di tre miniere sfruttate da Nordgold). Ma qui operativa da oltre dieci anni
(“Acled”).

ESCALATION SAHELIANA

Paradossalmente la strategia di influenza della Russia in Africa si basa su interessi economici relativamente minori. Il commercio della Russia con l’Africa non supera i 30 miliardi di dollari, il che non la colloca tra i primi venti partner del continente. Quest’ultima, ricca di materie prime, non è molto complementare alla Russia. «La Russia ha firmato molti accordi di cooperazione economica dal 2014, ma pochi sono stati attuati», ha dichiarato Thierry Vircoulon, per il quale «stiamo anche aspettando di vedere se il suo ruolo nel traffico d’oro in Africa aumenterà e se le promesse forniture di petrolio si concretizzeranno».
Per Maxime Audinet: «nell’Africa subsahariana, la posta in gioco economica è secondaria per Mosca, rispetto alla posta in gioco simbolica della proiezione di potenza, anche se le sue leve, come Wagner, sono pagate a peso d’oro in cambio della loro fornitura di sicurezza attraverso l’estrazione di materie prime come oro, diamanti o legni pregiati» (“LesEchos”).

E infatti le armi presenti sul territorio sono sistemi di lancio di multimissili Aml e Sam SA-7°; elicotteri Mi-17 e siste i di difesa antiaerea ZPU-4: tutte tecnologie belliche utili per il contrasto al terrorismo jihadista e per la difesa delle miniere d’oro.

Lo stato russo cerca di estendere la propria influenza attraverso la vendita di armi: è il principale fornitore dei paesi dell’Africa subsahariana, oltre ad avere importanti contratti con Algeria ed Egitto. Poi Wagner assicura la protezione di leader o addestra soldati in molti paesi: Mali, Libia, Madagascar, Sudan, Mozambico, Repubblica Centrafricana (dove è accusato dalle Nazioni Unite di racket, stupri e torture), e probabilmente anche Burkina Faso.

Tuttavia, i mercenari hanno subito sanguinose battute d’arresto in Libia e Mozambico e il Mali sembra ora deluso dal loro coinvolgimento. Come i suoi rivali, anche lo stato russo ha firmato accordi ufficiali di cooperazione militare con una trentina di paesi, che sulla carta sono vantsggiosi ma spesso corrispondono a qualche esercitazione congiunta, senza garanzie di sicurezza reciproca. La Russia non ha ancora una base militare permanente nel continente, nonostante un progetto in Sudan.

In Sahel, ritirata Barkhane, rimangono le milizie jihadiste e la Wagner, il cui armamento sul terreno fornisce risorse alle esigenze dell’occupazione. Dal 2020 tra Libia, Mali, Burkina la Wagner ha dispiegato i caccia Mig-29 e i Su-24, ma questi non sono l’unico equipaggiamento pesante in dotazione: la Pmc russa ha ricevuto anche almeno un veicolo di difesa aerea Pantsir S1, diverso da quelli utilizzati dall’Lna e da Wagner e “prestato” dagli Emirati Arabi Uniti. Per proteggere i suoi aerei, Wagner ha utilizzato radar P-18 Spoonrest oltre a quelli dell’Lna.

Per i loro movimenti i “musicisti” di Wagner utilizzano veicoli blindati prodotti in Russia da un’azienda appartenente al gruppo di società Yevgeny Pirigozhin. Il veicolo è chiamato Valchiria, Chekan, Shchuka o Wagner Wagon[13], ed è un MRAP costruito su un telaio URAL dalla società EVRO POLIS LLC. Tra le armi importate da Wagner ci sono MRAP GAZ Tigr-M, cannoni D-30 da 122 mm e obici MSTA da 152 mm. Per quanto riguarda le armi leggere, le truppe di Wagner utilizzano AK-103 e soprattutto il fucile da cecchino Osiris T-5000. Wagner ha utilizzato alcuni droni durante le sue operazioni, in particolare Zala 421-16E e Orlan 10s. E quando si ritirano i miliziani spargono mine antiuomo MON-50, 90 e 100 (Rosa Luxemburg Stiftung).

MATERIALI GREZZI LAVORATI IN LOCO…
MA CON INVESTIMENTI STRATEGICI AMERICANI

di Gianni Sartori

LA ZLECA SI VA ESPANDENDO?

Risaliva a tre anni fa l’annuncio da parte di Albert Muchanga (commissario allo Sviluppo economico, al Commercio, all’Industria e all’Attività minerarie dell’Unione africana) di consultazioni amichevoli tra due delle maggiori entità minerarie dell’Africa: il Congo e lo Zambia. Nazioni nei cui territori sono sepolte ingenti quantità di minerali fondamentali per la produzione delle batterie per i veicoli elettrici e che ora, in base ai futuri accordi, dovrebbero poterle produrre autonomamente e direttamente.

A suo tempo per esporre i progressi di tale progetto Muchanga aveva scelto l’occasione del Mining Indaba, il maggior meeting del settore minerario africano; e fondamentale era stato l’anno scorso il ruolo di Muchanga nel veder ratificare l’Accordo sulla Zona di libero-scambio continentale africano (Zleca).


E GLI USA? DIVERSAMENTE DALLE STELLE DI CRONIN NON STANNO A GUARDARE

Gli Stati Uniti non stanno a guardare naturalmente. Firmato recentemente da Washington un accordo (un memorandum d’intesa) con Repubblica democratica del Congo e Zambia (con i maggiori giacimenti di cobalto e rame) sui metalli per le batterie.
Nell’accordo è previsto un investimento da 55 miliardi di dollari nel giro di tre anni.
Fondi elargiti dalla Minerals Security Partnership (vi aderiscono Corea del Sud, Canada, Australia, Regno Unito, Giappone, Regno Unito…) a sostegno dei sistemi sanitari, per la tutela del lavoro femminile, nella lotta ai cambiamenti climatici…
Ma anche, o soprattutto, per investire nei progetti per le auto elettriche. Allo scopo dichiarato di contrastare l’egemonia cinese (visto che Pechino, a titolo di esempio, controlla già gran parte delle miniere di cobalto nella Repubblica democratica del Congo).
Come ha preannunciato il segretario di Stato Antony Blinken: «Washington esplorerà meccanismi di finanziamento e di sostegno agli investimenti nelle catene africane dei veicoli elettrici».

In pratica verranno finanziate sia le estrazioni minerarie che la lavorazione dei metalli estratti (raffinerie e affini). Oltre alle operazioni di riciclaggio. Alla vasta operazione partecipano alcune case automobilistiche (General Motors, Ford, Tesla…) e le compagnie minerarie Albemarle e Piedmont Lithium.

ENNESIMO ECOCIDIO NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO?

Suscita preoccupazione questo ulteriore coinvolgimento della Rd C in progetti estrattivi di rilevanza internazionale.

Sia per la drammatica situazione in cui versano le popolazioni del Nordest del paese (sotto accusa l’estrazione del coltan e le milizie di M23 sostenute dal Ruanda), sia per il già bistrattato ecosistema naturale. Ça va sans dire, soprattutto nelle zone sottoposte a estrazioni petrolifere o minerarie e alla deforestazione. Anche per diretta responsabilità del governo congolese che «svende le foreste che dovrebbe proteggere» (come denunciava un portavoce di Greenpeace).

Governo e ministri sotto accusa non soltanto da parte dei “soliti” ambientalisti, ma anche da associazioni di studiosi e scienziati. Come il Consiglio per la difesa ambientale attraverso la legalità e la tracciabilità (Codelt) e l’Acedh (una Ong regionale) che hanno condotto studi approfonditi sulla foresta pluviale della Cuvette Centrale (provincia di Ituri, sotto stretto controllo militare dal maggio del 2021). Dove appunto si estrae gas, petrolio e oro. Sarebbero soprattutto le miniere aurifere, in continua espansione anche nelle aree protette, a contaminare, distruggere gli ultimi lembi di foresta pluviale dove sopravvive un mammifero raro (da “Lista rossa”), a rischio estinzione, come l’okapi. Oltre ad abbattere le piante e dragare illegalmente i fiumi, i minatori si dedicherebbero al bracconaggio.

Da quasi un decennio l’area viene sfruttata – previo accordo col governo – dalla compagnia Kimia Mining. L’anno scorso ben 205 ong locali, a cui si associava Greenpeace, avevano chiesto al governo della RdC di ritirare le concessioni minerarie alla società cinese. O almeno quelle all’interno della riserva naturale per le okapi.

ENNESIMA GUERRA MONDIALE AFRICANA

Come scrivono anche Marco Dell’Aguzzo e Giuseppe Gagliano l’intervento degli Usa va inquadrato nella necessità di disturbare gli affari minerari cinesi in Africa, in vista della produzione massiva di auto elettriche e dunque del bisogno di Litio e Cobalto: la supply chain africana derivante dall’interdizione finalmente dell’esportazione di litio non lavorato (una mossa dal sapore anticoloniale, che potrebbe, se la stesa misura venisse adottata da molti altri paesi del continente, cominciare uno sviluppo industriale – e di mercato interno – invece di essere solo suolo da depredare).

Dovranno dare lavoro in loco: potrebbe essere un passo avanti. Peccato che gli Usa si propongano essenzialmente per contrastare la penetrazione di Pechino in Africa: le aziende cinesi possiedono la maggioranza delle miniere di terre rare africane e così gli americani si frappongono, impiantando quelle industrie in loco richieste da governi che cercano così di arginare il saccheggio… il problema è che se gli americani cederanno la tecnologia per la lavorazione, si prenderanno una larga fetta del prodotto finale (una mossa essenziale per approvvigionarsi senza arricchire l’avversario) e i cinesi si faranno pagare l’estrazione dei minerali grezzi, agli africani non rimane di nuovo nulla, se non la parvenza di essere entrati a far parte del mercato e non più solo merce – nel caso venga adottata una parte di manodopera locale (che non potrà essere giocoforza specializzata). E così si torna allo Zimbabwe, da cui avevamo cominciato questo safari africano.

Ma il Congo è teatro di scontri e riedizioni di conflitti (la Guerra mondiale africana risale a pochi lustri fa e sembra prepararsi in Kivu di nuovo) che vedono contrapposte le milizie armate da Kigali (come l’M23) all’esercito di Kinshasa e alle truppe di Nairobi –ultimamente – o dell’Uganda.


I gruppi della società civile hanno condannato l’estrazione illegale di oro nella riserva naturale di Okapi, nella Repubblica Democratica del Congo. Da diversi anni, una società di proprietà cinese, la Kimia Mining, ha una concessione all’interno della riserva, rilasciata irregolarmente dal governo della RDC. I gruppi chiedono l’immediata revoca della concessione per proteggere la riserva

In una conferenza stampa tenutasi il 18 ottobre, hanno accusato la Kimia di aver ridotto la copertura forestale, inquinato i fiumi e compromesso l’habitat forestale della riserva. La riserva, inserita dall’Unesco nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità in pericolo, si estende per circa 13.700 chilometri quadrati della foresta pluviale dell’Ituri.  È anche la casa dei nomadi indigeni Efe e Mbuti, che dipendono dai fiumi che nascono nella riserva, ha dichiarato Gabriel Nenungo, coordinatore dei geologi della provincia di Ituri: «Abbiamo osservato le draghe gestite dai cinesi nel fiume Ituri e le fosse di mercurio aperte sono visibili dall’alto». L’attività mineraria ha attirato gruppi armati che trafficano in pelli di okapi e avorio.

L’esercito della RDC fornisce servizi di sicurezza alla Kimia Mining, nonostante le leggi vietino di associarlo alle operazioni minerarie. (“Mongabay”).

Novembre

29 novembre

    • I coyotes mondiali

      • Il 29 novembre Defense Security Cooperation Agency pubblicava la notizia della concessione da parte del Dipartimento di stato americano della vendita di sistemi di difesa antidrone per una spesa pari a un miliardo di dollari in cambio di 10 Fixed Site-Low, Slow, Small Unmanned Aircraft System Integrated Defeat System (FS-LIDS) System of Systems, includendo 200 Coyote Block 2 interceptors; e poi Counter Unmanned Electronic Warfare System (CUAEWS); Coyote launchers; Ku Band Multi-function Radio Frequency System (KuMRFS) radars; Forward Area Air Defense Command e Control (FAAD C2); Counter Unmanned Electronic Warfare Systems (CUAEWS).
      • Lo riportava “BreakingDefense” sottolineava come i principali contractor Raytheon, Northrop Grumman and R&D company SRC.A Marzo si leggeva nel rapporto Sipri del confronto tra il 2017-2021 con il decennio precedente e riprendiamo da lì per inquadrare questa notizia novembrina in omaggio all’esiziale mondiale di calcio ottenuto da Doha (che secondo quel dossier aveva incrementato la spesa del 227% rispetto al lustro precedente) con la corruzione di Sarkozy, Platini e Guéant prima e poi con il sostegno di parlamentari europei di sinistra che negano l’evidenza del sistema omicida e criminale del Qatar (ci limitiamo a suggerire che Messi e Mbappé giocano entrambi nel Psg, che è di proprietà dell’emiro di Doha, un caso che la finale sia per magia tra le loro due compagini?): infatti l’Atlante delle guerre riassumeva così la situazione del Medio Oriente a marzo:

        «Si stabilizzano le importazioni di armi in Medio Oriente. Dopo il forte aumento registrato nel decennio precedente (86% in più tra il 2007-11 e il 2012-16) gli stati mediorientali hanno importato ‘solo’ il 2,8% di armi in più nel 2017-21 rispetto a quello precedente. Il conflitto in Yemen e le tensioni tra l’Iran e altri stati della regione restano alla base delle importazioni di armi nell’area. L’Arabia Saudita si conferma un grande importatore, il secondo al mondo, con un 27% in più investito in armi nel periodo 2012-16, rispetto al precedente.
        Le importazioni di armi del Qatar sono cresciute del 227%, spingendolo dal 22esimo importatore di armi al sesto. Al contrario, le importazioni di armi degli Emirati Arabi Uniti sono diminuite del 41%, passando così dal terzo al nono posto. Tutti e tre questi stati, insieme al Kuwait hanno poi effettuato ingenti ordini che prevedono la consegna nei prossimi anni. Nell’area, poi, Israele ha aumentato le importazioni di armi del 19%».

    • E poi le esportazioni statunitensi verso Riyad sono aumentate del 106%. Ma a cosa serve l’enorme quantità di armi, le più disparate per ogni tipo di guerra, sparpagliate per tutta la penisola araba?

19 novembre

  • La guerra dei droni da Astana

    • La notizia in autunno sul fronte dell’approvvigionamento dei droni per le attività dell’aviazione russa è che si è raggiunto un accordo per impiantare in tempi brevi  uno stabilimento con la tecnologia iraniana direttamente in territorio russo; a rivelarlo il Washington Post, successivamente rilanciato da tutte le testate del mondo. Come sottolinea “DroneBlog”:

      questo accordo oltre che essere strategico mette in luce ancora di più il rapporto e la cooperazione militare fra Iran e Russia, che sta svolgendo un ruolo chiave in Ucraina. Se il nuovo accordo sarà pienamente realizzato, significherebbe un ulteriore rafforzamento dell’alleanza russo-iraniana. Questo accordo, oltre a migliorare la disponibilità di armi all’esercito russo, toglierebbe dall’isolamento l’Iran, dando una nuova spinta economica a un sistema interno collassato ormai da anni e alle prese con una rivoluzione in atto

  • In piena continuità con gli accordi di Astana, che tanto abbiamo analizzato in OGzero.
    E sempre “DroneBlog” scrive che «finora Teheran ha cercato di presentarsi come neutrale nel conflitto ucraino , ma si scopre che sempre più droni di fabbricazione iraniana vengono utilizzati per attaccare le città ucraine, innescando minacce di nuove sanzioni economiche dall’Occidente». E si insinua una scommessa iraniana sul sostegno che deriverebbe dall’alleanza con Mosca per ricavare valore contrattuale per gli accordi sul nucleare
  •  Peraltro l’industria iraniana dei droni si sta già diffondendo in altri paesi. L’Iran ha aperto a maggio una fabbrica in Tagikistan, che produce il drone Ababil-2, secondo l’Eurasia Times: è stato Zelensky stesso a indicare la strategia di avvicinamento a Mosca da parte di Ankara con fini collegati al Jcpoa.
  • The Guardian” il 10 novembre accusava l’Iran di aver sostenuto militarmente fin dal 24 febbraio l’alleato russo, ma ancora prima “Wired” riportava un sistema rudimentale – ma efficace – di aggiramento delle sanzioni: contanti e baratto.
  • In estate il baratto sarebbe dimostrato dall’atterraggio il 20 agosto di 2 Ilyushin IL-76 arrivati e ripartiti da Mehrabad (la città del kurdistan iraniano martirizzata il 19 novembre dalle guardie della rivoluzione): trasportava in cambio di droni armi occidentali sottratte agli ucraini, necessarie agli ingegneri persiani per carpire le tecnologie. Ipotesi suffragate da immagini satellitari diffuse da SkyNews e da dichiarazioni rilasciate al Washington Post il 29 agosto da funzionari statunitensi.

Un ultima notazione sull’asse russo/iraniano: i droni iraniani Mohajer-6 contengono molte componenti provenienti dalla tecnologia occidentale (in particolare giapponesi,  secondo James D. Brown) – quindi senza che si debbano trasferire ordigni catturati per studio – stando alle rivelazioni di “la Repubblica”; ma, a dimostrazione che lo spargimento di morte tra civili attraverso macchine a controllo remoto non comporta scelte di campo, il Blog di Antonio Mazzeo riporta un’informazione raccolta da “DefenseNews”:

    • «Il regime turco di Recep Tayyp Erdogan finanzierà la produzione di droni-elicotteri e droni-kamikaze per il mercato nazionale e l’esportazione, decisione che non potrà non essere accolta con favore anche in Italia. La società di engineering aerospaziale Titra Technoloji, con quartier generale ad Ankara, riceverà sussidi economici governativi per realizzare il primo modello di elicottero a pilotaggio remoto in Turchia. Denominato “Alpin”, il drone-elicottero sarà prodotto in dieci esemplari all’anno, “in aggiunta a 250 droni kamikaze”».

    • La Malesia ha scelto la Turkish Aerospace Industries per la fornitura di tre velivoli senza pilota, secondo quanto dichiarato dal ministro della Difesa della nazione del Sudest asiatico e ripreso da “DefenseNews”.
      TAI aveva presentato il suo Anka, un sistema di velivoli senza pilota a media altitudine e lunga resistenza, alla fiera della difesa e dell’aerospazio LIMA nel 2019. Il 18 agosto 2022 il re malese Al-Sultan Abdullah ha visitato le strutture di TAI ad Ankara, in Turchia. Il 7 ottobre TAI ha annunciato un memorandum d’intesa per una collaborazione con il MIMOS, il centro di ricerca e sviluppo della Malesia. Ma perché la Malesia è alla ricerca di queste macchine da guerra? Le forze armate e la Guardia Costiera della Malesia sono impegnate nella lotta alla pirateria lungo le sue coste, inoltre è loro demandato a livello internazionale il controllo e l’antiterrorismo nel Mare di Sulu (tra la Malesia orientale e le Filippine meridionali, dunque all’interno del quadro anticinese del noto contenzioso nel mar cinese meridionale sulle Spratly Island e nello strategico controllo dello Stretto di Malacca).
  • La famiglia di droni Anka è in grado di svolgere missioni di ricognizione, acquisizione e identificazione di obiettivi e raccolta di informazioni. È dotata di tecnologie elettro-ottiche/infrarosse e radar ad apertura sintetica. Il produttore afferma che i velivoli hanno capacità di volo autonomo e possono decollare e atterrare da soli.La famiglia di UAV ha un’apertura alare di 17,5 metri e una lunghezza di 8,6 metri, e ha un tetto di servizio di 30.000 piedi. Possono rimanere in volo all’altitudine operativa di 18.000-23.000 piedi per più di 30 ore.
    • A metà ottobre il Kazakistan e la Turchia hanno annunciato l’intenzione di sviluppare una “cooperazione strategica a lungo termine” che preveda la coproduzione di satelliti e altri sistemi spaziali.
    • «Questo è il primo passo di una forte cooperazione con il Kazakistan nel campo dello spazio. Il memorandum d’intesa che abbiamo firmato con le società Kazsat e Ghalam sulla creazione di una cooperazione strategica a lungo termine nei settori dei satelliti e dello spazio sarà vantaggioso per il nostro paese e la nostra nazione» (Ismail Demir, Tai)

    • Infatti in maggio, secondo le informazioni di “DefenseNews“, era stato firmato un protocollo tra Kazakhstan e Turchia per la coproduzione di droni da gettare sul mercato Asean e produrre in quella che è la prima fabbrica di Bayraktar fuori dai confini turchi, con contratto che prevede anche manutenzione e riparazione. E quell’accordo faceva seguito a quello di aprile con il Kirghizistan che aveva firmato per primo un accordo per l’acquisto di un numero imprecisato di droni armati: infatti  Bishkek aveva pregato Ankara di soprassedere alla vendita dei letali droni a Dushanbe, alla luce delle tensioni sul confine (e questo spiega la rincorsa al riarmo dei due paesi dell’Asia centrale, sfruttata da Ankara per raddoppiare le vendite).
  • Il drone può essere equipaggiato con armi come il lanciamissili a lancio aereo Roketsan Smart Micro Munition e la capsula missilistica guidata Cirit da 2,75 pollici nelle due stazioni d’armamento sotto l’ala per ingaggiare veicoli leggermente corazzati, personale, rifugi militari e stazioni radar a terra. Un evidente monito per le mire espansionistiche di Mosca.
    • L’aggressività non solo verso il mercato della industria bellica turca si appropria anche di ricerche straniere, come quelle che consentono al criminale Erdoğan di arrivare al drone-elicottero: infatti Antonio Mazzeo spiega che questo velivolo è un sistema a pilotaggio remoto che potrà essere impiegato a fini civili ma soprattutto per missioni bellico-militari di intelligence e ricerca e soccorso. Il prototipo del drone-elicottero è lungo 7 metri, alto 2,35 e ha un diametro del rotore di 6,28 metri; ciò gli consente di essere trasportato in veicoli di medie dimensioni. Il suo peso non supera i 540 kg compresi apparecchiature elettroniche e carburante. L’”Alpin” ha una velocità di crociera di 160 km/h e può coprire un raggio d’azione fino a 840 km di distanza, a un’altitudine di 5000 m. L’autonomia di volo varia dalle due alle nove ore, secondo la portata del carico a bordo.
      Ma perché abbiamo usato il verbo “appropriarsi”? La risposta è nel Blog di Antonio Mazzeo (che cita “DefenseNews”):
    • «L’Alpin è basato sull’elicottero italiano ultraleggero con equipaggio umano Heli-Sport CH-7». Il CH-7 è realizzato infatti dalla Heli-Sport S.r.l. di Torino, azienda fondata dai fratelli Igo, Josy e Charlie Barbaro e specializzata nel design e produzione di velivoli ad ala rotante di ridotte dimensioni. La società si dichiara però del tutto estranea dalla vicenda.

    • In effetti l’Alpin nasce da un accordo tra la Titra turca e la Uavos californiana per convertire il CH-7 in elicottero a pilotaggio remoto: la trasformazione dei velivoli italiani in droni-elicotteri è stata avviata dalla statunitense Uavos, mentre il primo test di volo è stato effettuato nel dicembre del 2020 nei cieli della Turchia.

«L’Alpin è stato progettato per andare incontro alle richieste specifiche ed uniche della Turchia e agli interessi speciali della sua industria nazionale per operare come sistema a pilotaggio remoto in una varietà di scenari complessi nei campi civili e della sicurezza», riporta la nota emessa da Uavos a conclusione delle attività sperimentali in territorio turco. «L’elicottero convertito è indispensabile per l’industria logistica dei velivoli senza pilota per trasportare carichi in zone difficili da raggiungere e sfornite di campi di atterraggio». E viene subito in mente la configurazione del Rojava.

La Turchia – benché socio alla pari nelle concertazioni strategiche di Astana – produrrà entro due anni i tanto decantati Bayraktar TB2 in Ucraina: benché più leggeri e meno efficienti nel contrasto di un attacco aereo, i droni turchi secondo l’Agi saranno già in grado di contrastare quelli iraniani.

    • «l’Ucraina ha un ruolo di primo piano nella catena di approvvigionamento di Baykar, in particolare con il nuovo drone pesante Akinci e il jet da combattimento senza pilota Kizilelma, attualmente in fase di sviluppo, montano entrambi motori ucraini MotorSich» (“Analisi Difesa”).

Secondo Barayktar molto presto i droni turchi TB2 e Akinci potranno colpire con buona efficacia oggetti in volo grazie all’integrazione del sistema di difesa Sungur prodotto da Roketsan, mentre i droni iraniani sono pesanti e rumorosi, sono obiettivi facili perché volano a bassa quota.

Invece quelli turchi sono stati opzionati anche dal governo polacco, che ha ricevuto a ottobre 6 dei 24 TB2 comprati.

19 novembre

    • Comprare gas dalla Tunisia con veicoli militari antimigranti

      • LaLa Francia ha portato a Djerba 200 milioni di prestiti in occasione della Organisation internationale de la Francophonie; ma ha anche consegnato alla Tunisia il primo lotto di una donazione comprendente cento veicoli militari fuoristrada Masstech T4 prodotti da Technam in occasione della ventinovesima sessione della Commissione militare franco-tunisina svoltasi dal 15 al 17 novembre nella capitale del paese nordafricano e documentata da “Tuniscope”; i veicoli sono palesemente utili nel contenimento dei migranti. L’ambasciata di Francia a Tunisi sulla propria pagina Facebook ha precisato che durante i lavori della commissione è stato tratto “un bilancio molto soddisfacente” in termini di cooperazione bilaterale per il 2022. In particolare, sono state svolte 60 attività in Francia o Tunisia.Ma quella più interessante è volta a ristabilire l’asse militare tra le due sponde mediterranee:

        «Per Saied – afferma il politologo francese Vincent Geisser rilanciato da “Africanews” – ospitare questo vertice è “un successo” perché lo porterà fuori dal suo isolamento almeno temporaneamente. È una sorta di pacificazione nei suoi rapporti con i suoi principali partner occidentali, userà questo evento per legittimare una svolta autoritaria fortemente criticata».

    • In cambio la Francia cerca di comprarsi gas in quella che era la sua casa coloniale.

  • Questo veicolo, costruito a partire da un telaio Toyota Land Cruiser HZJ76, è blindato, dotato di griglie di protezione contro le proiezioni e di cinque punti di armamento. È in servizio con l’esercito francese sul territorio francese e in OPEX nel Sahel. Viene utilizzato anche dall’esercito reale giordano (“MenaDefense”)

10 novembre

  • Corsa al riarmo in Africa

    • Nel dossier dell’“Atlante delle guerre” a marzo si leggeva: «In Africa subsahariana i cinque maggiori importatori di armi sono stati Angola, Nigeria, Etiopia, Mali e Botswana. Resta un grande importatore l’Egitto che con il più 73% diventa il terzo importatore di armi a livello globale».

    • L’Etiopia ha usato abbondantemente le sue dotazioni prima di arrivare agli accordi di metà novembre: dopo due anni e un numero imprecisato di morti compreso tra mezzo milione e un milione di vittime (qui un intervento di Matteo Palamidessa raccolto da Radio Blackout).

    “Il genocidio atroce e diffuso nel Corno d’Africa”.

  • Il Mali (e il Sahel nella sua integrità) è alle prese con la necessità di difendersi dai tagliagole jihadisti dotati di armi sofisticate e dunque gli eserciti – affrancatisi da operazioni coloniali francesi, ma così indeboliti – cercano di procurarsi strumenti per liberarsi dalla tenaglia dell’insorgenza, come ci ha raccontato Edoardo Baldaro:
  • Collegata a questa situazione è la notizia lanciata da un tweet postato il 5 novembre da “Spoutenik en Français” (palese indirizzo filorusso) relativa alla richiesta a Mosca per l’acquisto di due elicotteri da parte del Burkina di Ibrahim Traoré nel quadro di un trattato di cooperazione con la Russia di Putin (che affonda le radici nei legami intrecciati tra paesi africani che hanno avviato il proprio distacco dall’Occidente con l’appoggio dell’Urss).

Gli elicotteri sono tra le macchine a uso bellico più ambite nel continente, come documenta Antonio Mazzeo nel suo blog il 10 novembre facendo cenno a una triangolazione di 6 velivoli T-129 “Atak” prodotti in Turchia da Turkish Aerospace Industries su licenza di AgustaWestland (della infinita galassia Leonardo spa) per il governo nigeriano al costo di 61 milioni di dollari. Come sottolinea Mazzeo, la versione turca dell’“Atak” (in uso in Siria, Iraq, Filippine e in futuro in Pakistan) sfodera nuovi sistemi di individuazione e tracciamento dei bersagli ed è dotato di razzi non guidati da 70 mm e missili anticarro L-Umtas.

  • «Nel bilancio della difesa nigeriano per il 2023 è previsto anche uno stanziamento di 4,5 milioni di dollari per l’acquisto di due elicotteri AW109 “Trekker, prodotti in Italia da Leonardo SpA. nel corso di un seminario delle forze armate nigeriane tenutosi a Ibom lo scorso 27 ottobre, il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica Oladayo Amao avrebbe confermato l’intenzione di acquisire 24 caccia bimotori M-346 “Master” realizzati negli stabilimenti di Varese-Venegono di Leonardo» (“DefenceWeb”).

  • L’AW109 aveva già riscosso un enorme successo ad agosto al Labace brasiliano:
  • «L’AW109 Trekker, il primo gemello leggero di Leonardo a offrire un carrello di atterraggio a pattino, mantiene la cellula dell’AW109 Grand, l’ampia cabina e le prestazioni di prim’ordine, offrendo al contempo un maggiore carico utile a un costo competitivo, dimostrando così di essere perfettamente in grado di soddisfare i severi requisiti degli operatori in termini di capacità ed economicità. L’AW109 Trekker è dotato di una cabina di pilotaggio in vetro di ultima generazione di Genesys Aerosystems che può essere configurata in base alle esigenze del cliente» (“DGualdo”, un sito evidentemente promozionale di Leonardo)

  • Oltre all’indubbio affare per Leonardo, si può ipotizzare che il gigante africano immagini un innesco di conflitti nell’area… e forse l’odore di bruciato comincia a farsi più forte nella situazione del Nord Kivu, come illustrato in questo intervento di Massimo Zaurrini:
  • “Rischio di Terza guerra mondiale africana dei Grandi Laghi?”.
  • Dunque la Nigeria si sta riarmando potentemente, è sufficiente elencare i prodotti opzionati, prenotati, comprati, acquisiti che riporta “DefenceWeb”, oltre ai T-129 citati da Mazzeo e ai due AW109: gli Stati Uniti hanno approvato la possibile vendita di 12 AH-1Z alla Nigeria nell’ambito di un potenziale accordo da 997 milioni di dollari che include armi ed equipaggiamenti (nonostante i forti dubbi riguardo il mancato rispetto dei diritti umani del regime di Abuja); riceverà due aerei da trasporto C295 da Airbus, agognati dal 2016. La proposta di bilancio della Difesa nigeriana per il 2023 include finanziamenti per la manutenzione degli L-39ZA, degli Alpha Jet e propone 2,7 miliardi di dollari per tre aerei da sorveglianza/attacco MF 212 costruito dalla Magnus Aircraft nella Repubblica Ceca e 3 miliardi (6,8 milioni di dollari) per tre elicotteri Bell UH-1D.
    La BVST ((Belspetsvneshtechnika, ditta bielorussa) ha già collaborato con l’aeronautica nigeriana, fornendo la manutenzione degli elicotteri Mi-35 e l’addestramento; ora ha trasformato gli MF212 in velivoli armati ideali per compiti di sicurezza interna, sorveglianza e pattugliamento. A quanto pare, può essere equipaggiato con un gimbal elettro-ottico iSKY-30 HD e con missili R-60-NT-L o R-60-NT-T-2. In Ottobre il capo di stato maggiore Odalayo Amao aveva già dichiarato che l’Aeronautica militare nigeriana prenderà in consegna due turboelica Beechcraft King Air 360, quattro aerei di sorveglianza Diamond DA 62 e tre veicoli aerei senza pilota (UAV) Wing Loong II. Oltre a dozzine di velivoli ordinati tra il 2016 e il 2021.

Peraltro il mercato africano – ovviamente con le sue richieste. Le disponibilità di spesa e i bisogni commisurati alla tipologia di conflitti che nell’enormemente vasto territorio che costituisce condizioni di combattimento differenti – mette sul piatto finanziamenti corrispondenti alla percezione di pericolo o di preparazione di guerre e quindi mette in piedi una propria frequentata fiera. La biennale Africa Aerospace and Defense Expo di Centurion in Gauteng (Sudafrica) si è tenuta a fine settembre, proiettando in questi ultimi mesi di 2022 le prospettive di collocazione su piazza del nuovo bombardiere B-21 Northtorpe, forse non a caso presentato in Sudafrica per le sue prerogative di deterrenza, come spiega “BreakingDefense” nelle parole del generale dell’aeronautica Jason Armagost riguardo il sistema Sentinel di cui il bombardiere è parte: « Sentinel sarà altamente resiliente e flessibile. Non solo per la nostra sicurezza, ma anche per garantire i nostri partner e alleati in tutto il mondo. Si tratta di una capacità evolutiva e sono state prese decisioni deliberate su come renderla efficiente con l’infrastruttura che abbiamo, e su come modernizzare la capacità per rimanere flessibile con sistemi di missione aperti e un’architettura digitale per evolvere con ambienti di minaccia in evoluzione», sembra la descrizione del panorama fluido africano. Il B-21 verrà definitivamente svelato il 2 dicembre assicura “MilitaryTimes”: probabilmente i paesi del continente africano non si potranno permettere questo bombardiere presentato a casa loro, ma potranno svuotare gli arsenali dei bombardieri che diventeranno obsoleti dopo l’avvento di questa macchina.

Più alla portata delle casse africane è il drone greco Archytas e soprattutto il Mwari aircraft con scopi multipli e infatti già venduto a molti paesi africani; e di quei paesi elencati all’inizio di questa scheda il Botswana probabilmente prenoterà i suoi droni in funzione antimigratoria, e allo scopo i droni presentati alla fiera sudafricana descritta nel video della scheda di ottobre fanno al caso.

AW109 Trekker

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La guerra nei mercati

I paesi importatori di sistemi d’arma

L’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI) ha registrato 163 stati come importatori di sistema d’arma nel quinquennio 2017–21. I cinque maggiori importatori di armi sono stati India, Arabia Saudita, Egitto, Australia e Cina, che insieme hanno rappresentato il 38% del totale delle importazioni. La regione che ha ricevuto il maggior volume di sistemi d’arma nel periodo 2017–21 è stata quella di Asia e Oceania (43% del totale mondiale), seguita da Medio Oriente (32%), Europa (13%), Africa (5,8%) e Americhe (5,5%). Tra il 2012–16 e il 2017–21, i flussi di armi verso l’Europa e verso il Medio Oriente sono aumentati (rispettivamente del 19% e del 2,8%), mentre sono diminuiti quelli verso l’Africa (–34%), le Americhe (-36%), l’Asia e l’Oceania (-4.7%). La maggior parte dei 163 stati importatori era direttamente coinvolta in conflitti armati violenti o in tensioni con altri stati in cui i sistemi d’arma importati hanno giocato un ruolo importante.

I paesi esportatori di sistemi d’arma

Il SIPRI ha registrato 60 stati come esportatori di sistema d’arma nel quinquennio 2017–21, ma la maggior parte di essi sono piccoli esportatori.
«I primi 25 stati in classifica hanno fornito il 99% delle esportazioni totali con i primi cinque stati in classifica— Stati Uniti (USA), Russia, Francia, Cina e Germania—responsabili del 77% delle esportazioni. A partire dal 1950, USA e Russia (o Unione Sovietica prima del 1992) sono sempre stati di gran lunga i principali fornitori di sistemi d’arma. Nel periodo 2017–21, le esportazioni statunitensi sono state maggiori di quelle russe del 108% mentre nel periodo 2012–16 erano superiori del 34%, un divario destinato ad aumentare. Sempre nel 2017–21 le esportazioni statunitensi hanno coperto il 39% del totale mondiale ed erano superiori del 14% rispetto al 2012–16. Al contrario, le esportazioni della Russia sono diminuite del 26% e le sue quote sul totale mondiale sono crollate dal 24% nel 2012–16 al 19% nel 2017–21».


Il posizionamento del grande esportatore Corea del Sud

Secondo il “SIPRI”, i primi quattro esportatori di armi tra il 2017 e il 2021 sono Stati Uniti, Russia, Francia e Cina, con quote globali rispettive del 39, 19, 11 e 4,6%. La Corea del Sud si è classificata all’ottavo posto con il 2,8%, ma l’amministrazione di Yoon vuole che rientri tra i primi quattro.

SCMP segnala che la Corea punta a superare la Cina nelle esportazioni militari e in effetti ci sta riuscendo ampiamente. In realtà gli ambiti e i mercati sono diversi: nel 2021, quasi il 70% delle esportazioni totali di armi della Cina è stato destinato al Pakistan, mentre la Nigeria si è piazzata al secondo posto con l’8%; nessun paese europeo ha acquistato armi dalla Cina; recentissimo è il contratto favoloso della Rpc con i sauditi. Comunque «si prevede che le tensioni regionali aumenteranno ulteriormente la spesa militare nei prossimi anni e la Corea del Sud è considerata una fonte di armi “molto attraente”». E in effetti si parla di 17 miliardi di dollari di vendite di armi nel 2022 (il doppio dello scorso anno), ringraziando la guerra in Ucraina.

Il posizionamento del grande importatore Polonia

Infatti seguendo il flusso delle armi per scovare le guerre in preparazione, nel 2021 la Polonia aveva speso solo in Sudcorea 7,5 miliardi acquistando armi, a cui si aggiungono 10 miliardi di spesa nei primi 10 mesi del 2022 da parte di Varsavia, perché ci sono pochi paesi in grado di produrre armamenti con così poco preavviso. E dopo il missile ucraino sulla cascina polacca di confine “DefenseNews” informa che Varsavia ha accettato di schierare sulla frontiera i Patriot offerti da Christine Lambrecht, ministra della Difesa tedesca, che ha aggiunto anche Eurofighter Tycoon.

Strategie di fidelizzazione

Non deve stupire la generosità, perché in realtà cerca di inseguire (timidamente) la strategia statunitense che ha investito 8 miliardi di armamenti forniti all’Ucraina, facendo così promozione per i prodotti più efficaci e così acquisendo quote di mercato di armi presso l’Europa orientale e baltica che si approvvigionava in precedenza presso le produzioni europee in vista di un graduale svecchiamento degli arsenali postsovietici, inserendosi così nel processo di riempimento dei magazzini anche svuotati dai paesi limitrofi all’Ucraina per rifornire Kyiv di armi ex sovietiche, più adatte per contrastare la tipologia degli omologhi sistemi di offesa di Mosca.

La catena militare

Ma la fidelizzazione derivante dalla promozione statunitense, mentre ha coronato un completo successo con le repubbliche baltiche e gli altri di Visegrád, ha invece fatto solo parzialmente breccia sul governo polacco, nonostante si proponga come cane da guardia di Washington in ambito europeo: proprio per questa ambizione il governo polacco fa spazio nei magazzini passando agli ucraini gli S-300 di produzione russa, retaggio del passato (come per Bratislava che già a marzo aveva accettato i patriot tedeschi, offrendo in una catena infinita gli S-300 a Kyiv), preludio per l’acquisto di 6 Patriot direttamente dagli Usa, annunciati da Błaszczak, il ministro polacco che rastrella armi dovunque riesce, in particolare dalla Corea del Sud, culminando in ottobre con un contratto da 3,55 miliardi di dollari intercorso tra Polonia e Hanwha Aerospace per l’acquisto di centinaia di sistemi di artiglieria a razzo K239 Chunmoo; il ministro della Difesa polacco Mariusz Błaszczak aveva elogiato i lanciatori Chunmoo, che sono molto simili ai sistemi Himars statunitensi ordinati precedentemente dalla Polonia.

L’intreccio Polonia / Sud Corea

Il governo sovranista di Kaczyński già prima dello scoppio della guerra si candidava a diventare una potenza militare e soppiantare il ruolo della “pacifista” Germania in ambito Nato e ora sta riuscendo nell’intento, a dar retta a “Politico“:

«Sebbene la Germania, tradizionalmente alleato chiave dell’America nella regione, rimanga un perno come hub logistico, gli infiniti dibattiti di Berlino su come far risorgere le sue forze armate e la mancanza di una cultura strategica hanno ostacolato la sua efficacia come partner».

Specularmente – e in modo complementare, visti gli scambi tra le due potenze locali – il governo di destra sudcoreano ha come traguardo quello di superare nella classifica dei maggiori esportatori di armi la Cina. E ci sta riuscendo; entrambe cambiano così il loro peso politico specifico nelle rispettive sfere.

La spesa per la difesa della Polonia nel 2022 ha già raggiunto la cifra record di 58 miliardi di zloty (12,7 miliardi di dollari), Varsavia ha in programma di aumentarla ulteriormente, avendo annunciato ad agosto di voler destinare circa il 3% del suo prodotto interno lordo, ovvero circa 21 miliardi di dollari, alla difesa nel 2023.
Sebbene nessuno metta in dubbio l’ambizione della spesa polacca, alcuni si interrogano sulla sua fattibilità e sulle motivazioni politiche che la spingono. Entro il 2035, il paese intenderebbe spendere 524 miliardi di złoty per il settore militare (forse una trappola per il prossimo governo).

Secondo l’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), l’aumento delle spese militari della Polonia rispecchia una tendenza globale.
Ma la bulimia polacca è viziata sia dalle divergenze con Bruxelles sui diritti civili europei, sia dalla spesa a buon mercato assicurata dalle produzioni di Seul:

«L’attrattiva della Corea è che le sue attrezzature militari sono generalmente più economiche delle alternative americane ed europee e possono produrle in tempi stretti. Gli acquisti sono ovviamente un pugno nell’occhio ai sogni di “autonomia strategica” del presidente francese Emmanuel Macron, che immagina un’Europa in grado di difendersi con armi di produzione propria (probabilmente francese)» (“Politico“).

L’incremento esponenziale e costante della spesa per le armi

I dati dell’Istituto mostrano che nel 2021 la spesa militare globale ha superato per la prima volta i 2000 miliardi di dollari. Si tratta del settimo anno consecutivo di aumento delle spese militari a livello globale.

Kim Mi-jung ha detto che le vendite finali di armi della Corea del Sud per il 2022 potrebbero essere ancora più alte, dato che nel prossimo mese potrebbero essere firmati accordi con la Malesia e l’Arabia Saudita: «Gli armamenti coreani hanno un buon rapporto qualità-prezzo, in termini di prestazioni, e il paese dispone anche di basi produttive in grado di produrre un’ampia gamma di articoli, dall’artiglieria semovente agli aerei, il che rende la Corea molto attraente» (Kim Mi-jung, ricercatore dell’industria della difesa presso il Korea Institute for Industrial Economics and Trade).



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85 %

Avanzamento



Ottobre

26 ottobre

  • Collaborazione israelo-marocchina

    Definitivamente sdoganata dalla amministrazione Trump, la almeno trentennale ”amicizia” interessata tra Tel Aviv e Rabat ha trovato nel biennio successivo agli Accordi di Abramo intercorsi tra i due stati una grande impennata di ordinativi e collaborazioni, che possono condurre solo a un contenzioso sempre più belligerante con l’Algeria da un lato e dall’altro la penetrazione degli interessi di Israele nel quadrante occidentale del Mediterraneo attraverso la testa di ponte offerta dall’alleanza con il Marocco..

  • AnalisiDifesa” ha dato notizia dell’acquisto da parte del Marocco di  150 droni WanderB e ThunderB dall’israeliana BlueBird Aero Systems che erano stati testati durante l’esercitazione Maroc Mantlet 2022, dove si insisteva sull’uso dual: infatti sono macchinari adottati per la sicurezza delle frontiere e la protezione dei convogli e… delle forze armate e a sostegno dell’artiglieria.
  • L’accordo prevede addirittura una produzione parziale in Marocco e il periodico marocchino “Le Desk” attribuisce un valore di 50 milioni all’operazione, titolando sulla presenza di decine di droni della BlueBird israeliana già acquisiti dalle Forces armées royales (Far) a febbraio al costo di 500 milioni di dollari (Reuters); contestualmente il Marocco ha negato l’informazione divulgata da Amnesty International, secondo la quale avrebbe acquistato il sistema spyware Pegasus di Nso.
  • Quei droni possono caricare munizioni circuitanti Harop prodotti da IAI (costo 22 milioni, continuando nella spesa marocchina sul mercato delle armi israeliano) e si prevede l’acquisto di Hermes 450; sempre da Israele la marina marocchina intende acquisire Elbit Hermes 900. In estate anche militari di Tsahal hanno partecipato per la prima volta alle esercitazioni African Lion organizzate dall’esercito americano. Questo è potuto avvenire nonostante proprio a luglio le pressioni del senato americano avessero richiesto di spostare altrove l’esercitazione che periodicamente avviene in Sahara occidentale, proprio per il contenzioso con la Repubblica democratica araba del Saharawi (Rasd), che «potrebbe essere una nuova polveriera» (“DefenseNews”): l’esercitazione si è normalmente svolta nel Sahara occupato, potenza della lobby ebraica?
  • I UAV israeliani andrebbero ad aggiungersi a 3 Harfang francesi, sistemi controdroni Skylock israeliani, 13 Bayraktar TB2 turchi; gli Emirati hanno donato al regno marocchino 3 droni di fabbricazione cinese Wing Loong II; alla General Atomics americana sono stati ordinati 4 MQ9 Reaper Sea Guardian.Sempre “Le Desk” aveva dato notizia della dotazione di droni da parte del Polisario in risposta a questo stormo marocchino, in particolare un drone frutto dell’elaborazione Yabhon United 40, la cui evoluzione algerina ha ottenuto il Al-Jezair 54.
  • Intanto Minurso, la missione Onu nell’area, ritiene di non essere più in grado di svolgere la sua capacità di interposizione, nonostante sia stata prorogata fino al 31 ottobre 2023.

24 ottobre

  • Diversivi mediorientali

    In questioni mediorientali spesso si riesce a ricomporre un puzzle mettendo di seguito partecipazioni, agenzie relative a esercitazioni comuni che esibiscono alleanze e poi movimenti di truppe reali e dichiarazioni, che permettono interpretazioni su uno scenario di conflitti tra potenze locali che possono sfociare a breve in confronti aperti.

    La notizia del 24 ottobre dell’agenzia saudita è che l’Arabia Saudita dal 1° al 25 novembre prende parte con le proprie forze aeree all’esercitazione militare “Aerial Warfare and Missile Defense Centre 2022” che si tiene presso la base di Al Dhafra, negli Emirati Arabi Uniti. L’ applicazione del concetto di azione congiunta in un ambiente di guerra simile alla guerra reale si tiene congiuntamente alle forze di Emirati, Oman, Usa, Gran Bretagna, Francia… dunque una esplicita scelta di campo e di alleanza. Soprattutto per quel che riguarda l’aumento della tensione con Tehran (perché invece per le decisioni dell’Opec che potevano creare difficoltà all’esportazione petrolifera russa i sauditi si sono schierati con il Cremlino).

  • Se poi si va a consultare “Defaiya.com” si possono repertoriare serie di notizie relative a molte acquisizioni di armi. Il varo del primo gruppo di 79 pattugliatori medi ad alta velocità francesi (partecipanti alle esercitazioni di Al Dharfa) della classe Couach da parte delle Forze Navali Reali Saudite, dunque flessibili e leggeri, velocissimi per gareggiare con le imbarcazioni dei pasdaran iraniani (i vascelli includono una sofisticata combinazione di sistemi elettronici come dispositivi di tracciamento, sensori ottici e termici, scambio di informazioni e navigazione marina che consentono loro di svolgere compiti di ricerca, monitoraggio e follow-up attraverso un sistema elettronico altamente intelligente).
  • «Queste imbarcazioni rappresentano un’aggiunta qualitativa alle capacità della RSNF, in quanto contribuiranno ad aumentare il livello di prontezza militare e di sicurezza, a rafforzare la forza di sicurezza marittima nella regione e a proteggere gli interessi vitali e strategici del regno, sottolineando la costante attenzione e il sostegno illimitato della saggia leadership saudita e del ministro della Difesa per sviluppare le forze armate al servizio del paese» (contrammiraglio Yahya bin Mohammed Asiri).

  • A completare il quadro ci sono le dichiarazioni congiunte di funzionari statunitensi (altri partecipanti alle esercitazioni di Al Dharfa) e sauditi al “Wsj” riguardo a informazioni di intelligence su un imminente attacco da parte dell’Iran contro obiettivi nel regno, ponendo le forze armate americane, e altre in Medio Oriente, su un livello di allerta elevato che sfociano immediatamente in potenziali estensioni del conflitto a Iraq (Erbil, in particolare, suggerisce “Formiche.net”). Salvo poi venire in aiuto di Mosca entrambi i contendenti, secondo il “Washington Post”: sia Teheran (droni) che Riyad (mantenendo elevati i prezzi del greggio). Il diversivo che infiammerebbe ulteriormente il quadrante mediorientale dimostrerebbe la necessità dei turbanti di stornare l’attenzione dall’insurrezione interna e dalla fornitura di droni all’esercito russo. Gli Stati Uniti hanno anche affermato che gli iraniani stanno addestrando operatori di droni russi in una base nella Crimea occupata dai russi. Il Centro nazionale di resistenza ucraino, parte delle Forze per le operazioni speciali ucraine, ha riferito questa settimana che gli addestratori di droni iraniani stavano aiutando i russi a coordinare gli attacchi dei droni a Mykulichi, vicino a Gomel, nella Bielorussia meridionale. Il primo vicepresidente iraniano Mohammad Mokhber e alti funzionari della sicurezza iraniana si sono recati in visita a Mosca il 6 ottobre dove, secondo la Reuters, hanno concordato nuove forniture di armi.
  • «I russi hanno chiesto più droni e missili balistici iraniani con una maggiore precisione, in particolare la famiglia di missili Fateh e Zolfaghar», ha detto uno dei diplomatici iraniani… e si torna agli Shahed-136 della scheda del 13 ottobre. Merce di scambio con i sofisticati S-400, già motivo di scontro tra Turchia e Usa:
  • «Anche Israele ha subito crescenti pressioni per aiutare l’Ucraina, poiché la guerra di Putin è sempre più vista come un terreno di prova per droni e armi iraniane che potrebbero essere rivolte contro Israele, uno Stato che l’Iran ha ripetutamente giurato di distruggere.
    L’Iran potrebbe sperare di ribaltare il rifiuto opposto in passato dalla Russia di fornirgli sistemi di difesa aerea S-400 e jet da combattimento avanzati, mosse che metterebbero in allarme l’Arabia Saudita e potenzialmente la Turchia» (“Washington Post”).

18 ottobre

  • SHORt Air Defence: Ucraina come banco di sperimentazioni

    Mentre l’esercito degli Stati Uniti testa i primi prototipi di Stryker di Leonardo Drs, l’esercito russo schiera i sistemi Sam (Surface-to-Air Missile): Tor-M2 con le stesse modalità, che vanno ad affiancare gli Iskander 9K720 e i nuovi Strela-10.
    .

  • Mentre la Nato (cfr. 11 ottobre) testa fuori dai contesti di guerra guerreggiata i suoi Shorad, intorno a Kherson il sistema russo di difesa si accreditava presso “Il Faro sul mondo” a luglio con un bottino che comprendeva in una giornata l’abbattimento di un elicottero MI8, 9 droni turchi e 10 Hymars. Propaganda in entrambi i casi, come dimostra questo video diffuso dall’esercito russo il 18 ottobre.
  • Oltre a coprire le truppe dai missili, questo sistema di difesa aerea resiste anche ai droni turchi Bayraktar e ad altri bersagli aerei (“Altervista“). Al di là della propaganda il Tor-M2, noto con il nome di rapporto Nato SA-15 Gauntlet, è un sistema missilistico terra-aria di fabbricazione russa completamente automatizzato, prodotto nello stabilimento di Izhevsk Kupol di Almaz-Antey, per fornire un’efficace difesa aerea.
  • Nell’esercito russo, spiega “Defense-Blog“, il set di sistemi di difesa aerea ТOR-М2 comprende quattro batterie di quattro veicoli da combattimento 9А331М ciascuna (per un totale di 16 veicoli da combattimento). Il munizionamento dei SAM 9А331М TOR-М2 prevede 16 nuovi missili guidati antiaerei 9М338К; progettato per abbattere aerei, elicotteri e missili da crociera, antiradar e altri missili guidati. Invece Il SAM Strela-10 è progettato per l’osservazione visiva e la distruzione di obiettivi aerei a bassa quota.
  • Lo Strela-10, noto con il nome di segnalazione Nato SA-13 Gopher, è un sistema missilistico mobile terra-aria a corto raggio. Il sistema è destinato principalmente a colpire minacce a bassa quota, come gli elicotteri. L’SA-13 è basato sullo scafo del veicolo multiscopo cingolato MT-LB. Lo scafo dell’MT-LB è interamente blindato in acciaio saldato con il compartimento dell’equipaggio nella parte anteriore, il motore immediatamente dietro il compartimento dell’equipaggio sul lato sinistro e il compartimento delle truppe nella parte posteriore dello scafo.

13 ottobre

  • Droni. Guerre del presente combattute dai robot (e subite dai civili)

    Quasi un incubo per Isaac Asimov, tanto che se applicassimo le sue leggi della robotica ai droni forse coglieremmo la portata profetica della grande fantascienza scritta durante la ribellione degli anni Sessanta e Settanta alla minaccia di guerra globale conseguente a quella in Vietnam (l’Ucraina dell’epoca, invasa militarmente da una grande potenza). Il 13 ottobre sono stati avvistati droni in avvicinamento nei cieli norvegesi, attualmente il paese che fornisce la maggior  parte del gas agli utenti europei: il primo drone è stato avvistato mentre sorvolava l’impianto di trattamento del gas di Kårstø, nel Sudovest della Norvegia, dopo questo episodio altri se ne sono susseguiti e 7 russi sono stati arrestati dagli scandinavi per questa “invasione”. Quella attività sembra inedita, ma i droni sono protagonisti in tutti i palcoscenici di guerra o di semplice confronto armato o di intelligence; dare conto di ogni episodio riportato dai mezzi di comunicazione è impossibile, molti non sono diffusi ma si può tentare un’esposizione delle molte applicazioni degli strumenti “unmanned”, limitandoci a quelle delle ultime settimane, tentando così un repertorio di nuovi robot.

  • Gli ucraini portano i trofei di 9 droni kamikaze iraniani Shahed 136 (“Geranium” in Russia, “Martiri” in Iran) abbattuti – veicoli nati da apparecchi anglo-americani abbattuti studiati e fabbricati sulla ricerca derivante dalla preziosa cattura; “Washington Post” e Cnn hanno riferito in estate che l’Iran aveva inviato un lotto di veicoli aerei senza pilota in Russia. Secondo le testate, Teheran aveva inviato i droni Mohajer-6, Shahed-129 e Shahed-191 in Russia il 19 agosto.
  • I droni di fabbricazione iraniana utilizzati dall’esercito russo per distruggere impianti di produzione di energia elettrica ucraini e spargere il terrore sono quindi saliti alla ribalta della invasione dell’Ucraina quando i russi hanno cominciato a farne un uso terroristico. La Nato ha assicurato che verranno forniti sistemi di difesa dagli attacchi di stormi di droni che costano tra gli 8000 e i 20.000 dollari (i più cari), ben sapendo che nemmeno gli scudi israeliani assicurano la completa distruzione di una flottiglia di Uav; infatti, contando sull’esaurimento degli stoccaggi di droni autoprodotti dai russi, lo sforzo sarà probabilmente anche quello di intercettare le forniture da parte della Iran Aircraft Manufactoring Industrial Company. Non a caso abbiamo citato il governo di Tel Aviv: proprio la fornitura di munizioni circuitanti Shahed 136 (il dubbio è relativo alla quantità di produzione che Tehran è in grado di assicurare di questi velivoli) ha mosso Israele a consegnare sistemi di difesa a Kyiv contro questi sciami di droni, scegliendo di schierarsi nel campo opposto agli odiati pasdaran, forse perché i droni più efficaci sono quelli turchi e quelli sono venduti all’Ucraina. E così – secondo “Formiche.net” Tzahal fornisce intelligence su droni, informazioni su spostamenti di truppe e sui droni può mutare il reciproco accordo di non interferenza russo-israeliano (plausible deniability).
  • Peraltro sono tante le tecnologie e molti i produttori di marchingegni senza equipaggio: occupano il paesaggio bellico più fosco che si può immaginare, pervaso di stormi di droni, forse i prodotti più ambiti e alla portata dello stato più squattrinato, utili sia per arrecare danni al nemico e scatenare il panico, ma anche per soffocare proteste, controllare intere aree… Questi dispositivi senza pilota sono forse il business più innovativo della filiera; e propone sia merci “popolari”, fabbricate anche facilmente da gruppi di insorti (per esempio gli houti yemeniti con know how iraniano, o hezbollah che attinge alla stessa tecnologia), sia quelle sofisticate come il nuovo drone sommergibile da 50 tonnellate Orca XLUUV della marina americana, raccontato da “NavalNews” (il cui costo è di 242 milioni di dollari e ancora a livello di prototipo, i costi sono lievitati: all’inizio della pandemia erano stati stanziati 274 milioni per 5 sottomarini Orca).

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    • Tre anni fa le peculiarità di questo enorme robot rispondevano a determinate applicazioni: posa- cacciamine, guerra asimmetrica elettronica e missioni “hunter killer”, dotato di missili Mk. 46 e le caratteristiche erano spingerli verso una zona operativa, lasciarli vagare, stabilire comunicazioni criptate. Gli UUV grossi sono più autonomi rispetto ai minori che costituiscono una rete di droni marittimi tra americani e sauditi in funzione anti-iraniana (“WSJ”), o – sempre con il medesimo nemico – quei nuovissimi Saildrone Explorers di un’esercitazione congiunta Usa/Uk (“NavyTimes”), utile per controllare vasti tratti di mare, perché possono stare a lungo in mare tra Suez, Gibuti, Hormuz, ma bisognosi di navi di supporto nelle vicinanze, come rilevava “Si Vis Pacem Para Bellum”, un sito molto appassionato all’arte della guerra, ma forse questo coinvolgimento non basta a spiegare il titolo datato febbraio 2020 Il nuovo robot wolfpack della marina militare di Orca sarà pronto per la guerra … e invece ha un ritardo di 3 anni, e non è ancora pronto che già c’è la guerra.
    • Altrettanto sofisticato sarebbe il “bat drone”. Non si tratta di uno sciame di piccoli droni travestiti da pipistrelli, ma di una nuova cellula da combattimento: l’MQ-28 Ghost Bat della divisione australiana della Boeing.
      Il Ghost Bat è un drone da combattimento, destinato a essere controllato da piloti umani. Lo descrive “Task & Purpose”: «Il design è pensato per essere modulare, in modo da poter essere modificato per determinate missioni».L’acquisizione fa parte di un più ampio sforzo dell’Air Force per sviluppare il programma Next Generation Air Dominance, il termine con cui si indica lo sviluppo di aerei di sesta generazione. Fondamentale sarà l’uso di gregari robotici, o come li chiama l’Air Force, velivoli collaborativi da combattimento. Le forze armate stanno testando e mettendo in campo dispositivi senza equipaggio come parte degli sforzi per modernizzare le proprie forze. Alcuni, come i minuscoli droni a vela, sono già in uso presso la Marina. L’Assured Positioning, Navigation and Timing / Space Cross-Functional Team dell’Esercito, che fa parte dell’Army Futures Command, ha recentemente testato un drone Airbus Zephyr S presso il Yuma Proving Grounds in Arizona (e in altre località, anche oltreoceano) che ha raggiunto il record di 64 giorni di volo prima di cadere improvvisamente dal cielo.
    • Come sempre poi nel capitalismo, la differenza è fatta dallo smercio nella gamma media che rappresenta nel volume di numeri il vero affare mondiale. E ormai ogni stato si va dotando di una flotta di droni, applicabili nei contesti più disparati. Spesso si tratta di produzione domestica interna a cominciare dalla risposta greca ai droni turchi, Archytas, il drone a decollo e atterraggio verticale (VTOL) presentato alla Thessaloniki International Exhibition (“GreekCityTimes”), una tipica collaborazione tra Forze Armate e Università, “utile” per monitorare i confini e accompagnare le fregate in funzione di difesa da droni nemici.
    • Presentato anche alla Africa Aerospace and Defense Expo di Pretoria insieme al Mwari, venduto dal Paramount Group ad alcune forze aeree africane: anche le sue caratteristiche prevedono ricognizione e precisione di tiro, potendo caricare molteplici sistemi
  • Ma la produzione maggiore di droni è per conto terzi: cioè macchine sfornate per l’esportazione. Alcune per recapitarle agli ucraini (i Phoenix Ghost di Aevex Aerospace, gli RQ-20 Puma e gli Switchblade dell’AeroVironment, di cui scrive “Military.com”), altre sono autentici oggetti del desiderio, come i 18 Bayraktar Tb2, turchi agognati dalla Romania, che a inizio settembre aveva stanziato secondo Reuters 300 milioni di dollari per il loro acquisto.
  • Un esempio diverso sono gli stormi di droni con intelligenza artificiale pilotati attraverso il 5G, che consentono di intercettare e geolocalizzare segnali a basso potenziale, sperimentati da Lockheed e Verizon il 28 settembre (“DefenseNews”). Il Pentagono ha ottenuto quasi 338 milioni di dollari per il 5G e la microelettronica nell’anno fiscale 2022. Ha richiesto 250 milioni di dollari per l’anno fiscale 2023. Ha potuto farlo, trovando una legittimazione dallo sviluppo tecnologico dei missili balistici cinesi (DF-26) e nordcoreani (Hwasong-12), già capaci di raggiungere la base di Guam, che dall’ultima parata militare in occasione del 70° anniversario della Cina popolare può essere nel mirino anche dei droni ipersonici WZ-8 in dotazione al Pla, come scriveva “The Diplomat” ad agosto, contro i quali è indispensabile trovare contromisure.
    • L’esercito israeliano poi sta promuovendo una guerra con i droni come metodo meno sanguinoso per controllare la Cisgiordania. I palestinesi di Gaza sanno che non è così; infatti l’uso di droni è sempre più spesso in funzione di ordine pubblico e per soffocare insurrezioni, rivolte, assembramenti. Non è un caso che l’esordio ufficiale in Cisgiordania i droni lo hanno visto quando una nuova resistenza non riconducibile a nessun protagonista più o meno controllabile: La Tana dei leoni, che è una realtà priva di leader, senza riferimenti religiosi, né indotta dalle forze di occupazione stesse – come Hamas, che fu alimentata agli esordi da Tel Aviv –; nell’incapacità di contrastare questi giovani stufi di occupazione e sopraffazione non c’è altra risposta che una guerra automatizzata in grado di fornire rapide soluzioni a un ciclo di violenza deplorevolmente (per l’Idf) cronico. “Zeitun” ha fatto una piccola ricerca storica dell’utilizzo di droni da parte di Idf:

    • Israele è stato un precoce pioniere nella tecnologia dei droni. Nel 1968 un maggiore della direzione dell’intelligence militare israeliana, Shabtai Brill, applicò mini-telecamere alla fusoliera di aerei a controllo remoto, del tipo di quelli fatti volare dai bambini nel cortile di casa, per sorvegliare clandestinamente i confini con l’Egitto. Nel 1982, all’inizio della guerra del Libano, le Industrie Aerospaziali di Israele produssero droni di sorveglianza di livello militare che potessero volare insieme a jet da caccia per identificare obiettivi e guidare missili.

      Oggi Israele si autodefinisce una “superpotenza dei droni”. La polizia di frontiera utilizza droni per irrorare con gas lacrimogeni i manifestanti nel complesso della moschea di Al Aqsa. In Cisgiordania i soldati disperdono la folla dai posti di controllo con un drone che spara impulsi sonori contro i bersagli, lasciando i dimostranti intontiti e nauseati. Agenti dell’intelligence militare guidano droni da riconoscimento sulla città di Gaza per definire le coordinate esatte da bombardare.

      Molti palestinesi hanno già vissuto per anni all’ombra della guerra con i droni. La loro presenza a Gaza è talmente pervasiva che ai droni ci si riferisce correntemente come a “zanana”, che significa “ronzio”, evocando il costante rumore degli apparecchi che si librano proprio sopra il tetto di casa, come un minaccioso sciame di api.

      Quando lo scorso anno l’esercito ha annunciato il primo stormo di droni mossi da intelligenza artificiale, “The Intercept ha documentato 192 civili uccisi in soli 11 giorni di combattimenti letali.

12 ottobre

  • Le ambizioni polacche di supremazia

    La quantità abnorme di armi di ogni tipo in transito sul territorio polacco svolge solo il ruolo di hub, oppure bisogna registrare un riarmo di dimensioni gigantesche per le dimensioni del paese. Ovviamente, oltre alla scelta di Varsavia di proporsi come potenza locale, va considerata l’enorme importanza della collocazione della Polonia, soprattutto per la Nato che gioca sul sentimento antirusso di una nazione profondamente sovranista.

  • 12 ottobre è arrivato il primo B2 in Polonia, Il Northrop B-2 Spirit è un bombardiere strategico Questo aereo può trasportare 16 missili da crociera con testate nucleari. Carico di combattimento fino a 27.000 chilogrammi. Una data storica: sancisce l’ambizione di divenire una potenza militare nell’area non solo orientale dell’Europa, avendo fatto la scelta di proporsi a modello sia del costume sovranista, sia dotandosi dei mezzi per imporlo.
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  • La Polonia, oltre a rappresentare il nuovo modello per il sovranismo di estrema destra – perché appare agli occhi sovranisti meno impresentabile di Orban – è uno snodo per le armi destinate a Kyiv: dal crowdfunding che a luglio aveva raccolto 4,9 miliardi di dollari per comprare un  Bayraktar TV2 per le forze armate dell’Ucraina (quel drone può trasportare due missili guidati Umta con un raggio di lancio fino a 8 km o quattro bombe di precisione Mamma-C / Mamma-l); la vicinanza al paese aggredito ha spostato l’asse europeo (non solo militare) più a Est e la nazione di Duda e Kaczynski si propone come hub (uno nuovo a est di Ramstein) e laboratorio di conservatorismo reazionario, meglio tollerato dagli americani che mal digeriscono certe impuntature di indipendenza dell’asse franco-tedesco. Ma il nazionalismo è funzionale anche alla servitù militare. Il 4 settembre “Military Times” informava della vendita degli Abrahams in consegna per il 2025 alla Polonia da parte di General Dynamics Land System (il che dimostra quanto le previsioni per una durata della guerra non tanto breve, come dimostrano le dichiarazioni dei massimi contendenti, che hanno lanciato questa guerra per procura, fondata su tipi di armi come gli Abrahams).
    Faceva eco “Defense News” che riportava anche l’entità della spesa (1,1 miliardi di dollari) in cambio di 250 carri armati M1A2 SEPv3.
  • Ma la Polonia non si è fermata all’approvvigionamento di terra, ha acquisito pure 96 elicotteri AH-64E – Apache (per dare una comparazione l’Australia a maggio ne ha comprati 29 dalla Boeing) pagati 1,4 miliardi di dollari e l’annuncio è stato ufficializzato alla fiera delle armi Mspo tenutasi all’inizio di settembre in Polonia, come riportato da “Breaking Defense”. E anche dare spazio a una sede fieristica sul proprio territorio ha un significato di approdo tra gli stati che contano nella filiera delle armi.
    Questo perché Apache e Abrahams lavorano congiuntamente: gli elicotteri

 «saranno schierati per la prima volta presso la 18ª Divisione meccanizzata. Non tutti, ma le prime unità. Questo proprio in seguito al fatto che la 18ª Divisione sarà equipaggiata con i carri armati Abrahams. Questi elicotteri funzionano benissimo con i carri armati Abrahams. Insieme, costituiscono una forza enorme. Una forza di resistenza, perciò vogliamo usarli come deterrente per il nostro avversario», ha dichiarato Błaszczak in una dichiarazione rilasciata dal ministero della Difesa polacco» (“DefenseNews”).

    • Sempre durante l’Expo documentata da “BreakingDefense” Adam Hodges, Capture Team Lead for Vertical Lift International Sales di Boeing Defense, Space & Security, ha dichiarato ai giornalisti che l’azienda sta offrendo alla Polonia “l’AH-64EV6, con capacità MUM-T, proponendo ad aziende polacche il sostentamento locale, quindi altro denaro europeo sperperato in spesa militare, funzionale all’interoperatività polacco-americana.
    • Boeing ha stabilito importanti collaborazioni con il governo e l’industria polacchi, in particolare partnership con il Polish Armaments Group che continuerà a espandersi con l’implementazione di attività di formazione e supporto con l’industria locale.
    • Mentre atterravano a Malbork (a un centinaio di chilometri da Kaliningrad) 4 cacciabombardieri Eurofighter dell’Italian Air Force nell’ambito dell’operazione Nato antiRussia…
    • … la Polonia in quei giorni di fine luglio stava siglando accordi con la Corea del Sud che sommavano a circa 14,5 miliardi di dollari di investimenti, per l’acquisto di 1000 carri armati K2 della Hyundai Rotem, 672 obici semoventi K9 della Hanwa Defense e 48 aerei da combattimento leggero Rokaf FA-50. Notizia confermata anche da “Breaking Defense”. Andando ancora più indietro nel tempo, a maggio, la Polonia aveva deciso di investire in nuove dotazioni di M142-Himars e Patriot: infatti prima del 24 febbraio il Dipartimento di Stato aveva concesso di approvvigionare l’esercito polacco per dotazioni pari a 6 miliardi di dollari.
      Contemporaneamente Varsavia aveva avanzato la richiesta a Seul per acquisire altri lanciamissili K239 della Chunmoo (e l’affare si è concluso a metà ottobre con l’acquisto di 300 di queste batterie di artiglieria coreana), omologhi al prodotto della Lockheed (che ha difficoltà a stare dietro alle richieste del mercato di Himars). Infatti la Lituania ha stanziato un budget di 148 milioni di dollari per comprare M142 Himars, droni e Javelin, dopo il successone ucraino
    • Una notizia di “Defense News” del 17 settembre riportava l’esistenza di due contratti per l’acquisto di 48 aerei d’attacco leggero FA-50 dalla Corea del Sud, con i primi 12 jet che saranno consegnati l’anno prossimo e altri 36 negli anni 2025-2028, per abbandonare completamente l’uso degli aerei MiG-29 e Su-22. La Polonia sta aumentando la propria potenza per diventare la potenza di riferimento anche militare dell’area soppiantando la Germania con l’ausilio degli Usa.
    • Politico”ha riassunto alcune delle commesse di acquisto di sistemi di arma da parte del bulimico esercito polacco:
    • «La Polonia ha firmato un accordo da 23 miliardi di złoty (4,9 miliardi di euro) per 250 carri armati Abrams dagli Stati Uniti questa primavera – una rapida sostituzione per i 240 carri armati di epoca sovietica inviati all’Ucraina. La sua aeronautica militare è equipaggiata con F-16 statunitensi e nel 2020 Varsavia ha firmato un accordo da 4,6 miliardi di dollari per 32 caccia F-35.
      Ma il fulcro della sua recente spesa militare è stata la Corea, dove ha firmato una serie di accordi per l’acquisto di carri armati, aerei e altre armi. Finora la Polonia ha ordinato dalla Corea armamenti per un valore compreso tra i 10 e i 12 miliardi di dollari, ha dichiarato Mariusz Cielma, redattore e analista di “Nowa Technika Wojskowa”, un sito web di notizie e analisi sulla tecnologia militare. Gli ordini includono 180 carri armati K2 Black Panther, 200 obici K9 Thunder, 48 aerei d’attacco leggero FA-50 e 218 lanciarazzi K239 Chunmoo. A completamento delle forniture immediate, i coreani dovrebbero fornire un totale di 1000 carri armati K2 e 600 obici K9 entro la metà e la fine degli anni Venti. Varsavia ha ordinato elicotteri italiani Leonardo per 8 miliardi di złoty, ma l’accordo prevedeva che gli elicotteri fossero prodotti in Polonia.».

11 ottobre

  • SHORt Air Defence: Ucraina come banco di sperimentazioni

    L’Esercito degli Stati Uniti ha equipaggiato un plotone del 5° battaglione, 4° reggimento di artiglieria da difesa aerea, in Europa, con quattro dei primi prototipi di Stryker A1 (sviluppato in 19 mesi da Leonardo Drs). L’Esercito è prossimo a schierare il primo battaglione completo entro la fine dell’anno con l’aggiunta di sistemi M-SHORAD (che comprende anche il lanciamissili veicolare Stinger di Raytheon Technologies), ha dichiarato a “DefenseNews” il generale Maurice Barnett, comandante generale del 10° Comando di difesa aerea e missilistica dell’Esercito in Europa, in un’intervista rilasciata all’esposizione annuale dell’Associazione dell’Esercito degli Stati Uniti.
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  • E il primo plotone di sistemi Shorad basati su Stryker A1 ha attraversato Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia, arrivando a testare l’impianto di difesa aerea a corto raggio sul Golfo di Finlandia. Il sistema offre una maggiore protezione rispetto ai vecchi Avenger grazie a una incredibile capacità di sparare in movimento, continuando la stessa protezione aerea e missilistica negli spostamenti, anche su distanze notevoli.
  • Nell’ambito di uno sforzo più ampio per rafforzare la capacità di difesa aerea in Europa, il 6 ottobre l’esercito americano ha attivato il quartier generale della 52ª Brigata di artiglieria per la difesa aerea a Sembach, in Germania. Il quartier generale collegherà tutte le forze di difesa aerea e missilistica dell’Esercito e riferirà direttamente al 10° AAMDC, che è stato aggiornato a un comando a una stella nel 2019.

Stryker A1

7 ottobre

  • C-Uas: la necessità di sviluppare il contrasto a ogni drone

    L’Esercito degli Stati Uniti ha creato l’Ufficio congiunto per il contrasto ai piccoli sistemi aerei senza pilota per affrontare la proliferazione dei droni avversari. Il Jco è nato dopo che l’allora Segretario alla Difesa Mark Esper, nel 2019, ha designato l’Esercito come agente esecutivo per le attività di contrasto agli Uas; gli ufficiali del Comando per le operazioni speciali alla Special Operations Forces Industry Conference, ospitata in Florida dalla National Defense Industrial Association. Il tenente colonnello responsabile del programma di controproliferazione del comando aveva dichiarato in maggio a “DefenseNews” che il Socom sta cercando un dispositivo di contromisura elettronica multimissione di prossima generazione. Il bilancio di ricerca dell’Esercito dello scorso anno ha posto l’accento sull’architettura tattica per la guerra elettronica, includendo una richiesta di aumento della spesa per il programma Multi-Function Electronic Warfare, il programma Terrestrial Layer System-Brigade Combat Team, l’Electronic Warfare Planning and Management Tool e il Terrestrial Layer System-Echelons Above Brigade.

  • L’intento è di trovare opzioni per siti di spedizione portatili, smontati e fissi per il dispositivo di contromisura elettronica multimissione di prossima generazione. Il Corpo dei Marines e il Socom dispongono di un sistema esistente chiamato Modi, prodotto dalla Sierra Nevada Corporation e utilizzato dall’esercito e dai Marine (“C4irsnet” riporta questa direzione nella ricerca del contrasto ai droni), il problema è la difficile maneggevolezza (pesa 20 chili) che ha suggerito gli investimenti per la ricerca, vista l’estensione dell’utilizzo di droni in tutti i quadranti.
  • Per ora l’esercito statunitense tiene corsi, i cui moduli consentono di avvalersi di queste armi di difesa da macchine Uas:

 «Non si può avere solo una capacità c-UAS ovunque. Bisogna essere in grado di sfruttare qualsiasi capacità si abbia: abbiamo essenzialmente massimizzato la capacità di quel sistema per dargli un doppio ruolo, sia che si tratti di abbattere razzi o mortai; ora possono abbattere anche i droni.

  • Il dispositivo anti-UAS DroneDefender ha unito una tecnologia innovativa a un design efficiente per una sicurezza sicura, affidabile e comprovata dalle minacce aeree (così il testo promozionale di Battelle). Il dispositivo interrompe rapidamente il controllo remoto del drone aggressore, neutralizzandolo in modo che non possa avvenire alcuna azione a distanza, compresa la detonazione, riducendo al minimo i danni che può provocare il drone e il rischio per la sicurezza pubblica.Il DroneDefender, che utilizza una soluzione non cinetica per difendere lo spazio aereo dagli UAS, come quadcopter ed esacotteri, opera senza compromettere la sicurezza o rischiare danni collaterali. Il sistema, leggero e facile da usare per due ore di seguito e con un peso contenuto sotto gli 8 chili, assicura la distruzione dei droni a controllo remoto e del loro GPS

1°-14 ottobre

  • Teatro No: come adeguare la nuova realtà di guerra a una Costituzione di pace, o viceversa

    Gli Stati Uniti non sono riusciti a trasformare il cosiddetto Quad, che comprende Giappone, Australia e India, in una versione asiatica dell’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico, ma hanno continuato ad allenarsi con molti stati dell’Indo-Pacifico.

  • Stripes” dà notizia che dal 1° al 14 ottobre si sono tenuti gli addestramenti combinati realistici “Rimpac22”con i mitici Himars insieme agli F-35BS in Hokkaido (coinvolte pure le forze militari filippine e coreane). Svolgono il ruolo di esibizione muscolare che s’incunea nelle strategie che regolano gli equilibri nell’Indo-Pacifico.
    Il “Kamandag” – abbreviazione di “Kaagapay Ng Mga Mandirigma Ng Dagat”, ovvero “Cooperazione dei guerrieri del mare” – è iniziato nel 2017 come sostituzione dell’esercitazione di sbarco anfibio su larga scala “Phiblex”. Inizialmente era incentrata sull’assistenza umanitaria e sulla risposta ai disastri.
    L’addestramento ha coinvolto la nave d’assalto anfibio USS “Tripoli” che trasporta i caccia stealth F-35B Lightning II del Marine Fighter Attack Squadron 121
    I Marines hanno anche volato con MV-22 Ospreys, CH-53 Sea Stallions, UH-1Y Venoms, AH-1Z Vipers e KC-130J Super Hercules durante le esercitazioni. L’F-35B è la versione a decollo corto e atterraggio verticale del caccia d’assalto congiunto, progettato per il supporto aereo dei Marines a terra.I Green Knights avevano già schierato 14 jet a bordo della Tripoli durante un pattugliamento del Pacifico quest’estate e inviato altri aerei in Australia per l’esercitazione biennale “Pitch Black”, che ha coinvolto oltre 100 aerei di 17 nazioni in agosto e settembre. Il Giappone è stato coinvolto con 1400 uomini soprattutto per addestramento agli Himars, AT-4 e Javelin, a cui si affiancano sistemi giapponesi di multilancio di razzi (Type 12 Surface-to-Ship Missile – 12SSM della Mitsubishi).
  • Le esercitazioni sono da intendersi in risposta a quelle congiunte operate a luglio dagli eserciti russo e cinese a stringere l’arcipelago nipponico che aveva richiamato “Formiche”, che veva seguito gli spostamenti delle navi russe (il cacciatorpediniere “Marshal Shaposhnikov”, la corvetta “Gremyashchiy” e la nave da supporto “Pechanca”) che avevano avvolto in una tenaglia l’arcipelago, con il supporto della fregata cinese “Jaingwei II”, intorno alle isole Shenkaku/Diayou, contese, come le Paracel. La Russia ha aumentato il livello di ingaggio dei conflitti antinipponici per le altrettanto disputate isole Kurili/Spor e Putin aveva estromesso la Shell e due aziende giapponesi da ogni pretesa di partecipare all’estrazione del gas intorno alle Sakhalin e già a giugno una ventina di navi militari vi erano state mandate in esercitazione prima che il premier nipponico Fumio Kishida prendesse il volo per il vertice Nato di Madrid:
  • In totale si sono mosse venti navi da guerra, di cui 4 cinesi e 16 russe. La crociera cinese è durata dal 12 al 19 giugno, poi le quattro navi (un cacciatorpediniere classe Type 055, uno di classe Type 052D e una nave di rifornimento Type 901 e una nave spia Type 815) hanno preso il largo per il Pacifico. Quelle cinesi si sono mosse in diversi momenti, ma sempre in quegli stessi giorni: tra le corvette e i cacciatorpedinieri impiegati, due di classe Udaloy, insieme ad alcune delle corvette della classe Steregushchiy, e al “Marshal Krylov” ha fatto rifornimento ovest dal Mare di Okhotsk verso il Mar del Giappone, durante esercitazioni nel Mar Cinese Orientale e nel Mar delle Filippine

 «È una dimostrazione di forza che trova due ordini di contesti internazionali come ragione. Il primo è più ampio, generale: il Giappone sta costruendo un proprio standing all’interno dell’Indo Pacifico riscoprendo una dimensione da potenza regionale, mentre sta contemporaneamente integrando sempre di più le sue attività con quelle occidentali. E tutto mentre il Giappone ha una linea sempre più chiara nei confronti della difesa di Taiwan davanti alle ambizioni cinesi».

  • E infatti negli stessi giorni il cacciatorpediniere portaelicotteri “Izumo”, ammiraglio della Flotta di autodifesa di Tokyo, ha condotto un’esercitazione congiunta con il cacciatorpediniere “USS Sampson” e ricevuto rifornimento in mare dalla “USNS Rappahannock“. Contemporaneamente, la fregata della marina indiana “Satpura”, quella filippina “Antonio Luna”, l’indonesiana “Gusti Ngurah Rai”, quella della Repubblica di Singapore “Intrepid” e a la corvetta “Lekir” della Royal Malaysian Navy si sono raggruppate per dirigersi verso le Hawaii, dove si trova il quartier generale dell’Indo Pacific Command americano.

  •  «Kishida ha chiaramente segnalato che il Giappone non rimarrà ai margini delle crisi globali. Più che mai sta dimostrando un impegno diplomatico schierato e e si sforza di proteggere la stabilità regionale e l’ordine internazionale basato sulle regole. Ciò si riflette sulla sua presenza allo Shangri-La Dialogue (evento internazionale organizzato a Singapore dall’IISS dove il premier giapponese ha presentato la sua “Vision for Peace”) e nella prevista partecipazione al vertice Nato di fine giugno. L’alleanza del Giappone con gli Stati Uniti è ancora una volta in primo piano nei calcoli strategici di Tokyo sull’Indo-Pacifico» (Elli Katharina Pohlkamp, European Council on Foreign Relations – Ecfr).

  • E si esplicita in particolare nel ruolo di capofila locale nel contrasto dell’atteggiamento aggressivo di Pechino verso Taipei, come segnalava “Formiche” in settembre agganciando l’impegno al riarmo giapponese – e come già documentato in questo Maxistudium di OGzero a maggio e agosto – e ai budget da capogiro per la Difesa nipponica (più di 40 miliardi su 788 del Bilancio delle spese nazionali) in cui sono inseriti anche capitoli di spesa per missili terra-nave a lungo raggio, o Ssm, dotati di un raggio di tiro di circa mille chilometri ottimo deterrente verso le minacce esterne.Un nuovo giro di boa attende poi una decisione essenziale di Tokyo, che sancirebbe definitivamente il cambio epocale da 70 anni a questa parte, perché è evidente che se si ritiene indispensabile cambiare la Costituzione perché pacifista, significa che in una contingenza storica di guerra si sente il bisogno di passare a una Costituzione bellicosa: una follia che decreterebbe l’ingresso in un’epoca di guerra ed è proprio quello che “AgenziaNova” riporta il 18 novembre. La notizia viene riportata proprio come conseguenza del fatto che il Giappone non ha potuto rifornire Kyiv con i missili anticarro richiesti (Type 12 Surface-to-Ship Missile – 12SSM della Mitsubishi), perché la Costituzione impedisce al Giappone di esportare sistemi e tecnologie di difesa.

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Vecchie e nuove servitù militari: No Trespassing

Stiamo scivolando sempre più in una mentalità che accetta l’orrore di considerare il cambiamento di morale, di narrazione dei rapporti tra “nazioni” e del valore degli aggettivi belligeranti che segnano una cesura… e marcano anche un cambio nel significato e nell’uso di territori strategicamente sottratti al paese su cui insistono per consegnarli a potenze straniere che le rendono off limits (NO TRESPASSING) e proiettate in funzione di aggressione al nemico, riempiendoli di ordigni, macchine belliche, sistemi di controllo e di logistica nelle azioni operative in zona di guerra, come Sigonella che ha partecipato sia nell’episodio che ha visto l’affondamento della Moskva, sia nell’attacco al porto di Sebastopoli del 28 ottobre.
Da settembre e poi anche in ottobre si è resa palese nell’economia della guerra europea l’importanza dello schieramento, delle alleanze e la necessità della potenza globale di riferimento di “occupare” territorio, di “invadere” sovranità, di “ottenere” mezzi adiacenti alla trincea… la servitù in tutte le sue forme.



La servitù nucleare in Italia

Servitù militare e Italia sono quasi una tautologia, visto che dal punto di vista dell’esercito americano si tratta di una enorme portaerei che si allunga nel Mediterraneo e ospita gli ordigni nucleari sia a Ghedi (in provincia di Brescia) che ad Aviano (Pordenone), non a caso dislocate nel Nordest, fin dalla Guerra Fredda considerato un avamposto: Ghedi è dotato di velivoli (Tornado e F-35 italiani), atti a trasportare le bombe nucleari (un centinaio quelle americane già disponibili), mentre ad Aviano sono dislocate le famose bombe nucleari per l’impiego tattico B-61 (da 45-60 kilotoni), che gli americani si trasportano in piena autonomia, imponendo un limite militarmente invalicabile nel territorio italiano


Aviano e Ghedi (il Nord nucleare); contratto milionario a Sigonella per potenziare il Comando della task force aeronavale Usa nel Mediterraneo per Conti Federal Service (il Sud a supporto di missioni fulminee piratesche). Il canale dei Navicelli (il Centro magazzino logistico)


La servitù delle forniture in Italia

Ma oltre a Sigonella (e il Muos) a Sud e le basi delle bombe nucleari a Nord esiste da anni Camp Darby e il Canale cinquecentesco dei Navicelli vi riveste un valore strategico per l fatto che attraversa la base militare che completamente blindato com’è diventa fondamentale per trasportare senza occhi indiscreti e in territorio completamente no trespassing le armi in arrivo al porto di Livorno e da lì alla darsena interna a Camp Darby, allargata permettendo l’incrocio di due navi.
E sono servitù militari anche gli agganci all’industria militare statunitense per esempio con il legame a filo doppio tra Leonardo (industria di stato e ora anche di governo, con la cooptazione di Crosetto al ministero della Difesa) e Lockheed: infatti i vertici dell’esercito scodinzolano al partner americano intravedendo la possibilità di bissare la collaborazione pluriennale sugli F-35 anche per quel che riguarda il nuovo progetto dei nuovi elicotteri a doppio rotore X2


La Sardegna assediata (le esercitazioni nelle Isole); le servitù oceaniche (il Portogallo) e quelle del Mediterraneo orientale:


La servitù delle esercitazioni

Altre servitù possono essere considerate le esercitazioni: infatti Nato decide e per 15 giorni i cieli e i flutti teatro delle “simulazioni” (anche nucleari e annunciate) diventano oggetto di espropriazione e aree pericolose, che poi lasciano residui e radiazioni, un territorio devastato e inquinato.
In questo tempo di guerra le esercitazioni “programmate” fioccano: a metà settembre la Sardegna era circondata come Taiwan un mese prima. Aree di guerra, in mare, in cielo e nei poligoni di Teulada, Quirra e Capo Frasca, esercitazioni speciali, visto che dal 24 febbraio le esercitazioni programmate erano state annullate, tutte tranne quelle collegate al “warfighting”. «Accentrare arsenali aerei, navali e terrestri in Sardegna, per giunta in questo contesto storico, significa proiettarla in uno scenario di provocazioni internazionali pericolose e incontrollabili. Mai come oggi la presenza delle servitù militari trasformano l’Isola in una vera e propria colonia militare».
E quella servitù era contemporanea alla esibizione di muscoli aerei di “Steadfast Noon”, ospitata dal Belgio a Kleine Brogel, una infrastruttura Nato adibita a ospitare armi tattiche B61-12cfino a 50 kilotoni in dotazione a F-35 “Lighting II” (quelli collaudati ad Amendola in provincia di Foggia quest’estate): altri scenari di guerra, esplicitamente nucleari, specularmente riflessi in Grom, l’esercitazione nucleare organizzata dal Cremlino.
Per quel che riguarda la servitù navale il Portogallo ha assistito allo spettacolo del Neptune Strike a Oeiras, quartier generale del Strike Force Nato con a capo la portaerei nucleare George H.W. Bush.
In questa ridda di esercitazioni non poteva mancare il quadrante più sensibile del Mediterraneo orientale e infatti in Grecia, durante un’esercitazione Nato che ha visto la partecipazione di 200 soldati americani e 650 tedeschi, si sono testati i missili tedeschi Patriot Mim-104, un sistema missilistico mobile antiaereo modulare di repentina installazione.
Troviamo questa moltiplicazione di esercitazioni, servitù e riattivazione di quelle esistenti a ridosso del fronte e si aggiunge l’elemento che abbiamo affrontato con Alessandro Ajres nella puntata di Transatlantica24 dedicata alla Polonia nel momento in cui si accredita come potenza locale più affidabile e utile della Germania (che ha dovuto decidere con forte riluttanza un riarmo pesante): ovvero la ricerca di costituire un potente esercito e non ridursi solo a hub per far confluire armi in una nazione-caserma al servizio degli Usa, ancor più che della Nato (avendo già iniziato a dotarsi di un esercito efficiente e moderno fin dalla prima invasione della Crimea). Si assiste a un tentativo di sostituire la capacità militare polacca alle basi tradizionalmente tedesche intese come confini orientali.



La servitù delle collaborazioni produttive

Anche se l’evidente preparazione a un conflitto in territorio europeo predispone il Pentagono a dispiegare armi e truppe, mobilitando tutte le servitù militari preparate nei decenni. E costruendone di nuove, come il nuovo comando a Wiesbaden per supervisionare l’addestramento nei poligoni americani in Germania (dove a gennaio sono state trasferite le reclute ucraine che fin dal 2015 si addestravano sotto il comando Usa al Combat Training Center-Yavoriv vicino a Lviv) e l’approvvigionamento delle truppe (https://www.militarytimes.com/news/your-army/2022/10/03/us-may-establish-new-command-in-germany-to-arm-ukraine-report/)
E sono servitù militari anche gli agganci all’industria militare statunitense per esempio con il legame a filo doppio tra Leonardo (industria di stato e ora anche di governo, con la cooptazione di Crosetto al ministero della Difesa) e Lockheed: infatti i vertici dell’esercito scodinzolano al partner americano intravedendo la possibilità di bissare la collaborazione pluriennale sugli F-35 anche per quel che riguarda il nuovo progetto dei nuovi elicotteri a doppio rotore X2



La servitù a Oriente

Nell’altro campo – con le debite proporzioni (come dice Gabriele Battaglia: «Anche la Cina ha basi militari fuori dai confini, una a Gibuti… rispetto alle decine degli Usa») – bisogna registrare le mire di Pechino sul porto di Ream, in Cambogia, ideale per installare un sistema di controllo radar dual-use, orientato ai traffici ma soprattutto a spiare assetti militari. E i lavori fervono nello scalo: un nuovo molo, un approfondimento del porto, che già registra una parte sotto la sovranità cinese, che potrebbe ospitare un nodo del sistema satellitare BeiDou alla confluenza dell’Oceano Indiano con il Pacifico, controllando così l’intera area (https://formiche.net/2022/10/nel-fragore-di-amburgo-la-cina-in-silenzio-si-prende-un-pezzo-di-cambogia/).
Ma si possono considerare servitù ottenute anche il corollario della militarizzazione di isolotti contesi lungo tutto il Mar cinese meridionale, come le Spratly, o il progetto di collaborazione con le Salomon, persino la più esplicita formula di neutralità costituita dal rifiuto del Vietnam di ospitare basi straniere, senza citare la contesa sulle isole Nansha si può considerare una servitù accettata su territori adiacenti nella guerra del Pacifico con gli Usa (https://www.scmp.com/news/china/diplomacy/article/3198034/china-vietnam-ties-beijing-reassured-hanois-vow-reject-all-military-alliances-say-analysts).


La servitù artica

Ma la servitù più contesa e meno esibita, anzi nascosta da una ipocrita collaborazione sempre più tesa è una sorta di corsa a spartirsi le fette di quel territorio strategico e ricco di minerali preziosi in via di scongelamento: tutti i paesi europei e la Russia (che controlla il 50% del territorio artico) tradizionalmente collaboravano fino alla crisi ucraina; intanto anche gli Usa stanziano 841 milioni di dollari per il 2023 per un terzo Polar Security Cutter e altri 20 milioni di dollari per creare un ufficio per il programma Arctic Security Cutter. completando una strategia durata 10 anni per il circolo polare artico: « La nuova strategia individua quattro pilastri, tra cui una maggiore presenza militare statunitense, l’aumento delle esercitazioni con i paesi partner per “dissuadere l’aggressione nell’Artico, soprattutto da parte della Russia”, l’ammodernamento della difesa aerea del NORAD e l’aggiunta di navi rompighiaccio della Guardia Costiera, nonché una migliore mappatura e cartografia delle acque e delle condizioni meteorologiche della regione». (https://www.defensenews.com/pentagon/2022/10/07/white-house-arctic-strategy-calls-for-enhanced-military-presence/) E proprio questa presenza militare americana surriscalda il clima artico; la seconda squadra Infantry Brigade Combat, 11th Airborne Division, ha iniziato in settembre l’addestramento pratico con l’equipaggiamento Capability Set 21, che ha lo scopo di aumentare la mobilità e rendere più intuitive le comunicazioni sul campo di battaglia (https://www.c4isrnet.com/battlefield-tech/it-networks/2022/08/29/first-arctic-unit-now-training-with-modernized-us-army-networking-gear/). La sezione 7 dell’Artic Commitment Act richiede l’«eliminazione del monopolio russo sulla navigazione artica» (https://pagineesteri.it/2022/09/01/primo-piano/cambiamento-climatico-il-potenziamento-militare-degli-usa-nellartico-pone-nuovi-rischi-geopolitici-e-ambientali/). E Leonardo DRS si è aggiudicata un contratto da circa 50 milioni di dollari per la fornitura di oltre 4600 visori termici per armi alla Svezia, emblematico di come il traffico d’armi possa garantire la differenza nei dettagli per controllare il territorio e assicurare una servitù militare, un’altra forma di imperialismo coloniale.


GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

100 %

Avanzamento



Interessante vedere grafici eloquenti di approvvigionamenti di armi, collocandoli nei vari scacchieri regionali, che corrispondono alle aree che vedono teatri di guerra; ma si vede soprattutto come si ripartiscono gli investimenti: Russia in testa (ma il dato per singoli stati vede gli Usa abbondantemente in testa), Emirati e Maghreb a ruota se il computo viene filtrato dal confronto in percentuale sul Pil. Dei più di 2000 miliardi che sarebbe il fatturato in armi nel 2021, 800 sono stati spesi dagli Usa (e questo si vede bene dalla Top Ten dei contratti firmati dal Dipartimento della difesa americano che abbiamo pubblicato nell’editoriale di agosto), seguiti da Cina, India, GB e solo quinta è la Russia, dimostrando così chi può essere più temibile; anche se il trend vede Cina e India in notevole accelerazione rispetto a un decennio fa – e questo è un dato che sposta in quel quadrante l’attenzione massima per paventare futuri conflitti. Infatti il primo grafico dimostra una corsa agli armamenti che vede l’Asia allargare la forbice della propria fetta di traffici d’armi rispetto al resto del mondo che incrementa progressivamente e nello stesso modo la propria spesa per preparare la guerra.

World military expenditure, by region, 1988–2021. Data and graphic: SIPRI


Il nucleare irrompe di nuovo prepotente nel dibattito mondiale e così abbiamo chiesto a Piergiorgio Pescali di “rassicurarci” di fronte a Zaporizhzhia, alle scelte iraniane, alle minacce neanche velate di Putin. Ricercatore per l’Aiea, Pescali ha visitato tutte le centrali nucleari più famigerate, conosce il mondo del nucleare con obiettiva precisione, riporta dati. Possiamo continuare a preferire un mondo meno nucleare, ma gli argomenti di Pescali provengono da una conoscenza dall’interno degli ambienti saturi di atomi, rimane ampio spazio per preferire soluzioni alternative ma non si può prescindere dalle sue conoscenze che ci illustra in questo podcast proveniente da una puntata di Bastioni di Orione su Radio Blackout, cercheremo di approfondire ulteriormente il côté eminentemente militare dell’applicazione nucleare, che qui trova una ottima introduzione:

Settembre

29 settembre

  • L’obliquo  gioco di Embarghi e Sanzioni

    L’ipocrisia è palese ogni volta che si parla di embarghi che vanno applicati o deroghe agli stessi: diventa un gioco evidente che risponde al bisogno di trovare una spiegazione per una consegna disattesa per dare un segnale di scelta di campo o per sancire un’alleanza rimuovendo sanzioni e rifornendo così stati criminali con armi micidiali.

  • Da un lato si può senz’altro condividere il rifiuto della fornitura di 16 elicotteri Mi-17 da parte del governo Marcos-Duterte appellandosi a sanzioni, che servono per affrancarsi dall’abbraccio russo e schierarsi sul fronte indopacifico dalla parte americana. Ma il vero problema è che comunque finora – e forse sottobanco ancora adesso – i Filippini si approvvigionavano dagli arsenali russi e ora, senza mezzi termini stracciano un contratto con una semplice dichiarazione: «I cambiamenti di priorità resi necessari dagli sviluppi politici globali hanno portato alla cancellazione del progetto da parte della precedente amministrazione» (“BangkokPost”). E comunque gli Usa hanno offerto alternative al bisogno di elicotteri di Manila.
  • Sempre nell’area indopacifica si trovano nei primi giorni di ottobre nuove liste di ditte cinesi sanzionate dal Dipartimento della Difesa (“South China Morning Post”), che colpiscono chirurgicamente imprese produttrici di droni, ma – attenzione! – che si trinceravano dietro la duplice funzione bipolare, dove la vocazione “civile/militare” era una palese foglia di fico, ma in mezzo a tante altre produzioni orientali come occidentali. In questo caso si tratta di DJJ Technology, il più potente costruttore di droni al mondo con sede a Shenzen. Ma la duplice funzione è condivisa da tutte le ditte costruttrici di armi… o altri marchingegni apparentemente innocui come il Parrot Anafi della DJJ.
  • Un’altra richiesta di cancellazione di embargo sulle armi che è un’evidente necessità di alleanza – o almeno neutralità – è quella da parte di Abyi che si fa latore per conto della Somalia di Mohamud (legato mani e piedi al regime di Ankara, ma anche con l’Egitto, che ha un contenzioso pericoloso con Addis Abeba per la diga Gerd) di questa istanza, come riporta “Meridiano42”. Se Abyi riuscisse nell’intento disinnescherebbe una alleanza scomoda di Mogadiscio, soprattutto durante la guerra in corso contro il Tigray. Dunque gli embarghi risultano utili in particolare come merce di scambio e strategie diplomatiche, mentre il regime somalo non riesce ad avere ragione di al-Shabaab.
  • Il fatto che embarghi e sanzioni siano unilaterali li rende un’arma esclusiva dell’Occidente; infatti diventa offensiva la consapevolezza che il paravento delle sanzioni è un gioco affaristico, come quello del governo tedesco di Scholz, che approvando le esportazioni di armi verso Riyad ha interrotto l’embargo deciso nel 2018, a causa del ruolo saudita nella guerra in Yemen (“perplessità sulla vocazione democratica della famiglia saudita poi ribadite con l’assassinio di Khashoggi). Tutto rientra nel bisogno energetico scatenato dalla crisi sarmatica, come scrive “Anbamed” il 30 settembre:

 «L’Arabia Saudita, primo esportatore mondiale di petrolio, ha assunto un ruolo ulteriormente importante nel garantire fonti di energia per i paesi europei, dopo le sanzioni contro la Russia e lo stop di Mosca alle esportazioni di gas e petrolio. Uno dopo l’altro i capi di Stato occidentali si sono prostrati alla corte di Mohammed Bin Salman: prima di Scholz, Biden e Macron».

  • Mediapart” aveva rivelato il 24 settembre i garbugli internazionali che andavano permettendo al colosso di Monaco Hensoldt di aggirare l’embargo attraverso filiali straniere e di un accordo franco-tedesco.
  • Gli Usa avevano già stipulato accordi con la famiglia saudita per realizzare una rete di droni marittimi in funzione anti-iraniana insieme a Israele nel quadro degli Accordi di Abramo trumpiani e sfruttati dalla amministrazione Biden, come riportava il “Wall Street Journal”, un modello che Washington intenderebbe collaudare in Medio Oriente per esportarlo nel resto del mondo: entro la prossima estate US Navy prevede di poter contare su uno stormo di 100 piccoli droni di sorveglianza M5D-Airfox – forniti da vari paesi – che opereranno dal Canale di Suez in Egitto fino alle acque al largo della costa iraniana e forniranno informazioni a un centro di comando in Bahrein, sede della Quinta Flotta degli Stati Uniti. Evidente la necessità di operare un monitoraggio della tecnologia nucleare di Tehran.
    I droni attualmente in fase di test sono disarmati. Ma gli analisti della difesa si aspettano che la Marina si muova verso l’equipaggiamento di alcuni di essi con armi in futuro; tutto ciò nasce dalla preoccupazione per l’espansione dell’influenza dell’Iran in una delle rotte economiche più importanti del mondo. Teheran ha schierato navi e sottomarini equipaggiati con droni aerei.
    Invece la Marina degli Stati Uniti sta testando una serie di imbarcazioni senza pilota, tra cui una che assomiglia a un motoscafo e può raggiungere una velocità di quasi 90 miglia all’ora. Sta anche lavorando con droni aerei tipo Predator e con il Saildrone, che può rimanere in mare per sei mesi.
  • Saildrone

28 settembre

  • Il giro promozionale del sistema di artiglieria più desiderato

    Un sofisticato meccanismo logistico di trasporto “moltiplica” l’utilizzo dei sistemi lanciamissili aviotrasportati Himars, laddove è richiesto l’impiego immediato.
    Sistemi missilistici mobili in uso contemporaneamente grazie al delivery del sistema di arma a cui inneggiano le truppe ucraine per la risoluzione di situazioni difficili. Per ora il sistema di consegna aviotrasportato sta attuando un giro promozionale

  • L’High Mobility Artillery Rocket System (l’ormai mitico Himars) ha sparato martedì 27 settembre nel Grande Nord della Svezia durante una missione di breve durata iniziata ore prima con le truppe che hanno preso il volo a bordo di un C-130 per operazioni speciali partito dalla base aerea di Ramstein, in Germania. La missione è stata simile a quella effettuata giorni prima in Lettonia, dove gli Himars  americani sono stati inviati a sostegno delle esercitazioni di preparazione al combattimento nei paesi baltici. La Lituania  aveva già richiesto (a luglio quando Riga chiese di acquistare sistemi missilistici di difesa costiera e anche l’acquisto di sistemi di difesa aerea a medio raggio, valutando in 763 milioni di dollari gli stanziamenti in spese militari per il 2023).  una fornitura di Himars nel quadro di un cofinanziamento tra i paesi baltici per acquisti dalla Difesa americana; Durante l’estate, gli artiglieri statunitensi hanno fatto lo stesso in Danimarca. Questo ipermovimento è utile anche per lanciare segnali al “nemico”. Questa strategia di dimostrazione di muscoli, promozione commerciale e collaudo per eventuale delivery in situazione di guerra dichiarata è ben descritto da “Stars&Stripes”.

Il Pentagono ha annunciato mercoledì che stipulerà un contratto con l’industria per 1,1 miliardi di dollari in aiuti militari all’Ucraina, compresi 18 sistemi di razzi di artiglieria ad alta mobilità e altre armi per contrastare i droni che la Russia ha usato contro le truppe ucraine. (“DefenseNews”).

Le nuove armi e attrezzature, fornite nell’ambito dell’Iniziativa per l’assistenza alla sicurezza dell’Ucraina, sono destinate a soddisfare le esigenze di Kiev a medio e lungo termine e potrebbero richiedere dai sei ai 24 mesi per arrivare. L’amministrazione Biden, che ha stanziato aiuti per 17 miliardi di dollari per l’Ucraina, ha utilizzato l’autorità presidenziale di drawdown per inviare le armi più rapidamente. L’ultimo contratto comprende 18 Himars della Lockheed Martin, ma anche 12 Titan per il contrasto dei droni di fabbricazione iraniana adottati da Mosca; 20 radar multi-missione in grado di tracciare i colpi di artiglieria e di mortaio, tra gli altri oggetti in volo (l’approvvigionamento di radar è centrale in molti accordi di acquisto); 300 Humvee, i camion per trasporto di attrezzature e ordigni: evidentemente si prevede che la guerra si protrarrà almeno per un paio di anni; gli ucraini hanno ricevuto 16 Himars direttamente dal Pentagono e altri 10 dagli stati europei.

Sfruttando l’intelligenza artificiale e l’apprendimento automatico, il Titan è in grado di operare in modalità opzionale e di aumentare autonomamente le contromisure in qualunque situazione in cui sia individuato un ordigno volante

«Si tratta di un investimento davvero consistente, destinato a far sì che l’Ucraina disponga di ciò che le serve per il lungo periodo, per scoraggiare le minacce future», ha dichiarato un funzionario del Pentagono. «Ma non esclude in alcun modo che continuiamo a investire nelle loro forze attuali con capacità che sono disponibili oggi e che possiamo attingere oggi dalle scorte statunitensi»


  • Il vertice di Bruxelles

  • Nel frattempo a Bruxelles si sono riuniti per la prima volta i Direttori nazionali degli armamenti dei Paesi membri del Gruppo di contatto per la difesa dell’Ucraina, coordinati dal sottosegretario alla Difesa per l’acquisizione e il mantenimento degli Stati Uniti, William A. LaPlante. Alla riunione, a cui ha partecipato anche il Segretario generale della Difesa italiano, generale Luciano Portolano, erano presenti i rappresentanti di 45 nazioni, dell’Unione europea e della Nato, ed è servito ad affrontare le sfide della base industriale della difesa e sulle opportunità di aumentare la produzione di capacità critiche per la difesa a lungo termine dell’Ucraina. Formiche.it riportando la notizia del nuovo coordinamento dei paesi dediti al sostegno di Kyiv, aggiunge anche che lUcraina si rifornirà di sistemi missilistici Himars direttamente dal produttore, quindi trattando direttamente con Lockheed Martin sgravando l Pentagono dal bisogno di fornire con propri sistemi il paese belligerante (non è chiaro chi paghi i sistemi: cioè da dove Zelensky prenda i soldi per onorare tutte queste forniture direttamente dal produttore), permettendo una catena di rifornimenti sostenibile a lungo termine. La decisione, inoltre, riduce lo sforzo imposto agli arsenali Usa per rifornire le difese ucraine ma soprattutto di aggirare la burocrazia (e il controllo) del Congresso.
  • Questo sotterfugio fa parte di un braccio di ferro tra Pentagono e Congresso che si rinnova periodicamente e in periodi di inflazione durante un impegno bellico produce tensioni come quelle descritte da “DefenseNews”, quando le pressioni del Congresso sul Pentagono per mitigare gli effetti dell’inflazione si ritorcono contro i parlamentari (e le loro lobbies in contrasto con il desiderio militarista di una quantità sempre maggiore di giocattoli)

Perché i contratti di appalto pluriennali sono raramente approvati dal Congresso? Il personale addetto agli stanziamenti non vuole rinunciare al potere di mettere in discussione le spese negli anni successivi, e i membri scelgono di non scavalcare il potente personale

  • Il Dipartimento della Difesa americano apparentemente sta proponendo soluzioni per rispondere alla richiesta di fornire “sgravi contrattuali straordinari” alle aziende con contratti a prezzo fisso che stanno subendo l’inflazione al 9%; in realtà sfrutta la situazione perché proprio LaPlante ha invitato a dare ai federali una maggiore autorità per negoziare contratti di approvvigionamento pluriennali per munizioni e sistemi missilistici, eliminando la necessità di negoziare i contratti ogni anno con il Congresso (sottraendogli il controllo sulle forniture), mantenendo le linee di produzione “calde”, migliorando la capacità americana di rifornire le scorte svuotate dalla guerra in Ucraina. Secondo il Pentagono gli appaltatori hanno bisogno di stabilità per produrre sistemi a ritmi significativi per periodi di tempo prolungati. I dollari prevedibili generano stabilità e il modo più facile per ottenerla sarebbero i contratti di approvvigionamento pluriennali nell’ottica guerrafondaia più estremista e che quindi prevede una guerra aperta di lunga durata.
  • Contratti pluriennali: gli appaltatori si assicurano ordini quinquennali

  • Con questa autorità, gli appaltatori hanno una fonte di finanziamento costante, che segnala che i loro prodotti saranno acquistati per anni e crea un incentivo a investire nella forza lavoro, nella ricerca e nello sviluppo e nelle strutture della propria azienda costruttrice di armi, che poi dovranno essere usate e distrutte per continuare a mantenere elevata la richiesta e ottemperare al contratto.
  • Il sommergibile russo Yasen-M è più lungo del Virginia Block ma porta tubi per il lancio verticale di missili più piccoli, così l’imbarcazione americana può trasportare 40 missili Cruise della classe Tomahawk contro i 32 degli avversari russi

  • Un fulgido esempio del giro di affari che può rendere a uno o all’altro dei soggetti in commedia è il missile Tomahawk Block IV. Un contratto di approvvigionamento pluriennale contenuto nella legislazione sugli stanziamenti per l’anno fiscale 2004 ha portato a una produzione di circa 357 missili all’anno, con un prezzo medio di 1,4 milioni di dollari per missile in dollari dell’anno fiscale 2002. Dopo 16 anni, il Pentagono sta nuovamente acquistando lo stesso missile Tomahawk, ma questa volta senza un contratto pluriennale. Dall’anno fiscale 20 all’anno fiscale 22, il Dipartimento della Difesa ha acquistato circa 94 missili all’anno a un prezzo medio di 2,9 milioni di dollari per missile, con un aumento del 107.
  • Per l’anno fiscale 2023 questa procedura è stata approvata solo per il cacciatorpediniere guidato classe Arleigh Burke.
  • Nonostante l’ovvia necessità di acquisti sostenuti di munizioni, nelle tranche di aiuti all’Ucraina approvate dal Congresso dall’inizio della guerra non sono stati approvati appalti pluriennali.

“I dollari prevedibili generano stabilità e i contratti di approvvigionamento pluriennali dovrebbero essere il veicolo per ottenerla”

Costretta a una pianificazione annuale, l’industria della difesa rischia di non fare gli investimenti necessari oltre l’orizzonte di un anno secondo i sostenitori della filiera produttiva, considerando che altrimenti non s’incentiverebbero le aziende a migliorare la capacità e a ridurre i costi. Un modo in cui il Pentagono ha cercato di aggirare questo controllo è stato quello di stipulare contratti per un anno in cui sono stati stanziati dei fondi e poi avere una serie di opzioni per rinnovi automatici di un anno, con l’intento di triplicare la produzione di artiglieria, per le armi che i combattenti usano quotidianamente – le bombe, i missili, i razzi… (praticamente Dr. Strangelove).


Nel corso della riunione di Bruxelles, i direttori degli armamenti sono giunti a indicare la volontà di avviare dei gruppi di lavoro volti a definire strategie multinazionali per risolvere i problemi della catena di approvvigionamento e aumentare la produzione di armi che potrebbero essere inviate in Ucraina. La delegazione statunitense ha illustrato i propri piani per aumentare la produzione di armi a lungo raggio basate a terra, sistemi di difesa aerea, munizioni aria-terra e altre capacità. E così si torna all’inizio della scheda su questi Himars portati in giro come i carri armati di Mussolini: infatti Lockheed Martin non riesce a soddisfare la richiesta di Himars e secondo “BusinessInsider” è in cerca di aziende in grado di costruire più di 100 Himars all’anno: l’Esercito prevede un programma quinquennale che richiede quasi 500 nuovi HIMARS, attualmente costruiti dalla Lockheed Martin. Per gli anni fiscali dal 2024 al 2028, l’Esercito prevede un minimo di 24 nuovi lanciatori all’anno e un massimo di 96, per un totale di 120-480 in cinque anni. L’aggiunta di 480 nuovi lanciatori raddoppierebbe quasi la dotazione mondiale di Himars. L’esercito statunitense ne ha 363 e il Corpo dei Marines altri 47. L’Esercito ha dichiarato nel 2021 – prima che la Russia attaccasse l’Ucraina – che avrebbe cercato di aumentare la sua forza a 547 Himars. La Romania ha 18 Himars e l’approvazione degli Stati Uniti per acquistarne fino a 54. Singapore ha 18 lanciatori e la Giordania 12. Singapore ha 18 lanciatori e la Giordania 12. Oltre all’Ucraina, forse l’acquirente più importante sarebbe Taiwan, che ha in programma di ordinare 29 Himars.

27 settembre

  • Littoral Freedom-variant

  • Fincantieri aveva ottenuto l’appalto per la serie Lcs (Littoral Combat Ships) attraverso la controllata Marinette Marine Corporation, all’interno del consorzio guidato da Lockheed Martin Corporation, la prima nave multiruolo fu la Freedom (che poi ha dato nome alla variante) nel 2008. La consegna approvata dalla Marina militare americana in settembre è la dodicesima fregata, la USS Cooperstown LCS-23, l’importo per la quale si legge su “AdriaEco” del 2015 avrebbe dovuto essere fissato in 279 milioni di dollari, saldati alla consegna… ma ora nessuno ha fatto cenno all’effettiva somma conferita nelle casse di Fincantieri.
  • «Il prossimo passo per Cooperstown è la cerimonia di inaugurazione a New York, seguita dal trasferimento nel suo nuovo homeport di Mayport», questo l’incipit trionfalistico di “ShipMag” nel dare notizia del varo.


  • Scheda tecnica

  • LCS è una nave progettata sia per le attività di sorveglianza e difesa delle coste che per le operazioni in acque profonde, per affrontare minacce asimmetriche quali mine, battelli diesel silenziosi e navi di superficie veloci. Le unità sono allestite in base ad una logica modulare, ed i vari moduli possono essere adattati a seconda del tipo di missione. Le unità della classe LCS hanno una velocità massima di oltre 40 nodi e si configurano come tra le navi militari monoscafo più veloci al mondo.
  • LCS è una piattaforma veloce, agile e focalizzata sulla missione progettata per operare in ambienti costieri e oceanici aperti. Facile immaginare una destinazione d’uso in funzione antiterrorismo, contro i migranti e antinarcos, anche considerando che i porti a cui sono assegnate sono sparsi lungo tutte le coste interne degli Usa, dove dovranno operare queste che sono a tutti gli effetti navi da guerra, come dalle informationi tecniche di Fincantieri:
  • COMBAT SYSTEM

    Capabilities on the LCS in all configurations include self-defense, navigation and C4I.

    SELF-DEFENSE FEATURES INCLUDE:

    • RAM (Rolling-Airframe Missile) Launching System

    • 57 mm Main Gun

    • Mine, Torpedo Detection

    • Decoy System

  • I precedenti
      • USS Minneapolis St. Paul LCS-21 (2021)USS Cooperstown LCS-23 (2021)
      • USS Freedom LCS-1 (2008)USS Fort Worth LCS-3 (2012)USS Milwaukee LCS-5 (2015)USS Detroit LCS-7 (2016)USS Little Rock LCS-9 (2017)USS Sioux City LCS-11 (2018)USS Wichita LCS-13 (2018)

        USS Billings LCS-15 (2019)

        USS Indianapolis LCS-17 (2019)

        USS St. Louis LCS-19 (2020)

        USS Minneapolis St. Paul LCS-21 (2021)

        USS Cooperstown LCS-23 (2021)

        USS Canberra LCS-30 (2022)

        USS Santa Barbara LCS-32 (2022)

    • Interessante notare l’accelerazione nelle consegne e diverse altre varianti Freedom sono in costruzione presso il cantiere navale Fincantieri Marinette Marine, nel Wisconsin. La consegna della futura USS Marinette (LCS 25) è prevista per l’inizio del 2023. Altre navi in ​​varie fasi di costruzione includono le future navi USS Nantucket (LCS 27), USS Beloit (LCS 29) e USS Cleveland (LCS 31). LCS 31 sarà l’ultima LCS variante Freedom informa “AreaDifesa”.

21 settembre

  • Pavloviana reazione alle minacce nucleari del non bluff di Putin

    La reazione immediata del sistema neoliberista di cui fa parte la Russia stessa e il mondo intero alla mobilitazione ordinata dal Cremlino è stata un’immediata ascesa dei titoli legati alla Difesa e Sicurezza nel listini di borsa europei, come riporta “Fta. E in prospettiva il mercato sposterà molte risorse finanziarie a sostegno di titoli collegati alla guerra.
    Era ovvio, ma il riflesso pavloviano a fronte dell’escalation è stato immediato e automatico: la paura nucleare ha fatto scattare i rialzi di Leonardo (5,25%), Thales (5,26%), Bae Systems (4,41%) e Rheinmetall (10,14%).

  • I fantastici quattro

  • Leonardo superando area 8 euro ha completato il piccolo doppio minimo disegnato in area 7,50 dall’8 settembre. La figura si appoggia sul 61,8% di ritracciamento del rialzo dai minimi di novembre 2021, si tratta di un sostegno molto rilevante dal quale è lecito attendersi una reazione consistente. Sopra area 8,30 atteso il test di 8,48, lato alto del gap del 29 agosto, poi resistenza a 9 euro circa.
  • BAE Systems ha disegnato dal top di luglio una figura “triangolo” rialzista. La resistenza da battere è quella degli 810 pence, oltre quei livelli target a 900 circa. Solo sotto la base del “triangolo”, a 750, le prospettive di rialzo verrebbero negate, rischio di cali verso i 650 pence.
  • Thales segue un percorso orizzontale ormai dal massimo di aprile. La rottura (se confermata in chiusura di seduta) di area 119, linea mediana della fascia, permetterebbe il test della parte alta dell’intervallo, in area 128 euro. Resistenza successiva a 140 euro circa. Sotto 115 probabile invece il test della parte bassa del trading range, supporto critico di medio periodo, a 110 euro circa.
  • Rheinmetall ha superato a 158 euro la trend line ribassista disegnata dal top di luglio e sta testando in area 167 la media mobile esponenziale a 50 giorni. Il superamento della media, se confermato in chiusura di seduta, aprirebbe la strada a movimenti verso i 200 euro. Solo con la violazione di area 140 emergerebbe nuovamente il rischio di ribassi (target a 120 almeno). Dal 31 dicembre il titolo tedesco ha guadagnato il 130% del suo valore.

In particolare è quest’ultima a guadagnare di più per la decisione da parte del governo tedesco di investire 100 miliardi di euro che quindi ci si aspetta che sia Bundeswehr a spendere in particolare nel paese buona parte del bottino.

Oltre a Thales e Rheinmetall, anche il produttore di Rafale, Dassault Aviation, il produttore di armi britannico BAE Systems, l’italiana Leonardo (l’unico subappaltatore europeo a gestire una linea di assemblaggio finale per l’F-35 di Lockheed Martin) e la svedese Saab, che sviluppa jet da combattimento (“Gripen”) e droni, sono stati tra i maggiori rialzisti della sessione europea di mercoledì 21 settembre. (“LesEchos”).


  • Parallelismi in Borsa

  • Gli annunci di Mosca hanno avuto un immediato impatto sui prezzi del petrolio che «sono tornati a salire portando il Brent a 93 dollari al barile e il Wti sopra 86 dollari al barile e favorendo anche gli acquisti sui titoli dell’industria petrolifera: a Milano in evidenza Tenaris (+3,7%) e Eni (+2,5%) ma anche nel resto d’Europa Total (10,5% al Cac40), Bp, Repsol sono tra i migliori».

MQ-Reaper

3 settembre

  • A un mese dalla “bomba” Nancy sganciata nel Pacifico

    L’ebdomadario di Lorenzo Lamperti da Taipei per China files ha subito un climax qualitativo e quantitativo di notizie sempre più collegate a strategie belliche e produzioni di armi a partire dall’invasione russa dell’Ucraina, per le evidenti analogie, ma anche le differenze che Lamperti in un pezzo di fine aprile (dove già si citava un invito americano ad aumentare il Budget militare) – riprendendo “The Economist” – enumera insieme alle affinità: con la sua guida ricostruiamo il riarmo nell’Indopacifico nelle ultime settimane.
    Procedendo a ritroso troviamo nella rassegna del 3 settembre situazioni ricorrenti da aprile e che hanno registrato una escalation dopo il provocatorio viaggio di Nancy Pelosi, su cui qualche settimana fa Lamperti nel suo “Taipei Files” registrava l’irritazione dei taiwanesi, che avevano ascritto alla strategia statunitense per alzare deliberatamente la tensione.

  • Stanziamenti e budget

  • Una delle ricorrenze è la richiesta al Congresso da parte della Casa Bianca di approvare la vendita di un pacchetto di armi destinato a Taipei dell’ammontare di 1,1 miliardi di dollari; con il corollario di polemiche, perché tra gli annunci e le consegne passano molti anni. «Il pacchetto, comprende secondo “Politico” 60 missili AGM-84L Harpoon Block II per 355 milioni di dollari, 100 missili tattici aria-aria AIM-9X Block II Sidewinder per dotare gli F-16 per 85,6 milioni di dollari e 655,4 milioni di dollari per l’estensione del contratto per un radar di sorveglianza».
AGM-84L Harpoon Block II

Harpoon Block II è un missile antinave over-the-horizon prodotto da Boeing Defence, Space & Security

  • Soprattutto questa voce relativa ai radar è particolarmente sensibile, come documentato da un dossier pubblicato dal Project2049 Institute ad aprile che sottolinea l’importanza di poter contare su una immediata allerta a fronte di incursioni improvvise. “Formiche.net” segnala che secondo il Dipartimento della Difesa Usa «l’attrezzatura è necessaria per Taiwan per “mantenere una sufficiente capacità di autodifesa” a Taiwan» e corrisponde esattamente alla fornitura che Washington ha assicurato a Kyiv. Infatti, come riporta “Scmp”, il ministro della difesa taiwanese sta cercando 541 milioni di dollari in più per i prossimi 5 anni (guarda caso in linea con gli stanziamenti del Pentagono) per mantenere e sostenere il suo sistema radar di allerta precoce a lungo raggio Pave Paws (Precision Acquisition Vehicle Entry Phased Array Warning System), che secondo il Ministero ha tracciato efficacemente i missili della Pla sparati sopra l’isola il mese scorso; i fondi sono destinati a mantenere le prestazioni operative della stazione radar Leshan dell’aeronautica militare nella contea di Hsinchu, nel nord di Taiwan; ed «è molto importante non solo per dare a Taiwan un tempo di preavviso molto necessario per contrastare gli attacchi missilistici del nemico, ma anche per fornire agli Stati Uniti le informazioni necessarie sui movimenti del Pla».
è un complesso radar di allerta precoce e sistema informatico

Long-range UHF radar di allerta precoce in Leshan.

  • Di recente la stazione ha svolto un ruolo significativo per controllare la traiettoria e i punti di atterraggio degli 11 missili della serie Dongfeng lanciati dall’Esercito Popolare di Liberazione nelle acque su tre lati di Taiwan nel mese di agosto. Costruito dalla Raytheon nel 2003, il sistema di allarme ad arco di fase per l’acquisizione di precisione dei veicoli, del valore di 1,4 miliardi di dollari, è pienamente operativo dal 2013. Situato a un’altitudine di 2600 metri, il gigantesco sistema radar è in grado di rilevare un missile lanciato da una distanza di 5000 chilometri e di seguire i proiettili in movimento in modo estremamente dettagliato, anche da una distanza di 2000 chilometri, un raggio che copre la Cina continentale, il Mar Cinese Meridionale e la Corea del Nord.

Ovvie le rimostranze cinesi per voce di Liu Penguy: «Gli Usa devono smettere di vendere armi a Taiwan poiché qualsiasi contatto militare con l’isola viola il principio di “una sola Cina”». Secondo Pengyu gli Stati Uniti «devono smettere di creare fattori che potrebbero portare a tensioni nello Stretto di Taiwan e dovrebbero dar seguito alla dichiarazione del governo Usa di non sostenere l’“indipendenza di Taiwan”» (RaiNews).

  • Il portavoce dell’Ambasciata cinese ha anche affermato che Pechino continuerà ad adottare misure molto determinate per difendere fermamente la sovranità cinese e gli interessi di sicurezza. A Pechino il Dipartimento di Stato statunitense ha risposto che le vendite sono in linea con la politica statunitense di lunga data di fornire armi difensive all’isola in rispetto della “One China” e ha descritto la «rapida fornitura di tali armi come essenziale per la sicurezza di Taiwan» (Cnn). Proprio l’aggettivo “rapida” è motivo di polemica: infatti i miliardi per approvvigionare con le armi promesse, approvate dal Congresso, prodotte, stanziate… poi vedono una data di consegna procrastinata nel tempo, come nel caso del contratto firmato il 24 agosto per la dotazione di 4 droni, la cui operatività nello Stretto di Taiwan è prevista per il… 2029 (“FocusTaiwan”, 30 agosto).E allora viene da pensare che si tratti di una messinscena – per ora – che intende contenere da parte americana una Cina che sarebbe più ostile se indebolita politicamente ed economicamente e se Xi dovesse perdere la leadership al congresso di ottobre che sta preparando da un paio di anni, ma che sarebbe altrettanto aggressiva se molto ringalluzzita da strumenti di guerra incontrastabili, mancanza di reazioni o di provocazioni mal recitate (stile Pelosi) e potendo contare su alleanze importanti

  • Droni e sistemi per difendersi da incursioni Uav

  • Un altro tassello collocato dall’industria delle armi a Taiwan è la corsa ai sistemi di difesa dai droni più sofisticati (persino ipersonici).
  • Il governo di Taipei ha deciso di incrementare la propria spesa militare del 14 per cento, arrivando al 2,4 per cento del Pil (“Scmp”). Taiwan infatti è indotta a stanziare anche un proprio budget nel settore della Difesa, parallelo a quello imposto dalle forniture Usa: giunge infatti notizia di un sistema di produzione propria. Secondo “Scmp” Taiwan ha in programma di dispiegare un sistema di difesa contro i droni da 143 milioni di dollari sulle sue 45 isole offshore per evitare le frequenti incursioni da parte dei droni della Cina continentale, una mossa sottolineata dall’abbattimento di un drone non identificato il 1° settembre; finora si tratta di droni non militari, «senza logo identificativo», come riporta Lamperti su “il manifesto”, spiegando la situazione sulle isole più vicine al Fujian (arcipelago di Kinmen, a una ventina di chilometri dalla costa cinese), dove sempre più spesso volano questi disarmati droni ambigui, perché ufficialmente non si sa a chi appartengano: « Un’ambiguità sulla quale l’altra sponda dello Stretto sembra voglia giocare, in accordo con la strategia d’estensione dell’area grigia. Obiettivo: degradare i sistemi di difesa e disturbarne il contingente militare, esercitando pressione psicologica sull’opinione pubblica. E, ovviamente, presentare un rebus sui protocolli di risposta. Un conto cosa sarebbe abbattere un drone civile e un’altra abbatterne uno militare».
    Il sistema di difesa con veicoli aerei senza pilota controllati a distanza (Uav) è stato sviluppato dal National Chung-Shan Institute of Science and Technology (Ncsist), il principale ente di ricerca e sviluppo militare dell’isola, i cui altri prodotti includono i missili di difesa aerea Sky Bow e i missili antinave Hsiung Feng. Il radar di ricerca del drone è in grado di rilevare un Uav in avvicinamento identificandolo grazie a una telecamera e al rilevamento delle frequenze. Quando è chiaro che l’intruso è un drone nemico, un sistema di disturbo elettronico ne interrompe i comandi prima che un drone di recupero Asrd catturi l’invasore con una rete.
MU-1612 Uav taiwanese

I prototipi di Teng Yun, contrassegnati con le sigle MU-1611 e MU-1612, ognuno dei quali misura 8 metri di lunghezza con un’apertura alare di 18 metri, possiedono specifiche ufficiali che indicano come i veicoli aerei hanno un raggio d’azione superiore a 1000 chilometri, una durata di volo di 24 ore e un tetto massimo di 7620 metri.

  • A maggio il ministero ha firmato un accordo con l’Ncsist per il primo lotto di sistemi di difesa al costo di 657 milioni di dollari; dovrebbero essere installati nel 2023 dando priorità alle postazioni nelle isole offshore per affrontare le “minacce della zona grigia”.
  • Un altro approccio diffuso è quello di utilizzare i droni per contrastare altri droni. Il Coyote di Raytheon ne è un esempio. Quando vola vicino al suo bersaglio, fa esplodere la sua testata per distruggere il bersaglio o lo colpisce per annientarlo senza esplodere.
  • Con l’intensificarsi della propria presenza intorno a Taiwan, il Pla ha aumentato la frequenza dei voli Uav nell’area. In un caso recente, il Ministero della Difesa giapponese ha riferito di aver avvistato un drone da combattimento e ricognizione TB-001 a media altitudine e lungo raggio (Male) al largo della costa orientale di Taiwan.

  • Il TB-001 Twin-Tailed Scorpion ha una velocità massima di oltre 300 km/h, un tetto massimo di 8000 metri, un raggio d’azione di 3000 chilometri e una autonomia di 35 ore.
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Fiera dell’usato, basi e magazzini

Anche questo mese va rubricata una fiera tenutasi dal 14 al 20 agosto ad Armiya, significativa perché, come scrive l’“Atlante delle Guerre”, pur se emblema del degrado del complesso militare-industriale della Federazione russa e disorganizzata come l’esercito russo, avrebbe realizzato ricavi per 7 miliardi e 1500 espositori, riprendendo i numeri di “Kommersant”. Certo che anche il sito ufficiale non riporta immagini, video, articoli, articoli esibiti… la splash page usa immagini del 2021 e per il resto si lancia l’edizione 2023. Una fiera fantasma, da cui però sono trapelate alcune agghiaccianti particolarità nella stringata cronaca di “Diritti Globali”: i numerosi ospiti in arrivo da trentadue paesi sono seguiti da un sofisticato dispositivo di sorveglianza e possono osservare i tremendi progressi raggiunti attraverso il conflitto. La Russia è il secondo produttore di armi del pianeta dietro agli Stati uniti. L’export vale quindici miliardi di dollari all’anno. Dopo il discorso di Putin, Shoigu ha “rassicurato” i presenti sulla possibilità di usare in Ucraina armi nucleari: «Da un punto di vista strategico non è necessario farlo per raggiungere i nostro obiettivi». Infatti la reginetta di questa fiera, in base alle illustrazioni e agli articoli dedicati è un “nuovo” carrarmato ottenuto con un restyling di un blindato di epoca brezneviana: il T-62M, nuovamente modernizzato; “Defense Express” ipotizza un impiego adatto nei contesti siriani e libici: proxy war d’altri tempi.

A latere di Armiya si registrano gli interessi per il gas del Mediterraneo orientale con gli schieramenti contrapposti, le cui ripercussioni si avvertono in ambito militare con moltiplicazione di fronti: cioè da un lato la nuova fornitura di S-400 schierati dalla Turchia “a difesa” del fronte mediterraneo del gas – contesto in cui è esplicitamente alleata di Mosca (pur confinante con la Mesopotamia che vede i due alleati di Astana in reciproca tensione); i russi in cambio dell’operazione di intelligence attraverso gli S-400 (che i turchi schierano contro i greci, alleati nella Nato) pagano con Rosatom la nuova centrale atomica di Akkuyu, versando altri 15 miliardi che, insieme ai 20 promessi dai sauditi nell’inedita convergenza di interessi con Mbs, faranno vincere le elezioni a Erdogan, per continuare a fare affari, anche e soprattutto nel traffico di armi e infrastrutture. “Formiche” dà conto di questa fornitura russa per il secondo esercito della Nato, mettendola in relazione appunto con la corsa al riarmo greco.
Infatti dall’altro lato si assiste alla conseguente ulteriore spirale di armamenti greci con l’aereo spia EMB-145H AEW&C, ma anche e soprattutto con pressioni per il potenziamento di basi a Creta (Souda bay verrà raddoppiata per incrementare il numero di sommergibili) e a Cipro (Akrotiri); a questo proposito gli Usa hanno persino tolto l’embargo sulle armi per Nicosia, imposto nel 1987 per facilitare l’unificazione dell’isola, innescando così la corsa agli armamenti tra le due amministrazioni dell’isola; come se si perseguisse l’accensione di ogni minimo focolaio di guerra che contrappone gli schieramenti.
Questo ci ha spinto a dedicare l’attenzione dell’editoriale di agosto alla profusione e proliferazione di basi, una vera rincorsa in questo periodo in ogni quadrante, in preparazione di probabili interventi repentini in zone di improvvisa crisi. Il “New York Times” dà notizia sempre nell’Ellade di un ripristino dell’hub finora in sonno ad Alexandroupoli, riattivazione che ha scatenato le reazioni di Turchia e Russia.
Ma anche nel braccio di ferro Indopacifico spicca l’annuncio formulato su “Nikkei” dall’ambasciatore filippino di una nuova serie di basi americane nell’arcipelago di Manila, perché è evidente che si inserisce nelle tensioni relative alle esercitazioni del Pla attorno a Taiwan; da quando le forze armate statunitensi cercano di distribuire le forze lungo la cosiddetta prima catena di isole che si estende dal Giappone al Sudest asiatico, l’importanza geopolitica delle Filippine va crescendo e la prospettiva è che entro i prossimi 3 anni gli Usa possano contare su 8 nuove basi nelle Filippine, secondo “Stars and Stripes”.
Ma con la guerra scatenata in Europa orientale le basi assumono il ruolo di deposito e smistamento armi, oltre che di posizionamento al fronte come per i bombardieri Eurofighter italiani dislocati il 29 luglio a Malbork in Polonia a meno di 130 chilometri da Kaliningrad (come informa Antonio Mazzeo). E allora vanno ricordati i campi di smistamento di armi stoccate in Germania, Polonia e in Ucraina stessa, dove il 60 per cento delle forniture non sono arrivate in prima linea perché bloccate – o più spesso – scomparse, come denuncia “Armi e Tiro”. Questo perché la Germania intende mantenere il controllo diretto su sufficienti materiali bellici e non esacerbare ancora di più i rapporti con la Russia.
Ma è soprattutto il territorio polacco che si va trasformando in un magazzino di armi provenienti da tutti i 40 paesi che partecipano al rifornimento antirusso: il 3 agosto i russi hanno distrutto un magazzino di armi destinate all’Ucraina, stoccati a Radejiv nella regione di Lviv; la cellula nevralgica della distribuzione delle armi è il Centro di coordinamento internazionale dei donatori descritta dal “NYT”. Le spedizioni iniziali di armi, tra cui missili antiaerei Stinger e anticarro Javelin, sono arrivate in Polonia e sono state trasportate rapidamente oltre il confine. Ma man mano che vengono donate armi più grandi, pesanti e complesse, i pianificatori militari inviano le spedizioni anche via mare, ferrovia e camion.
A fine luglio il centro aveva spostato più di 78.000 tonnellate di armi, munizioni e attrezzature per un valore di oltre 10 miliardi di dollari, secondo i funzionari militari statunitensi e occidentali. Il centro organizza anche l’addestramento dei soldati ucraini all’uso e alla manutenzione delle armi, come l’HIMARS, che richiede almeno due settimane di addestramento.
Intanto Kiyv ha ricevuto 230 tank da Polonia e Repubblica ceca, provenienti dal Patto di Varsavia, dunque non necessitano di addestramento per ufficiali ucraini, e questo chiude il cerchio con la fiera di Armiya, che dimostra come quella in corso sia una guerra fatta con armi obsolete. Infatti i 250 carri armati Abrams in gran spolvero nel loro ultimissimo modello rimarranno all’esercito di Varsavia in cambio di 1,2 miliardi di dollari versati alla General Dynamics Land Systems (“DefenseNews”); ma sono in consegna per il 2025 – per la prossima guerra, più moderna dopo lo svuotamento degli arsenali.


General Dynamics M1A2 SEPv3 Abrams tank

Siti consultati:

  • Armiya: sito ufficiale della fiera russa delle armi
  • Atlante delle Guerre: Fiera delle armi russe: impantanata nel web (17 agosto)
  • Diritti Globali”: A Mosca la fiera delle armi, Putin fa affari: «Così libero il Donbass» (17 agosto)
  • Defense Express”: Armiya-2022: russia’s T-62M Tank Latest Modernization (18 agosto)
  • Breaking Defense”: A second S-400 deal with Turkey? Not so fast, insiders say (12 settembre)
  • Formiche”: Le conseguenze (serie) dell’arrivo di altri S-400 russi alla Turchia  (17 agosto)
  • Formiche”: Cipro, perché la decisione Usa sull’embargo fa indignare la Turchia (17 settembre)
  • New York Times”: Sleepy Greek Port Becomes U.S. Arms Hub, as Ukraine War Reshapes Region (18 agosto)
  • Nikkei”: Philippines may allow U.S. military access during Taiwan crisis (5 settembre)
  • Taiwan News”: Philippines could allow US troops access to military bases during Taiwan conflict (5 settembre)
  • Armi e Tiro”: Usa: il 70 per cento delle armi non ha raggiunto l’Ucraina? (14 agosto)
  • New York Times”: Special Military Cell Flows Weapons and Equipment Into Ukraine (27 luglio)
  • DefenseNews”: Abrams-maker GDLS announces $1.1 billion tank deal for Poland (25 agosto)

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100 %

Avanzamento



La Top Ten dei contratti del Dipartimento americano della Difesa in agosto

La rivista “ClearanceJobs” ogni mese elenca in ordine per importo i contratti di fornitura per il Dipartimento della Difesa americano con la distinzione del corpo dell’esercito e specifica dell’azienda produttrice che incassa cifre da capogiro; è una lettura interessante che vi sintetizziamo per avere un ordine di idee dell’enorme giro di affari, di produzione legata al comparto difensivo e di soggetti coinvolti (Agenzie, enti, aziende e poi logistica e magazzini, stoccaggio… ma soprattutto Università e laboratori di ricerca).

  1. US Navy il 12 agosto ha stipulato un contratto del valore di 7.630.940.571 con Lockhheed Martin Corp. di Fort Worth, Texas;
    l’accordo riguarda l’acquisto di 129 aerei del Lotto 15, come segue: 49 velivoli F-35A per l’Aeronautica; tre velivoli F-35B e 10 velivoli F-35C per il Corpo dei Marines; 15 velivoli F-35C per la Marina; 32 velivoli F-35A e quattro velivoli F-35B per i partecipanti non appartenenti al Dipartimento della Difesa (DOD) degli Stati Uniti; e sedici velivoli F-35A per i clienti delle Vendite militari estere, oltre a 69 kit di hardware tecnico.
  2. US Air Force il 30 agosto ha stipulato un contratto del valore di 5.712.635.494 con CACI NSS LLC, Chantilly, Virginia;
    l’Enterprise Information Technology fornisce servizi IT aziendali che dovranno essere conclusi entro il 2032.
  3. Missile Defense Agency il 30 agosto ha stipulato un contratto del valore di 5,021.000.000 con Boeing Co., Huntsville, Alabama;
    per l’integrazione, il collaudo e la preparazione del sistema (SITR), dell’ingegneria complessiva dell’elemento GMD (Ground-Based Midcourse Defense) e dell’integrazione del GMD con il sistema di difesa missilistica.
  4. US Navy il 22 agosto ha stipulato un contratto del valore di 4.396.000.000 con Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory, Laurel, Maryland;
    per la ricerca, lo sviluppo, l’ingegneria, il collaudo e la valutazione per i programmi del Dipartimento della Difesa nell’ambito delle sue aree di competenza principali, tra cui il collaudo e la valutazione dei sistemi strategici; sicurezza e sopravvivenza dei sottomarini; scienza e ingegneria spaziale; sistemi di combattimento e missili guidati; difesa aerea e missilistica e proiezione di potenza; tecnologia dell’informazione, simulazione, modellazione e analisi delle operazioni; ricerca, sviluppo, test e valutazione relativi alle missioni. Questo contratto include opzioni che, se esercitate, porterebbero il valore cumulativo del contratto a 10.600.000.000 di dollari. Il lavoro sarà svolto a Laurel, nel Maryland, e dovrebbe essere completato entro agosto 2027.
  5. US Special Operation Command il 1° agosto ha stipulato un contratto del valore di 3.000.000.000 con L3 Communications Integrated Systems, Greenville, Texas;
    la consociata Armed Overwatch fornirà alle Forze per le Operazioni Speciali sistemi di velivoli che soddisfino i requisiti di supporto aereo ravvicinato, attacco di precisione e intelligence armata, sorveglianza e ricognizione, per l’uso in operazioni di guerra irregolare a sostegno della Strategia di Difesa Nazionale
  6. US Air Force il 31 agosto ha stipulato un contratto del valore di 2.214.952.163 con Boeing Co., Defense, Space & Security, Seattle, Washington;
    per gli abbonamenti e licenze relativi agli aerei KC-46A Air Force Production Lot 8,. Il contratto prevede l’esercizio di un’opzione per un’ulteriore quantità di 15 aerei KC-46A. Il lavoro sarà svolto a Seattle, Washington, e si prevede che sarà completato entro il 30 novembre 2025
  7. US Transportation Command il 22 agosto ha stipulato un contratto del valore di 1.630.630.000 con Federal Express Team, Memphis, Tennessee;
    per la continuazione dei servizi di trasporto aereo charter internazionali a lungo e corto raggio per il Dipartimento della Difesa. Il periodo di opzione va dal 1° ottobre 2022 al 30 settembre 2024.
  8. La Disa il 2 agosto ha stipulato un contratto del valore di 1.500.000.000 con Lumen Technologies Government Solutions Inc., Herndon, Virginia;
    per fornire servizi e capacità di trasmissione end-to-end essenziali per la Defense Information System Network (DISN) Indo-Pacific, l’infrastruttura di telecomunicazioni consolidata a livello aziendale del Dipartimento della Difesa per l’area di responsabilità del Comando indopacifico degli Stati Uniti, che include l’Alaska. Il contratto prevede un periodo di esecuzione di 10 anni.
  9. US Transportation Command il 2 agosto ha stipulato un contratto del valore di 1.447.524.000 con Patriot Team, Tulsa, Oklahoma;
    per la continuazione dei servizi di trasporto aereo charter internazionali a lungo e corto raggio per il Dipartimento della Difesa. Il periodo di opzione va dal 1° ottobre 2022 al 30 settembre 2024. Il lavoro sarà svolto a livello globale.
  10. US Navy il 12 agosto ha stipulato un contratto del valore di 1.013.571.576 con Rolls-Royce Corp., Indianapolis, Indiana;
    Il contratto prevede la manutenzione intermedia a livello di deposito e il relativo supporto logistico per circa 210 motori T-45 F405-RR-401 Adour in servizio a supporto della Marina.

Agosto

31 agosto

  • Il risveglio del più militarista degli imperi

  • Budget e ipersonici

  • Oltre alla cifra record richiesta per il budget della Difesa di Taiwan, nell’Indopacifico l’altro budget di spesa militare con incrementi stellari è quello giapponese: «Il Giappone rafforzerà drasticamente le proprie capacità di difesa grazie a un forte aumento delle spese destinate al settore per fronteggiare il contesto di sicurezza globale deteriorato a partire dall’invasione russa dell’Ucraina», ha spiegato il premier Fumio Kishida. Si tratta dell’undicesimo aumento di seguito delle spese militari nipponiche richiesto dal partito liberal democratico al potere dettagliando un centinaio di voci di spesa, secondo “The Diplomat”, che aggiunge alla cifra diffusa durante il G7 dal primo ministro altri 10,3 miliardi richiesti dall’Atla, l’agenzia ministeriale per l’acquisizione tecnologica, per procedere nel suo programma di caccia di prossima generazione in collaborazione con il Regno Unito. Questo progetto non prevede la rinuncia all’acquisto di altri 6 Lockheed Martin F-35A Lightning II, su cui montare i missili norvegesi Joint Strike della Kongsberg (un’integrazione che proviene dal contratto stipulato da Kongsberg con Lockheed Martin che ha ricevuto 57,3 milioni per la certificazione, da quanto trapelato su “AreaDifesa” di un anno fa).

    La lista della spesa

    Ma le aggiunte non si fermano qui, perché la marina pretende come stanziamento a parte 3,6 miliardi per continuare a trasformare le sue due portaelicotteri di classe Izumo – JS Izumo e JS Kaga – in portaerei in grado di operare con i caccia F-35B Lightning multirole fighter, il cui numero dovrebbe essere incrementato (sempre fuori budget) di 6 apparecchi.

    A questi si aggiungerebbero 6 elicotteri da pattugliamento antisommergibile SH-60L, una variante aggiornata dell’elicottero navale multiruolo SH-60K sviluppato dall’ATLA e dalla società giapponese Mitsubishi Heavy Industries e 6 pattugliatori d’altura (OPV) di nuova generazione da 1920 tonnellate, che prevedono un equipaggio ridotto a un terzo delle vecchie fregate della classe Mogami. Una vera e propria lista della spesa che procede di mezza dozzina in mezza dozzina spizzando tra i banchetti del mercato delle armi, mossi dalla ossessione di difendere le isole agli estremi dell’arcipelago: le Nansei nel profondo sud e le contrastate Senkaku/Diaoyu, rivendicate da Pechino.

  • Anche “Formiche.net” ha ripreso la notizia, focalizzandosi sul fatto che a fronte di una richiesta di bilancio per il prossimo anno che ha raggiunto la cifra record – per l’undicesimo anno consecutivo – di oltre 788 miliardi di euro, per il ministero della Difesa sono stati preventivati più di 40 miliardi di euro. I fondi verrebbero destinati al riarmo e all’implementazione di misure di sicurezza per fronteggiare le minacce crescenti del panorama geopolitico, in particolare sarebbero possibili acquisti di missili terra-nave a lungo raggio, o Ssm, dotati di un raggio di tiro di circa mille chilometri ottimo deterrente verso le minacce esterne. “Stars&Stripes” è più dettagliato nella notizia, sommando al plafond alcuni spiccioli (circa 4 miliardi) che si vanno ad aggiungere al totale: «Tra questi, la produzione massiva di missili terra-nave e di bombe plananti ad alta velocità da utilizzare per la difesa delle isole e la costruzione di nuovi cacciatorpediniere dotati di una migliore capacità di intercettazione dei missili e del sistema di intercettazione missilistica Aegis con una maggiore capacità di abbattere i veicoli plananti ipersonici». Si arriverebbe a 43,2 miliardi, dal calcolo di “Mainichi Shinbun”, secondo il quale in risposta all’aumento delle spese per la difesa e le attività militari cinesi, il ministero avrebbe così elaborato questa dispendiosa strategia per garantire la “superiorità asimmetrica”, ossia impedire l’invasione sfruttando ed esaurendo le debolezze di un nemico temibile; a tale scopo il ministero stanzierà fondi per estendere il raggio d’azione dei missili guidati terra-nave Type-12 della Forza di autodifesa terrestre, mirando a difendersi dalla flotta di navi in affiancamento al sistema Aegis, che ha nel mirino i droni ipersonici.
  • I veicoli ipersonici sono la nuova ossessione occidentale nel Pacifico: “The Diplomat” riportava la richiesta di fondi giapponesi per continuare a condurre ricerche sia sul proiettile planante iperveloce, per la difesa di isole remote, sia sui missili ipersonici, che possono raggiungere velocità ipersoniche, oltre cinque volte la velocità del suono, come quelli cinesi, che tanto hanno impaurito il Giappone.
  • XAC X-20 al plasma, invisibile e ipersonico

  • Gli scienziati cinesi hanno utilizzato una galleria del vento per testare un dispositivo al plasma: una striscia di membrana gialla e luminosa che copre la parte anteriore dell’aereo. Secondo “Scmp” il dispositivo è in grado di stimolare il flusso d’aria e di aumentare il coefficiente di portanza di un aereo di quasi un terzo, impedendogli di stallare. Un bombardiere Stealth utilizza una cellula piatta senza coda per ridurre le possibilità di rilevamento radar. Tuttavia, questa configurazione del corpo alare rende più difficile il controllo del volo, soprattutto a bassa velocità.
  • Ma, riporta “NewsTrackLive.com” la Cina sta sviluppando la tecnologia al plasma proprio per il controllo dell’assetto degli aerei ipersonici e per migliorare l’invisibilità ai radar. Il dispositivo è una sottile striscia di membrana che copre la parte anteriore di un aereo con un’ala volante. La membrana rileva il pericolo in anticipo e ionizza le molecole d’aria con l’elettricità ad alto voltaggio, provocando una pioggia di plasma – o particelle elettricamente cariche – sulle ali quando la velocità del vento che soffia sopra le ali raggiunge un punto. Le docce al plasma possono aumentare il flusso d’aria e il coefficiente di portanza dell’aereo di circa un terzo. Secondo i ricercatori, questo potrebbe evitare uno stallo anche se l’aereo cadesse con il muso inclinato a una velocità insolitamente bassa (108 km/h), come è avvenuto nel 2008 a un B2 Stealth della base di Guam. Gli esperimenti nella galleria del vento del professor Niu Zhongguo paiono soddisfacenti; la Cina compete sugli stessi temi con la ricerca che si svolge nelle gallerie degli Usa, in Europa (secondo fonti di “DefenseNews” riguardante il progetto da 110 milioni European Hypersonic Defence Interceptor – EU HYDEF) e… in Giappone. Ma i loro dispositivi devono essere accesi o spenti manualmente: di qui il bisogno di correre ai ripari con affanno, visto che secondo alcuni esperti militari, lo XAC H-20 – che indiscrezioni (“GlobalTimes”) danno in procinto di essere collaudato – consentirà alla Cina di sfidare il dominio militare degli Stati Uniti in molte aree del mondo, poiché può percorrere lunghe distanze trasportando testate nucleari e missili ipersonici. Gli aerei ipersonici possono viaggiare a cinque volte la velocità del suono; un “mantello plasmatico” sarebbe in grado di migliorare l’invisibilità dei radar e un'”antenna al plasma” di formato più piccolo potrebbe captare segnali anche deboli.
  • Anche dallo Xinjiang fa capolino il pericolo che preoccupa americani e loro alleati del Pacifico: il Comando militare dello Xinjiang dell’esercito popolare ha testato un missile di difesa terra-aria di ultima generazione nell’altopiano della regione, come riferito dall’emittente statale CCTV, mentre gli Stati Uniti e l’India si preparano per le esercitazioni militari congiunte sull’Himalaya in ottobre.
  • Gli osservatori militari sentiti da “Scmp” hanno detto che dalle riprese sembravano essere missili di difesa aerea HQ-17A, parte di un sistema integrato che può stare in un singolo veicolo ed è considerato molto mobile e preciso. Uno di loro ha detto che i test nello Xinjiang erano una dimostrazione di deterrenza nel conto alla rovescia per le esercitazioni India-USA vicino al confine conteso tra India e Cina.
  • Esercitazioni

  • Preludio all’enorme stanziamento di miliardi da parte di Tokyo per le spese militari dei prossimi mesi è stato il primo lancio di un missile da parte dell’esercito americano sul territorio giapponese; la descrizione delle richieste di spesa del governo vedranno voci esclusivamente dedicate all’aeronautica e marina giapponese. Forse non si prevede alcuna possibilità di una possibile invasione da affrontare con truppe di terra, ma comincia a serpeggiare il bisogno di esercitazioni per la difesa di terra.

Infatti “Stars&Stripes” il giorno prima dell’annuncio di Kishida sulla richiesta di budget per la Difesa 2023 ha dato conto di una messinscena molto fotografata dalla stampa specializzata durante esercitazioni insieme all’esercito giapponese a Kumamoto a documentare il primo lancio di Javelin, che richiama potentemente i successi della difesa ucraina. Oltre ai Javelin sparati dalla 11ª Divisione aviotrasportata di Fort Wainwright, la Forza di autodifesa terrestre nipponica ha lanciato quattro dei suoi missili anticarro portatili, i Type 01 LMAT 01, durante le esercitazioni congiunte. Orient Shield è un’operazione speciale che ha preso il via quest’anno quando le tensioni nella regione hanno raggiunto i livelli più alti degli ultimi anni dopo la visita di Nancy Pelosi al parlamento di Taipei.

Le esercitazioni occupano in questo stadio di tensione e di misurazione tra contendenti ogni quadrante, ogni miglio marino e soprattutto i territori di frontiera sono i più ambiti per addestramenti congiunti e prove di invasione realizzate da eserciti che sanciscono o promuovono così alleanze, che nell’ondivago schieramento delle strategie geopolitiche attuali ritagliano i campi contrapposti nel presente prossimo.

Izumo

28 agosto

  • Italian early warning. Gli acquisti esclusivi presso Israel Aerospace Industry

    IAI ha venduto all’esercito italiano due altri CAEW G550 Gulfstream, velivoli ad allerta precoce (eufemismo per aerei spia) che l’Italia possiede in esclusiva all’interno delle forze armate europee, per 550 milioni di dollari. La notizia diffusa da “Haaretz” è sorprendente soprattutto perché è ufficializzata da Israele, mentre era stata mantenuta segreta da mesi; forse perché i due altri aerei-spia della stessa fattura in dotazione all’esercito italiano hanno sorvolato lo spazio romeno in funzione antirussa già l’8 marzo:

  • L’Aeronautica militare italiana schiera due G550 Caew, acquisiti da Israel Aerospace Industries, in linea ed operativi dal 2016/17. L’ordine fa parte di un accordo militare tra Italia e Israele del 2003. Quest’ultimo prevedeva due velivoli G550 Caew e un satellite di osservazione e controllo OPSAT 3000 a fronte della fornitura di 30 velivoli d’addestramento avanzato Leonardo M-346 alla Israeli Air Force (“StartMag”, 18 marzo).

  • G550

    La traccia che il satellite Perseo71 ha rilevato l’8 marzo del volo del CAEW G550 italiano partito dall’aeroporto di Pratica di Mare

  • I Gulfstream hanno poi partecipato ufficialmente all’esercitazione “Mare Aperto” sempre a marzo e poi alla sua seconda edizione di ottobre (come attestato da “Analisi Difesa”).

    Vocazione italiana all’intelligence militare nel Mediterraneo

    Proprio il 7 marzo l’Aeronautica ha ricevuto presso la base aerea di Pratica di Mare il primo degli 8 velivoli Gulfstream G550 versione green Jamms, ordinati dal governo Conte.
    A luglio di quest’anno IAI aveva annunciato di essersi aggiudicata un contratto di oltre 200 milioni di dollari per quella che descriveva come la fornitura di aerei da missione speciale a un paese europeo membro della Nato, senza però rivelare quale fosse, ma un’indagine di Haaretz ha rivelato che si tratta dell’Italia – e che l’aeronautica militare italiana è anche il cliente di un altro enorme accordo annunciato da IAI nel 2020

  • Il velivolo italiano G550 a missione speciale si aggiunge a una squadra di mezzi Nato – scrive “The Aviationist” –, tra cui gli E-8 JSTARS e gli RC-135V/W statunitensi e gli Airseeker ISR (Intelligence Surveillance Reconnaissance) britannici, che monitorano quasi costantemente la situazione a terra e in aria in Ucraina e lungo i confini con Bielorussia e Moldavia. Il 7 marzo 2022, inoltre, un’aerocisterna KC-767A dell’Aeronautica Militare Italiana ha effettuato la prima missione del tipo sull’Europa dell’Est a supporto dei jet da combattimento impegnati nella missione Nato di Air Policing rafforzata.
  • Intorno al 2005 l’aeronautica israeliana ha acquistato cinque velivoli Eitam basati su Gulfstream G550 per fungere da nuova piattaforma IDF per la nuova generazione di sistemi AEW. I nuovi velivoli utilizzano la suite di sensori a doppia banda EL/W-2085 e sono più capaci e meno costosi da utilizzare rispetto ai vecchi Boeing 707 basati su EL/M-2075. IAI ha apportato ampie modifiche alla fusoliera del Gulfstream, come l’aggiunta di radome sporgenti in materiale composito, per alloggiare le antenne radar in modifiche conformi al corpo. Basato presso la base aerea di Nevatim.
    Nel 2007, quattro velivoli simili al G550-EL/W-2085 sono stati acquistati dalla Republic of Singapore Air Force per sostituire i suoi E-2C Hawkeyes aggiornati. I nuovi G550 sono entrati in servizio il 13 aprile 2012, l’altro acquirente dell’articolo  di IAI, secondo “Thai Military and Asian Region”.

24 agosto

  • Medio Oriente. L’impiego di determinate armi a sostegno di strategie di accordi

    Una scheda difficile da strutturare sui movimenti di armi in Mena, perché deve raccogliere e far dialogare dati, schede tecniche, strategie e alleanze attorno a Jcpoa, nuove tecnologie di sperimentazione per droni iraniani, embrionali scudi protettivi ebraico-statunitensi… macchine belliche e diplomatiche, collegate tra loro perché in preparazione di rivolgimenti; attive – e anche un po’ a “fine vita” – invece le armi occidentali inviate in Ucraina e ritrovate in Palestina, più piccole e adatte per i conflitti a bassa intensità nella continuità tradizionale della proxy war locale. E sempre tra quelle sperimentati vanno annoverati i sistemi in uso nuovamente in Siria, dove va in scena una nuova tensione fatta di classici mortai e jet.

    Il campo siro-libanese

    E proprio da un paio di fronti mesopotamici traiamo alcuni spunti per mostrare come il conflitto in corso richieda quel tipo di armi in uso – per una volta non ordinato, o messo a bilancio in previsione di future battaglie.

  • Forse è utile cominciare inquadrando l’inspiegabile scontro armato tra Usa/Iran in Siria, se non collocato nella – appunto – più ampia trattativa che tenta di sottrarre Tehran all’abbraccio di Astana: gli accordi Jcpoa furono gestiti da Biden già da vicepresidente e ora silenziosamente, attraverso una raffinata diplomazia – che rassicura Israele con i miliardi per IronBeam –, concede e consente ai turbanti di spacciare per successo un accordo win-win. Forse ci sono le condizioni perché le parti si accordino sulla cancellazione di sanzioni all’Iran se disponibile a consentire le ispezioni Aiea.
    Questo avviene confrontandosi con prove di forza prima dei tavoli di trattativa in tutti quei panorami esterni al territorio iraniano ma controllati da Tehran. In particolare quella Siria su cui preme a Nord Erdoğan e a Sud si registrano bombardamenti di Tel Aviv («Il generale iraniano Abul-Fadhel ‘Yejeilan è stato ucciso all’alba del 22 agosto da bombardamenti israeliani») in risposta agli attacchi di droni delle milizie sciite su piattaforme di gas israeliane di Karish, , in una area di 860 chilometri quadrati del Mediterraneo disputata tra Israele e Libano: Omer Dostri, stratega militare del Jerusalem Post valuta le dotazioni di Hezbollah in 45.000 razzi a corto raggio che possono percorrere distanze fino a 40 km, escluse le bombe da mortaio, oltre a circa 80.000 razzi a medio e lungo raggio, decine dei quali sono precisi e circa 1500 sono i razzi lanciati ogni giorno. Quali droni sta adottando hezbollah verso le piattaforme israeliane? Il più efficace è Ayub, basato sull’iraniano Shahed 129, un modello “ispirato” al modello israeliano “Hermes 450” caduto a Beirut durante la Seconda guerra del Libano nell’estate del 2006; poi il Mirsad 1, basato sul Mohajer 2 iraniano, tranne che per alcune differenze esterne; ma soprattutto il Ma’arab, sul modello del Yasser iraniano. Inoltre Hezbollah può contare su droni di fabbricazione cinese
  • Israele contrappone sensori speciali per proteggere da azioni ostili non meglio definiti da Idf, probabilmente alternativi e meno costosi dei più sofisticati sistemi dell’IronDome e IronBeam: infatti già il 7 marzo 2022 riportando le reazioni per l’incursione dimostrativa di 3 droni sciiti proprio verso le piattaforme di Karish si poteva leggere su “Ynetnews”:
  • ««Con sede in Israele, Skylock Systems è specializzata nella progettazione e produzione di tecnologie per il rilevamento, la verifica e la neutralizzazione di droni non autorizzati. La tecnologia dell’azienda è stata impiegata in 31 paesi». Secondo Itzik Huber (Ceo della Skylock), «Israele deve adattare i sistemi di difesa missilistica esistenti per contrastare efficacemente i droni, anziché affidarsi ai costosi intercettori Iron Dome. Poiché questi piccoli velivoli sono diventati così facilmente disponibili, il problema diventerà sempre più pressante con il passare del tempo»

    • I sistemi speciali orientati ai droni sono dotati di sensori ottici in grado di identificare il tipo di veicolo aereo senza pilota in volo, il tipo di carico utile trasportato e altro ancora.

    «I droni richiedono attrezzature speciali e soluzioni speciali perché sono piccoli e i normali sistemi radar non li vedono; non sono un classico bersaglio aereo. Si possono disturbare le comunicazioni; si può sparare a un drone attivo per attaccare l’altro drone».

    Ma ci son anche altri leader del settore della rilevazione di incursioni dei droni. Per esempio Lior Segal, Ceo di ThirdEye Systems, ha affermato che un sistema di difesa laser come quello che l’Idf sta attualmente sviluppando potrebbe essere un buon modo per difendersi da un piccolo drone, ma ha notato che la tecnologia è ancora lontana da applicazioni pratiche. Per questo motivo, ritiene che l’Idf debba ricorrere a metodi antiaerei più tradizionali. Il mercato dei radar per il rilevamento dei droni sarà in costante espansione spiega “Jeunesexpress”, pubblicando un rapporto sul periodo 2022-2028.


  • Scontri che non inficiano la tendenza a ridimensionare le tensioni nell’area, che farebbero solo il gioco di Erdoğan?
    Il traffico di armi vede addirittura, come riporta Matrioska di Yurii Colombo, la cooperazione tra Mossad e Cremlino dove i servizi israeliani confermano la consegna di armi di provenienza occidentale da Kyiv a Gaza e la distruzione di 22 tonnellate di armi da parte dell’Idf; ma anche in questo caso è evidente che il traffico nell’area è quello di armi leggere, munizioni e giubbotti antiproiettile, che viaggiano in parallelo con i traffici di droga. Tanto che le consegne sarebbero passate attraverso il territorio giordano e le armi sarebbero arrivate dalla Romania; il presidente israeliano e russo hanno discusso le possibili opzioni di cooperazione per eliminare il contrabbando di droga e armi dall’Ucraina verso il Medio Oriente e il Sudest asiatico e hanno deciso di rafforzare la cooperazione tra i servizi speciali e l’intelligence militare

  • La Russia non ha poi mancato di rimarcare la sua presenza in Siria, schierandosi contro le provocazioni israelo-americane nel Sud controllato da hezbollah. Infatti anche gli Usa hanno “risposto” ad attacchi, come scrive “Anbamed”; la difficoltà a comporre un quadro attraverso la lente dello studio dei movimenti di armi proviene dal bisogno delle parti in campo di mostrare sistemi di difesa per cui Biden ha intrapreso il viaggio del 14 luglio a Tel Aviv
  • La potenza di fuoco israeliana
  • Questi muscoli van mostrati in schermaglie, che sono di preparazione per arrivare agli accordi da posizioni di forza; in quest’ottica vanno inseriti gli scontri tra Usa e Hezbollah nel sud della Siria e in questo caso gli ordigni usati sono diversi dagli Ayub che nella stessa area vedono contrapposti israeliani e Hezbollah. Gli americani hanno sfoderato elicotteri Apache, cannoniere volanti AC-130 e obici M777 – armi non propriamente tecnologicamente avanzate, ma utili per quella guerriglia di provocazione innescata da americani e milizie a metà agosto, per innescare la reazione e quindi alzare il costo delle trattative e evidenziare schieramenti.

«Gli Stati Uniti hanno iniziato a colpire il 24 agosto postazioni di milizie nella provincia di Deir Azzour, al confine con l’Iraq: una rappresaglia dopo l’attacco con razzi subito dalla base Usa. In risposta le milizie sciite hanno colpito con due razzi la base Usa all’interno del campo petrolifero di Coneco, di conseguenza caccia e elicotteri statunitensi hanno preso a sorvolare la zona, colpendo le basi delle milizie sciite per tre giorni consecutivamente, uccidendo 3 miliziani che stavano caricando un lanciarazzi mobile. Fajr-3 di produzione iraniana, la gittata di questo razzo terra-terra è di 45 chilometri e il peso della testata è di 45 chili. La Casa Bianca sostiene di aver colpito milizie filo iraniane, mentre il ministero degli esteri di Teheran ha negato qualsiasi legame con le milizie colpite» (“Anbamed”, 26 agosto 2022).

Negli stessi tre giorni si registrano i bombardamenti quotidiani israeliani nella zona Nordoccidentale della Siria, presso Hama e Tartous

A Sud anche hezbollah contro la base americana di At-Tanf con 900 truppe schierate a difesa dei campi petroliferi orientali del paese, adotta UAV diversi dagli Ayub che li contrappongono a Israele sulla costa: altri droni iraniani – che sono quelli adoperati come disturbo per la presenza americana nell’Oriente siriano.

L’Iran ha una flotta tra le più tecnologicamente avanzate e diversificate al mondo nella categoria MALE (European Council on Foreign Relations fornisce un completo elenco di medium altitude long endurance di produzione iraniana) e sembra in procinto di fornire anche l’esercito russo proprio con quei droni testati in Siria: i  Mohajer-6 e i Shahed-129, basati sul modello americano UAV RQ-170 catturato nel 2011. La base sotterranea sui monti Zagros al confine con l’Iraq è la più dotata di velivoli senza pilota, comprendente anche i nuovi Ababil 2, costruiti da Tehran in Tajikistan. L’Iran si aggiunge con forza alle altre forze regionali che fanno sempre più affidamento sui droni in diversi teatri, tra cui lo Yemen, l’Iraq, la Siria e lo Stretto di Hormuz. In questi ultimi giorni di agosto 2022 l’industria bellica iraniana sta testando le capacità di ricognizione e combattimento di 150 droni di sua produzione dal Golfo Persico a quello di Oman, come riporta “Formiche.net”.

Tutte strategie della tensione per preparare il terreno a quell’accordo per il nucleare iraniano che potrebbe spostare il mondo sciita se non sull’altro lato dello scacchiere, almeno non consegnarlo allo schieramento autocratico sino-russo; pur mantenendo una presenza nella regione a difesa del petrolio (o gas), caratterizzata da questo tipo di armi sul campo?

13 agosto

  • Ucraina. Metodi di intermediazione e sostegno bellico governativo

  • «Impossibile sapere quante e quali armi abbiamo inviato alle forze armate ucraine dopo l’invasione russa del 24 febbraio; è certo però che nel sanguinoso conflitto nell’Europa orientale Mosca e Kiev impiegano sistemi bellici prodotti in Italia»

      • Antonio Mazzeo aveva già ripetutamente rintracciato le innumerevoli vie (secretate dal Copasir presieduto dalla fiamma tricolore di D’Urso) di forniture belliche all’Ucraina da parte italiana – d’altra parte (come da modello turco) il rifornimento di armi non è negato nemmeno all’altro belligerante moscovita. Spesso si perdono in sentieri poco tracciati e rivoli infiniti, triangolazioni e consegne 🚛 🚚 fumose, per evitare tracciamenti e supervisione democratica da parte dei sudditi.
      • Oltre alla spedizione direttamente alle ong di Poroshenko documentate dal tweet, i mezzi corazzati di tipo LAV con cui alimentare la guerra di Zelensky seguono la via della triangolazione con la Norvegia, che inoltra verso Kiyv le abbondanti forniture degli anni scorsi (non tutti gli aiuti agli ucraini sono previsti dall’Agenda Draghi: fin dallo scoppio della guerra in Donbass Renzi si era premunito di rifornire con 90 blindati e corazzati Iveco italiani l’allora belligerante premier ucraino Poroshenko, lo stesso delle ong oggetto dell’elargizione odierna).
      • La via seguita da Poroshenko è molto battuta, quella del fondo su cui piovono soldi raccolti con lo scopo di rifornire le truppe antirusse: su “TopWar” si legge che il suo fondo ha raccolto 50 milioni di grivna e altri 45 si sono materializzati per l’acquisto di 11 veicoli blindati MLS SHIELD di fabbricazione italiana, l’ex presidente si vanta di aver ottenuto
        • «una licenza per l’acquisto di equipaggiamento militare della NATO a spese private. Secondo lui, questa è la prima volta che accade. Risultato: questi nuovissimi veicoli blindati MLS SHIELD di fabbricazione italiana imbottiti con le ultime tecnologie andranno presto in prima linea»

          • Corazzati Iveco made in Russia vs corazzati Iveco made in Italy via Norge

          • Tra i sistemi bellici più noti ci sono i carri Ariete e Centauro, i blindati Puma e Lince, i veicoli da combattimento della fanteria Dardo e diverse versioni di camion pesanti a quattro, sei e otto ruote motrici per il trasporto truppe e il supporto logistico alle unità. Recentemente sono stati prodotti camion Trakker dotati di “protezione balistica e antimine permanente”, mentre degli Eurocargo viene fornita una versione “militarizzata” a trazione integrale da 15 tonnellate con motore sino a 300 cavalli.
          • I mezzi corazzati LMV come quelli donati dalla Norvegia all’Ucraina sono stati esportati anche ad Albania, Austria, Belgio, Croazia, Repubblica ceca, Libano, Slovacchia, Spagna, Tunisia e Stati Uniti d’America. Dal 2012 ben 358 LMV sono in dotazione dell’esercito della Federazione Russa e alcuni di essi sono stati impiegati in Siria dopo il 2015 e in Ucraina dopo l’invasione del febbraio 2022. Secondo quanto aveva riportato “Analisi Difesa” nel 2014, la fornitura dei corazzati seguiva il contratto siglato nel giugno 2011 tra Iveco Defence Vehicles e Oboronservis, la controllata del ministero della Difesa russo responsabile per gli approvvigionamenti.

        • I fondi di investimento in grande stile

  • Ben altre cifre sono state stanziate in un solo incontro tra la Nato del Pacifico riunita straordinariamente a Copenhagen con i partner dell’Europa settentrionale. Un miliardo e mezzo per l’Ucraina è la cifra che secondo “EuroNews” è stata collocata su un fondo dai 26 paesi occidentali (tra cui Ue, Usa, Canada, Australia, Nuova Zelanda e Giappone) aperto per dare supporto militare all’Ucraina; il ministro della Difesa danese, Morten Bodskov ha poi annunciato. La creazione in Gran Bretagna del fondo International Fund for Ukraine (IFU) con la missione di aumentare la produzione di armi destinate a Kiyv; in quello stesso Regno unito che ha già donato all’Ucraina sistemi di armamento avanzati si è impegnata contestualmente a stanziare altri 300 milioni di euro in armi, tra cui sistemi missilistici a lancio multiplo e missili M31A1 a guida di precisione che possono colpire bersagli distanti fino a 80 km.E poi si stanno ammassando specialisti per addestrare truppe di questa che è sempre più evidentemente una proxy war come tante altre disseminate nel mondo. La produzione di armi innescherà una spirale “virtuosa” per i paesi che forniranno le nuove produzioni, spartendosi gli investimenti: Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca hanno segnalato la volontà di espandere la produzione di sistemi di artiglieria, munizioni e altre attrezzature.
  • «Da febbraio abbiamo fornito all’Ucraina oltre 600 milioni di dollari in aiuti militari completi, compreso il dispiegamento questa settimana di personale delle forze armate canadesi nel Regno Unito nell’ambito dell’operazione UNIFIER, e 39 veicoli corazzati di supporto al combattimento costruiti dall’industria canadese che inizieranno ad arrivare in Ucraina nelle prossime settimane» (Anita Anand, ministro della Difesa canadese – “Army Technology“)


11 agosto

    • Myanmar. Metodi di intermediazione e aggiramento degli embarghi

        • Justice For Myanmar ha identificato 116 società del Myanmar e di Singapore amministrate da 262 dirigenti e azionisti che hanno fatto da intermediari nella fornitura di armi e attrezzature militari per un valore di molti milioni di dollari all’esercito del Myanmar, anche dopo il colpo di stato del 1° febbraio 2021.Tra gli intermediari risultano 31 società gestite da 77 amministratori e azionisti che intrattengono rapporti commerciali con l’esercito dal tentativo di colpo di stato; a queste si aggiungono 27 società e i loro 51 amministratori e azionisti che hanno intermediato armi ed equipaggiamenti all’esercito del Myanmar dal 2017, anno del genocidio dei Rohingya, prima del colpo di stato. Dal colpo di stato, l’esercito ha effettuato bombardamenti e attacchi aerei indiscriminati, ha ucciso gli abitanti dei villaggi, ha commesso stupri, ha distrutto case e coltivazioni e ha sfollato con la forza circa 866.400 persone.Secondo il Trattato sul commercio delle armi, di cui fanno parte 111 Stati, è vietato trasferire armi sapendo che verrebbero usate per commettere genocidi, crimini contro l’umanità o crimini di guerra. L’Accordo di Wassenaar sul controllo delle esportazioni di armi convenzionali e di beni e tecnologie “dual” (cioè applicabili a duplice uso, civile e militare) mira a prevenirne il trasferimento a paesi sospettati di genocidio. Gli stati aderenti all’Accordo di Wassenaar sono 42, tuttavia tra questi non si annovera Singapore e nemmeno fa parte del Trattato sul commercio delle armi e quindi viene utilizzato come collettore dei prodotti sotto embargo.

          Il sistema di intermediazione

          • Per avere un’idea del sistema diffuso globalmente si può pescare a caso dal report e vedere come funziona il meccanismo di fornitura di elicotteri Mi-17, che coinvolge molti soggetti nel mondo:
            • «Dynasty Group of Companies ha svolto attività commerciali nell’Unione Europea (UE), fornendo aerei e pezzi di ricambio prodotti dall’azienda tedesca Grob all’aeronautica militare di Myanmar. Dynasty International Company Limited, è un’azienda sussidiaria di Dynasty Group e anche un importante fornitore di armi all’esercito del Myanmar, con legami con aziende in Russia, Bielorussia e Germania. Questa ha importato parti per gli elicotteri Mi-17 dopo il colpo di stato, secondo i dati del database commerciale ImportGenius; il direttore del gruppo, il dottor Aung Moe Myint, è il console onorario bielorusso in Myanmar. È molto probabile che la sua unità commerciale registrata a Singapore, Dynasty Excellency Pte Ltd, sia stata utilizzata per facilitare le transazioni di armi verso il Myanmar» (ulteriori dettagli si trovano qui).

              Oppure, per avere un’idea del sistema di intermediazione si può accedere alla documentazione di Justice for Myanmar riguardo al ruolo di Miya Win International, che ha acquistato droni di fabbricazione austriaca Schiebel Camcopter S-100 per l’esercito del Myanmar, in violazione dell’embargo sulle armi imposto dall’UE. E poi l’Asia Golden Phoenix Consultancy ha acquistato un simulatore di volo ATR dall’azienda austriaca Axis Simulation e lo ha registrato presso l’Autorità europea per la sicurezza aerea.


              Particolarmente significativo il caso della Myanmar Chemical & Machinery Company Ltd (MCM), di di proprietà del trafficante di armi Aung Hlaing Oo. Le filiali dell’azienda sono fornitori di armi e materiale correlato alle forze armate del Myanmar e sono anche coinvolte nella produzione di armi e in un progetto di trasferimento tecnico per la produzione di jet addestratori K-8 in Myanmar con l’azienda statale cinese CATIC, apparsi durante le celebrazioni per l’anniversario dell’aeronautica militare della giunta nel dicembre 2021.

          • MCM ha fatto parte di un progetto con il produttore statale ucraino di armi Ukroboronprom e la Direzione delle Industrie della Difesa dell’esercito per la produzione di veicoli corazzati BTR-4, carri armati leggeri MMT-40 e obici semoventi 2SIU. MCM ha fornito parti di ricambio, strumenti e accessori per i carri armati T-72 al Comandante in Capo della Direzione dell’Artiglieria e dei Corpi Armati dell’esercito di Myanmar.MCM ha anche acquistato armi dalla Serbia per l’esercito di Myanmar. Una proposta di MCM del 2019 per l’aeronautica militare di Myanmar descrive dettagliatamente lanciarazzi montati su aerei, razzi, bombe a caduta libera, un lanciatore di bombe multiple da usare “su grandi superfici” e spolette. Una filiale di Singapore della MCM Pacific Pte Ltd ha fornito parti di ricambio per elicotteri Mi-2, Mi-17 e Bell 206 alla Myanmar Air Force.L’azienda ha anche importato parti di ricambio per un motore diesel marino MTU12V 331TC 92, oltre a un’unità di visualizzazione del motore, un sistema di propulsione, un’attrezzatura di salvataggio e una sistemazione di poppa per un valore di milioni di dollari USA per la Marina Militare del Myanmar.MCM Pacific Pte Ltd ha fornito parti di veicoli blindati BTR-3U alla Direzione dell’artiglieria e dei corpi corazzati dell’esercito di Myanmar per un valore di milioni di euro
            • Insomma tutti sono coinvolti nell’ausilio alla repressione della giunta golpista di Naypyidaw

              Justice for Myanmar mette a disposizione una lista degli intermediari di armi verso Tatmadaw aggiornata all’11 agosto 2022, scaricabile qui.

              Il rapporto si basa su documenti trapelati dal dipartimento acquisti del Ministero della Difesa, oltre che su fonti industriali e su altre informazioni disponibili online e lo ha ripreso “The Diplomat”, che sottolinea come l’esercito abbia una lunga esperienza nel resistere all’isolamento internazionale e possa contare su vicini accomodanti, come Cina, India e Thailandia, per non parlare di Singapore, che ha a lungo resistito alle richieste degli attivisti di sequestrare il denaro sporco del Myanmar parcheggiato nel suo sistema bancario.

MI-17

4 agosto

    • Strategie e affari dietro a esibizioni muscolari e bluff a Taiwan

        • Oggi Nancy Pelosi arriva a Seul, da Taipei. Le famose rotte commerciali nel Mar Cinese, motivo essenziale della battaglia di Taiwan nella guerra dell’Indopacifico per l’egemonia commerciale e del controllo dei microchip e dei semiconduttori.
        • La missione che – un po’ superficialmente – secondo “Formiche” avrebbe mostrato il bluff di Xi, la cui “mancata” reazione alla visita dello speaker della Camera statunitense al parlamento della Cina nazionalista a ridosso del Congresso del partito comunista lo porrebbe nell’angolo, prosegue indomita toccando le capitali che contrastano il controllo cinese sull’area. Invece gli analisti dell’“Ispi” temono che se la visita di Pelosi non provocherà uno scontro diretto (e in ogni caso l’embargo della sabbia colpisce proprio l’industria dei microchip per cui Formosa è contesa) potrebbe comunque innescare un’escalation militare, potenzialmente distruttiva (“The Guardian”).
        • Va comunque registrata una ritorsione anche militare non così lasca come si è cercato di raccontare forse troppo precocemente dai media americani: secondo quanto riportato da “The Guardian” il Pla ha lanciato 11 missili DongFeng nelle acque di Taiwan tutt’intorno all’isola da nord-est a sud-ovest, intensificando le “esercitazioni” in un gioco di guerra che fa uso di proiettili e missili “veri” e non a salve, in modo che il blocco dell’isola è totale.

    • Il coinvolgimento coreano

      • Allora diamo uno sguardo agli ammodernamenti degli arsenali della Corea del Sud in funzione anticinese:
    • DefenseNews” riferisce che il 15 luglio il comitato di promozione del Defense Acquisition Program Administration, guidato dal Ministro della Difesa Jong-sup Lee, ha deciso formalmente di acquistare altri 20 F-35A per 3900 miliardi di won (quasi 3 miliardi di dollari) arrivando così a contare su 60 velivoli. La Corea del Sud prevede di acquistarli a cominciare da ora fino al 2028.
    • A questo il “South China Morning News” aggiunge il prototipo di un KF-21 “Boramae” o “Hawk” che avrebbe completato un volo di prova di 30 minuti dalla città meridionale di Sacheon, ma gli osservatori militari ritengono che questo nuovo caccia sia ben lungi dall’essere paragonabile ai caccia avanzati di quinta generazione come il Chengdu J-20 cinese. Tuttavia, se venisse impiegato in massa, il KF-21 potrebbe comunque alterare l’equilibrio di potenza delle forze aeree regionali, oltre ad avere il potenziale per diventare un forte concorrente nel mercato globale, ha affermato un analista di Macao.
        • «Durante il recente incontro trilaterale, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden si è detto “profondamente preoccupato” per i continui test di missili balistici della Corea del Nord e per l’apparente intenzione di condurre un test nucleare. Il presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol ha dichiarato che l’importanza della cooperazione trilaterale è cresciuta di fronte al programma nucleare avanzato della Corea del Nord, mentre il primo ministro giapponese Fumio Kishida ha affermato che le esercitazioni antimissile congiunte sarebbero importanti per scoraggiare le minacce nordcoreane» (“MilitaryTimes”).

          Il coinvolgimento giapponese

        • Infatti il rivale di Seul è Pyongyang, ma è soprattutto il Giappone l’alleato che sembra incaricato di guidare il fronte liberaldemocratico anticinese nel Pacifico e Tokyo sta bruciando le tappe per ammodernare l’esercito, cambiare la Costituzione pacifista e rafforzare la partnershiip con gli europei, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina.
      • Come ha ricordato “DefenseNews”, il Giappone prevede inoltre di acquisire 147 F-35, di cui 42 nella variante F-35B. Certo, come ha sottolineato il “Telegraph”, proseguire con il progetto di un caccia di prossima generazione a guida nazionale rafforzerebbe il settore della difesa del Giappone e ridurrebbe la dipendenza da altri paesi, dando a Tokyo la libertà di azione.

        Ma lavorare insieme potrebbe ridurre i costi

      • L’adesione della giapponese F-X (Mitsubishi) al progetto per il caccia stealth di sesta generazione Tempest, che vede coinvolte Rolls-Royce, il consorzio europeo MBDA e Leonardo, è, secondo “Formiche”, un tassello nel puzzle che internazionalizza il programma del caccia di sesta generazione che così permette agli europei di accedere a un mercato, quello giapponese, in piena crescita per l’aumento delle spese militari voluto da Abe Shinzo. La spinta a combinare i due programmi sarebbe guidata da Mitsubishi Heavy Industries, responsabile dell’F-X, e la britannica BAE Systems. Anche la Svezia e il produttore di caccia Gripen Saab AB rimangono coinvolti nel programma Tempest, in cui Londra ha già stanziato un budget di 2 miliardi di sterline.
        L’autorevolezza del progetto emerge anche dalla presentazione effettuata alla apertura – inaugurata da Boris Johnson in persona – del Farnborough International Airshow, come descritto da “Startmag”: «Si tratterà di un velivolo supersonico pilotato che testerà una serie di nuove tecnologie, tra cui l’integrazione di caratteristiche compatibili con lo stealth», ha aggiunto Bae Sistems durante la fiera. L’elemento comune tra UK, Giappone e Italia è l’uso degli F-35, in dotazione a tutt’e tre gli eserciti.

        «Sempre durante la prima giornata della fiera di Farnborough, Leonardo UK e Mitsubishi Electric hanno annunciato di aver raggiunto un accordo sul concept per il dimostratore di tecnologia radar Jaguar, presentato per la prima volta a febbraio scorso. Come sottolinea la nota del gruppo guidato da Alessandro Profumo: “Jaguar rappresenta il primo grande elemento di un programma radar internazionale che soddisfa gli ambiziosi requisiti espressi da Giappone e Regno Unito nell’ambito dei programmi F-X/Fcas”».




3 agosto

    • I bombardamenti sono dovunque terrorismo di stato

        • Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov è arrivato a Naypyidaw per una visita in cui ha affrontato con il suo omologo Wunna Maung Lwin temi relativi a sicurezza e scambi economici. La nota della Tass aggiunge che successivamente sarebbe ancora andato in Cambogia per partecipare al vertice Russia-Asean ed era reduce da un lungo tour volto a intessere una fitta rete di legami in funzione antioccidentale

      • Riportando la medesima notizia Associated Press sottolinea come la Russia sia il partner principale della giunta militare golpista e che nonostante l’embargo imposto dopo il golpe i rapporti tra i due governi non siano mutati.
        • «Abbiamo una base molto solida per sviluppare la cooperazione in un’ampia gamma di settori. Apprezziamo la natura tradizionalmente amichevole del nostro partenariato, che non è influenzato da alcun processo opportunistico», ha detto Lavrov (Associated Press).

      • Gli esperti delle Nazioni Unite hanno descritto il paese infitto in una guerra civile. E proprio 3 giorni prima dell’arrivo di Lavrov in Myanmar al-Jazeera aveva accusato Tatmadaw, l’esercito birmano, di usare gli Yak 130 di fabbricazione russa contro la popolazione civile, come documentato da un collettivo che monitora gli abusi in Myanmar:
      • «Myanmar Witness ha verificato il ripetuto impiego dello Yak-130 – un sofisticato jet da addestramento biposto di fabbricazione russa con una documentata capacità di attacco al suolo – in Myanmar. Durante questa indagine, rapporti credibili e la geolocalizzazione hanno rivelato l’uso dello Yak-130 all’interno di aree civili popolate».

        Un video condiviso su Facebook di Myanmar Witness il mese scorso ha mostrato uno Yak-130 eseguire due passaggi e lanciare diverse salve di razzi non guidati verso il suolo; un altro video ha mostrato uno Yak-130 eseguire cinque passaggi e sparare 18 salve di razzi non guidati. Myanmar Witness ha geolocalizzato i due video a 200 metri dal confine tra Thailandia e Myanmar, a sud di Myawaddy, nel Karen, dove i gruppi armati etnici da tempo combattono per l’autonomia e forniscono addestramento e sostegno alle milizie civili costituite per contrastare il colpo di stato del febbraio 2021.

Gli Yak 130 sono il risultato di una collaborazione tra Yakovlev e Aermacchi per la realizzazione di un addestratore avanzato, che è stato inaugurato nel 2009. In realtà è spesso usato come jet d’attacco leggero: quella forma light adatta a intimorire popolazioni riottose. Il velivolo è in dotazione degli eserciti di Russia, Algeria, Bangladesh, Bielorussia, Laos, Libia, Siria, Vietnam e… ovviamente Myanmar.

Yak-130

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]]> La guerra viene con le armi lo spaccio a luglio https://ogzero.org/studium/la-guerra-viene-con-le-armi-lo-spaccio-a-luglio/ Thu, 11 Aug 2022 00:11:56 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=8546 L'articolo La guerra viene con le armi lo spaccio a luglio proviene da OGzero.

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Le aspettative per il futuro commisurate ai profitti per l’aumento della domanda

Il sito americano “Defense News” ha pubblicato la sua annuale classifica delle prime cento industrie al mondo della Difesa. Grazie ai suoi risultati positivi, Leonardo sale al 12esimo posto complessivo, diventando la prima azienda in Unione europea, un bel primato senz’altro. Ma le vere aspettative sono per il futuro, quando si potranno misurare gli impatti dell’aumento della domanda a seguito dell’invasione dell’Ucraina. Una precisazione questa contenuta nell’occhiello di “Formiche” che non ha bisogno di attendere i profitti che discendono dal moltiplicarsi degli ordini di ordigni “grazie” alla guerra per risultare agghiacciante.

Ma oltre alla classifica delle industrie sono importanti anche i dati relativi alla consistenza degli affari dell’industria delle armi a livello nazionale e un dato altrettanto interessante proviene dalla performance dell’export dell’industria delel armi turca: nei primi sei mesi Ankara avrebbe incassato più di 2 miliardi di dollari. E dalle schede che seguono è facile far risalire alla filiera dei droni, in cui Bayraktar è leader dopo i successi in Ucraina.

Un altro aspetto che balza agli occhi è la presenza nelle prime 5 posizioni di aziende statunitensi e nelle posizioni di rincalzo tra le prime 20 industrie belliche per guadagni – distanziate – 5 marchi cinesi: un’altra evidenza di cosa ci attende e chi possono essere i protagonisti dei prossimi incroci di armi. Per ora le prime 5 fabbriche di armi sono anche quelle che organizzano, pervadono, informano di sé, esibiscono, comunicano e indicono conferenze stampa interne alle fiere che promuovono i loro prodotti. Anche questo mese se n’è avuta una dimostrazione in Hampshire, il Farnborough Air International Show, che occupa un ampio spazio tra le schede che riprendono notizie su come la guerra si è preparata con le armi di luglio.


Ad ampio raggio è l’intervento del 21 luglio su Radio Blackout di Antonio Mazzeo che proponiamo qui, come inizio di una traccia di quanto lo stesso attento blogger e analista di traffici, strategie, accordi, missioni, fusioni, esposizioni di armi e modelli di sistema militare ci aiuterà a raccogliere nel libro bianco che è l’obiettivo di questo dossier annuale che stiamo allestendo

Ascolta “Il cambio di passo militare: acceleratori e corsa agli armamenti” su Spreaker.

100 %

Avanzamento



La Top Ten delle aziende più attrezzate a vendere morte stilata da “Defense News” con profitti precisi, paragoni annuali, performance, nomi di responsabili, nazioni di riferimento

GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

Luglio

24 luglio

      • Dopo l’inizio dell’operazione speciale il Kazakhstan starebbe riconsiderando le sue relazioni con la Russia secondo il “MoscowTimes”, che riprende un lancio del “WSJ”. Così avrebbe iniziato a cercare alleati – già ad aprile diversi funzionari statunitensi hanno visitato il Kazakistan, come il generale Michael Eric Kurilla; cercando di sfruttare l’aumento del budget per la difesa kazaka di 441 miliardi di tenge (circa 915 milioni di dollari, che si aggiungono a 1,7 miliardi già stanziati) per ammodernare gli strumenti della propria difesa: «Le autorità hanno tratto insegnamento dalla feroce resistenza dell’Ucraina e vedono la necessità di riformare l’esercito per renderlo più mobile e preparato alla “guerra ibrida”. Le ambizioni russe nell’ex spazio sovietico stanno causando crescenti timori», ha dichiarato al “WSJ” un alto funzionario dell’Asia centrale.
      • .

        Ma sono coinvolti nell’affare anche la Cina e… la Turchia.
        E proprio con Ankara sono in corso da maggio contatti per la produzione congiunta di droni Bayraktar in territorio kazako: Tokayev è difatti volato ad Ankara per firmare un accordo per la produzione congiunta di droni Bayraktar in Kazakistan. Questo è uno dei risultati dell’abile campagna promozionale della Bayraktar: “NikkeiAsia” informa che all’inizio di giugno, l’azienda aveva dichiarato che avrebbe inviato gratuitamente un TB2 alla Lituania, dopo essere venuta a conoscenza di uno sforzo di crowdfunding che in 3 giorni aveva raccolto 6,3 milioni di dollari per l’acquisto di un TB2 per l’Ucraina; con grande disappunto della Russia, l’azienda ha venduto per la prima volta il TB2 all’Ucraina nel 2019 e successivamente ha annunciato che lo avrebbe co-prodotto nel paese, poco prima dell’inizio della guerra. Anche in Polonia si sono raccolti quasi 5 milioni di dollari attraverso il crowdfunding avviato da “Zrzutka” per comprare droni da consegnare a Zelensky.
      • Baykar annuncia di aver firmato contratti di esportazione con 22 paesi per il TB2 e con altri quattro per il modello più avanzato Akıncı, che può trasportare un carico utile 10 volte superiore, comprese armi, telecamere e sensori. Il blog internazionale sull’industria della difesa “Oryx” afferma che ci sono 24 destinazioni di esportazione per il TB2, e che 13 sono state identificate attraverso fonti aperte.Per Baykar, l’Ucraina è fondamentale non solo come cliente ma anche come fornitore di componenti chiave per i suoi droni. L’Ucraina fornisce i motori per l’Akıncı e per il suo primo drone con motore a reazione, il Kizilelma (“Mela Rossa”), di cui Baykar sta producendo i prototipi. Precedentemente noto come MIUS, il Kizilelma sarà in grado di volare a velocità supersoniche, avrà capacità stealth e un carico massimo di quasi 1,5 tonnellate, secondo l’azienda. Un’alleanza militare con l’Ucraina, che Ankara ha speso in chiave di credibilità all’interno dello schieramento Nato, pur non rompendo tutti i ponti con Mosca nel quadro degli Accordi di Astana.
    • Anche verso il Kazakhstan si è registrata una donazione di 3 Anka – droni meno famosi, sempre prodotti dalla Bayrak, venduti anche ai tunisini, secondo “al-Monitor” – che ha reso possibili gli accordi tra Tokayev e Erdoğan. Ma forse ancora di più prelude a un’estensione di quel progetto di difesa dell’Asia centrale proposto da Ankara nell’ottobre 2020, chiamato “Turan Army”, che mira a sottrarre alla sfera d’influenza russa del Csto gli “stan”, cooptandoli in un sistema di collaborazione militare sotto egida turca.

Infatti la lettura che ne dà “Rurop” è di allarmata dietrologia – forse non del tutto errata: «Sulla base del Kazakistan stanno costruendo un bastione del futuro Turan. Non si può più parlare nemmeno di occupazione strisciante, senza considerare il fatto che il Kazakistan, essendo membro dell’Unione Eurasiatica, sta cercando di tirare le leve economiche e di ospitare le imprese che hanno lasciato la Russia, diventando una sorta di centro finanziario alternativo della Cee. Secondo le nostre informazioni, il Kazakistan è stato recentemente visitato dall’ex primo ministro britannico Tony Blair, che ha incontrato la leadership della repubblica. I due hanno discusso le misure per sabotare la partecipazione e il lavoro del Kazakistan nella CSTO».

18-22 luglio – Farnborough International Airshow

      • Dal 18 al 22 luglio in Hampshire (UK) si è potuto assistere alla Farnborough International Airshow, un’esposizione di velivoli ufficialmente dual (per uso falsamente civile o da guerra, d’altronde gli affari – soprattutto in questa edizione – sono appannaggio della componente bellica) molto pubblicizzata e partecipata non solo dagli organizzatori, ma da aziende rappresentate, governi e tutta la stampa specializzata. L’offerta ha visto molteplici occasioni di compravendita, di annunci di prototipi particolarmente letali, o di partnership proattive e accordi per ricerche sofisticate.
        In grande spolvero i velivoli senza pilota, che hanno la caratteristica di venire sviluppati in progetti che vedono molte aziende collaborare nel settore tecnologico di maggiore competenza. E gli immarcescibili F-35, di cui è moltiplicata la richiesta
      • Cominciamo dagli UAV
      • «Il futuro dell’aviazione da difesa è autonomo»


        Significa che il futuro dell’aviazione militare è rivolto all’espansione dell’uso dei droni.
        Quello è il ritornello ripetuto dai leader dell’industria aerospaziale in occasione di due fiere aeree gemelle tenutesi in Inghilterra questo mese – e attendono a breve quel futuro. Lo riprende “Defense News
        Il responsabile dell’Aeronautica Militare degli Stati Uniti, Frank Kendall, ha posto come priorità assoluta l’utilizzo sempre più frequente di velivoli autonomi, ovvero di veicoli aerei senza pilota (UAV) che utilizzano tecnologie come l’intelligenza artificiale per gestire le proprie missioni: infatti un esempio emblematico di queste nuove tecnologie è l’utilizzo di velivoli senza pilota per affiancare i caccia nelle missioni di combattimento. L’Air Force sta iniziando a chiamarli aerei da combattimento collaborativi, o CCA, e vuole che accompagnino gli F-35 e la segreta piattaforma di sesta generazione Next Generation Air Dominance, ora in fase di progettazione. Ciò che è preoccupante è il fatto che Kendall ammetta esplicitamente che rispondano all’attesa di combattimenti aerei con la flotta cinese, dove i droni fungerebbero da esche, oppure da ricognitori, o rispondere alle richieste del pilota inserito nello stormo

      • Ma l’immaginazione dei tecnici militari si spinge ancora oltre: Steve Nordlund, vicepresidente e direttore generale di Phantom Works per Boeing Defense, Space and Security, ha detto che la squadra uomo-non-pilota non deve essere necessariamente uno “sciame” di UAV intorno a un caccia pilotato, immagina piuttosto che questi droni autonomi possano essere “slegati” da una piattaforma e possano andare dove sono più necessari.
        Boeing collabora con Lockheed Martin nel Kratos Defense and Security Solutions, che ha presentato i recenti voli di prova di due dei suoi droni autonomi XQ-58A Valkyrie, nell’ambito del programma Skyborg. La Lockheed Martin sta studiando un mix di droni sacrificabili e sistemi autonomi più avanzati da affiancare ai caccia con equipaggio dell’Aeronautica Militare degli Stati Uniti. La versione base di ogni Valkyrie costerebbe tra i 3 e i 5 milioni di dollari, e con l’aggiunta di capacità che gli consentano di svolgere una missione specifica – come capacità di attacco, guerra elettronica o intelligence, sorveglianza e ricognizione – il prezzo potrebbe anche raddoppiare, senza superare i 10 milioni di dollari. La produzione potrebbe arrivare a 500 pezzi annui.
        Anche la Royal Australian Air Force ha un contratto di 115 milioni di dollari che prevede la sua collaborazione con Boeing attraverso il suo programma Loyal Wingman, per fornire tre droni autonomi da far volare accanto ai caccia con equipaggio.

La scheda di “Si vis pacem para bellum” per il XQ-58A Valkyrie: viene lanciato tramite razzi e, al termine della missione, viene recuperato tramite paracadute; è indipendente dalle piste aeroportuali e potrà aggiungere sensori ed armi supplementari rispetto a quelle dei caccia pilotati (F-22 ed F-35 e altri) che è destinato a supportare negli ambienti altamente ostili. La sua configurazione è relativamente convenzionale, con una fusoliera dotata di corte ali a freccia in posizione centrale, e di due impennaggi di coda a “V”. La presa d’aria per il propulsore è situata sulla parte superiore della fusoliera, ed alimenta il motore a reazione posto nella parte posteriore attraverso un tubo a “S”, al fine di impedire che le pale del reattore siano visibili alle onde radar. Due stive ventrali consentono il trasporto del carico offensivo, sotto le ali sono installati anche due punti di attacco esterni. La formazione tipo dovrebbe essere costituita da tre droni XQ-58a posizionati davanti a un cacciabombardiere guida F-15EX o F-35 Block 4. L’XQ-58 può anche volare in modalità semi-autonoma seguendo un rotta impostata, o diventare completamente autonomo.

«Il risultato del programma LCAAT, in base al quale viene creato l’attuale XQ-58A, potrebbe essere l’emergere di una tattica radicalmente nuova per l’uso dell’aviazione di prima linea. I compiti principali delle conquiste della difesa aerea e la distruzione di oggetti terrestri (anche la lotta per la superiorità aerea è possibile) saranno eseguiti da un collegamento misto, tra cui un cacciabombardiere con equipaggio di quarta o quinta generazione e un certo numero di UAV» (“TopWar“).


Ma anche l’Europa investe sui velivoli senza pilota e Airbus (Francia Germania Italia Spagna) presenta l’Eurodrone alla fiera britannica. E il protagonismo delle aziende di punta italiane standiste è imbarazzante per retorica nazionalista amplificata da “Formiche.net”: Eurodrone e celebrazione di dividendi in materia di arnesi di morte.

  • Avio Aero riunisce negli stand istituzionali a Farnborough la Difesa governativa per festeggiare i proventi del motore Catalyst made in Italy, selezionato a marzo da Airbus per equipaggiare il programma del drone europeo e il governo offre un palcoscenico straordinario alle aziende pesanti, a caccia di importanti ritorni industriali e tecnologici.ll Catalyst garantisce una diminuzione dei consumi fino al 20%, una potenza di crociera e una capacità di carico maggiore del 10% e fino a tre ore in più di autonomia in una tipica missione Uav, rispetto ai motori concorrenti nella stessa categoria. Il controllo del motore digitale Fadec (Full authority digital engine control) presente sul Catalyst, inoltre, semplifica l’integrazione tra l’avionica e l’elica, questa realizzata dalla tedesca MT-Propeller. Applicato all’Eurodrone, che è un velivolo a pilotaggio remoto (Uav) di classe Male (Medium altitude long endurance), con capacità versatili e adattabili. Le sue caratteristiche lo rendono la piattaforma perfetta per missioni cosiddette Istar (Intelligence, Surveillance, Target Acquisition, and Reconnaissance): cioè di Intelligence, sorveglianza, acquisizione obbiettivi e ricognizione e per operazioni di sicurezza nazionale. I siti coinvolti nel programma sono: Avio Aero in Italia e Polonia, GE Aviation Turboprop in Repubblica Ceca, GE Aviation Advanced Technology di Monaco di Baviera e il GE Engineering Design Center di Varsavia; come si diceva per i prodotti Aukus di Boeing-Lockheed, a dimostrazione della indispensabile collaborazione tra molte aziende ciascuna per le sue competenze tecnologiche, perché evidentemente bisogna fare in fretta e non solo per la complessità dei sistemi, visto che fino a momenti non di guerra si predilige mantenere segreto o comunque interna la tecnologia applicata evitando di dipendere da altri stati… significa che è elevata la domanda e pure i tempi di applicazione sono immediati.
  • L’attivissima industria italiana appare nel mercato dei velivoli senza pilota anche nella proposta americana: infatti Leonardo DRS era presente fresca di acquisizione della RADA israeliana: il 21 giugno la società a capo del complesso miltare-industriale nazionale ha comunicato che la controllata statunitense Leonardo DRS e l’azienda israeliana RADA Electronic Industries Ltd. (leader nella fornitura di radar tattici militari e software avanzati) hanno firmato un accordo vincolante di fusione, come ci informa Antonio Mazzeo, specificando anche produzione e maestranze del nuovo partner della filiale statunitense dell’azienda italiana di difesa Leonardo SpA.
      • «Secondo il presidente e amministratore delegato di Leonardo DRS, William Lynn, l’azienda sta lavorando sulle modalità di progresso delle capacità come l’integrazione dei sensori e l’uso dell’energia diretta e della guerra elettronica per eliminare gli sciami di droni».

    • Leonardo DRS è la filiale statunitense dell’azienda italiana di difesa Leonardo SpAa le attivissime aziende italiane sono presenti sul mercato dei droni sia in un prodotto che presso la sua concorrenza: anche Leonardo DRS era presente alla fiera e fresco dell’acquisizione di RADA Electronics Industries» (“Defense News”).
  • Ma Leonardo a giugno aveva allacciato altre relazioni collaborative con BAE Systems allo sviluppo di un dimostratore del Future Combat Air System, che il Ministero della Difesa britannico prevede di far volare entro il 2027. Il parlamento italiano si è impegnata a spendere 6 miliardi di euro per il programma nel prossimo decennio per questo nuovo Eurofighter Tempest, successore del Typhoon.
    Parlando il 19 luglio al Farnborough Airshow, il Segretario alla Difesa britannico Ben Wallace ha sottolineato la collaborazione della Gran Bretagna con l’Italia e il suo nuovo potenziale partner, il Giappone alla progettazione del Tempest, all’interno del quale è prevista una qualche partecipazione della Swedish Air Force.
  • Destino vuole che la fiera sembra sia fatta in casa dai soliti brand, che hanno atteso l’occasione per sbandierare le loro partnership: infatti subito al secondo giorno, rilanciata dalla grancassa della solita “Defense News” la stessa BAE Systems (il più grande appaltatore della difesa in Europa), ha annunciato l’ingresso nel settore del trasporto aereo militare attraverso un’alleanza strategica con il produttore brasiliano di aerei Embraer, con la quale ha annunciato di aver firmato un memorandum d’intesa per perseguire un potenziale accordo con l’Arabia Saudita per l’acquisto del bimotore per il trasporto aereo tattico C-390 dell’Embraer.
    Un’ubriacatura di armi per Riad proviene dal viaggio di Biden che apparentemente aveva solo ricevuto rifiuti (a incrementare la distribuzione di barili fuori dall’Opec, schierandosi in quel modo contro la Russia) e invece ha sbloccato 5 miliardi di dollari in armi: 3 per i 300 Patriot Interceptors (vendita già bocciata in passato dal Congresso per la pessima condotta dei wahabiti) e 2 nei Thaad Iterceprtors, prodotti da Raytheon Technologies «saranno utilizzati per rifornire quelli usati per abbattere i missili e i droni sparati nel regno dai ribelli Houthi nello Yemen», si legge in “DefenseOne”. Ma allora cosa se ne farà Mbs di una potenza di fuoco simile, se davvero reggesse la tregua in Yemen e si va verso rapporti amichevoli con Turchia, Israele…? Rimane solo uno scontro aperto contro l’Iran, a pensare male ci aiuta “Politico.eu”:

    «L’amministrazione Biden sta esortando le nazioni arabe a collaborare con Israele per contrastare i missili iraniani, ma la continua diffidenza e le differenze tecnologiche significano che qualsiasi tipo di alleanza potrebbe essere lontana anni. Secondo funzionari ed esperti, un obiettivo più realistico sarebbe che Israele condividesse alcune informazioni con gli Stati arabi, conducesse esercitazioni da tavolo insieme e magari acquistasse ulteriori armi compatibili. Si tratta di un obiettivo più raggiungibile rispetto a uno scudo di difesa regionale che colleghi i tiratori con radar, satelliti e altri sensori… Ma un problema è che anche Sauditi ed Emirati Arabi Uniti utilizzano sistemi cinesi e russi, che non possono integrarsi con le apparecchiature occidentali… L’idea di un’alleanza di difesa missilistica allentata riflette un cambiamento verso la normalizzazione tra ex avversari che si coalizzano intorno a un atteggiamento più falco nei confronti dell’Iran, ha affermato Caroline Rose, analista del New Lines Institute».


  • Gli UAV rappresentano il futuro business, ma quello consolidato e che rappresenta miliardi cash – tanti sporchi e subito – è il mercato degli F35 che anche a Farnborough sono stati un vero successo. Formiche poi esagera rivendicando strumentalmente quale vantaggio trarrebbe lo stabilimento di Cameri. Comunque è un bottino formidabile indotto dall’attenzione per situazioni di guerra.
    In Europa i paesi che hanno scelto di affidare la difesa aerea agli F-35 sono Germania (sostituendo i vecchi Tornado per un totale di 8 miliardi), Finlandia (10 miliardi in cambio di 64 F-35, per disfarsi dei vecchi F-18 Hornet McDonnel), Repubblica ceca (a rimpiazzare i suoi Saab JAS 39 Gripens), Svizzera (6,5 miliardi stanziati un anno fa) e Grecia (un ordine di almeno 20 F-35 entro il 2028) aderendo al programma del Joint Strike Fighter. L’anno scorso, inoltre, è stato consegnato il primo caccia alla Danimarca e l’Aeronautica militare olandese è diventata ufficialmente la nona nazione al mondo a dichiarare operativa la propria flotta di caccia.

  • E di nuovo un ruolo particolare se lo ritaglia l’Italia, tornando a una rivelazione di “Formiche.net
  • «Lockheed Martin si è aggiudicata un contratto del valore di 524 milioni di dollari per il supporto ai caccia di quinta generazione F-35 italiani. A darne notizia un comunicato del dipartimento della Difesa americano, che ha registrato la modifica che aumenta il massimale per l’approvvigionamento di materiali, parti, componenti e sforzi a lungo termine per la produzione di sette velivoli F-35A e due F-35B del lotto 15 e sette F-35A e due F-35B del lotto 16 destinati alle Forze armate del nostro Paese. Il lavoro sarà svolto principalmente negli Stati Uniti, ma vedrà la partecipazione anche del sito produttivo italiano di Cameri, in Piemonte, dove si trova una delle uniche due Faco al di fuori degli Usa (l’altro è in Giappone) e si prevede che sarà completato nel giugno 2025. L’Italia ha fino ad oggi ordinato sessanta caccia a decollo e atterraggio convenzionale F-35A e trenta nella variante a decollo corto e atterraggio verticale F-35B.
    Secondo il Pentagono, la quantità finale di velivoli potrebbe cambiare in base a eventuali “aggiustamenti apportati dal Congresso degli Stati Uniti nel bilancio 2023 e a eventuali ordini richiesti dai partner internazionali».

    (certo: li forniremo, se rimangono fondi di magazzino, vista la richiesta indotta dagli orizzonti bellici, che si approvvigionano grazie anche a Farnborough)



XQ58AValkyrie



CatalystEurodrome



EurofighterTempest

19 luglio

      • Nel quadro dell’attivismo turco, nell’area del Mediterraneo orientale, si registra da tempo (si trova qui un possibile riassunto di Mariano Giustino per Radio Radicale del 10 giugno 2022) la richiesta di Ankara di rendere effettiva la smilitarizzazione delle isole dell’Egeo, che sarebbe regolata dall’accordo di Losanna risalente al 1947 (all’articolo 13 prevede che nessuna base navale o fortificazione debba essere stabilita a Mitilene, Chio, Samo –isole sulle rotte dei migranti e che potrebbero produrre un incidente “ibrido”). La smilitarizzazione dunque è sempre stata disattesa dalla Grecia che rivendica la scadenza ormai avvenuta delle regole di disarmo e il diritto all’“autodifesa” dall’espansionismo turco – che peraltro non è tra i firmatari dell’Accordo di Losanna, proprio perché rivendica quella che il nazionalismo turco chiama “Patria blu”, mettendo in discussione le Zone assegnate ai singoli paesi dell’area, con gas, pesci e cavi di comunicazione annessi.
      • Non a caso la Grecia ha il maggior rapporto percentuale tra i paesi UE di assorbimento del pil dalla spesa militare. Dopo i Rafele dalla Francia (24 marzo 2022) e gli F-35 della Lockheed (30 giugno 2022), l’ordine di tre corvette sono contese tra la francese Gowind del Gruppo Navale (lo stesso che costruisce le fregate Belharra, ma soprattutto la Francia ha un alleanza militare con Atene), gli italiani di Fincantieri supportati anche dagli Usa con le potenti corvette FCX-30 di classe Doha (la soluzione più accreditata anche per il ritorno geopolitico e per la presenza americana che duplicherebbe la consegna degli F-35) e gli olandesi con le Corvette Sigma 10514 Damen (4 luglio 2022), il tutto per chi si aggiudicherà la commessa per un totale di circa 2 miliardi.
    • Le scelte del governo di Mitsotakis sembrano optare per una cooperazione sempre maggiore con Cipro ed Egitto in funzione antiottomana, sotto l’ombrello americano che sta implementando lo scalo di Alexandropolis adibendolo soprattutto a logistica militare.

Il capo del governo turco, al di là delle mire espansionistiche, sa che dalle parti di Cipro sono stati scoperti importanti giacimenti di gas che in un momento di crisi energetica globale risolverebbero un bel po’ di problemi di approvvigionamento (da Formiche.net).

ma Francia e Germania sono apertamente schierate a difesa di Atene:

«Molte questioni di diritto internazionale sono complicate, ma alcune sono anche molto semplici”, ha premesso Annalena Baerbock, ministro degli Esteri tedesco. “Le isole greche di Lesbo, Chios, Rodi e molte altre sono territorio greco. E nessuno ha il diritto di sollevare dubbi e questioni su questo punto».

e anche negli Usa le simpatie vanno maggiormente ai greci: infatti da “DefenseNews” si viene a sapere che il senatore Menendez del New Jersey (stato con folte comunità armene e greche) ha tentato di usare le sue notevoli influenze nel campo della vendita di armi per impedire che  possa andare in porto una commessa per 70 jet della Lockheed F-16, su cui Erdoğan ha dovuto ripiegare nel 1979, perché estromesso dal progetto F-35 dopo aver acquistato gli S-400 di Putin.

Anche i curdi stanno facendo pressioni sul Congresso perché non vengano consegnati altri F-16 ad Ankara, essendo riusciti a documentare l’uso fatto su strutture civili nel Nordest della Siria

19 luglio

      • Putin ha incontrato Raisi e Erdoğan a Tehran il 19 luglio. In quell’occasione secondo i Servizi americani ripresi dall’“Hindustan Times” si sono precisati i contorni dell’accordo che vede l’Iran pronto a vendere 300 droni letali a Mosca; macchine utilissime nelle operazioni  militari in Ucraina a contrasto di quei droni che il terzo protagonista, Ankara, vende a Kiyv. La Casa Bianca ha prontamente condiviso 3 immagini che attestano l’interesse da parte di una delegazione russa che si è recata a Kashan in Iran almeno due volte per l’acquisto di droni, la prima a giugno e la seconda il 5 luglio. In particolare l’Iran ha mostrato agli inviati russi i droni Shahed-191 e Shahed-129.

        • L’esercito russo ha finanziato diversi programmi di droni per missioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione (ISR) e di attacco, ma la limitata disponibilità di tecnologie avanzate e le carenze tecnologiche nel settore dei droni, come l’ottica, l’elettronica e i materiali compositi, impongono l’acquisto da altri partner e l’Iran è il fornitore giusto in un reciproco accordo win-win, vista la condizione di embargo in cui si trova e il nuovo mercato che si spalanca per le casse iraniane.
        • .

      Secondo il sito specializzato “GagadgetShahed-129 è in grado di trasportare fino a 200 kg di carico utile, compresi i missili anticarro Triste-1 (simile all’israeliano arpione-E.R) e bombe di precisione Triste-345. In una guerra su vasta scala, i droni iraniani non sono ancora stati utilizzati, mentre i primi a essere abbattuti dall’aviazione israeliana risalgono a 10 anni fa ed erano in dotazione a hezbollah.

Secondo “InsideOver”: «Un carico di questi velivoli, che farebbero la differenza nella guerra in corso, sarebbe già stato inviato in Russia attraverso il Mar Caspio verso Astrakhan. Il nucleo della spedizione dovrebbe essere costituito dai droni d’attacco pesanti Shahed 129, realizzati sulla base dell’UAV israeliano Hermes 450, dell’americano MQ-1 Predator e del cinese Wing Loong II. L’equipaggiamento di base dovrebbe essere la bomba Sadid a guida di precisione, sempre iraniana, con testata a frammentazione».

18 luglio

    • Difficile capire se vengono prima le molte tensioni innescate dai politici da un lato e dall’altro della barricata del Pacifico, che allarmano il Pentagono da un lato o dall’altro il People Liberation Army; oppure se quelle provocazioni sorgono in seguito al riarmo che si è già operato e agli stanziamenti miliardari per i vari Corpi degli eserciti.
      • Il corpo dei Marines attraverso la sua rivista (“MarineTimes”) ha pubblicato un lungo articolo di richieste con le quali intende sestuplicare il fondo per la progettazione di prototipi per il 2023: 63 milioni di dollari così suddivisi tra tre progetti: “Family of Integrated Targeting Cells”, o FITC (cellule di puntamento integrate), con 20,5 milioni di dollari; il potenziamento del drone MQ-9A Block 5 Reaper, con 14,5 milioni di dollari; e lo sviluppo di velivoli attrattivi a basso costo, con 14,4 milioni di dollari. Tutti sono operativi o quasi e comunque applicabili in situazione di ingaggio.E tutti i progetti sono selezionati in previsione di una loro applicazione in ambiente Indopacifico; a questo proposito è interessante che questi stanziamenti si aggiungano ai 245 milioni già stanziati dal senato per il Joint All Domain Command and Control, o JADC2, che comprende la creazione di un quartier generale della forza congiunta presso il comando indopacifico e l’accelerazione di queste cellule di puntamento va iscritta nella previsione di missioni incentrate sui litorali e da piccole basi, sollecitate dalla minaccia cinese nel Pacifico.Per maggiore efficacia queste cellule di puntamento dovrebbero essere affiancate da droni “leali gregari”, come quelli sviluppati da Northrop Grumman e Boeing, a lungo raggio, in grado di trasportare carichi letali e di operare sia da navi che da terra: nel 2023 saranno operativi 2 nuovi MQ-9A Block 5 Reaper della Atomic ASI. E infatti il primo atterraggio senza controllo da terra per un MQ-9 è avvenuto il 3 agosto 2022 sull’isola di Palau, non a caso  nell’Oceano Pacifico, arrivando da Guam e diventando ATLC (automatic takeoff and landing capability).
    • Michael Chmielewski, comandante di uno squadrone di MQ-9A ha detto che una base permanente sarà probabilmente allestita in una base aerea in Giappone entro l’autunno del 2022. Il comandante ha anche detto che ciò porrebbe l’asset nella prima catena di isole più vicina alla Cina, con accesso al Mar Cinese Orientale, ma probabilmente non al Mar Cinese Meridionale. Il 556 TES sta preparando un rapporto postazione con le sue raccomandazioni su come impiegare meglio il Reaper nelle esercitazioni future e nelle missioni reali. Chmielewski ha detto che l’AAR chiederà quali capacità tattiche possono ancora essere aggiunte alla piattaforma per soddisfare le esigenze specifiche del teatro del Pacifico (“AirForceMag”)

      • Il comandante dei Marines, gen. David Berger ha annunciato che il servizio avrebbe allestito un primo squadrone di Reaper alle Hawaii, come parte del suo impegno nel Pacifico. Nel 2021 GA-ASI ha anche presentato una versione a decollo e atterraggio corto, o STOL, dell’MQ-9 che può essere lanciata dalle navi, una modifica che consentirebbe al drone di supportare meglio le unità di spedizione dei Marines e di fornire copertura e intelligence, sorveglianza e ricognizione mentre i Marines si spostano dalla nave alla costa.

Scott Smith, vicepresidente regionale GA-ASI per l’Europa, aveva dichiarato nel maggio 2021 per “AresDifesa” che «L’Aeronautica Militare italiana è da tempo leader nell’utilizzo di MQ-9 RPA per supportare un’ampia gamma di missioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione (ISR) in Italia, nel Mediterraneo e a sostegno delle operazioni Nato. Questi miglioramenti danno alle forze italiane la possibilità di vedere meglio e più chiaramente che mai con i loro MQ-9 RPA e siamo orgogliosi di lavorare con l’ITAF per aggiornare la loro flotta.”».

16 luglio

    • Intorno alle 19 un cargo Antonov An-12BK ucraino della Meridian partito da Ni, nel Sud della Serbia, su cui erano caricate 11 tonnellate di munizioni, mortai e mine serbe destinate al Bangladesh si è schiantato a Pangaios Kavalas in Grecia, come descritto da “Flight Radar”, prima dello scalo tecnico previsto nella capitale giordana Amman; non si hanno notizie ulteriori di una sostanza bianca su cui ha indagato lo Special Interbranch Nuclear Biological Chemical Defense Company, comunque 2 pompieri sono stati ricoverati con difficoltà respiratorie.
      • E dopo la prima notizia diffusa da molte testate tra il 18 e il 21 luglio, la notizia non è più stata ripresa, anzi non c’è traccia di inchieste giornalistiche. Eppure “Deutsche Welle” – che ipotizza come destinazione finale l’esercito ucraino sulla base della nazionalità del velivolo precipitato – ironizza sul fatto che sembra un plot di un thriller: infatti le domande potrebbero essere innumerevoli a cominciare dal numero di nazioni coinvolte; ma anche dal produttore di quelle munizioni (Slobodan Tesik, uno dei maggiori trafficanti di armi dei Balcani e da tempo presente nella lista delle sanzioni statunitensi, è un sostenitore del partito al potere di Vucic, l’Sns, e le elargizioni a questo corrisponderebbero a transazioni commerciali tra aziende di armi di proprietà statale e aziende private); e poi soprattutto chi fosse il fruitore finale, vista la attestata tradizione pluriennale per la capitale bengalese come sede di transito delle armi illegali destinate al Nordest dell’India, ma soprattutto… al Myanmar, come si evince da un’interessante analisi di “ResearchGate”.
        Incrociando questa con altre notizie legate al traffico di armi a favore del Tatmadaw birmano dopo il golpe si scopre facilmente che la Serbia è stata condannata dal parlamento europeo, come riportato da “BalkanInsight”, una testata che ha pubblicato il 22 febbraio 2022 una precisa e documentata inchiesta sugli stretti rapporti commerciali di materiale bellico tra Belgrado e Naypyidaw; il rapporto, scritto in collaborazione con Myanmar Witness, il Center for Investigative Journalism in Serbia e Lighthouse Reports, fondata su immagini, video e documenti open source, dava conto di una rotta simile, pur facendo scalo tecnico a Il Cairo.
      • Traffico d'armi tra Serbia e Myanmar

        Cargo partito dalla Serbia, riconoscibile nelle operazione di scarico a Yangoon

David DesRoches, professor alla National Defense University, ha dichiarato ad “Al Jazeera” che «Ci sono anche segnalazioni che alcuni dei proiettili sono proiettili da mortaio, che non sono normali esplosivi da esplosione – tendono a frammentare finemente i pezzi di metallo, che sono estremamente infiammabili. Quindi, ancora una volta, questo creerebbe alcuni problemi ai vigili del fuoco e ai soccorritori».
Ha aggiunto che, fino all’invasione russa, l’Ucraina era tra i leader mondiali nei servizi di trasporto aereo di merci.«Non si tratta di un’operazione losca e in sordina; è una pratica consolidata e ben accettata, anche se non è soggetta agli stessi controlli di un paese occidentale, perché non fa parte di alcuna istituzione europea».

Antonov-AN12BK

11 luglio

  • Durante il Summit tra ministri degli interni dei paesi comunitari tenutosi l’11 luglio la commissaria europea Ylva Johansson ha annunciato la creazione di un hub in Moldavia per combattere le organizzazioni criminali che hanno riconvertito il loro core business nello storno di armi inviate in Ucraina.
    Interessante come la Commissione già il 28 marzo avesse stilato un piano in 10 punti per migliorare il coordinamento tra gli stati nell’accoglienza dei profughi in fuga dalla guerra, agganciandolo al piano contro il comune traffico… di esseri umani, di qui l’allusione al coinvolgimento di Frontex. Ora si applicano gli stessi criteri per la “fuga di armi”, attraverso l’European Multidisciplinary Platform Against Criminal Threats (EMPACT) per indirizzare un’azione operativa congiunta contro le nuove minacce criminali legate all’aggressione della Russia all’Ucraina.

  • Riporta “EU-Observer”: «È difficile evitare il contrabbando di armi. Cerchiamo di tenerne traccia, ma mentirei se dicessi che ci riusciremo. Abbiamo fallito dopo la guerra in Jugoslavia, e non possiamo impedirlo ora», ha dichiarato a EUobserver un funzionario dell’UE che parla in forma anonima.

    Ogni Stato membro dispiegherà inoltre agenti di polizia presso la sede centrale dell’hub, che opererà dalla capitale moldava Chișinău, aumentando la capacità locale e mirando a contrastare anche il traffico di esseri umani.

  • Aija Kalnaja, responsabile ad interim di Frontex, ha dichiarato che la Moldova è stata scelta come base operativa «perché è qui che può arrivare soprattutto il traffico di armi».

    Lo scenario ucraino può rappresentare un enorme bacino di approvvigionamento militare nel cuore dell’Europa, tra l’altro con armamenti ben più efficaci rispetto a quelli tradizionalmente rinvenuti come AK 47, Uzi, AR15 e M12, per non parlare degli esplosivi di nuova generazione, dice Arje Antinori a “Ristretti Orizzonti”.

11 luglio

  • Il ministro svedese dell’immigrazione Anders Ygeman ha dichiarato all’EU-Observerche la maggior parte delle armi fornite all’Ucraina erano nelle mani dell’esercito ucraino.

    Ma parlando alla Anglo-American Press Association di Parigi il 10 giugno, il capo dell’Interpol Jürgen Stock ha avvertito che «una volta che le armi taceranno, assisteremo a una proliferazione di armi nella fase postbellica, dando un enorme potere ai gruppi di criminalità organizzata della regione. Arriveranno le armi illegali. I criminali si stanno concentrando su quelle. Dovremmo essere allertati e aspettarci che queste armi vengano scambiate nei paesi vicini e in altri continenti». E allora ha esortato i paesi a «tracciare e rintracciare» le armi.

  • L’Ucraina ha una lunga storia di commercio illegale di armi; il caso più eclatante è quello della MV Faina, una nave da carico ucraina che nel 2009 è stata sorpresa a trafficare carri armati, artiglieria e fucili d’assalto AKM verso il Sudan – fatto che è venuto alla luce quando la nave è stata catturata dai pirati somali. Se si considera che già soltanto i 40 miliardi stanziati a maggio dagli Usa si sono andati ad aggiungere alle scorte di armi inviate in Ucraina dagli Usa tra cui si annoveravano secondo il “Washington Post”: 1400 sistemi antiaerei Stinger, 5500 missili anticarro, 700 droni Switchblade, 90 sistemi di artiglieria Howitzers a lungo raggio, 7000 armi leggere, 50 milioni di munizioni e numerose altre mine, esplosivi e sistemi di razzi a guida laser.

    Senza considerare  le consegne di ordigni da altre potenze occidentali che hanno visto transitare in territorio ucraino una quantità di strumenti bellici in questi 4 mesi maggiore di quelle spedite in Afghanistan in 20 anni; consegnate a un destinatario che per tradizione vede l’esercito stesso (e le sue milizie affiliate a maggior ragione) dedito al contrabbando.

    • come sottolineava il “Washington Post: «La storia dell’Ucraina come centro di traffico di armi risale alla caduta dell’Unione Sovietica, quando l’esercito sovietico lasciò in Ucraina grandi quantità di armi leggere e di piccolo calibro senza un’adeguata registrazione e controllo dell’inventario. Secondo lo Small Arms Survey, un’organizzazione di ricerca con sede a Ginevra, una parte dei 7,1 milioni di armi leggere dell’esercito ucraino nel 1992 “sono state dirottate verso le aree di conflitto”, sottolineando “il rischio di fuga verso il mercato nero locale”»

    • Il nuovo hub in Moldavia arriva nel momento in cui il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha chiesto con urgenza di aumentare le forniture di armi e munizioni per contrastare l’avanzata russa nell’est e nel sud del paese. I missili Stinger a spalla, in grado di abbattere aerei di linea, sono solo uno dei sistemi d’arma che gli esperti temono possano entrare in possesso di gruppi terroristici che cercano di provocare incidenti di massa.

      E l’escalation in corso attorno a Kherson vede protagonisti gli Himars che hanno gittata maggiore, ottima precisione e rapidità di fuoco superiore a quella del corrispondente russo… vanno a sostituire il Bayrakhtar turco e allargano il mercato delle armi alimentato da quegli articoli un po’ meno sotto i riflettori.

    • Nell’altro campo si vede in questi giorni il mercato animato dalle fughe di notizie di forniture dell’Iran per l’esercito russo, ma già era risaputo che proprio con armi riciclate da Tehran si approvvigionasse Mosca («Missili anticarro e RPG, oltre a sistemi lanciarazzi di progettazione brasiliana forniti attraverso reti sotto copertura in Iraq», “The Guardian“: cioè le milizie sciite irachene trasferiscono all’esercito russo armi di contrabbando con l’aiuto dei servizi iraniani); mentre a marzo Shoigu aveva proposto a Putin di girare ai separatisti filorussi del Donbass i missili americani Javelin e Stinger catturati.
      Un sistema missilistico Bavar-373 di fabbricazione iraniana, simile all’S-300 russo, è stato donato a Mosca dalle autorità di Teheran.


7 luglio

  • L’“Associated Press” ha ripreso una dichiarazione della Royal Navy britannica secondo la quale una sua nave avrebbe sequestrato un sofisticato carico di missili iraniani nel Golfo di Oman all’inizio del 2022, in questo modo usando l’interdizione come prova del sostegno di Teheran ai ribelli Houthi in Yemen. Interessante che l’annuncio venga a distanza di mesi dall’evento nel giorno delel dimissioni del governo di Boris Johnson. L’annuncio del governo britannico segna un’escalation, poiché in passato i funzionari occidentali hanno evitato di rilasciare dichiarazioni pubbliche che incolpassero direttamente l’Iran di aver armato gli Houthi. Il percorso dei carichi sulle rotte del contrabbando attraverso il Mar Arabico o il Golfo di Aden avrebbero suggerito la loro destinazione.
    Citando un’analisi forense, la Marina britannica ha quindi collegato il lotto di motori a razzo sequestrati a un missile da crociera di fabbricazione iraniana con una gittata di 1000 chilometri, che secondo la Marina sarebbe stato usato dai ribelli colpendo Abu Dhabi (come dalla nostra scheda del 17 gennaio).
    Secondo “Expartibus.it” le operazioni si sarebbero svolte il 25 gennaio e il 28 febbraio 2022 nelle prime ore del mattino. Mentre l’elicottero dell’HMS Montrose, dotato dei più recenti sistemi radar, era alla ricerca di navi che contrabbandano merci illegali ha individuato piccole navi che si allontanavano rapidamente dalla costa iraniana. Una squadra di Royal Marines si è avvicinata alle navi su due barche con decine di casse contenenti armi avanzate, che sono state scoperte e confiscate. Anche il cacciatorpediniere della US Navy USS Gridley ha partecipato schierando un elicottero per fornire un monitoraggio durante l’operazione.
    .
  • A sua volta, come riferisce “Anbamed” il ministero iraniano smentisce la ricostruzione dei fatti. Per Teheran, il comunicato britannico è un’azione di propaganda per coprire il coinvolgimento di Londra nelle azioni di spionaggio contro la repubblica islamica. Uno dei punti controversi degli accordi di tregua è la libera circolazione da e per la città di Taez, assediata dagli Houthi. Per garantire il libero passaggio dei civili, gli Houthi chiedono la resa dei soldati governativi ancora presenti per la difesa della città. Questo nuovo contenzioso rischia di impedire il rinnovo della tregua il prossimo 2 agosto.
  • Londra aveva affermato che nei mesi passati sono stati sequestrati missili terra-aria sofisticati di fabbricazione iraniana diretti in Yemen e capaci di minacciare i caccia sauditi che dominano lo spazio aereo yemenita. La Gran Bretagna è uno dei maggiori esportatori di armi verso l’Arabia Saudita e gli Emirati arabi uniti, i due paesi implicati nel campo avverso ai turbanti nella guerra yemenita. Dunque si evidenzia in questa “guerra” di comunicati come il traffico d’armi crei conflitti di annunci fumosi a orologeria. In questo caso è sicuramente palese che l’Iran fornisca il movimento houthi di ogni tipo di arma e quindi la notizia di un’intercettazione viene adoperata al momento più opportuno per far precipitare la situazione.


1° luglio

    • L’agenzia per la difesa sudcoreana sostiene l’acquisto dalla Lockheed Martin di altri 20 jet F-35A entro il 2030. Ne dà notizia “DefenseNews”, aggiungendo che la Defense Acquisition Program Administration ha appoggiato questo acquisto nell’ambito del progetto F-X del paese, che comprende la strategia di attacco preventivo “Kill Chain” del governo, volta a contrastare le minacce nucleari e missilistiche della Corea del Nord. Se l’ordine verrà eseguito, il paese spenderà entro il prossimo anno 3 miliardi di dollari per questa commessa.
  • Lockheed Martin ha consegnato tutti i 40 caccia F-35A Block 3 ordinati dalla Corea, a partire dal dicembre 2021. Ma i 20 jet in più dovrebbero arrivare nella variante Block 4, che è in grado di compromettere i radar nemici e altre apparecchiature elettroniche, dispone di un sistema elettro-ottico migliorato e può trasportare un maggior numero di ordigni. Forse, visto quello che riporta “DefenseDaily” relativamente alle consegne di F35-A in corso per US Air Force: «Il Technology Refresh 3 (TR3) è la spina dorsale del computer per il Block 4, che deve avere 88 caratteristiche uniche e integrare 16 nuove armi sull’F-35. Una grande sfida per il TR3 è rappresentata dal processore integrato L3Harris [LHX] e il Government Accountability Office si è detto preoccupato per la possibilità di ulteriori ritardi nelle consegne del processore e per la scarsa qualità del software del Block 4». Il primo volo del processore su un F-35 è previsto per luglio, ma l’aeronautica militare statunitense ha ridotto i previsti 48 aerei in ordine per il 2023 (per una spesa di più di 5 miliardi) a soli 33 (in cambio di 4 miliardi e mezzo.


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La guerra viene con le armi: lo spaccio nel 2022

L’anno si inaugura con la paura di una guerra che avrebbe potuto essere nucleare in Europa col confronto diretto tra potenze globali, o presunte tali… e lo sviluppo di quella guerra più prossima alla sensibilità occidentale delle “proxy war” fatte combattere lontano procede tra il grottesco delle scenografie imperiali otto-novecentesche e le stragi chirurgiche di armi strategicamente digitali, fino alla “arma segreta” che non può mancare nel delirio dei guerrafondai di ogni secolo.
E infatti questo dossier nasce da un’idea di ricostruzione à rebour: monitorando il bisogno – e dunque l’acquisto – di un’arma si può ricostruire la nascita e l’area che può interessare la prossima guerra, il futuro dissidio, l’ennesimo scoppio di un conflitto.
Nel mondo infinite sono le proxy war, combattute per procura da quelle stesse potenze o altre regionali; molti sono i conflitti a sfondo religioso, che coprono la rapacità di multinazionali che affidano i loro interessi a milizie, o a stati impegnati in scontri con i vicini, o a soffocare secessioni su base coloniale; altrettante sono le lotte contro il neocolonialismo predatore.
Questi bombardamenti, le conseguenti battaglie e stragi… sono rese possibili dallo spaccio di armi: il traffico, ma anche gli accordi tra stati, gli scambi con la droga, o di favori geopolitici. Le fiere che espongono, propongono e vendono ordigni.
Abbiamo pensato di inaugurare l’anno cercando di raccogliere tutte le notizie, le inchieste, gli svelamenti che nell’anno 2022 stanno avvenendo, cercando quanti più dati possibile relativi al traffico di armi mondiale.



GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE




Lo spettacolo può cominciare


Il monitoraggio lungo un anno si è concluso, ottenendo una messe di dati, analisi, considerazioni che abbiamo già proposti in questo dossier, mantenendo come stella polare l’intuizione che ci aveva spinti a tentare di seguire i flussi di armi (quelli denunciati) per vedere dove confluivano e quindi dimostrare che le guerre si preparano industrialmente con largo anticipo sui pretesti politici in base a una strategia. Avevamo pensato di avviare questa attività nel novembre 2021, tre mesi prima che si manifestasse l’innesco del rivolgimento degli equilibri globali con l’“Operazione militare speciale” a rivendicare militarmente un multilateralismo effettivo con lo scopo di informare l’Occidente che la sua centralità è perduta, o almeno messa in discussione. Sicuramente è stato un anno particolare per operare questo monitoraggio, ma – andando a rileggere le schede di questi mesi – risulta palesemente emblematico di come funziona la filiera delle armi e come si concatena con le strategie geopolitiche, in funzione dei bisogni politico-militari, e con una ricerca scientifica sempre più ““dual”, a sancire una sempre maggiore militarizzazione della società civile.

Tutto questo ha fornito basi utili per passare alla consueta seconda fase degli Studium: l’approfondimento che prende corpo in un volume di più ampio respiro, realizzato in collaborazione con l’Atlante dei Conflitti  e delle Guerre del Mondo. Con questo intento OGzero ha affidato ad alcuni complici-esperti la disamina della condizione del mercato delle armi nelle singole aree, o negli aspetti legati a ricerca, logistica, produzione… strategie belliche. Gli estensori dei singoli paper sono Gabriele Battaglia, Roberto Bonadeo, Murat Cinar, Raffaele Crocco, Marco Cuccu, Alessandro De Pascale, Angelo Ferrari, Emanuele Giordana, Antonio Mazzeo, Alice Pistolesi, Eric Salerno, Carlo Tombola, Massimo Zaurrini.

Il dato che spicca rispetto alla motivazione iniziale del monitoraggio è che gli spostamenti di armi hanno assunto un movimento centrifugo di diffusione capillare con una richiesta sempre maggiore e globale (segno che il presente o probabile coinvolgimento è percepito come urgente approvvigionamento da parte di ogni area), e anche centripeto rispetto alle aree in cui è già esploso il conflitto (e dove si concentrano maggiormente le armi, sempre però seguendo un criterio che informa il singolo conflitto, sempre mantenuto nei canoni che i contendenti decidono – altro aspetto rilevato dal percorso operato in questo focus annuale).

Tuttavia non è più la fase in cui si segue il traffico per trovare un nuovo conflitto, ma la “guerra” è già dovunque e sempre di più è richiesto l’allineamento a uno schieramento… e ciascuno è tenuto all’interno del suo campo a riarmarsi e assorbire la sua parte di prodotti bellici. Questo è lo sfondo su cui sono andati a incastonarsi i preziosi contributi degli autori sopraelencati, che vanno a comporre il volume di 264 pagine dense di informazioni e analisi,  a cui corrisponde un e-pub che contiene il valore aggiunto di numerosi collegamenti interattivi.



Dicembre

21 dicembre

  • La vocazione  israeliana al controllo della Sicurezza globale

Intense relazioni tra esercito, università e aziende italiane con le tecnologie di guerra israeliane

AresDifesa” comincia a parlare il 4 settembre di questa sorta di “droni kamikaze” chiamati Hero-30, facendo illazioni sulla costruzione per forze speciali di un paese occidentale di flotte di queste “munizioni orbitanti”. Ancora non si capiva quale fosse mai il paese occidentale; il 21 dicembre Antonio Mazzeo ci informava che:

«I dirigenti di Leonardo DRS (Arlington, Virginia) hanno reso noto che l’unità commerciale dei sistemi terrestri di St. Louis, Missouri, ha stipulato il 6 ottobre un accordo con la SpearUAV Ltd. di Tel Aviv per sviluppare una versione delle munizioni aeree Viper su scala nanometrica “per andare incontro alle richieste emergenti di molteplici clienti militari statunitensi”» (Antonio Mazzeo blog).

ma a ottobre ancora non era uscita la notizia che dava continuità alla rivelazione sulla classe Hero di settembre. Infatti l’idra multiteste dell’industria dei droni israeliani faceva spuntare una nuova esportazione della tecnologia e della cooperazione con le aziende italiane: i mini-droni kamikaze sono stati lanciati ufficialmente all’inizio di ottobre quasi in contemporanea all’accordo tra Leonardo e SpearUAV. Una ventina di giorni dopo il ministro della difesa dell’Azerbaijan, Madat Guliyev, ha incontrato l’amministratore dell’azienda Gadi Kuperman per discutere sulla possibilità di rifornire le forze armate azere proprio con le nuove munizioni circuitanti Viper (“Israeldefence”).

Ma nello stesso articolo di Mazzeo si annunciava già la fusione delle due teste (o testate) israeliane: infatti faceva capolino l’accordo italo-tedesco che sarebbe sfociato nella produzione in Italia di loitering munitions su brevetto Uvision; Spear aveva rastrellato finanziamenti per 17 milioni da UVision, che è una macchina da guerra con sedi in India e negli Usa… e sempre a ottobre ha sottoscritto una partnership con la tedesca Rheinmetall per produrre unità autoesplodenti del tipo Hero, perché sono compatibili con mezzi prodotti dall’azienda di Düsseldorf (Boxer, Lynx, Mission Master). E l’accordo coinvolge RWM Italia, preposta a produrre per l’Europa i sistemi Hero (“FightGlobal“).

Già in questo articolo si faceva accenno allo stabilimento di Domusnovas e alla spesa di 4 miliardi stanziati dall’esercito italiano per il munizionamento con Hero-30. Il 23 gennaio “DefenseNews” trova un Avviso di aggiudicazione di appalti nel settore della difesa e della sicurezza per

«acquisizione del Sistema di Munizioni a guida remota, denominato «Loitering Ammunition» (LA) HERO-30 e relativo supporto tecnico-logistico, a soddisfacimento delle esigenze operative urgenti (Mission Need Urgent Requirement, MNUR) del Comparto Forze Speciali» (MINISTERO DELLA DIFESA – SGD/DNA- DIREZIONE DEGLI ARMAMENTI AERONAUTICI E PER L’AERONAVIGABILITÀ)

Il bando indica come vincitore dell’appalto RWM Italia S.p.A con sede a Ghedi, nel Bresciano. Nel 2021, UVision ha firmato un accordo strategico con l’entità italiana per la produzione su licenza e lo sviluppo di munizioni vaganti di tipo Hero. La partnership vede RWM Italia in qualità di prime contractor per il mercato europeo, fornendo e producendo alcuni componenti di munizioni, sistemi di assemblaggio e gestendo il supporto logistico.

Ma le partnership italo-israeliane hanno una lunga tradizione, soprattutto in rifornimenti da parte israeliana, intensificati dal 24 febbraio in funzione antirussa. Come il caso dei due sofisticati aerei di pronto allarme e intelligence da destinare alle cosiddette «missioni speciali» dell’Aeronautica militare CAEW (Conformal Airborne Early Warning & Control System) basati sulla piattaforma del jet Gulfstream G550 sviluppato dall’azienda statunitense Gulfstream Aerospace, appositamente modificato e potenziato dalla israeliana Elta Systems Ltd, società del gruppo IAI, acquistati il 13 settembre 2022 dal dimissionario Mario Draghi per 550 milioni di euro, come ricordava “il manifesto”; questi due velivoli si vanno ad aggiungere agli 8 aerei spia acquistati per quasi un miliardo e mezzo nel 2020 sempre da Elta.

Il soldato e la sua macchina: l’estensione del fantaccino con la sua protesi kamikaze

Ma la spesa era già lievitata l’anno precedente: infatti la notizia sull’ennesimo folle progetto bellicista del governo e delle autorità militari è stata data da “Milex”, l’Osservatorio sulle spese militari nel novembre 2021: il costo complessivo del programma è stimato in 3,878 milioni di euro in cinque anni, ma il ministero della Difesa ha voluto precisare che in sede di negoziazione del contratto «sarà ritenuta ammissibile una deviazione negli oneri del 10%”. Come dire che alla fine, se tutto andrà bene, i contribuenti italiani si faranno carico di 4,266 milioni di euro».

L’ultima notizia in ordine di tempo  – raccapricciante perché coinvolge accademia (università di Bari), enti locali (comune di Bari) – ripresa da “PagineEsteri”: un classico esempio di dual use questo progetto “Drone-Tech”, che prevede l’uso di droni israeliani per la ricerca di discariche abusive… che poi potrà svolgere le medesime funzioni di controllo e missione in territorio di guerra. Partner sarebbero il Distretto Tecnologico Aerospaziale pugliese (in cui spiccano le Università del Salento-Lecce e “Aldo Moro” di Bari, il Politecnico di Bari, l’Enea, il Cnr, Leonardo SpA, Avio Aereo, IDS – Ingegneria dei Sistemi) e High Lander Aviation Ltd, società con sede nella cittadina israeliana di Ra’anana, nei pressi di Tel Aviv, tra i collaboratori della quale si annovera il gruppo Sightec che ha fornito al colosso industriale IAI – Israel Aerospace Industries – le tecnologie di scansione impiegate a bordo di “MultiFlyer”, il nuovo piccolo drone-elicottero immesso nel mercato per svolgere un largo numero di operazioni dual, civili e militari-securitarie, come ha serenamente riferito all’Ansa il presidente del Distretto Aerospaziale Giuseppe Acierno:

«Siamo contenti di essere stati ritenuti idonei al programma di cooperazione industriale italo-israeliano sostenuto dal ministero degli Esteri. Il consolidamento della nostra collaborazione con i partner israeliani ci aiuta a stare vicino ai livelli più alti di innovazione e ci permette di rafforzare collaborazioni con un Paese che rappresenta l’eccellenza mondiale nel campo dei droni. Il progetto continua nello sforzo di rafforzare ed internazionalizzare le conoscenze e le capacità che il Distretto Tecnologico sta capitalizzando nella sperimentazione di servizi innovativi con droni per Bari Smart City e avvicina il sistema aerospaziale israeliano, tra i più avanzati e dinamici, a quello pugliese, per generare nuove opportunità per lo sviluppo di competenze e nuove forme di imprenditorialità».


  • Israele è comunque al centro di tutto il traffico d’armi in Europa e Medio Oriente

  • La Germania ha iniziato a settembre (si evince da un agenzia della Reuters) trattative per acquistare il sistema di difesa missilistico Arrow 3 da Israele, una parte dei 100 miliardi stanziati da Berlino per ammodernare la Wehrmacht dopo l’invasione dell’Ucraina. Gli intercettori Arrow 3 sono progettati per volare oltre l’atmosfera terrestre, lì le loro testate si staccano per trasformarsi in satelliti che inseguono e colpiscono i loro bersagli. Questi abbattimenti ad alta quota hanno lo scopo di distruggere in modo sicuro i missili nucleari, biologici o chimici in arrivo
  • E gli Usa triangolano con Israele per far pervenire armi all’Ucraina, come esposto dal “NYT“: il Pentagono sta attingendo a una vasta ma poco conosciuta scorta di munizioni americane in Israele, accumulata nelle molte missioni “umanitarie” mediorientali. Israele ha costantemente rifiutato di fornire armi all’Ucraina per paura di danneggiare le relazioni con Mosca: un rapporto di interesse per Israele che porta dal 2013 raid aerei all’interno della Siria per bloccare il passaggio di armi con cui i pasdaran riforniscono gruppi armati come Hezbollah o quelli palestinesi. Sorvola così i cieli di Damasco sotto il controllo russo; la Russia non vedrebbe questa recente mossa come un cambiamento di politica da parte di Israele, perché non si tratta di munizioni israeliane.
  • Un dato significativo in ambito mediorientale è quello della vendita agli Emirati del sistema di difesa aerea israeliano Barak. I primi abboccamenti erano avvenuti a gennaio in seguito agli attacchi con droni Houthi. Gli Emirati Arabi Uniti si erano cominciati a rivolgere a gennaio 2022 a Israele in seguito agli attacchi Houthi portati con i Qasef 2K di fabbricazione iraniana, come avevamo già riportato nella scheda del 17 gennaio). Non è chiaro quale versione del Barack sia stata impiegata, poiché Israel Aerospace Industries produce una famiglia di sistemi moderni basati sul Barak-8 originale. Originariamente progettato e coprodotto con l’India per essere un sistema navale, il Barak è stato modificato e aggiornato per funzionare con le forze terrestri. La IAI ha rifiutato di commentare questo rapporto. Una versione potenziale, il Barak-MX, è stata recentemente acquistata dal Marocco. Secondo IAI, si tratta di un sistema di difesa cinetica progettato per difendere da una serie di minacce aeree di giorno e di notte e in tutte le condizioni atmosferiche; può essere utilizzato con una serie di intercettori diversi la cui gittata va da 35 chilometri a 150 chilometri.
  • Dalla firma degli Accordi di Abraham nel 2020, che hanno normalizzato le relazioni tra Israele, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Marocco, le aziende israeliane del settore della difesa hanno cercato di scoprire i nuovi potenziali clienti.
  • «Sono già stati conclusi oltre 3 miliardi di dollari di nuovi affari nella regione» (“BreakingDefense”)

    Il cliente più recente di Uvision è l’Argentina, il primo paese latinoamericano ad acquistare le munizioni Hero-120 e Hero-30.


  • Ma è soprattutto l’aspetto di sperimentazione e messa in pratica che Tsahal mette a disposizione, fedele alla regola per cui si vendono solo macchine sperimentate sul campo: questa è testimoniata dalla nuova vita degli Apache, elicotteri per il prossimo quarto di secolo, la modernizzazione eseguita dalla Boeing, come rivelato a ottobre da “BreakingDefense“, dotati di missili Spike, sperimentati da Israele (ma con interessi anche francesi) nella esposizione di “DefenseNews” si assiste a una collaborazione tra Lockheed Martin e Rafael Advanced Defense Systems che hanno recentemente completato dei voli di prova in Israele per prepararsi a uno scontro a fuoco; queste esercitazioni permetteranno di scegliere l’arma di precisione a lungo raggio da montare sugli AH64-E Apache.

    Le munizioni a lungo raggio per i futuri velivoli dell’esercito saranno fondamentali per impegnare le posizioni difensive del nemico da una distanza confortevole, ovvero al di là del raggio di rilevamento del nemico e lo Spike Non-Line-of-Sight è stato reso compatibile con il lancio dal Modular Effects Launcher, in ase di sviluppo per l’esercito statunitense.

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Sulla base dell’Accordo di Cooperazione nel campo della Ricerca e dello Sviluppo Industriale, Scientifico e Tecnologico tra Italia e Israele, nel corso del 2022 sono stati individuati i seguenti progetti ammessi a ricevere un sostegno finanziario da parte del Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale:

  • Drone Tech – partner: Distretto Tecnologico Aerospaziale e High Lander Aviation Ltd.
  • ASTI Auto System THA Insertion – partner: Politecnico di Torino/Intrauma S.p.A. e Value Forces Ltd.
  • We –CAT – partner: Università di Milano Bicocca e Bar Ilan University.
  • GreenH2 – partner: Politecnico di Milano e The Hebrew University of Jerusalem.
  • Hydrogen Sensors – partner: Università degli Studi dell’Aquila e Tel Aviv University.
  • IVANHOE – partner: Università degli Studi dell’Aquila e Ben Gurion University of the Negev.
  • Bio-SoRo – partner: Sapienza Università di Roma e Ben Gurion University of the Negev.
  • F2SMP – partner: Università degli Studi di Pavia e Technion Israel Institute of Technology.
  • C-IGrip – partner: Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia e The Hebrew University of Jerusalem.
  • BIONiCS – partner: Università degli Studi di Genova e Tel Aviv University.

11 dicembre

      • Tayfun e le ambizioni neo-ottomane di uno stato militarista

            • Qualche anno fa si è cominciato a mettere in dubbio il concordato mondiale che vedeva l’Onu come il luogo dove arginare la possibilità che un autocrate potesse scatenare una nuova guerra mondiale. Le picconate conclusive su quel poco di autorevolezza che l’Onu aveva ancora fino a pochi lustri fa sono arrivate da Trump e da lì è come se tutte le democrature avessero capito che era saltato il tappo che doveva aiutare a comporre i conflitti riducendo (se non annullando, come nel primo dopoguerra) l’importanza della forza bruta.
              Tra chi ha sfruttato maggiormente questo nuovo modo di affrontare i conflitti e le dispute mondiali ci sono i paesi che animano quello che si può ormai definire il Protocollo di Astana, periodico incontro tra potenze locali, per regolare una sorta di paradossale alleanza spartitoria tra la Russia, l’Iran e la Turchia. Se la prima si è lanciata nell’avventura ucraina che procede innanzitutto facendo carta straccia della diplomazia dell’Onu, la Turchia ha già assestato qualche colpo alla Nato, l’altro apparato militare occidentale, annunciando l’offensiva sia verso il Rojava, sia verso la Grecia: l’11 dicembre “Ekatimerini” riporta la consueta serie di bellicose dichiarazioni elettoralistiche del bullo Erdoğan contro la Grecia (altro membro Nato), minacciando di colpire Atene con un missile Tayfun, «se non rimarrete calmi». Qualche giorno prima il ministro degli Esteri turco Mevlut Čavusoglu ha minacciato la Grecia di invaderla se non smilitarizzerà le sue isole del Mar Egeo, ha detto che la Turchia «arriverebbe all’improvviso da un giorno all’altro», un’espressione che i funzionari turchi amano usare spesso.Il problema è che il bullo dispone già del secondo esercito più potente della Nato e il tredicesimo per forza armata attiva disponibile. E sta riarmandosi a ritmi forsennati, procurandosi ogni tipo di armi e «dato che l’anno prossimo la Grecia dovrà affrontare una doppia elezione, in cui è probabile che tra le due tornate elettorali si insedi un governo di transizione, i funzionari governativi temono che Erdogan possa far coincidere l’incidente con questo periodo di minore stabilità della politica greca».

              • “Future Defense” ha lanciato una serie di video su YouTube per avvertire dell’iperattivismo turco:

              .

              Si comincia con il 14 ottobre: nel video si assiste alle mirabolanti imprese del quadruplo missile da crociera turco da imbarcare su fregate

              • Roketsan, continua a lavorare sul Sistema di Lancio Verticale Nazionale, chiamato Mildas, e sui missili di difesa aerea che saranno utilizzati in esso; l’obiettivo finale è quello di integrare il Quad-Pack funzionale, con la capacità di lanciare più missili da crociera. Le fregate della classe Istif, o TCG Istanbul, avranno un sistema di lancio verticale a 16 celle. e Se il pacchetto funzionale Quad-Pack sarà integrato nel sistema di lancio verticale, ogni cella potrà essere equipaggiata con 4 missili di difesa aerea.
                In questo modo, invece di 16 missili pronti a sparare, il sistema avrà 64 missili di difesa aerea.

                • Altro prodotto Roketsan è il missile Sungur, mostrato in questo video del 10 dicembre 2022 di “Military Coverage”:
                • Il Sungur Air Defense System è un sistema missilistico di difesa aerea a corto raggio integrato nel veicolo blindato tattico a ruote Vuran, ha 8 chilometri di gittata; se da un lato il sistema missilistico aumenta l’accuratezza nel colpire i bersagli grazie alla tecnologia Imaging Infrared Seeker (IIR), dall’altro presenta un importante vantaggio nella distruzione dei bersagli aerei grazie alla sua testata, che ha una potenza esplosiva superiore a quella dei sistemi simili disponibili nell’arsenale di Ankara.
                • E non poteva mancare il nuovo gioiello Baraktar: Kızılelma il regalo di Natale per i vicini ellenici: un caccia senza pilota supersonico, descritto su “DefenseNews“:
              • Il Kızılelma può rimanere in volo fino a 4-5 ore, controllato via satellite attraverso l’antenna Satcom. È alimentato da motori turbofan AI-322F dell’azienda ucraina Ivchenko-Progress.
                Il jet è dotato di un radar Aesa costruito da Aselsan e sarà in grado di lanciare missili aria-aria Bozdogan e Gokdogan. Per la guerra di superficie, il futuro aereo senza pilota sarà armato con missili da crociera SOM-J con una gittata di oltre 250 km e bombe guidate della famiglia MAM, prodotte da Roketsan, per missioni di piccolo attacco
              • Di questi droni supersonici è dotata la nave d’assalto Anadolou una nave strategicamente diventata portadroni quando gli Usa vietarono l’acquisto di F35 alla Turchia, questa ammiraglia vanta a bordo anche elicotteri d’attacco AH-1W SuperCobra e S-70 Seahawk.

          • A cui si aggiunge Anka-3, presentato all’“INDO Defense Expo & Forum 2022” di Jakarta, tenutosi a novembre e illustrato in questo video natalizio:
        • Il sistema, sviluppato sulla base dell’esperienza acquisita con i droni della classe Anka, è stato presentato in anticipo sulle previsioni (e non è una buona notizia): con un motore a reazione turbofan, il drone avrà un peso massimo al decollo di 7000 chili e sarà in grado di trasportare non solo sensori per la sorveglianza, ma anche armi. Il vicepresidente turco Fuat Oktay ha dichiarato che l’Anka-3 sarà in grado di colpire i sistemi di difesa aerea nemici. L’Anka-3 assomiglia al drone multiuso X-47B di Northrop Grumman, che ha volato per la prima volta quasi 12 anni fa e ha una velocità di crociera di quasi 1000 km/h.
          Una delle aspettative per l’ANKA-3 è che sia in grado di operare in tandem con il futuro caccia turco TF-X, un’altra piattaforma prodotta da TAI.

    La Turchia a novembre aveva messo in servizio dalla Marina turca il suo nuovissimo Ucav Aksungur Male nell’ambito dell’esercitazione navale “Mavi Vatan 2022”, caricando munizioni teleguidate Mam-L di produzione nazionale su un bersaglio di superficie, una nave militare. L’Aksungur può svolgere missioni di intelligence, sorveglianza, ricognizione e attacco in tutte le condizioni atmosferiche, di giorno e di notte, con un’elevata capacità di carico utile di 750 kg, può rimanere in volo per 60 ore.

      • Risale al 6 dicembre il lancio di “NavalNews” relativo ai sottomarini nucleari targati Type 214TN, Nell’ambito del progetto, il primo sottomarino, il Piri Reis, in costruzione presso il cantiere navale di Golcuk, è stato varato nel 2019 e ha galleggiato in acqua nel marzo 2021. Il secondo sottomarino Hizir Reis, entrato in bacino di carenaggio il 24 maggio 2022, dovrebbe entrare in servizio nel 2023. A partire da quest’anno, sarà commissionato un sottomarino all’anno e 6 sottomarini della classe Reis saranno consegnati alla Marina turca entro il 2027. La Marina turca dispone di una flotta di 12 sottomarini composta da quattro classe Ay (Tipo 209/1200), quattro classe Preveze (Tipo 209T/1400) e quattro classe Gür (Tipo 209T2/1400), tutti sottomarini d’attacco a propulsione convenzionale (diesel-elettrica). Entro il 2027, la Turchia opererà con sei sottomarini AIP classe Reis.
      • La classe Reis porterà benefici non solo alla Marina turca, ma anche alla base tecnologica e industriale della difesa turca. Il know-how e l’esperienza acquisiti con il progetto del sottomarino classe Reis saranno un forte riferimento per i sottomarini indigeni che saranno costruiti nell’ambito del progetto del sottomarino nazionale (Milden), attualmente in fase di progettazione e la cui costruzione è prevista per il 2030. Molti subappaltatori turchi, tra cui ASELSAN, HAVELSAN, MilSOFT, Defense Technologies Engineering and Trade Inc. (STM), Koç Information and Defense, Scientific and Technological Research Council of Turkey (TÜBİTAK) e AYESAŞ, stanno lavorando ai sottosistemi dei sottomarini della classe Reis, come il sistema di navigazione e gestione dei dati, il collegamento dati, il sistema di contromisure per i siluri.I sottomarini della classe Reis di tecnologia tedesca sono caratterizzati da un sistema di propulsione basato sulla cella a combustibile di Howaldswerke-Deutsche Werft (HDW). I sottomarini hanno una lunghezza di 68,35 metri, un diametro esterno di 6,3 metri, un dislocamento di 1850 tonnellate e una capacità di 40 persone. ThyssenKrupp Marine Systems ha costruito i sottomarini della classe Reis nel cantiere turco di Golcuk, come da contratto del 2009. Il sottomarino è in grado di effettuare dispiegamenti di lunga durata senza dover fare snorkeling. Sono dotati di siluri pesanti (MK48 Mod 6AT e DM2A4), missili antinave (Sub-Harpoon) e mine. Il siluro pesante turco Akya e il missile antinave Atmaca dovrebbero essere montati sui prossimi sottomarini del progetto. I sottomarini della classe Reis saranno in grado di svolgere missioni come operazioni in acque litoranee e pattugliamenti oceanici, comprese operazioni antisuperficie e antisommergibile, compiti ISR e operazioni di forze speciali; sembrano fatti apposta per il controllo delle acque greche.
      • E ciliegina finale su questa torta di miliardi e arsenali micidiali, il missile balistico alluso da Čavusoglu all’inizio di questa scheda: il nuovo missile balistico con una portata di 1000 chilometri: il Tayfun

tayfun


La Grecia dal canto suo nell’ultimo anno ha principalmente posto la sua attenzione su Corvette (in acquisto da Fincantieri), ma partecipa anche all’accordo europeo tra Francia, Germania, Italia, Olanda e Gran Bretagna per lo stanziamento di 28 milioni di dollari per il progetto Next-Generation Rotorcraft Capability (NGRC) per la produzione di un elicottero le cui caratteristiche dovranno essere definite dai committenti: «In collaborazione con l’industria, i partecipanti partiranno da zero per esplorare come abbinare le loro esigenze con le più recenti tecnologie sul mercato, esaminando opzioni come la propulsione ibrida ed elettrica, un’architettura di sistema aperta e sistematica e la fornitura di caratteristiche di volo radicalmente migliorate», si legge nel comunicato della presentazione a Eurosatory.

NGRC

La Grecia ha presentato Archytas, il suo drone dual use all’expo di Salonicco, una macchina dedita al pattugliamento di confini di mare e di terra.
Rispetto ai caccia: alla Turchia non sono concessi quelli più performativi e schierano “soltanto” gli F-16, invece i greci fanno parte del progetto F-35, lo stesso che dopo l’incidente di natale ha spinto American Aircraft Production Administration a lasciare a terra i velivoli in attesa di accertamenti.

5 dicembre

    • Licenza di (contro)spionaggio per DigitalPlatforms: il certificato TEMPEST

      • Formiche” informa che il gruppo industriale italiano DigitalPlatforms è entrato nell’elenco delle aziende classificate e abilitate come produttori TEMPEST sia dal Consiglio dell’Unione europea sia dalla Nato. Gli apparati Tempest consentono una difesa totale da attacchi elettromagnetici; è una sigla della Nsa (National Security Agency) statunitense. TEMPEST ((Telecommunications Electronics Material Protected from Emanating Spurious Transmissions) riguarda sia i metodi per spiare gli altri sia le modalità di schermatura delle apparecchiature contro tale spionaggio. Gli sforzi di protezione sono noti anche come sicurezza delle emissioni (EMSEC), che è un sottoinsieme della sicurezza delle comunicazioni (COMSEC).
        I servizi TEMPEST e di Sicurezza Elettromagnetica supportano i clienti nella comprensione e nella gestione del livello di segnali emessi dalle apparecchiature che possono rivelare dati sensibili: cioè TEMPEST rileva attraverso standard di certificazione quanto sia vulnerabile il sistema informatico-comunicativo di cui ci si avvale e mette in atto contromisure al rischio di trasmettere involontariamente informazioni.
        Gli standard TEMPEST prescrivono elementi quali la distanza delle apparecchiature dalle pareti, la quantità di schermatura negli edifici e nelle apparecchiature e la distanza che separa i cavi che trasportano materiali classificati da quelli non classificati (Nsa).
      • La Fondazione ICSA , di cui è presidente il generale Leonardo Tricarico, ha organizzato sempre per il 5 dicembre 2022 l’evento “Difesa della sovranità digitale ed elettromagnetica. La tecnologia TEMPEST per la protezione dei sistemi informatici da interferenze ed intercettazioni elettromagnetiche
    • «L’iniziativa nasce dalla considerazione che l’esito degli ultimi conflitti bellici globali e, soprattutto, il protrarsi della guerra russo-ucraina nel cuore dell’Europa, impongono un urgente aggiornamento della dottrina militare e dei modelli di intervento in direzione di un significativo irrobustimento dell’approccio multidominio MDO (Multi Domain Operations) e delle attività CEMA (Cyber Electromagnetic Activities) per la sicurezza militare e nazionale» (gen. Leonardo Tricarico, “SNews”).

      L’evento Icsa intendeva incrementare la conoscenza e la diffusione della cultura del TEMPEST ed è interessante notare la coincidenza dell’evento con la certificazione attribuita a DigitalPlatforms

  • Il target dei servizi TEMPEST è rivolto a clienti che sono forze armate nell’ambito Nato. Un fornitore di prodotti TEMPEST ha dimostrato di aver soddisfatto una serie di criteri per ottenere la certificazione del proprio prodotto. Questo dà agli utenti finali la certezza che i prodotti soddisfino i requisiti TEMPEST. Tra questi spiccano gli elicotteri AW149 di Leonardo UK
  • , come attesta il National Cyber Security Centre britannico (macchina da guerra in gara per una fornitura di 44 esemplari al governo britannico per 1,2 miliardi).
  • Il 5 e 6 gennaio 2023 si terrà a Shanghai il quarto appuntamento dell’Asia Cybersecurity Innovation Summit che intende monitorare gli investimenti nella sicurezza in rete: la previsione è che l’investimento totale in hardware, software e servizi legati alla sicurezza di rete a livello globale aumenterà fino a 223,34 miliardi di dollari nel 2025, con un tasso di crescita composto (CAGR) quinquennale del 10,4%. La stima della spesa cinese sarà di 21,46 miliardi di dollari, crescendo del 20,5%. Questo evento combinerà in modo completo politiche e normative per fornire una piattaforma completa di apprendimento e comunicazione per i professionisti della tecnologia della sicurezza di rete e delle normative.

5 dicembre

    • Il mercato si spartisce

      • Di nuovo come per gli ultimi anni si assiste a un incremento degli investimenti per costruire e dotarsi di armi nel bilancio della difesa italiana, parallelo aumento a quello della vendita mondiale di ordigni. Si ricava dai dati dell’Osservatorio Milex e dal rapporto annuale del Sipri svedese, alle cui informazioni avevamo già attinto per l’editoriale di ottobre riguardo all’import/export tra il 2017 e il 2021.

        «Il rapporto del Sipri, l’istituto svedese che monitora il commercio mondiale delle armi, è dedicato alle  “Top 100 arms companies” ed è stato reso pubblico il 5 dicembre. Dice che le vendite di armi e servizi militari da parte delle 100 più grandi aziende del settore hanno raggiunto 592 miliardi di fatturato nel 2021, un aumento dell’1,9 per cento rispetto al 2020 in termini reali. Aggiunge che l’aumento segna il settimo anno consecutivo nella crescita globale della vendita di armi. I dati sono di prima della guerra in Ucraina».

    • così sintetizza Emanuele Giordana sull’“Atlante delle Guerre”, che nell’occhiello riassume: «A causa della pandemia e della crisi nella logistica rallenta la produzione ma il saldo del commercio mondiale delle armi continua ad aumentare. L’Italia conquista posizioni nel Top 100 dei produttori».
      Il rapporto Sipri ci racconta che le vendite di armi e servizi militari da parte delle 100 più grandi aziende del settore hanno raggiunto 592 miliardi di fatturato nel 2021, un aumento dell’1,9 per cento rispetto al 2020 in termini reali e negli ultimi vent’anni l’incremento del valore è stato del 174%, passando dai 201 miliardi del 2002 ai 592 del 2021 e vede Lockheed con profitti doppi (più di 50 miliardi annui) rispetto ai secondi classificati (Boeing e Northrop – circa 30 miliardi a testa) di questa classifica di mercanti di morte, che li vede incalzati a poca distanza da Raytheon, General Dynamics e BAE; dopo il pantheon Usa si trovano 4 marchi cinesi tra 15 e 20 miliardi (Avic, Norinco, Cetc, Casc); poi di nuovo poco sotto le statunitensi L3Harris e United Technologies, di nuovo Casic cinese e 14esima la prima ditta europea (Airbus) con 15 miliardi – azienda transeuropea – subito incalzata dall’italiana Leonardo con un miliardo in meno (13,9). Seguono sotto ai 10 miliardi la russa Almaz-Antey e la francese Thales.
    • Alfonso Navarra (“DisarmistiEsigenti”) scrive che dalle tabelle del ministero della Difesa, del Mise, del Mef riassunte dall’Osservatorio Milex l’incremento della spesa militare italiana raggiunge gli 800 milioni di euro, raggiungendo in previsione per il 2023 i 26,5 miliardi; la spesa per il riarmo italiano del prossimo anno supererà gli 8 miliardi. Esalta il dato con orgoglio “Formiche”:
    • «Le realtà industriali italiane hanno registrato un incremento percentuale nelle vendite militari del 15%, un risultato superiore a quello di tutte le altre regioni (eguagliato solo da Parigi). L’Italia da sola copre il 2,8% delle vendite globali del 2021. Nel dettaglio, nel 2021 Leonardo ha aumentato le sue vendite di difesa del 18%». L’exploit ha una ricaduta non solo a livello globale, dove l’Italia gioca da protagonista, ma anche sull’intero sistema economico, di cui il settore aerospazio, sicurezza e difesa rappresenta un segmento cruciale, anche per i ritorni in termini di tecnologia e innovazione. La crescita delle esportazioni segnala come la bilancia commerciale sia positiva per il comparto Difesa; nonostante la guerra in Ucraina, se da una parte ha innalzato la domanda, abbia avuto anche effetti importanti sulle supply chain di diverse realtà industriali, dato che la Russia è sempre stata un importante fornitore di materie prime necessarie per la produzione».

  • Questa valanga di miliardi ci travolge e lascia attoniti e non si riesce nemmeno a conferirgli una dimensione reale; ma forse il mercato va letto a comparti e allora si riuscirebbe a capire più facilmente come si muove e quali sono le correnti che lo animano: le alleanze tra ditte apparentemente concorrenti, che invece stipulano accordi spartitori per alternare i prodotti proposti ai potenziali clienti, consentono di collocare sul mercato, in tempi regolati dalle aziende stesse, articoli simili con alcune differenze, appetibili da tutti, per poter usufruire dell’intera gamma.Allora alla luce di quella classifica diventa emblematica la vicenda narrata da “BreakingDefense” di L3Harris – 5 posizioni sopra a Leonardo – che nella joint venture per fabbricare aerei da rifornimento con la brasiliana Embraer (il vero outsider, che coglie l’affare) aggira le guerre tra aziende per spartirsi i contratti, concordando due prodotti di scala diversa e prodotti da concorrenti che si spartiscono il mercato, raddoppiando le vendite.
  • Tra il 2012-16 e il 2017-21 si sono verificate diminuzioni complessive delle importazioni di armi in tre regioni del mondo: Americhe (-36%), Africa (-34%) e Asia e Oceania (-4,7%). Nel 2017-21 le importazioni di armi da parte degli stati sudamericani sono state inferiori rispetto a qualsiasi quinquennio degli ultimi cinquant’anni. In controtendenza solo il Brasile, unico stato del Sud America ad avere ingenti consegne di armi in sospeso.
    • Infatti ascrivendo l’Embraer KC-390 alla serie di aerocisterne più piccole e “tattiche” vuol dire escluderlo dal programma KC-Y, il “bridge tanker” che dovrebbe colmare le potenziali lacune tra il momento in cui la parabola dell’imponente KC-46 sarà conclusa e il prodotto della Boeing sarà pronto all’avvicendamento con il suo successore, chiamato KC-Z – dopo il breve interregno del KC-Y, per il quale si sono già schierate le ditte che troviamo in testa alla classifica pubblicata dal Sipri: Boeing, il cui KC-46A aveva vinto la medesima battaglia una decina di anni fa sui rifornimenti – che sono essenziali, e i generali in quiescenza (preposti dovunque alla fureria) ne sono consapevoli –, e un team di Lockheed Martin (primo in assoluto tra i fornitori di armi) e Airbus (prima azienda europea), che sta offrendo una versione dell’A330 MRTT prodotto dal marchio europeo, denominata LMXT per il consumo nazionale – bimotore turboventola multiruolo da trasporto militare e rifornimento in volo, come indicato dalla sigla MRTT, derivato dall’aereo di linea Airbus A330-200.

      In realtà si tratta di un avvicendamento: l’A330 era risultato secondo classificato rispetto al KC-46, e Northrop Grumman è stato il primo contraente statunitense (a completare il gotha delle aziende più importanti del settore bellico). E il “piccolo” KC-390 non è un prodotto in concorrenza, ma complementare, come spiega Kubasik, ceo di L3Harris, il colosso di media caratura che ha fatto l’affare con Embraer, che sta attualmente producendo un totale di 22 KC-390 per le forze aeree brasiliane, e anche Portogallo, Olanda e Ungheria hanno firmato per l’acquisto del velivolo:

    «Penso che il punto chiave che abbiamo detto ai nostri clienti è che questo è complementare, giusto? Voglio dire, avete queste grandi petroliere strategiche molto critiche che trasportano il doppio del carburante, – ha proseguito. – Il carburante è la sfida logistica numero uno per gli aerei, quindi perché non volere più capacità di rifornimento, di dimensioni e forme diverse? Penso che non siamo in competizione con nessun altro. Siamo complementari. Credo che i due strateghi avranno il loro solito botta e risposta. Penso che questo sia – non voglio dire che sia irrilevante per Usaf, ma penso che sia semplicemente “Ok, questo riempie il vuoto”».

  • Nel settore meno spettacolare, ma più sensibile della guerra dei cieli in questo appalto sta la dimostrazione di come quella classifica Sipri rispecchia solo il peso specifico e il potere contrattuale nelle trattative tra le ditte produttrici che si spartiscono e creano il mercato. Alleandosi per una spartizione della torta “senza guerre” (tra loro).

29 novembre

    • I coyotes mondiali

      • Il 29 novembre Defense Security Cooperation Agency pubblicava la notizia della concessione da parte del Dipartimento di stato americano della vendita di sistemi di difesa antidrone per una spesa pari a un miliardo di dollari in cambio di 10 Fixed Site-Low, Slow, Small Unmanned Aircraft System Integrated Defeat System (FS-LIDS) System of Systems, includendo 200 Coyote Block 2 interceptors; e poi Counter Unmanned Electronic Warfare System (CUAEWS); Coyote launchers; Ku Band Multi-function Radio Frequency System (KuMRFS) radars; Forward Area Air Defense Command e Control (FAAD C2); Counter Unmanned Electronic Warfare Systems (CUAEWS).
      • Lo riportava “BreakingDefense” sottolineava come i principali contractor Raytheon, Northrop Grumman and R&D company SRC.A Marzo si leggeva nel rapporto Sipri del confronto tra il 2017-2021 con il decennio precedente e riprendiamo da lì per inquadrare questa notizia novembrina in omaggio all’esiziale mondiale di calcio ottenuto da Doha (che secondo quel dossier aveva incrementato la spesa del 227% rispetto al lustro precedente) con la corruzione di Sarkozy, Platini e Guéant prima e poi con il sostegno di parlamentari europei di sinistra che negano l’evidenza del sistema omicida e criminale del Qatar (ci limitiamo a suggerire che Messi e Mbappé giocano entrambi nel Psg, che è di proprietà dell’emiro di Doha, un caso che la finale sia per magia tra le loro due compagini?): infatti l’Atlante delle guerre riassumeva così la situazione del Medio Oriente a marzo:

        «Si stabilizzano le importazioni di armi in Medio Oriente. Dopo il forte aumento registrato nel decennio precedente (86% in più tra il 2007-11 e il 2012-16) gli stati mediorientali hanno importato ‘solo’ il 2,8% di armi in più nel 2017-21 rispetto a quello precedente. Il conflitto in Yemen e le tensioni tra l’Iran e altri stati della regione restano alla base delle importazioni di armi nell’area. L’Arabia Saudita si conferma un grande importatore, il secondo al mondo, con un 27% in più investito in armi nel periodo 2012-16, rispetto al precedente.
        Le importazioni di armi del Qatar sono cresciute del 227%, spingendolo dal 22esimo importatore di armi al sesto. Al contrario, le importazioni di armi degli Emirati Arabi Uniti sono diminuite del 41%, passando così dal terzo al nono posto. Tutti e tre questi stati, insieme al Kuwait hanno poi effettuato ingenti ordini che prevedono la consegna nei prossimi anni. Nell’area, poi, Israele ha aumentato le importazioni di armi del 19%».

    • E poi le esportazioni statunitensi verso Riyad sono aumentate del 106%. Ma a cosa serve l’enorme quantità di armi, le più disparate per ogni tipo di guerra, sparpagliate per tutta la penisola araba?

Novembre

19 novembre

  • La guerra dei droni da Astana

    • La notizia in autunno sul fronte dell’approvvigionamento dei droni per le attività dell’aviazione russa è che si è raggiunto un accordo per impiantare in tempi brevi  uno stabilimento con la tecnologia iraniana direttamente in territorio russo; a rivelarlo il Washington Post, successivamente rilanciato da tutte le testate del mondo. Come sottolinea “DroneBlog”:

      questo accordo oltre che essere strategico mette in luce ancora di più il rapporto e la cooperazione militare fra Iran e Russia, che sta svolgendo un ruolo chiave in Ucraina. Se il nuovo accordo sarà pienamente realizzato, significherebbe un ulteriore rafforzamento dell’alleanza russo-iraniana. Questo accordo, oltre a migliorare la disponibilità di armi all’esercito russo, toglierebbe dall’isolamento l’Iran, dando una nuova spinta economica a un sistema interno collassato ormai da anni e alle prese con una rivoluzione in atto

  • In piena continuità con gli accordi di Astana, che tanto abbiamo analizzato in OGzero.
    E sempre “DroneBlog” scrive che «finora Teheran ha cercato di presentarsi come neutrale nel conflitto ucraino , ma si scopre che sempre più droni di fabbricazione iraniana vengono utilizzati per attaccare le città ucraine, innescando minacce di nuove sanzioni economiche dall’Occidente». E si insinua una scommessa iraniana sul sostegno che deriverebbe dall’alleanza con Mosca per ricavare valore contrattuale per gli accordi sul nucleare
  •  Peraltro l’industria iraniana dei droni si sta già diffondendo in altri paesi. L’Iran ha aperto a maggio una fabbrica in Tagikistan, che produce il drone Ababil-2, secondo l’Eurasia Times: è stato Zelensky stesso a indicare la strategia di avvicinamento a Mosca da parte di Ankara con fini collegati al Jcpoa.
  • The Guardian” il 10 novembre accusava l’Iran di aver sostenuto militarmente fin dal 24 febbraio l’alleato russo, ma ancora prima “Wired” riportava un sistema rudimentale – ma efficace – di aggiramento delle sanzioni: contanti e baratto.
  • In estate il baratto sarebbe dimostrato dall’atterraggio il 20 agosto di 2 Ilyushin IL-76 arrivati e ripartiti da Mehrabad (la città del kurdistan iraniano martirizzata il 19 novembre dalle guardie della rivoluzione): trasportava in cambio di droni armi occidentali sottratte agli ucraini, necessarie agli ingegneri persiani per carpire le tecnologie. Ipotesi suffragate da immagini satellitari diffuse da SkyNews e da dichiarazioni rilasciate al Washington Post il 29 agosto da funzionari statunitensi.

Un ultima notazione sull’asse russo/iraniano: i droni iraniani Mohajer-6 contengono molte componenti provenienti dalla tecnologia occidentale (in particolare giapponesi,  secondo James D. Brown) – quindi senza che si debbano trasferire ordigni catturati per studio – stando alle rivelazioni di “la Repubblica”; ma, a dimostrazione che lo spargimento di morte tra civili attraverso macchine a controllo remoto non comporta scelte di campo, il Blog di Antonio Mazzeo riporta un’informazione raccolta da “DefenseNews”:

    • «Il regime turco di Recep Tayyp Erdogan finanzierà la produzione di droni-elicotteri e droni-kamikaze per il mercato nazionale e l’esportazione, decisione che non potrà non essere accolta con favore anche in Italia. La società di engineering aerospaziale Titra Technoloji, con quartier generale ad Ankara, riceverà sussidi economici governativi per realizzare il primo modello di elicottero a pilotaggio remoto in Turchia. Denominato “Alpin”, il drone-elicottero sarà prodotto in dieci esemplari all’anno, “in aggiunta a 250 droni kamikaze”».

    • La Malesia ha scelto la Turkish Aerospace Industries per la fornitura di tre velivoli senza pilota, secondo quanto dichiarato dal ministro della Difesa della nazione del Sudest asiatico e ripreso da “DefenseNews”.
      TAI aveva presentato il suo Anka, un sistema di velivoli senza pilota a media altitudine e lunga resistenza, alla fiera della difesa e dell’aerospazio LIMA nel 2019. Il 18 agosto 2022 il re malese Al-Sultan Abdullah ha visitato le strutture di TAI ad Ankara, in Turchia. Il 7 ottobre TAI ha annunciato un memorandum d’intesa per una collaborazione con il MIMOS, il centro di ricerca e sviluppo della Malesia. Ma perché la Malesia è alla ricerca di queste macchine da guerra? Le forze armate e la Guardia Costiera della Malesia sono impegnate nella lotta alla pirateria lungo le sue coste, inoltre è loro demandato a livello internazionale il controllo e l’antiterrorismo nel Mare di Sulu (tra la Malesia orientale e le Filippine meridionali, dunque all’interno del quadro anticinese del noto contenzioso nel mar cinese meridionale sulle Spratly Island e nello strategico controllo dello Stretto di Malacca).
  • La famiglia di droni Anka è in grado di svolgere missioni di ricognizione, acquisizione e identificazione di obiettivi e raccolta di informazioni. È dotata di tecnologie elettro-ottiche/infrarosse e radar ad apertura sintetica. Il produttore afferma che i velivoli hanno capacità di volo autonomo e possono decollare e atterrare da soli.La famiglia di UAV ha un’apertura alare di 17,5 metri e una lunghezza di 8,6 metri, e ha un tetto di servizio di 30.000 piedi. Possono rimanere in volo all’altitudine operativa di 18.000-23.000 piedi per più di 30 ore.
    • A metà ottobre il Kazakistan e la Turchia hanno annunciato l’intenzione di sviluppare una “cooperazione strategica a lungo termine” che preveda la coproduzione di satelliti e altri sistemi spaziali.
    • «Questo è il primo passo di una forte cooperazione con il Kazakistan nel campo dello spazio. Il memorandum d’intesa che abbiamo firmato con le società Kazsat e Ghalam sulla creazione di una cooperazione strategica a lungo termine nei settori dei satelliti e dello spazio sarà vantaggioso per il nostro paese e la nostra nazione» (Ismail Demir, Tai)

    • Infatti in maggio, secondo le informazioni di “DefenseNews“, era stato firmato un protocollo tra Kazakhstan e Turchia per la coproduzione di droni da gettare sul mercato Asean e produrre in quella che è la prima fabbrica di Bayraktar fuori dai confini turchi, con contratto che prevede anche manutenzione e riparazione. E quell’accordo faceva seguito a quello di aprile con il Kirghizistan che aveva firmato per primo un accordo per l’acquisto di un numero imprecisato di droni armati: infatti  Bishkek aveva pregato Ankara di soprassedere alla vendita dei letali droni a Dushanbe, alla luce delle tensioni sul confine (e questo spiega la rincorsa al riarmo dei due paesi dell’Asia centrale, sfruttata da Ankara per raddoppiare le vendite).
  • Il drone può essere equipaggiato con armi come il lanciamissili a lancio aereo Roketsan Smart Micro Munition e la capsula missilistica guidata Cirit da 2,75 pollici nelle due stazioni d’armamento sotto l’ala per ingaggiare veicoli leggermente corazzati, personale, rifugi militari e stazioni radar a terra. Un evidente monito per le mire espansionistiche di Mosca.
    • L’aggressività non solo verso il mercato della industria bellica turca si appropria anche di ricerche straniere, come quelle che consentono al criminale Erdoğan di arrivare al drone-elicottero: infatti Antonio Mazzeo spiega che questo velivolo è un sistema a pilotaggio remoto che potrà essere impiegato a fini civili ma soprattutto per missioni bellico-militari di intelligence e ricerca e soccorso. Il prototipo del drone-elicottero è lungo 7 metri, alto 2,35 e ha un diametro del rotore di 6,28 metri; ciò gli consente di essere trasportato in veicoli di medie dimensioni. Il suo peso non supera i 540 kg compresi apparecchiature elettroniche e carburante. L’”Alpin” ha una velocità di crociera di 160 km/h e può coprire un raggio d’azione fino a 840 km di distanza, a un’altitudine di 5000 m. L’autonomia di volo varia dalle due alle nove ore, secondo la portata del carico a bordo.
      Ma perché abbiamo usato il verbo “appropriarsi”? La risposta è nel Blog di Antonio Mazzeo (che cita “DefenseNews”):
    • «L’Alpin è basato sull’elicottero italiano ultraleggero con equipaggio umano Heli-Sport CH-7». Il CH-7 è realizzato infatti dalla Heli-Sport S.r.l. di Torino, azienda fondata dai fratelli Igo, Josy e Charlie Barbaro e specializzata nel design e produzione di velivoli ad ala rotante di ridotte dimensioni. La società si dichiara però del tutto estranea dalla vicenda.

    • In effetti l’Alpin nasce da un accordo tra la Titra turca e la Uavos californiana per convertire il CH-7 in elicottero a pilotaggio remoto: la trasformazione dei velivoli italiani in droni-elicotteri è stata avviata dalla statunitense Uavos, mentre il primo test di volo è stato effettuato nel dicembre del 2020 nei cieli della Turchia.

«L’Alpin è stato progettato per andare incontro alle richieste specifiche ed uniche della Turchia e agli interessi speciali della sua industria nazionale per operare come sistema a pilotaggio remoto in una varietà di scenari complessi nei campi civili e della sicurezza», riporta la nota emessa da Uavos a conclusione delle attività sperimentali in territorio turco. «L’elicottero convertito è indispensabile per l’industria logistica dei velivoli senza pilota per trasportare carichi in zone difficili da raggiungere e sfornite di campi di atterraggio». E viene subito in mente la configurazione del Rojava.

La Turchia – benché socio alla pari nelle concertazioni strategiche di Astana – produrrà entro due anni i tanto decantati Bayraktar TB2 in Ucraina: benché più leggeri e meno efficienti nel contrasto di un attacco aereo, i droni turchi secondo l’Agi saranno già in grado di contrastare quelli iraniani.

    • «l’Ucraina ha un ruolo di primo piano nella catena di approvvigionamento di Baykar, in particolare con il nuovo drone pesante Akinci e il jet da combattimento senza pilota Kizilelma, attualmente in fase di sviluppo, montano entrambi motori ucraini MotorSich» (“Analisi Difesa”).

Secondo Barayktar molto presto i droni turchi TB2 e Akinci potranno colpire con buona efficacia oggetti in volo grazie all’integrazione del sistema di difesa Sungur prodotto da Roketsan, mentre i droni iraniani sono pesanti e rumorosi, sono obiettivi facili perché volano a bassa quota.

Invece quelli turchi sono stati opzionati anche dal governo polacco, che ha ricevuto a ottobre 6 dei 24 TB2 comprati.

19 novembre

    • Comprare gas dalla Tunisia con veicoli militari antimigranti

      • LaLa Francia ha portato a Djerba 200 milioni di prestiti in occasione della Organisation internationale de la Francophonie; ma ha anche consegnato alla Tunisia il primo lotto di una donazione comprendente cento veicoli militari fuoristrada Masstech T4 prodotti da Technam in occasione della ventinovesima sessione della Commissione militare franco-tunisina svoltasi dal 15 al 17 novembre nella capitale del paese nordafricano e documentata da “Tuniscope”; i veicoli sono palesemente utili nel contenimento dei migranti. L’ambasciata di Francia a Tunisi sulla propria pagina Facebook ha precisato che durante i lavori della commissione è stato tratto “un bilancio molto soddisfacente” in termini di cooperazione bilaterale per il 2022. In particolare, sono state svolte 60 attività in Francia o Tunisia.Ma quella più interessante è volta a ristabilire l’asse militare tra le due sponde mediterranee:

        «Per Saied – afferma il politologo francese Vincent Geisser rilanciato da “Africanews” – ospitare questo vertice è “un successo” perché lo porterà fuori dal suo isolamento almeno temporaneamente. È una sorta di pacificazione nei suoi rapporti con i suoi principali partner occidentali, userà questo evento per legittimare una svolta autoritaria fortemente criticata».

    • In cambio la Francia cerca di comprarsi gas in quella che era la sua casa coloniale.

  • Questo veicolo, costruito a partire da un telaio Toyota Land Cruiser HZJ76, è blindato, dotato di griglie di protezione contro le proiezioni e di cinque punti di armamento. È in servizio con l’esercito francese sul territorio francese e in OPEX nel Sahel. Viene utilizzato anche dall’esercito reale giordano (“MenaDefense”)

10 novembre

  • Corsa al riarmo in Africa

    • Nel dossier dell’“Atlante delle guerre” a marzo si leggeva: «In Africa subsahariana i cinque maggiori importatori di armi sono stati Angola, Nigeria, Etiopia, Mali e Botswana. Resta un grande importatore l’Egitto che con il più 73% diventa il terzo importatore di armi a livello globale».

    • L’Etiopia ha usato abbondantemente le sue dotazioni prima di arrivare agli accordi di metà novembre: dopo due anni e un numero imprecisato di morti compreso tra mezzo milione e un milione di vittime (qui un intervento di Matteo Palamidessa raccolto da Radio Blackout).

    “Il genocidio atroce e diffuso nel Corno d’Africa”.

  • Il Mali (e il Sahel nella sua integrità) è alle prese con la necessità di difendersi dai tagliagole jihadisti dotati di armi sofisticate e dunque gli eserciti – affrancatisi da operazioni coloniali francesi, ma così indeboliti – cercano di procurarsi strumenti per liberarsi dalla tenaglia dell’insorgenza, come ci ha raccontato Edoardo Baldaro:
  • Collegata a questa situazione è la notizia lanciata da un tweet postato il 5 novembre da “Spoutenik en Français” (palese indirizzo filorusso) relativa alla richiesta a Mosca per l’acquisto di due elicotteri da parte del Burkina di Ibrahim Traoré nel quadro di un trattato di cooperazione con la Russia di Putin (che affonda le radici nei legami intrecciati tra paesi africani che hanno avviato il proprio distacco dall’Occidente con l’appoggio dell’Urss).

Gli elicotteri sono tra le macchine a uso bellico più ambite nel continente, come documenta Antonio Mazzeo nel suo blog il 10 novembre facendo cenno a una triangolazione di 6 velivoli T-129 “Atak” prodotti in Turchia da Turkish Aerospace Industries su licenza di AgustaWestland (della infinita galassia Leonardo spa) per il governo nigeriano al costo di 61 milioni di dollari. Come sottolinea Mazzeo, la versione turca dell’“Atak” (in uso in Siria, Iraq, Filippine e in futuro in Pakistan) sfodera nuovi sistemi di individuazione e tracciamento dei bersagli ed è dotato di razzi non guidati da 70 mm e missili anticarro L-Umtas.

  • «Nel bilancio della difesa nigeriano per il 2023 è previsto anche uno stanziamento di 4,5 milioni di dollari per l’acquisto di due elicotteri AW109 “Trekker, prodotti in Italia da Leonardo SpA. nel corso di un seminario delle forze armate nigeriane tenutosi a Ibom lo scorso 27 ottobre, il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica Oladayo Amao avrebbe confermato l’intenzione di acquisire 24 caccia bimotori M-346 “Master” realizzati negli stabilimenti di Varese-Venegono di Leonardo» (“DefenceWeb”).

  • L’AW109 aveva già riscosso un enorme successo ad agosto al Labace brasiliano:
  • «L’AW109 Trekker, il primo gemello leggero di Leonardo a offrire un carrello di atterraggio a pattino, mantiene la cellula dell’AW109 Grand, l’ampia cabina e le prestazioni di prim’ordine, offrendo al contempo un maggiore carico utile a un costo competitivo, dimostrando così di essere perfettamente in grado di soddisfare i severi requisiti degli operatori in termini di capacità ed economicità. L’AW109 Trekker è dotato di una cabina di pilotaggio in vetro di ultima generazione di Genesys Aerosystems che può essere configurata in base alle esigenze del cliente» (“DGualdo”, un sito evidentemente promozionale di Leonardo)

  • Oltre all’indubbio affare per Leonardo, si può ipotizzare che il gigante africano immagini un innesco di conflitti nell’area… e forse l’odore di bruciato comincia a farsi più forte nella situazione del Nord Kivu, come illustrato in questo intervento di Massimo Zaurrini:
  • “Rischio di Terza guerra mondiale africana dei Grandi Laghi?”.
  • Dunque la Nigeria si sta riarmando potentemente, è sufficiente elencare i prodotti opzionati, prenotati, comprati, acquisiti che riporta “DefenceWeb”, oltre ai T-129 citati da Mazzeo e ai due AW109: gli Stati Uniti hanno approvato la possibile vendita di 12 AH-1Z alla Nigeria nell’ambito di un potenziale accordo da 997 milioni di dollari che include armi ed equipaggiamenti (nonostante i forti dubbi riguardo il mancato rispetto dei diritti umani del regime di Abuja); riceverà due aerei da trasporto C295 da Airbus, agognati dal 2016. La proposta di bilancio della Difesa nigeriana per il 2023 include finanziamenti per la manutenzione degli L-39ZA, degli Alpha Jet e propone 2,7 miliardi di dollari per tre aerei da sorveglianza/attacco MF 212 costruito dalla Magnus Aircraft nella Repubblica Ceca e 3 miliardi (6,8 milioni di dollari) per tre elicotteri Bell UH-1D.
    La BVST ((Belspetsvneshtechnika, ditta bielorussa) ha già collaborato con l’aeronautica nigeriana, fornendo la manutenzione degli elicotteri Mi-35 e l’addestramento; ora ha trasformato gli MF212 in velivoli armati ideali per compiti di sicurezza interna, sorveglianza e pattugliamento. A quanto pare, può essere equipaggiato con un gimbal elettro-ottico iSKY-30 HD e con missili R-60-NT-L o R-60-NT-T-2. In Ottobre il capo di stato maggiore Odalayo Amao aveva già dichiarato che l’Aeronautica militare nigeriana prenderà in consegna due turboelica Beechcraft King Air 360, quattro aerei di sorveglianza Diamond DA 62 e tre veicoli aerei senza pilota (UAV) Wing Loong II. Oltre a dozzine di velivoli ordinati tra il 2016 e il 2021.

Peraltro il mercato africano – ovviamente con le sue richieste. Le disponibilità di spesa e i bisogni commisurati alla tipologia di conflitti che nell’enormemente vasto territorio che costituisce condizioni di combattimento differenti – mette sul piatto finanziamenti corrispondenti alla percezione di pericolo o di preparazione di guerre e quindi mette in piedi una propria frequentata fiera. La biennale Africa Aerospace and Defense Expo di Centurion in Gauteng (Sudafrica) si è tenuta a fine settembre, proiettando in questi ultimi mesi di 2022 le prospettive di collocazione su piazza del nuovo bombardiere B-21 Northtorpe, forse non a caso presentato in Sudafrica per le sue prerogative di deterrenza, come spiega “BreakingDefense” nelle parole del generale dell’aeronautica Jason Armagost riguardo il sistema Sentinel di cui il bombardiere è parte: « Sentinel sarà altamente resiliente e flessibile. Non solo per la nostra sicurezza, ma anche per garantire i nostri partner e alleati in tutto il mondo. Si tratta di una capacità evolutiva e sono state prese decisioni deliberate su come renderla efficiente con l’infrastruttura che abbiamo, e su come modernizzare la capacità per rimanere flessibile con sistemi di missione aperti e un’architettura digitale per evolvere con ambienti di minaccia in evoluzione», sembra la descrizione del panorama fluido africano. Il B-21 verrà definitivamente svelato il 2 dicembre assicura “MilitaryTimes”: probabilmente i paesi del continente africano non si potranno permettere questo bombardiere presentato a casa loro, ma potranno svuotare gli arsenali dei bombardieri che diventeranno obsoleti dopo l’avvento di questa macchina.

Più alla portata delle casse africane è il drone greco Archytas e soprattutto il Mwari aircraft con scopi multipli e infatti già venduto a molti paesi africani; e di quei paesi elencati all’inizio di questa scheda il Botswana probabilmente prenoterà i suoi droni in funzione antimigratoria, e allo scopo i droni presentati alla fiera sudafricana descritta nel video della scheda di ottobre fanno al caso.

AW109 Trekker

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