landscape Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/landscape/ geopolitica etc Sat, 15 Aug 2020 07:06:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 La Russia e il Medio Oriente https://ogzero.org/la-russia-e-il-medio-oriente/ Mon, 06 Jul 2020 10:56:02 +0000 http://ogzero.org/?p=427 Da zar a raiss. La tentazione di esagerare, quando si affronta il tema della politica mediorientale di Vladimir Putin, è forte. Il perché è ovvio. L’operazione militare in Siria è stata (quasi) un successo, la gestione degli equilibri di forza sul campo con Iran e Turchia un capolavoro di tattica, l’offensiva diplomatica nell’area – tra […]

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Da zar a raiss. La tentazione di esagerare, quando si affronta il tema della politica mediorientale di Vladimir Putin, è forte. Il perché è ovvio. L’operazione militare in Siria è stata (quasi) un successo, la gestione degli equilibri di forza sul campo con Iran e Turchia un capolavoro di tattica, l’offensiva diplomatica nell’area – tra contratti miliardari di armi e visite di stato “storiche” del presidente russo, come quella a Riad nell’ottobre del 2019 – il tratto del maestro. Se si aggiunge lo zampino di Washington con la sua volontà di disimpegno dall’Oriente Medio, iniziata da Barack Obama e proseguita da Donald Trump, ecco spiegato perché oggi si parla di Vladimir d’Arabia. In quella parte di mondo però il successo non è mai stabile, bensì mobile come le dune dei suoi deserti. L’esempio più fulgido, e attuale, è la “campagna” di Libia. Mosca, dopo la ritirata del maresciallo Haftar, pare in difficoltà. Ma non mollerà. Perché, paradossalmente, nella mente di Putin è Tripoli, e non Damasco, il vero obiettivo per vincere la ‘regata’ nel Mediterraneo.

La Libia, infatti, per Putin è l’omphalos delle crisi che hanno portato alla destabilizzazione della regione e il segnale tangibile – se ce ne fosse ancora bisogno – che dell’Occidente non ci si può fidare. Al Cremlino, nel 2011, era in sella Dmitry Medvedev e Putin, al contrario, si era adattato alle mansioni del primo ministro (che non prevedono la politica estera, saldamente nelle mani del presidente). Come ricorda Mikhail Zygar nel suo Tutti gli uomini del Presidente, «per Putin la decisione di Medvedev di non porre il veto all’ONU sulla risoluzione antilibica fu un’imperdonabile dimostrazione di debolezza». Così ruppe la comanda del silenzio e iniziò a criticare pubblicamente la Nato (e implicitamente le decisioni di Medvedev). «Se l’obiettivo era la no-fly zone perché i palazzi di Gheddafi vengono bombardati ogni giorno?», dichiarò in Tv. Per Putin Europa e Usa non solo avevano truffato Gheddafi – prima revocando il suo status di paria, ammettendolo nel circolo bene dei vari G8, e poi pugnalandolo alla schiena – ma anche Medvedev. E dunque la Russia.

Secondo Zygar la morte del dittatore libico per Putin fu un vero e proprio shock. Non solo. Fu l’evento che lo convinse a tornare al Cremlino, ordinando a Medvedev di farsi da parte. «Il mondo è un casino, rischieresti di perdere la Russia», disse Putin al suo incredulo delfino nel corso (appropriatamente) di una battuta di pesca nei pressi di Astrakhan. «Gheddafi non credeva di certo che avrebbe perso la Libia ma gli americani lo hanno fregato: io resto il candidato più forte». Così l’arrocco fu deciso e Putin s’incoronò zar per davvero (ora, grazie alla riforma della Costituzione, potrà governare indisturbato, se lo vuole, fino al 2036). C’è di più. La Libia non è cruciale nel Putin-pensiero solo per la detronizzazione di Gheddafi, ovvero per gli effetti della rivoluzione, ma soprattutto per le sue cause. Che secondo il Cremlino sono esogene.

Tutte le “rivoluzioni colorate”, infatti, per Mosca sono create dall’estero, in particolare dalla Cia, e la “Primavera araba” rientra in questo esercizio di sovvertimento dello status quo attraverso metodi “ibridi”, che fondono la manipolazione sapiente dell’opinione pubblica (grazie ai social media) alla buona vecchia forza bruta, quando serve. L’uso qui del termine “ibrido” non è un caso. Anzi. Perché la Libia è un caleidoscopio dove le nostre certezze sulla Russia si smontano per essere ricomposte subito dopo in altra foggia e colore. Se dunque fino a oggi avete pensato che il concetto di “guerra ibrida” fosse il prisma adatto con cui osservare e spiegare le mosse di Mosca, be’, è vero l’esatto contrario. La guerra ibrida, per la Russia, l’ha inventata l’Occidente e il suo principale poligono di tiro è stata propria la Libia. Altro che Ucraina.

Ecco, qui per non perdere la bussola sarà necessario aprire una rapida parentesi. La guerra ibrida russa, nei circoli occidentali, prende anche il nome di “dottrina Gerasimov”, in onore del capo dello stato maggiore dell’esercito, il generale Valery Gerasimov. Era il febbraio del 2013 e il periodico russo “Military-Industrial Courier” aveva dato alle stampe un discorso di Gerasimov in cui il generale parlava di come, nel mondo moderno, l’uso della propaganda e dei sotterfugi rendesse possibile a «uno stato perfettamente fiorente di trasformarsi, nel giro di mesi e persino di giorni, in un’arena di feroci conflitti armati, cadere vittima d’intervento straniero e sprofondare nel caos, nella catastrofe umanitaria e nella guerra civile». Ovvero la carta d’identità della Libia post-Gheddafi.

Nel “saggio” si afferma che «lo spazio informatico apre grandi possibilità asimmetriche per ridurre la capacità combattiva di un potenziale nemico: in Africa siamo stati testimoni dell’uso delle tecnologie per influenzare istituzioni e popolazioni con l’aiuto dei network informativi (i social, N.d.r.) ed è necessario perfezionare le attività della sfera digitale, compresa la difesa nei nostri stessi obiettivi». Insomma, a essere ibridi sono gli altri, è la Russia che si deve attrezzare, e il target finale è proprio Mosca, che si vorrebbe destabilizzare con una rivoluzione colorata ad hoc. L’intervento di Gerasimov, in sé passato inosservato, è stato però tradotto in inglese e rilanciato dal blog dell’analista Mark Galeotti. Che per amor di fama ha un po’ forzato la mano. «Un blog – racconterà poi nel 2018 in un articolo pubblicato da “Foreign Policy” – è un esercizio di vanità come tante altre cose: ovviamente volevo che la gente lo leggesse. Così, per avere un titolo scattante, ho coniato il termine “dottrina Gerasimov”, anche se già allora avevo notato nel testo che questo non si trattava altro che di “un contenitore” e non era certo “una dottrina”».

Bene. Se il desiderio era fare colpo, missione compiuta. Con lo scoppiare della crisi ucraina, e l’euro-Maidan di Kiev, altra operazione speciale dell’Occidente agli occhi del Cremlino, il titolo “scattante” di Galeotti tracima l’ambito degli addetti ai lavori e grazie ai media diventa di dominio comune. «All’annessione della Crimea, quando “gli omini verdi” – commandos senza mostrine – si impadronirono della penisola senza sparare un colpo, seguì la guerra del Donbass, combattuta inizialmente da una variegata schiera di teppisti locali, separatisti, avventurieri russi e forze speciali, accompagnati da una raffica di sapida propaganda russa: all’improvviso sembrò che Gerasimov avesse davvero descritto ciò che sarebbe venuto, se solo ce ne fossimo resi conto», riflette ancora Galeotti. Il che è curioso. Sembra una versione geopolitica del Batman di Tim Burton, in cui il Joker e l’eroe mascherato si accusano di essersi creati a vicenda.

La Russia e l’Occidente d’altra parte hanno una lunga tradizione di incomprensioni reciproche e Winston Churchill si spinse a definirla «un rebus all’interno di un enigma avvolto nel mistero». Il grande statista britannico, campione negli aforismi tanto quanto modesto coi pennelli, non si limitò però a lasciarci nella nebbia. Il segreto per decifrare il segreto russo era infatti seguire il filo d’Arianna «dell’interesse nazionale». E in effetti funziona. Oggi, se vogliamo, possiamo aggiornare Churchill usando il concetto di “sovranità” – termine senz’altro più à la page – e le nebbie inizieranno a diradarsi. In Siria la Russia è intervenuta per difendere i propri interessi nazionali e la sovranità del governo in carica (piaccia o no, Bashar al-Assad formalmente era il presidente legittimamente eletto), riaffermando al contempo un doppio principio: Mosca non abbandona i propri alleati ed è ora abbastanza forte per dimenticare le guerre di cortile (Cecenia 1 e 2, Georgia 2008) e tornare a proiettare la sua influenza sullo scacchiere internazionale, come ai tempi dell’Unione Sovietica. Tripoli è dunque la conclusione logica di questo processo. Per chiudere la partita là dove è iniziata. E ristabilire al contempo il proprio interesse nazionale – ovvero il rispetto dei contratti firmati al tempo di Gheddafi.

L’abbiamo presa un tantino larga, ma alla fine siamo arrivati al punto. La Libia, per la Russia, è anche una questione di soldi. Armi, infrastrutture, energia. Mosca aveva dei bei piani con l’autore del Libro Verde. Poi è stato il caos e il Cremlino non ha perso l’occasione per ritagliarsi un posto al tavolo libico. Ma l’equazione Mosca-Libia non è automatica. O perlomeno, non lo era. Nel corso della conferenza stampa di Serghei Lavrov, ministro degli Esteri russo nonché veterano della diplomazia globale, e del suo omologo italiano (al tempo Paolo Gentiloni, era il 2016), dopo un incontro nella capitale russa, Lavrov rispose in modo abbastanza piccato a chi, tra di noi, gli chiedeva se tra Russia e Italia potesse aprirsi un ponte sul dossier libico. In sintesi, Lavrov si lamentava del fatto che in Siria la Russia era vista dall’Occidente come una forza «destabilizzante» mentre in Libia era stato l’intervento della Nato a causare «la distruzione dello stato». «Mi pare curioso pensare che adesso sia compito della Russia trovare il modo per risolvere la crisi», disse Lavrov, legando di fatto i due teatri.

Ecco, quattro anni più tardi lo status quo è sotto gli occhi di tutti. In Libia operano i mercenari russi della Wagner (benché il Cremlino smentisca) e recentemente gli Usa hanno pubblicato delle immagini satellitari che proverebbero la presenza di jet russi moderni nell’est del paese. Insomma, un aiuto sostanziale a Haftar. Mosca, dal canto suo, ha smentito anche questa informazione, per bocca di Mikhail Bogdanov, fine arabista nonché inviato speciale di Putin in Medio Oriente e viceministro degli Esteri: aerei «vecchi», già presenti «da tempo», le solite «fake news». Al di là della querelle sull’aiutino russo, che peraltro viene confermato da chiunque si occupi con attenzione di Libia, la vera questione, persino più interessante, è se davvero Haftar si possa considerare un uomo di Putin. E la risposta è ni.

Dietro l’uomo forte della Cirenaica ci sono diversi interessi. L’Egitto, per esempio. Ma anche gli Emirati Arabi. Il passato di un uomo, parafrasando Fitzgerald, non passa davvero mai, fino in fondo. Se infatti è vero che Haftar, al termine degli anni Settanta, ha ricevuto l’addestramento militare nell’Unione Sovietica, completando una speciale laurea triennale per ufficiali stranieri presso l’Accademia militare M.V. Frunze, in seguito ha poi proseguito la sua formazione militare in Egitto. Senza contare che ha vissuto per 20 anni negli Usa, fino a diventare cittadino americano. Da eroi dei due mondi a voltagabbana il confine d’altra parte è spesso sottile. Quindi sì, Mosca ha una certa familiarità con il maresciallo ma, come ha recentemente sottolineato Jalel Harchaoui, ricercatore dell’Istituto Clingendael dell’Aia, «se dipendesse dai russi, Haftar oggi avrebbe molto meno potere».

L’amara verità è che la vera novità, in Libia come in altre parti del Medio Oriente, è l’inedito attivismo della Turchia. A cambiare le sorti della guerra civile è stato l’intervento di Erdoğan, su richiesta di Tripoli. Che poi è esattamente quanto accaduto in Siria, a parti invertite. Putin in tal senso ha fatto davvero scuola e forse il sultano che fu costretto a baciare la pantofola dello zar per archiviare il grande affronto del jet russo abbattuto dai turchi nei cieli siriani si è tolto un bel sassone dalla scarpa. Sia come sia, Ankara e Mosca hanno ormai alle spalle una lunga storia di collaborazione (per certi versi quasi un’intesa). Senz’altro in Siria, dove, con l’aggiunta dell’Iran, è nata la troika genitrice del format di Astana: piaccia o non piaccia, quella piattaforma ha portato a dei progressi sul piano negoziale, sebbene forse ormai del tutto vanificati dall’esuberanza turca nell’area di Idlib.

E proprio Idlib è stata al centro delle ultime divergenze tra Mosca e Ankara, sanate poi da un summit Putin-Erdoğan in cui si è salvato il salvabile, con un’intesa che ha sino adesso riportato la calma sul terreno. In quell’occasione i due leader hanno affermato che Russia e Turchia, quando la situazione lo richiede, sanno “sempre” giungere a un “accordo”. Non sempre alleati, insomma, ma nemici mai. Un rapporto certo non facile eppure di reciproca soddisfazione. Erdoğan ha acquistato i famigerati sistemi antimissilistici russi S-400 mandando su tutte le furie gli Usa, che da un alleato Nato si aspetterebbero ben altra fedeltà. Un punto a favore (sulla carta) per Putin. C’è poi il TurkStream. Che oltre a portare altro gas russo in Turchia ha dato la possibilità al Cremlino di resuscitare, di fatto, il South Stream, allacciando al tubo i Balcani e l’Est Europa meridionale (e un giorno forse anche l’Italia). Altro favore a Putin. Ma anche a se stessa. La Turchia, infatti, è diventata così un importante hub energetico (sempre sul suo territorio passa il gasdotto che unirà a breve l’Azerbaigian alla Puglia).

Ecco allora che la presenza turca, in Libia, potrebbe non essere così deleteria, per Putin: il punto di caduta, nel medio periodo, si troverebbe su una spartizione del territorio per zone d’influenza. Poi chi vivrà vedrà. Intanto finché l’Occidente non vince, il Cremlino non perde. C’è chi pensa infatti che sarebbe un errore credere che Mosca abbia un “gran piano” in mente per tutto il Medio Oriente e il Mediterraneo. Bruno Macaes, ex ministro portoghese per gli Affari europei e autore di fortunati libri sul ruolo dell’Eurasia (e dunque di Cina e Russia) nella geopolitica che verrà, non esclude che la Russia al momento si accontenti di «partecipare al gioco».

Il coronavirus ha poi scompigliato tutte le carte. Mosca avrà il suo daffare a tamponare la crisi, che sarà pesante dal punto di vista economico, e non è detto che per Putin rappresenti un giro di boa indolore, al netto della riforma costituzionale che dovrebbe (o se non altro potrebbe) garantirgli la poltrona al Cremlino fino al 2036. Il paradiso, per lo zar, può dunque attendere, in Medio Oriente o altrove. Il 2020-2021 sarà probabilmente l’anno in cui, più che giocare a Risiko, Putin si dedicherà a consolidare il fronte interno.

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Kobane calling https://ogzero.org/kobane-calling/ Sun, 29 Mar 2020 15:24:11 +0000 http://ogzero.org/?p=46 Mentre il conflitto tra le forze politiche, economiche e sociali della Turchia proseguiva nel suo modo sempre più aggressivo e distruttivo, la Siria diventava di nuovo il centro dell’attenzione. Forse questo è uno degli elementi più importanti per comprendere meglio le motivazioni e le caratteristiche degli accadimenti avvenuti in Turchia nell’ultimo periodo. La Siria, oltre […]

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Mentre il conflitto tra le forze politiche, economiche e sociali della Turchia proseguiva nel suo modo sempre più aggressivo e distruttivo, la Siria diventava di nuovo il centro dell’attenzione. Forse questo è uno degli elementi più importanti per comprendere meglio le motivazioni e le caratteristiche degli accadimenti avvenuti in Turchia nell’ultimo periodo. La Siria, oltre a essere un campo di battaglia limitrofo alla Turchia con i suoi 900 chilometri di confine, diventava anche un problema sociale per via dell’aumento di rifugiati in fuga dal paese. In quest’ottica e tenendo in considerazione i due fattori molto importanti era impossibile che la Siria non esercitasse un’influenza sulla politica interna della Turchia. 

In primis con la definizione dei confini: durante la nascita di queste due repubbliche, intere famiglie, centinaia di villaggi, numerosi gruppi religiosi oppure semplicemente migliaia di persone sono state obbligate a fare una scelta; restare in Siria oppure in Turchia. In alcuni casi la scelta era anche obbligata dato che, come fosse stata tracciata una riga, parecchie zone abitative erano state bruscamente divise in due. Questo fatto ha colpito sia le popolazioni siriane che si definiscono arabe, sia le comunità curde, armene, turcomanne e siriache. Per cui per centinaia e migliaia di persone da più di ottant’anni Turchia vuol dire Siria e viceversa.

In secondo luogo la discriminazione messa in atto dai governi siriani partendo dagli anni Sessanta nei confronti dei curdi di Siria ha fatto sì che nascessero dei movimenti reazionari partitici oppure combattenti. Proprio in quel momento nascevano e crescevano dei movimenti analoghi in Iran ma anche in Turchia. In poche parole i movimenti reazionari partitici oppure armati tra questi due paesi sono stati sempre dei cugini e in collegamento, collaborazione e comunicazione.

Quando l’Isis ha deciso di attaccare la città di Kobane in Rojava, nel Nord della Siria, le unità di difesa popolare locali hanno provato a respingerlo. A portare sostegno e aiuto per queste unità sono stati i combattenti stranieri provenienti dall’Europa e dall’America ma anche dall’Iraq e dalla Turchia. Particolarmente nel caso della Turchia ci sono stati alcuni tentativi di massa di sfondare il confine per aderire alle forze locali nella lotta contro l’Isis. Nel mese di ottobre del 2014, quando Kobane era sotto il forte attacco di Daesh, il governo Akp non ha concesso, all’inizio, il permesso di trasportare le armi e gli uomini dall’Iraq a Kobane passando per il territorio nazionale per sostenere la resistenza. 

In quel frangente storico molto importante il neopresidente della repubblica in un suo intervento pubblico nella città di Antep, al confine con la Siria, pronunciava queste parole: «Non basta il bombardamento aereo, bisogna dare un sostegno con un intervento a terra, altrimenti non si può lottare contro questo terrore. Ecco dopo mesi, senza esiti, anche Kobane sta per cadere. La Turchia è pronta a rispondere a ogni tipo di minaccia. In particolare nessuno deve avere dubbi sul fatto che la minaccia contro la nostra caserma Suleyman Sah, un nostro territorio storico in Siria, riceverà la risposta adeguata. Osserviamo con attenzione e preoccupazione tutto ciò che accade a Kobane. Coloro che si oppongono a un intervento militare in Siria cercano di utilizzare quello che vi accade come un elemento per la politica interna». 

Mentre per Demirtaş la visione sarebbe dovuta essere diversa: infatti chiedeva al governo di aprire il confine perché i giovani dalla Turchia potessero andare a Kobane per aderire alla resistenza. Un’altra richiesta di Demirtaş era quella di permettere il passaggio dei mezzi da altri cantoni del Rojava verso Kobane. Entrambe sono state respinte dal governo. 

La violenza dell’Isis aumentava e solo nel mese di settembre circa  100 000 persone hanno forzato il confine e si sono rifugiate in Turchia. A Kobane gli scontri diventavano sempre più duri e in Turchia crescevano le manifestazioni violente in solidarietà con Kobane.

A Cizre, Diyarbakır, Ceylanpinar, Sirnak e Urfa i manifestanti si scontravano con la polizia. I manifestanti richiedevano il permesso per il trasporto delle armi e degli uomini dalla zona federale curda dell’Iraq del Nord verso Kobane e accusavano il governo nazionale della Repubblica di Turchia di sostenere l’Isis. Inoltre disapprovavano un eventuale intervento militare delle forze armate repubblicane, a differenza di quello che aveva proposto il presidente nel suo intervento pubblico a Urfa.

Così partendo dal 6 ottobre per circa una settimana scendevano in piazza migliaia di persone nelle città di Erzurum, İstanbul, Mardin, Van, Ankara, Bingol, Bursa, Diyarbakır, Gaziantep, Igdir, Smirne, Mersin, Mus, Siirt, Urfa, Batman e Sirnak. I manifestanti pro Kobane oppure i militanti dell’Hdp si scontravano con le forze armate dello stato e in alcuni casi anche con i militanti di alcuni partiti ultranazionalisti e fondamentalisti. In pochi giorni sono morte 46 persone e 682 sono rimaste ferite. La polizia ha operato 323 arresti. Per calmare le acque Demirtaş ha invitato diverse volte i manifestanti a rientrare nelle loro abitazioni e ha comunicato anche i messaggi analoghi di Abdullah Öcalan, leader del Pkk. Inoltre Demirtaş criticava la mancata collaborazione del governo e del presidente della repubblica esprimendosi così durante la conferenza stampa del 13 ottobre: «Questa indifferenza crea una rottura emotiva tra le persone. Migliaia di cittadini sono al confine da venticinque giorni a protestare contro l’Isis che massacra a Kobane e la gendarmeria non fa altro che lanciare dei lacrimogeni».

A proposito del coinvolgimento delle persone e dei movimenti in Turchia nella resistenza di Kobane, Erdoğan la pensava diversamente. Durante l’inaugurazione di una scuola coranica nella città di Rize disse: «Cosa c’entra Kobane con la Turchia? Circa 200 000 fratelli curdi sono scappati da Kobane e si sono rifugiati in Turchia. Li abbiamo soccorsi, accolti e gli diamo da mangiare. Cosa volete di più? E voi non sostenete il governo che vorrebbe entrare in Siria e in Iraq». 

Dopo quei giorni di caos il procuratore di Ankara ha denunciato alcuni vertici dell’Hdp con l’accusa di organizzare una rivolta popolare contro il governo. Successivamente anche le parole pronunciate in questo periodo da Demirtaş sarebbero state utilizzate per la rimozione della sua immunità parlamentare. 

Frags tratti da Ogni luogo è Taksim. Da Gezi Park al controgolpe di Erdoğan, di Deniz Yücel, con una prefazione di Alberto Negri e un’analisi di Murat Cinar, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

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