Kirghizistan Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/kirghizistan/ geopolitica etc Mon, 20 Jun 2022 16:28:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 «Non posso accettare che dei miei concittadini sostengano la guerra» https://ogzero.org/l-esodo-dalla-russia/ Sun, 19 Jun 2022 16:14:18 +0000 https://ogzero.org/?p=7943 Le interviste qui di seguito sono state originariamente registrate in video alla metà del mese di giugno 2022 per la Tv Svizzera Italiana nella capitale dell’Armenia, Erevan, una delle mete dell’esodo dalla Russia. Qui viene proposta la versione integrale tradotta dal russo di cinque di queste interviste. Come è normale la televisione le ha utilizzate […]

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Le interviste qui di seguito sono state originariamente registrate in video alla metà del mese di giugno 2022 per la Tv Svizzera Italiana nella capitale dell’Armenia, Erevan, una delle mete dell’esodo dalla Russia. Qui viene proposta la versione integrale tradotta dal russo di cinque di queste interviste. Come è normale la televisione le ha utilizzate solo in misura assai ridotta per un reportage sui fuorusciti dalla Russia di molti suoi cittadini, iniziata sin dall’inizio dell’“operazione speciale” ma che a chi scrive sembra che possano rappresentare un interessante spaccato delle opinioni, degli umori ma anche delle fratture psichiche che si sono prodotte nella Federazione con il conflitto.

La proposta di questo articolo è bilingue: in italiano lo sbobinamento delle interviste inserite in russo nella loro integrità ad alcuni fuorusciti dalla Russia verso l’Armenia in seguito all’esodo dalla Russia prodotto dalla “Operazione speciale” in Ucraina. Sono voci e volti che erano già critici verso l’apparato di potere che fa capo a Vladimir Putin pur non essendo per nulla famosi; ognuno di loro è di età, professione, provenienza diverse. Speriamo in questo modo di poter informare gli italiani che non si può categorizzare l’intera comunità russa come filoputiniana e guerrafondaia e i russofoni che non sono pochi i transfughi che hanno deciso di non tornare in Russia se non a seguito di un cambio di regime.

È molto difficile quantificare oggi quanti russi si sono rifugiati o hanno preso la strada dell’esilio dal 24 febbraio fino a oggi. Sicuramente sono centinaia di migliaia le persone che sono giunte in questi mesi in Armenia, in primo luogo giovani che temono la mobilitazione generale ma anche coppie e intere famiglie. Spesso sono persone a medio-alta qualifica professionale che possono sperare di trovare lavoro nel paese caucasico o in Europa occidentale.

Si giunge in Armenia perché è relativamente facile. Si tratta di un paese ex sovietico dove tutti sanno il russo, non occorre il visto e la popolazione è nota per la sua ospitalità. Molti pensano che sia solo un ponte per raggiungere altri paesi europei, altri pensano di restarci, altri ancora – passata la buriana – potrebbero tornare in Russia. Tuttavia il costo della vita con l’arrivo dei russi ha iniziato a crescere soprattutto nel settore degli affitti. Ormai non si trova più un monolocale per meno di 350 dollari al mese nella capitale (dove il reddito medio è di 5000 dollari l’anno) e molti russi stanno iniziando a scegliere altre destinazioni per tenersi lontani dal conflitto. La Georgia ma anche i paesi centroasiatici. In primo luogo, tra questi il Kirghizistan dove si trovano appartamenti a 50 dollari, frutta e verdura fresche abbondano ed è noto come il paese più democratico di tutta l’area.

Представленные ниже интервью были записаны на видео для итальянского телевидения Швейцарии в столице Армении Ереване в середине июня 2022 года. Здесь предлагается полная версия пяти из этих интервью, переведенная с русского языка. Как обычно, телевидение использовало их лишь в очень ограниченной степени для репортажа об отъезде из России многих ее граждан, который начался с самого начала “спецоперации”, но который, как кажется писателю, представляет собой интересный срез мнений, настроений, но также и психических переломов, произошедших в Федерации в связи с конфликтом.

Предложение этой статьи – двуязычное, на итальянском языке не опубликованные интервью, включенные полностью на русском языке, свидетелям, бежавшим из России в Армению после начала “спецоперации” на Украине. Это голоса и лица, которые уже критиковали аппарат власти при Владимире Путине, хотя они отнюдь не знамениты; каждый из них разного возраста, профессии и происхождения. Мы надеемся таким образом донести до итальянцев, что нельзя считать всю российскую общину пропутинской и воинствующей, а до русскоязычных – что есть не мало перебежчиков, которые решили не возвращаться в Россию, пока не произойдет смена режима.

Сегодня очень трудно подсчитать, сколько россиян укрылось или уехало в изгнание после 24 февраля. Безусловно, за последние месяцы в Армению прибыли сотни тысяч человек, в первую очередь молодые люди, опасающиеся всеобщей мобилизации, а также семейные пары и целые семьи. Часто это люди со средне-высокой профессиональной квалификацией, которые могут надеяться найти работу в кавказской стране или в Западной Европе.
Люди приезжают в Армению, потому что здесь относительно легко. Это бывшая советская страна, где все знают русский язык, виза не требуется, а население известно своим гостеприимством. Многие считают, что это просто мост в другие европейские страны, другие планируют остаться там, а третьи – когда буря пройдет – могут вернуться в Россию. Однако стоимость жизни с приездом русских начала расти, особенно в секторе аренды жилья. В столице (где средний доход составляет $5000 в год) больше нельзя найти однокомнатную квартиру дешевле $350 в месяц, и многие россияне начинают выбирать другие направления, чтобы быть подальше от конфликта. Грузия, но и страны Центральной Азии. Первым среди них является Кыргызстан, где квартиры можно найти за 50 долларов, свежие фрукты и овощи в изобилии, и он известен как самая демократическая страна во всем регионе.


Yurii ci aveva preannunciato in un intervento radiofonico su Radio Blackout questa serie di interviste raccolte a Erevan il 6 giugno:

“Diaspora russa in armenia”.

Queste interviste forniscono un quadro di chi emigra che toglie dalla “zona comfort” molti lettori che culturalmente provengono “da sinistra”. Il regime putiniano viene colto – possa ciò piacere o meno – come una continuità dell’Urss e perlomeno come un suo ritorno di fiamma. Balugina qua là anche dell’anticomunismo viscerale. Permangono illusioni inoltre sui regimi occidentali. Ma se quelle economiche sono destinate a sciogliersi presto a contatto con la dura realtà del mercato del lavoro europeo, le illusioni politiche sono destinate a permanere a lungo, inevitabilmente. La fame di democrazia politica – seppur nella forma sempre più vuota che osserviamo in Occidente – rappresenta una chimera per chi ha vissuto in un regime che qualcuno degli intervistati non fa fatica a chiamare fascismo.
Allo stesso tempo – in controluce – ritorna in alcuni degli intervistati che hanno lasciato il paese un anelito a una società non solo più “stabile” ma più giusta, più equa, meno autoritaria. Un’aspirazione in buona parte evaporata da decenni nelle metropoli capitalistiche occidentali.

Tutti gli intervistati hanno rifiutato di coprirsi il viso, distorcere la voce, cambiare nome per l’occasione. Non si tratta solo o eventualmente di coraggio ma di affermare la propria dignità e identità, soprattutto in un momento difficile come quello in cui si lascia il proprio paese.


Yurii Alexeev 48 anni. In Russia prima di emigrare a maggio 2022 viveva nella provincia di Vladimir. Laureato in giurisprudenza, esperto di IT, blogger, attivista dei diritti umani.

Che giudizio esprime dell’operazione speciale in corso in Ucraina da parte dell’esercito russo?

Innanzi tutto voglio dire che mi batto ormai da 5 anni contro il regime di Putin. Penso che Putin sia un problema per la Russia ma anche per il resto del mondo. Mi batto perché le istituzioni democratiche in Russia possano conoscere un nuovo inizio.
Per quanto riguarda la guerra che Putin sta conducendo in Ucraina, e i russi insieme a Lui (Putin da solo non avrebbe potuto condurre una tale guerra senza il sostegno di parte della popolazione) la situazione è diventata così difficile che condurre una difesa dei diritti umani e politica in Russia è diventato pericoloso. Io, il giorno in cui iniziò la guerra misi sul balcone una bandiera con scritto “No alla guerra” e mi dichiarai pubblicamente contro di essa sul mio canale YouTube. Per questo venni arrestato amministrativamente per 15 giorni. Allora capii che se fossi restato in Russia sarei stato perseguito anche penalmente. La nuova legge contro il “discredito delle Forze Armate Russe” (tale legge è stata approvata appena dopo l’inizio delle operazioni e prevede condanne penali dai 3 ai 15 anni di reclusione N.d.R.) mi avrebbe colpito sicuramente perché io non riesco a stare zitto.

Pensa quindi che la maggioranza dei russi sostenga qui l’azione in corso?

Non è proprio così. Putin e la sua banda mettono in risalto tutte quelle voci e quelle posizioni a lui favorevoli ma in realtà le cose stanno diversamente. Se la domanda sul sostegno alla guerra fosse posta dai sociologi e chi svolge i sondaggi in modo corretto la percentuale di chi è contro sarebbe due o tre volte superiore a quella di chi è favorevole.

L’impressione da fuori è che ci sia una consistente maggioranza di russi favorevole, anche se poi bisognerebbe capire dove è concentrata questa maggioranza per classi sociali e di età e per posizionamento geografico…

Ritengo che alla maggioranza assoluta, parliamo forse del 60% della popolazione, il tema “guerra” non interessi. La vedono in Tv ma ne sono distanti. Poi c’è un 20% di persone contrarie ma silenti e qualcosa di meno del 20% di favorevoli.

In Occidente dopo che si è assistito inizialmente a una grande copertura dei mass-media alle proteste ora è calato il silenzio. Cosa è successo nel frattempo?

Tutta questa gente che protestava ha lasciato la Russia. Sono qui in Armenia, in Georgia, in Lituania, in Europa. Credo che degli attivi oppositori alla guerra siano rimasti circa la metà.
Io personalmente aiuto chi arriva a Erevan a trovare una sistemazione. Spesso arriva gente traumatizzata da tutti questi mesi di pressione. Gi faccio capire che già qui in Armenia hanno dei diritti.  E il flusso continua. Gli altri, coloro che sono rimasti in Russia, sono costantemente sotto la pressione delle multe, dei fermi e degli arresti.

Lei ha deciso di andarsene dalla Russia per sempre o solo temporaneamente?

Tornerò solo se non ci sarà più “Putin”. Putin come persona e il putinismo come regime. Ma quando questo avverrà non lo posso immaginare. Nessuno lo sa. Quando i bolscevichi presero il potere chi emigrò o divenne esule pensava che sarebbe presto tornato ma poi il potere sovietico restò in piedi 70 anni. Può darsi che tutto ciò si ripeta.

Se potesse sintetizzare la sua visione politica cosa direbbe?

Mi sento un democratico e un liberale allo stesso tempo, insomma sono per la libertà. La democrazia è lo strumento “tecnologico” della libertà, prendere insieme le decisioni.

Pensa di restare qui in Armenia o di trasferirsi in Europa Occidentale?

Per me esiste il pianeta terra, non mi pongo limiti. Per questo posso dire che non mi manca neppure la Russia. Se nel futuro riterrò che dovrò spostarmi in un luogo, cercherò di farlo. Per adesso posso dire a chi ha intenzione di andarsene dalla Russia: «Venite qui! C’è molto da fare!»; se molti se ne vanno ciò comunque produrrà un indebolimento del regime.

Lei pensa che questo conflitto durerà ancora a lungo?

Non lo so, nessuno lo può dire. Spero solo che l’Ucraina vinca in modo tale che i russi capiscano che ciò che hanno fatto non si può fare. Io spero che per la Russia sia una lezione. La Russia, per usare le parole di Fëdor Dostoevskij ha realizzato un “delitto” e ora dovrà subire il “castigo”.

Per come l’ha inteso qual è l’atteggiamento degli armeni di fronte al conflitto russo/ucraino?

Lo osservano da lontano. Tendono a vedere questo scontro attraverso le lenti della crisi con l’Azerbaijan e la questione del Nagorno-Karabakh. Potremmo dire che la maggioranza non si schiera e solo una piccola parte “realisticamente” sostiene che vista la situazione geopolitica non si può non essere alleati con Putin. Ma una parte significativa ha ancora il dente avvelenato perché il Csto (Collective Security Treaty Organization, l’alleanza militare a guida russa N. d. R.) non intervenne a fianco dell’Armenia nel 2020 quando ci fu l’esplicita richiesta da parte del governo di Nikol Pashinyan


 

Ivan, 26 anni di Mosca. Specialista IT.

 

Perché ha deciso di venire a vivere a Erevan?

In Russia c’era una situazione molto difficile e poco intellegibile. I nostri politici erano assai ambigui sulla questione della mobilitazione generale. E non era neppure chiaro se le frontiere sarebbero rimaste aperte o no. Anche i cosiddetti “volontari a contratto” non si capisce se siano tali o meno. E perciò ho deciso di andarmene.
Ho partecipato a qualche manifestazione a partire dal 2017. Soprattutto quando ci furono le elezioni comunali di Mosca nel 2019. Ma ne sono rimasto deluso. Molta gente ha partecipato a delle proteste dal 2012, ma purtroppo è cambiato ben poco. Per cui ho capito che si rischiava troppo senza alcuna prospettiva e ho pensato che sarebbe stato meglio preoccuparmi del mio futuro. Ora ci sono molti programmatori e specialisti IT single come me che hanno lasciato la Russia e sono venuti in Armenia. Altri sono dubbiosi poiché dovrebbero trasferire tutta la famiglia in tal caso.

Lei ha fatto il servizio militare?

No sono stato riformato. Come si fa a essere riformati penso che tutti lo sappiano. Potrei essere mobilitato solo se fosse dichiarata formalmente la guerra. Cosa che per ora non è stata fatta.

Pensa di tornare in Russia?

Difficilmente tornerò se non cambierà il regime. Potrei tornare qualche volta per incontrare amici e parenti, ma non di più. Tornerò solo se si imporrà un sistema democratico.  Ora sto valutando diverse proposte di lavoro a distanza. Con qualche azienda armena o europea. Mi piacerebbe vivere in qualche paese europeo per un certo periodo.

Pensa che questa situazione durerà a lungo?

Vedo che molti paesi stanno cercando di isolare la Russia e c’è il rischio che il paese diventi una Nuova Corea del Nord. Vedo anche che l’Occidente ha i suoi progetti per ricostruire l’Ucraina ma non ho idea di come si ricostituirà la Russia. Non vedo nessuno a cui interessi –oltre che a noi russi – che la Russia diventi democratica. Per molti in Occidente se la Russia si trasformerà in una Nuova Corea del Nord non è poi così importante. Dipenderà quindi molto da noi russi. Si fa un grande errore se si confondono i russi con il loro attuale regime politico.

 


La fuga degli esperti di informatica.


Albert 28 anni, insegnante di Novosibirsk. Ha partecipato al movimento politico di Navalny.

Perché ha deciso di venire in Armenia?

Per me con la guerra è iniziato un periodo assai difficile. Era davvero difficile per me vivere in un’atmosfera da stato fascista e di odio. Non posso accettare che dei miei concittadini sostengano la guerra e pensino sia normale combattere contro gli ucraini, non posso accettare che si possa tentare di risolvere le controversie con la forza.

È una scelta che ha fatto da solo?

Ne ho parlato con chi faceva parte del movimento di Navalny prima della sua liquidazione, ma la mia scelta è stata individuale. Per me questa vicenda è anche una tragedia personale, qualcosa di devastante dal punto di vista umano.

Lei ha fatto parte del movimento di Navalny in quale periodo?

Non sono mai stato affiliato ma ho partecipato a tutte le fasi del suo sviluppo a Novosibirsk e certamente ancora oggi mi batto per la liberazione di Navalny e perché possa tornare alla vita politica russa. Tra il 2017 e il 2020 sono stato molto attivo sia nelle manifestazioni sia nelle campagne elettorali. È stato il più bel periodo della mia vita.

Ritiene che oggi sia insensato lottare in Russia per un cambiamento?

Io penso che per ognuno di noi sia possibile fare le sue scelte. Io credo che per me in questo momento restare in Russia e tentare di cambiare le cose non abbia senso. Tutti i mass media di opposizione come “Novaya Gazeta” e il canale televisivo Dozhd sono stati messi fuori gioco. Cercare di ridurre il tasso di fascismo è stato vano. Io sono preoccupato e temo per chi la pensa come me ed è restato in Russia. E sono felice di ogni persona che incontro qui in Armenia per il solo fatto che sia libero e vivo.

Pensa quindi che ora vivrà in Armenia a lungo?

Fino a quando Putin resterà al potere io non tornerò in Russia. Solo se si imporrà la democrazia potrò valutare la possibilità di tornare. Non credo però che resterò tutta la vita in Armenia. È un bel paese e molto ospitale ma non amo molto i suoi valori patriarcali e “tradizionali”. Per esempio l’atteggiamento verso i gay e le lesbiche. Li rispetto ma non li condivido. Pensa che ci debba essere un pluralismo su come la gente intende vivere. Per cui adesso intendo qui riprendermi moralmente ma poi vorrei cercare di trovare lavoro in Europa.

Pensa che le sanzioni che colpiscono direttamente lo stile di vita dei russi come quelle sul cinema, lo sport e la cultura siano utili o aiutino Putin a presentarsi come una vittima della russofobia per unire intorno a sé parte dell’opinione pubblica?

Ci sono delle sanzioni che conducono in Russia a un deficit di medicinali e ciò ha delle ricadute tragiche per chi non ha possibilità di recarsi all’estero per curarsi. Questo non è accettabile. Io sono contro le sanzioni settoriali che colpiscono buona parte della popolazione russa e favoriscono la propaganda del regime. Bisognerebbe puntare ancora di più sulle sanzioni individuali. In questo momento però sarebbe importante soprattutto fermare il bagno di sangue e quindi non dare la possibilità alla Russia di produrre armi. Tutto il resto è secondario.

Pensa che ci potrà essere a medio termine un cambiamento progressivo in Russia?

Che dire, ci abbiamo provato in questi anni. Invece siamo arrivato al fascismo.

Quindi nessuna speranza?

La speranza c’è sempre. Per esempio io ho un’ottima opinione di una nazione europea che è riuscita a superare il fascismo come la Spagna. Per me sarebbe molto interessante conoscere questa realtà, capire come ha superato l’eredità del fascismo e come quindi potrebbero prodursi tali tipi di mutamento anche in Russia. Però penso che dovranno passare alcune generazioni perché la Russia si metta sulla strada della democrazia definitivamente.

Credo che i mutamenti in Russia potranno avvenire più rapidamente di quanto si creda perché si tratta di un sistema molto personalistico anche se poi per consolidare i cambiamenti ovviamente ci vorrà del tempo. Il fascismo si basi sull’odio, sulla divisione dall’altro. Il fascismo è come una droga, finisce per dare dipendenza. Quando hanno iniziato a dire il Tv che gli ucraini erano i cattivi, erano da odiare, molti hanno iniziato a farlo. Purtroppo troppi si sono abituati a odiare.


Jaroslav, 25 anni, di Samara. Ha lavorato nel settore del commercio all’ingrosso, ora nell’IT.

Qui si vede l’intervista / видеоинтервью можно скачать здесь

Perché è venuto in Armenia?

Per le stesse ragioni di molti, perché la guerra, e non una “operazione speciale” come dicono, sta continuando e temo la mobilitazione. Ma già dal 2014 con l’annessione della Crimea e l’inizio delle sanzioni, sono iniziate a peggiorare le condizioni di vita. Ma non è solo questo: ho iniziato a percepire che nel paese non si assimilavano più le nuove tecnologie americane, non c’erano più start-up, insomma che stavamo arretrando. Non recepivamo più le novità dei paesi democratici avanzati.

L’idea che ci fossimo presi un pezzo di terra come la Crimea – nel mondo contemporaneo dove per le nuove tecnologie permettono di lavorare e vivere in ogni dove – mi sembrava arcaica. Nel Ventunesimo secolo avere ancora tali ambizioni imperiali mi sembrava non solo sbagliato ma fuori tempo. Già allora iniziai a riflettere dove avrei potuto trasferirmi, pensavo alla Germania soprattutto.

E poi…

Quello che è avvenuto il 24 febbraio nessuno se lo aspettava, nessuno ne sapeva nulla. In un attimo capisci che tutti i tuoi piani per il futuro saltano in aria e sei costretto a fare un bilancio finale di tutto ciò. Ecco perché ora sono in Armenia.

A Samara, la gente come ha visto il conflitto?

Mia madre e la mia fidanzata sono nettamente contrarie, mentre mio padre lo sostiene. Lui ritiene che andandomene mi sono dimostrato un traditore della patria. Ma non ritengo di esserlo. Questa non è la Seconda guerra mondiale, non ci stanno invadendo, non c’è nessun pericolo per le nostre persone care o i nostri amici.

Chi è favorevole alla guerra guarda all’America come a un mondo che degenera e allora capisci immediatamente da dove vengono queste idee, si originano dalla televisione. Forse il 60% delle persone che frequento provano a dare una giustificazione in qualche modo a questa guerra. Si tratta di persone martellate dalla propaganda che continua a ripetere all’unisono: «State tranquilli, tutto questo passerà, presto tutto finirà!». Come dicono i nostri dirigenti, “tutto sta andando secondo i piani”. Molti credono che passeranno ancora 3-4 mesi e tutto tornerà come prima.

Mi ha detto che la sua ragazza è rimasta lì. Vuole venire via anche lei?

Sì attende solo che ci siano le condizioni per farlo. Io voglio definire prima che fare nel futuro. Stabilizzare la mia situazione qui o in un altro paese. Aver da vivere insomma.

Non le sembra che così la Russia piano piano perderà tutta la forza-lavoro più specializzata, le persone più attive e intelligenti? Che il paese si impoverirà ed emergeranno solo gli “yes-man”?

Ai tempi dell’Urss non tutti volevano andare via ed era difficile andarsene. Anche ora non è facile, è qualcosa che provoca una grande tensione morale e quindi ci sarà ancora chi pazienterà. La situazione resterà probabilmente instabile anche quando Putin morirà…. Può darsi che ci sarà una continuità di regime con Patrushev (il più accreditato ora a prendere il posto di Putin nel futuro. È stato a capo del Fsb N. d. R.). Non è detto che si formerà una massa critica per il cambiamento. Nessuno può saperlo. Del resto nessuno si aspettava ai tempi che l’Urss crollasse.

Dunque la situazione resta aperta?

Sì c’è gente che ancora sostiene il regime ma con cui va tenuto aperto il dialogo, potranno cambiare idea. Prima o poi la pace, in ogni caso, arriverà, anche se non sappiamo quando sarà. E sono ottimista, non ci sarà la guerra nucleare. Ogni regime basato su un grande leader quando muore produce una grande instabilità. Successe perfino con Mao in Cina. Bisognerà muoversi verso una pace mondiale. Lentamente e sarà difficile ma è una strada che deve essere percorsa. Il processo di democratizzazione sarà lungo, deve essere basato su nuove persone e su nuove garanzie. E come russo spero che si arrivi a una stabilità come da voi in Europa. Insomma un mondo senza fame, guerre e grandi migrazioni e dove si pensi al progresso per tutti, è possibile.


Dmitry Andreyanov, 55 anni. Rostov sul Don. Giornalista prima della Tv di stato poi del canale di opposizione Dozhd (ora chiuso).


Lei viene da Rostov sul Don, una regione un po’ di confine tra il Donbass, dove ora si combatte, e il resto della Russia…

Sì è così. Già prima del 24 febbraio tutto quando succedeva ci passava sotto gli occhi. Dove vivevo io si vedevano passare le truppe e si sentivano ogni tanto anche delle esplosioni. Abbiamo visto passare i profughi già a partire dal 2014 e anche adesso prima di andarcene (sono emigrato in Armenia con tutta la famiglia, io, mia, moglie e i nostri due figli).

Lei come giornalista che viveva in quelle zone ha avuto la sensazione che si sia trattata di una guerra che è continuata senza soluzione di continuità per 8 anni?

La guerra è proseguita tra il 2014 e il 2015. Poi c’è stato un periodo di congelamento e di cessate il fuoco. E poi è ripresa già all’inizio del febbraio 2022. Quando si verificavano degli eventi importanti su scala internazionale, allora c’era una qualche ripresa del conflitto, ma complessivamente la situazione era tranquilla. Nelle due Repubbliche autoproclamate erano state aperte delle banche, c’era una qualche attività commerciale e comparvero anche attività produttive anche se non erano riconosciute, neppure dalla Russia. Provavano anche a esportare il carbone in Russia…

Dalla parte del confine ucraino c’era il blocco completo?

Non proprio. Le due repubbliche cercavano di commerciare anche in Ucraina, usando sulla “linea di contatto” dei metodi di corruttela. Insomma il contrabbando esisteva. Inoltre gli anziani e invalidi di Lugansk e di Donetsk ricevevano le pensioni ucraine. Ma per riceverle bisognava recarsi in Ucraina. Ricevevano 3 pensioni: quella russa, quella ucraina e quella della Repubblica. Cifre misere tutt’e tre, naturalmente.

Dopo il 2014 furono molti quelli che emigrarono dalle Repubbliche verso la regione di Rostov?

Sì tanti. Va capito che queste due Repubbliche autoproclamate sono una “zona grigia” dove non ci sono leggi certe, dove non c’è attività lavorativa legale. Chi ha in mano un mitra decide quali sono le leggi. E così molti nel tempo sono arrivati a Rostov ma poi si sono sparpagliati in tutta la Russia, perfino in Kamchatka. Arrivarono complessivamente 1.230.000 profughi che poi si dispersero in giro.

Lei faceva attività giornalistica nel Donbass occupato?

Fino al 2018. Ci si doveva prendere dei rischi in quanto la legge era qualcosa che andava interpretata e da ciò ne discendeva l’approccio di quelle cosiddette autorità. Poi venne introdotto un sistema di accreditamento per i giornalisti. Il primo canale russo cercò di accreditarmi ma non se ne venne a capo: neppure dopo l’interessamento del ministero degli Esteri Io non venni accreditato, mentre altri sì.

Aveva la sensazione che tutti coloro i quali erano contrari alle Repubbliche se ne fossero andati in precedenza o una parte era rimasta?

Difficile dirlo, non ci sono statistiche al riguardo. La gran parte della gente che si accorse allora che si stava imponendo il cosiddetto “Mondo russo” si rifugiarono in Ucraina. Gli altri dal 2016 furono raggruppati in campi di concentramento temporanei e poi molti tornarono a casa. Pensavano che il Donbass sarebbe diventata la nuova Crimea con tanti investimenti russi e un certo tenore di vita. Cosa che ovviamente non divenne mai realtà.  Anche perché al tempo Putin, a essere onesti, non aveva fatto alcuna promessa. Per la Russia questa regione è sempre stata solo una piattaforma da cui condurre una guerra di aggressione.

In Italia esiste una minoranza dell’opinione pubblica che ritiene che nel 2014 sia stata condotta una guerra tra battaglioni ipernazionalisti o nazisti come l’Azov e dei battaglioni antifascisti delle Repubbliche cosiddette popolari. Cosa può dire a tale proposito?

In Ucraina non c’è stata a mio avviso alcuna guerra civile. C’è stata un intervento diretto della Federazione Russa nel territorio ucraino con l’occupazione di tre provincie. Il ruolo fondamentale che venne giocato dall’esercito russo nel 2014, ormai non è un segreto per nessuno. L’uso di armi sofisticate e di missili lo dimostra con evidenza come del resto l’uso dell’aviazione. Anche alcuni reparti del Donbass ovviamente combatterono ma furono ben equipaggiati dalla Russia. E una buona fetta di costoro erano avventuristi e mercenari. L’esercito ucraino ben poco organizzata poté fare ben poco in quella situazione. Anche perché del resto era ben poco motivato a combattere.

Da quante tempo fa il giornalista?

Dal 1996 sono giornalista televisivo soprattutto su questioni politico-sociali. Ma quel tipo di giornalismo che facevo prima, in Russia già non è più possibile. Ormai negli ultimi due anni, ogni cosa che filmavi non andava bene per la polizia. Molte volte siamo stati fermati mentre riprendevamo qualcosa. Prima si poteva mettere in discussione le loro decisioni amministrative, ora hanno ragione “per principio”. I giudici ogni volta ripetono come un mantra «non abbiamo motivo di non credere a quanto sostengono le forze dell’ordine». E non importa quali prove tu possa portare a tuo sostegno, magari portando la testimonianza che qualcuno è stato picchiato senza motivo, la canzone è sempre quella: “non abbiamo motivo di non credere a quanto sostengono le forze dell’ordine”.

Lei con la sua famiglia ha deciso di andarsene per sempre?

Ce ne siamo andati subito dopo il 24 febbraio, appena è stato possibile. Appena abbiamo raccolto i mezzi economici (per ora a Erevan si possono spostare i soldi) fatto il passaporto, e quindi abbiamo fatto le valigie e siamo andati in aeroporto. Del resto non avevamo nessuna voglia di finire in galera come disertori!

Non so se torneremo. Deve cambiare qualcosa neppure tanto a livello di regime quanto qui, nell’animo. Oggi come oggi direi, per il mio stato morale, che non voglio ritornare in Russia mai più. Non voglio più essere associato con il paese in cui ho vissuto tutta la mia vita. Oggi come oggi non riesco a vedere nulla di positivo in quel paese. Se torno indietro torno all’epoca del Komsomol (la gioventù comunista dell’epoca sovietica N. d. R.), al passato sovietico, al mio lavoro all’aviazione, alla perestrojka, e via via non riesco a vedere niente di soddisfacente.

Qualcuno mi dice: “Ma lei a chi servirà in Occidente?”, io rispondo: “Cosa servo io alla Russia?” In Russia non sono né cittadino, né elettore, ma devo comunque pagare le tasse. Io da solo pago lo stipendio di due poliziotti. Sono stato scrutatore a quasi ogni elezione e ogni volta è finita che è arrivata la polizia e mi cacciavano via. Se fossi gay potrei essere ammazzato solo per essere tale. Ecco perché io non voglio tornare in quel paese.

Potrà secondo lei avvenire nel futuro un cambiamento in Russia?

Come dicevano i classici del marxismo ci vogliono le “condizioni oggettive”. Oggi in Russia ci sono le “precondizioni” solo per una dittatura ancora più dura e sanguinosa. I sondaggi che appaiono sulla guerra attuale dimostrano che esiste una maggioranza favorevole a questa guerra e potenzialmente a una dittatura ancora più dura. In realtà la maggioranza dei russi sarebbe contro la guerra: ma da una parte c’è una minoranza che abbandonato il paese e ora si trova da qualche altra parte e dall’altra una maggioranza che però in qualche modo la giustifica. “Il Capo ha deciso in questo modo, avrà avuto le sue ragioni”, si dice. Oppure: “Noi eravamo contro la guerra ma non c’erano altre possibilità!” Insomma c’è chi è categoricamente contrario e chi è contrario ma la giustifica o prova a farlo.

Ma non crede che se le cose non andranno così bene in Ucraina e all’interno si creeranno delle possibilità di cambiamento?

Credo che molti russi non siano diversi dai cubani che vivono poveramente e sotto la dittatura ma ritengono che sia sempre e solo colpa degli americani. La colpa anche in Russia sarà degli Occidentali che non ci hanno capito, che ci hanno emarginato e così via. Purtroppo abbiamo avuto tutto il mondo contro, si dirà.

Pensa che lei è la sua famiglia resterete qui o vi trasferirete altrove?

Noi sfruttiamo l’occasione che ci ha dato Putin, per girare il mondo per quanto avremo le possibilità economiche. Può darsi che quando saremo molto anziani io e mia moglie, silenziosamente torneremo a casa. Avevo sempre promesso a mia moglie che l’avrei portata a Kiev, dove sono stato studente in gioventù; le ho detto: «Per ora Kiev non si può fare. Ti basterà Parigi?».

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Timori e prospettive russe ai suoi confini meridionali https://ogzero.org/timori-e-prospettive-russe-su-kabul/ Wed, 25 Aug 2021 09:26:07 +0000 https://ogzero.org/?p=4702 Per la Russia il Centrasia è il cortile di casa. Putin, durante un vertice straordinario dell’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Csto), ha affermato che è importante limitare l’espansione dell’estremismo islamico dall’Afghanistan al resto dell’Asia, dopo la presa di potere dei talebani. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha affermato che il Csto ha discusso […]

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Per la Russia il Centrasia è il cortile di casa. Putin, durante un vertice straordinario dell’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Csto), ha affermato che è importante limitare l’espansione dell’estremismo islamico dall’Afghanistan al resto dell’Asia, dopo la presa di potere dei talebani. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha affermato che il Csto ha discusso delle implicazioni di “un’altra guerra civile in Afghanistan”, ma ha aggiunto: «Nessuno interverrà in questi eventi». La Russia ha adottato un duplice approccio nei confronti del neoproclamato Emirato Islamico. Da una parte, Mosca ha avviato contatti con i rappresentanti del Talebani; dall’altra ha annunciato, il 17 agosto, esercitazioni su larga scala in Tagikistan, lungo il confine con l’Afghanistan. Annunciando che non avrebbe ancora riconosciuto il nuovo regime di Kabul, non ha però ritirato la sua rappresentanza diplomatica; peraltro da almeno 4 anni circolano notizie di collaborazioni militari tra russi e talebani e i più avvertiti tra gli analisti americani pensano che da vecchio scacchista Putin abbia calcolato una mossa del suo gioco afgano verso il declino del sistema liberale delle democrazie occidentali, di cui questa sembra una tappa importante, anche nella lettura degli osservatori russi.

Per comprendere meglio quali contromisure alla veloce conquista talebana può avere in mente Putin e i temi che si dibattono in Russia a proposito dell’area centrasiatica abbiamo ripreso da “Matrioska”, il blog di Yurii Colombo, la raccolta di opinioni di politologi e giornalisti russi tra i più accreditati su quella parte del mondo gettate a caldo nel web nei giorni immediatamente successivi alla presa di Kabul.


Igor Yakovenko, pubblicista

Per tutti i vent’anni in cui gli Stati Uniti sono stati in Afghanistan, mantenendo il paese più o meno sicuro per i suoi vicini, la Russia ha costantemente cercato di giocare brutti scherzi. Sono riusciti a far perdere agli Stati Uniti le loro basi in Asia centrale, e si sono lamentati senza posa tra di loro sull’occupazione militare americana dell’Afghanistan. Ora è un problema del regime di Putin.

Arkady Dubnov, esperto di Asia centrale

Per la Russia, il problema principale nel trattare con i Talebani sarà la riaffermazione delle garanzie che non opererà fuori dall’Afghanistan e che non si espanderà, militarmente e ideologicamente, nell’Asia centrale. Finora i talebani non possono essere incolpati: non una volta nei loro 27 anni di esistenza hanno mostrato di volerlo.

Se verranno confermate tali garanzie, Mosca promuoverà il riconoscimento politico dei Talebani e li toglierà dalla lista delle organizzazioni terroristiche dell’Onu. Se Mosca li rimuoverà dalla sua lista è difficile da dire. Tuttavia, la richiesta dei talebani agli Stati Uniti e all’Onu – una delle principali richieste di oggi – troverà comprensione soprattutto in Russia.

Difficilmente ci si può aspettare che Mosca fornisca un’assistenza finanziaria significativa a Kabul. Gli americani e l’Occidente se ne faranno carico perché sono in gran parte responsabili di ciò che è successo oggi in Afghanistan. La Russia non è coinvolta in questo. Ma naturalmente, la Russia otterrà dividendi politici da questo.

[16 agosto]

Alexey Makarkin, analista politico

Ci sono diversi rischi. Il primo è la tendenza concreta dei Talebani a spingere verso nord. È improbabile che la leadership talebana voglia iniziare l’espansione ora, ma questo non significa che non intraprenderà tale azione in futuro. Soprattutto quando l’aiuto estero viene tagliato – in situazioni finanziarie difficili le guerre di conquista diventano una priorità. Il secondo è la misura reale in cui i leader talebani hanno l’effettivo controllo sui vari gruppi armati che possono agire autonomamente. Il terzo è l’effetto dimostrativo di una vittoria dei terroristi in un singolo paese sui loro simpatizzanti. In ogni caso, la Russia si preoccuperà di contenere i talebani nella regione e di sostenere i suoi alleati… Una vittoria dei Talebani potrebbe dare impulso ai gruppi radicali all’interno della Russia. I Talebani sono tradizionalisti, non wahhabiti, ai quali la Russia associa di solito il radicalismo islamico… Ma questo potrebbe solo accrescere il rischio, poiché la propaganda potrebbe essere fatta nelle comunità tradizionaliste, essendo più compatibile con le loro opinioni e pratiche. Si può diventare un sostenitore dei Talebani senza rompere con la Mazhab Hanafi. L’opposizione sarà condotta sia ideologicamente che dai servizi speciali, usando la forza, e ciò che ne verrà non è chiaro.

[16 agosto]

Ivan Kurilla, storico

Permettetemi di ricordare che la decisione degli Stati Uniti di andare in Afghanistan nel 2001 fu sostenuta dalla Russia, non solo perché Putin allora voleva essere amico dell’America, o perché la guerra in Cecenia fu poi reinterpretata come parte della “guerra globale al terrorismo”. Ma anche perché una delle principali preoccupazioni della politica estera russa all’inizio del secolo era il destino dei paesi dell’Asia centrale, che sembravano senza protezione contro l’islamismo talebano. Questo è il motivo per cui la Russia ha fornito agli Stati Uniti un corridoio aereo e persino un “posto di sosta” a Ulyanovsk, e ha accettato di aprire basi militari statunitensi in Uzbekistan e Kirghizistan.

Quindi è così. La situazione sembra tornare al 2001. Gli Stati Uniti ammettono il fallimento, la Russia e i suoi alleati dell’Asia centrale affrontano una nuova minaccia.

[14 agosto]

Sergey Medvedev, professore

È la più grande vittoria simbolica sugli Stati Uniti e un grande passo verso un mondo demodernizzato e un nuovo Medioevo. Gli echi di questa vittoria risuoneranno ancora per molto tempo, molto più fortemente a Mosca che a Washington; abbiamo il nostro sguardo rivolto verso questo arco di instabilità, è il nostro fronte, non quello americano. Il XXI secolo, iniziato l’11 settembre 2001, continua a rotolare verso il Caos.

[16 agosto]

Lilia Shevtsova, politologa

Naturalmente, il potere dei Talebani rimette all’ordine del giorno la minaccia del terrorismo globale. La cooperazione occidentale con la Russia e la Cina è inevitabile in tal caso. Forse i Talebani ammorbidiranno il confronto ideologico tra i rivali. I Talebani giocheranno anche un altro ruolo, costringendo l’Occidente a pensare a come promuovere i suoi valori per evitare umilianti fallimenti.

L’Occidente è cambiato dopo il Vietnam. L’Occidente sarà diverso dopo l’Afghanistan. La Russia deve prepararsi a questo. E il fatto che una sconfitta degli Stati Uniti crea una zona di instabilità vicino al confine della Russia, e non è chiaro cosa fare al riguardo, suggerisce che la sconfitta americana non è necessariamente una buona notizia per la Russia.

Piuttosto che gongolare e godere del fallimento dell’America, dovremmo imparare la lezione che non abbiamo mai tratto dalla sconfitta in Afghanistan: mai impegnarsi in un’avventura senza conoscerne le conseguenze e sapere come uscirne; ci sono guerre che non possono essere vinte.

[17 agosto]

Stanislav Kucher, giornalista

Per la Russia, il trionfo dei Talebani è una minaccia diretta e chiara alla sicurezza nazionale. Ora tutti i paesi confinanti con l’Afghanistan nella cosiddetta Csi, cioè il ventre meridionale della Russia, sono nella zona ad alto rischio. La prospettiva di espansione dell’Islam ultraradicale non è mai stata così grande come ora… Se si ha la volontà, l’emergere dei Talebani a Dushanbe è semplicemente una questione di tempo… Sia geopoliticamente che ideologicamente, un trionfo talebano è più pericoloso per la Russia che per gli Stati Uniti.

…Posso facilmente immaginare come in Russia, in certe circostanze, un Talebano ortodosso convenzionale alzerà la testa. Cioè, una certa terza forza che odia allo stesso modo il governo corrotto e i suoi alleati, i liberali, e l’Occidente, il quale secondo loro, non ha portato altro che male alla Russia durante la sua storia.

[16 agosto]

Nikolai Mitrokhin, storico, sociologo

A giudicare dalle reazioni delle ambasciate russa, cinese e iraniana, che non stanno per essere evacuate, la cerchia di amici dei talebani e del nuovo Afghanistan sotto la loro guida, è evidente. E la Russia è abbastanza soddisfatta della vittoria dei Talebani. Così è. Come dice in pubblico M. Shevchenko, esperto di contatti segreti con i radicali barbuti, tutta l’ala militare del paese ha studiato in Unione Sovietica ed era membro del partito.

Ma in ogni caso, dal punto di vista della geopolitica ufficiale russa, il crollo della democrazia di tipo europeo in Afghanistan è una grande vittoria per l’internazionale autoritaria conservatrice in cui la Russia gioca un ruolo significativo. Ma al di là dello spettacolo di un nemico umiliato, ancora più importante, è che i Talebani hanno preso il controllo di un paese chiave dell’Asia centrale. E questo significa che gli interessi americani ed europei si sono ritirati dalla zona dell’“interesse vitale” della Federazione Russa o, per dirla meglio, dai confini dell’ex Unione Sovietica. Cioè, se i paesi postsovietici dell’Asia centrale erano di interesse per gli Stati Uniti e l’UE come transito per il contingente in Afghanistan, questo interesse è ora scomparso.

I paesi dell’Asia centrale sono ora stretti tra gli interessi della Cina, della Turchia, della Federazione Russa e dei loro pericolosi vicini del sud. Allo stesso tempo, la Turchia è lontana e non entrerà in guerra nella regione. Pertanto, la Russia ha un’“opportunità” per stabilire le sue guarnigioni ovunque, come ha fatto lo scorso inverno nel Caucaso meridionale. E in seguito, dovrà applicare delicatamente e sistematicamente la sua pressione. Se il Kirghizistan e il Tagikistan sono satelliti russi, l’Uzbekistan ha agito indipendentemente per 20 anni, e il Turkmenistan ha guardato troppo in direzione dell’Iran. Non credo che ora creeranno problemi ai turkmeni, ma tratteranno seriamente con l’Uzbekistan. Le truppe russe sono già lì (per prima volta in 25 anni) ci hanno già messo un paio di migliaia di uomini). Ritengo che la Russia finirà per aprire proprie basi a Termez, Karshi, Fergana (dove i generali russi hanno passato la loro gioventù in addestramento) e una specie di centro di coordinamento e base aerea a Tashkent.

[17 agosto]

 

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Gli sguardi centrasiatici sul paese al centro dell’Asia centrale https://ogzero.org/gli-spunti-di-analisi-degli-stan-nel-great-game-afgano/ Sat, 14 Aug 2021 19:00:02 +0000 https://ogzero.org/?p=4615 “Belt and Road Watcher” è la fonte originale che ha assemblato in lingua cinese i molteplici spunti di analisi dell’Eurasian Rhythm Network che gli “stan” vanno sviluppando per digerire e collocare l’evoluzione del Great Game afgano nella giusta dimensione dal punto di vista regionale. L’ennesimo giro di valzer che il mondo inscena per continuare a […]

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“Belt and Road Watcher” è la fonte originale che ha assemblato in lingua cinese i molteplici spunti di analisi dell’Eurasian Rhythm Network che gli “stan” vanno sviluppando per digerire e collocare l’evoluzione del Great Game afgano nella giusta dimensione dal punto di vista regionale. L’ennesimo giro di valzer che il mondo inscena per continuare a sfruttare il paese all’ombra dei nuovi vecchi padroni dell’Afghanistan, che abbiamo cercato di approfondire nello studium “La solita musica afgana?”, chiedendoci se sarà un altro Afghanistan quello imbandito in questi due mesi di approcci internazionali.

Sabrina Moles ha scovato e tradotto per noi questo lavoro redazionale di “Belt and Road Watcher” firmato da Edward Polletayev, utile per acquisire un ulteriore approccio al garbuglio centrasiatico, questa volta elencando il punto di vista dei paesi limitrofi, ma con l’interessante mediazione dell’“occhio cinese”.


L’Afghanistan unirà in una strategia panregionale i paesi dell’Asia centrale?

Fotografia scattata al momento dell’analisi

Il portavoce dei Talebani Zabihullah Mujahid ha affermato sui social media che le milizie hanno occupato il capoluogo di provincia Ghazni, è la decima città a cadere sotto il loro controllo, a soli 150 km dalla capitale Kabul. Funzionari della difesa degli Stati Uniti hanno affermato che i militanti talebani potrebbero tagliare la capitale afgana Kabul dal mondo esterno entro 30 giorni e potrebbero occupare Kabul entro 90 giorni.

In questi ultimi mesi alcuni media dell’ex Unione Sovietica hanno pubblicato diversi articoli di analisti ed esperti che parlano dei problemi delle nazioni dell’Asia centrale. Il tutto motivato principalmente dal ritiro degli Stati Uniti e delle truppe Nato dall’Afghanistan. Si cerca di rispondere a due domande in particolare: “Ora che cosa dovremmo fare?” e “Quanto la crisi afghana influenzerà la sicurezza della regione?”. Di conseguenza cresce la tensione generale, tensione che continua ad aumentare a causa della crescente incertezza su quello che accadrà nelle prossime settimane.

Fino a oggi le nazioni dell’Asia centrale non sono state in grado di rispondere con una strategia unitaria, anche se sono aumentate di recente le occasioni di confronto e dialogo tra i capi di stato. Per esempio, il Turkmenistan ha ospitato lo scorso 6 agosto la terza assemblea generale degli stati dell’Asia centrale. Ogni incontro è stata occasione per parlare della questione afghana sia da un punto di vista militare che di sviluppo. Il 24 luglio il presidente russo Vladimir Putin e il presidente del Kazakistan Kassym-Jomart Tokayev si sono concentrati sul possibile impatto della crisi afghana sulla sicurezza e sulla stabilità della regione.

KazAID, un possibile aiuto finanziario regionale

La stabilità dell’Afghanistan influisce oggi sulla ridefinizione della regione, diventando l’interesse principale che le nazioni dell’Asia centrale hanno in comune. Molti esperti di affari della regione hanno discusso della questione in occasione dell’incontro intitolato Asia centrale dopo il 2021: sfide e opportunità. Il Kazakistan ha recentemente istituito l’Agenzia per la cooperazione allo sviluppo internazionale KazAID, che si occupa dell’Afghanistan e dell’Asia centrale e fornisce sostegno finanziario ai progetti. Nel luglio di quest’anno, il presidente Tokayev ha approvato le principali direttive politiche nazionali per l’assistenza ufficiale allo sviluppo per il periodo 2021-2025. Il documento afferma che «i paesi dell’Asia centrale e la Repubblica islamica dell’Afghanistan diventeranno la priorità degli aiuti allo sviluppo». Tuttavia, la minaccia afghana e la definizione dei confini del paese in Asia centrale, così come la sostenibilità della sua politica interna, sono state a lungo oggetto di dibattito.

La situazione in Afghanistan è una minaccia per l’Asia centrale?

La ricercatrice dell’Istituto kazako di Studi strategici Irina Chernykh ha sottolineato:

Quello di cui stiamo parlando ora è simile al dialogo dalla fine degli anni Novanta all’inizio del XXI secolo. L’Asia centrale esiste come regione o no? Per me è regionalizzato. Qual è lo standard? Circa 20 anni fa, abbiamo menzionato il Great Game in Asia centrale. A quel tempo, l’Afghanistan era la principale minaccia per la regione. Qualche anno dopo, ritorna ancora una volta la questione della sicurezza e dell’unificazione dell’Asia centrale.

Guzel Majtdinova, direttore del Centro di studi geopolitici e professore del Dipartimento di politica estera presso l’Università russo-tagika, ritiene che l’Asia centrale moderna sia nel pieno di un processo che punta a ripristinare l’integrità geopolitica basata su fattori storici, economici e culturali che accomunano i paesi dell’area. Ha detto:

L’Asia centrale non è solo le cinque ex repubbliche sovietiche definite dalle Nazioni Unite, ma include parti dell’India, del Pakistan, dell’Iran e dell’intero Afghanistan, nonché della Cina occidentale. Finora si è ottenuto un certo livello di cooperazione nell’area settentrionale dell’ex Unione Sovietica. Al contrario, l’unità regionale dell’Asia meridionale è lontana dall’essere una realtà, a causa dei problemi di connettività e di sicurezza. In realtà, se si fa riferimento ai cinque paesi dell’ex Unione sovietica, l’Asia centrale negli ultimi anni ha compiuto progressi in alcune aree di cooperazione e il livello di interazione regionale bilaterale e multilaterale è notevolmente aumentato. Per esempio, l’approfondimento delle relazioni con l’Uzbekistan è inseparabile dall’Unione economica eurasiatica.

Lavshan Nazarov, professore associato del Dipartimento distaccato di economia della Plekhanov Russian University of Economics a Tashkent, ha dichiarato:

L’Afghanistan è una parte imprescindibile dell’Asia centrale. Bisogna chiarirlo a più riprese, quella che interpretiamo come Asia centrale è l’Asia del post-Unione Sovietica. Quindi l’Afghanistan non può essere ‘scollato’ da questo concetto”.

Nazarov sostiene che il problema principale dell’Afghanistan è che manca di un passato di occupazione coloniale.

I pashtun che un tempo vivevano nell’impero britannico oggi sono cittadini del Pakistan. Il loro tasso di alfabetizzazione era quattro volte quello dei Pashtun in Afghanistan. Mentre, al contrario, non ha senso parlare di divario culturale tra gli altri stati dell’Asia centrale, dove invece il tasso di alfabetizzazione non è inferiore al 97 per cento.

Tuttavia, Lesya Karatayeva, ricercatrice dell’Istituto presidenziale del Kazakistan per gli studi strategici, ritiene che non importa quale nuovo slancio abbia avuto la discussione sulla qualità della regionalizzazione dell’Asia centrale postsovietica: in ogni caso sarà difficile compiere progressi significativi nel rafforzamento regionale. Ha spiegato:

La sicurezza è un fattore importante. In questo caso, ha senso prestare attenzione al fatto che l’instabilità della situazione politica in un determinato paese o il deterioramento delle relazioni bilaterali influenzerà la situazione di altri paesi della regione? L’esperienza ci ha insegnato che non c’è un’influenza grave. Quando crisi occasionali accadono, bisogna rispondere con decisioni politiche; ogni deterioramento occasionale richiede una risposta politica, ma per i paesi che non si lasciano coinvolgere non rappresenta un rischio per la sicurezza, né vi è alcuna escalation in instabilità regionale.

Un altro problema importante: il processo di state-building afghano ha dei rischi per la regione?

Karatayeva ha poi spiegato:

La posizione di ciascun paese su questo tema dipende dal grado di vicinanza all’Afghanistan. Per esempio, per il Tagikistan e il Kazakistan, il grado di percezione del rischio è diverso. Ironia della sorte, il suo ruolo di ‘outsider’ ha notevolmente promosso l’integrazione dell’Asia centrale. Per almeno un quarto di secolo, la riluttanza dell’Afghanistan a unirsi al piccolo gruppo dei paesi dell’Asia centrale ha sostenuto l’agenda di politica estera dell’intera regione.

La ricercatrice ha anche affermato che dal 2018 la visione sul ruolo dell’Afghanistan è cambiata e anche la situazione interna in Afghanistan è cambiata.

Al momento è difficile fare previsioni, ci sono troppi fattori di incertezza. Da un lato, la realizzazione di progetti economici richiede sicurezza. Nessuno è interessato a investire in territori instabili. Dall’altro, se la situazione economica ha bisogno di migliorare, come raggiungere la stabilità? Partecipanti diversi, interessi diversi, posizioni diverse. Una cosa è certa: non c’è bisogno di aspettarsi risultati presto.

Marat Shibutov, membro del Kazakistan National Public Trust Committee e membro dell’Almaty Public Committee, ha dichiarato:

Il recente conflitto al confine di Gita è di grande importanza per l’Asia centrale. Questo è il vero risultato, possiamo addirittura dire che sia una nuova epoca per il rilancio delle relazioni tra questi paesi. Non dobbiamo avere paura dei Talebani, la maggior parte di loro sono una minaccia “inventata, esagerata”. Ciò che è necessario ora è guardarci l’un l’altro: l’Asia centrale ha una mole enorme di conflitti irrisolti. Di conseguenza, i conflitti passano da potenziali a armati Ci sono anche molte ragioni per i conflitti. Per esempio, è arrivato il periodo di siccità e la siccità estiva durerà per tre anni. Non si sa ancora cosa ne deriverà. Potrebbero esserci conflitti armati a causa dell’estrazione dell’acqua. È meglio spostare l’attenzione dall’Afghanistan alle questioni regionali, altrimenti rischiamo di diventare nuovamente estranei tra di noi.

Come ha affermato il professore della Kazakh-German University Rustam Burnashev, per 30 anni i paesi dell’Asia centrale non sono stati in grado di stabilire relazioni nel campo della sicurezza regionale. Ma a suo avviso, il fallimento è proprio perché questi paesi non hanno avuto conflitti importanti. Ha detto:

Non si è mai creata l’esigenza di cooperare. Se, per esempio, il Kirghizistan e il Tagikistan entrassero in una fase di conflitto violento, allora sarebbe immediatamente necessaria la cooperazione regionale. Finché non si presentano occasioni di tale gravità, vivremo tutti al sicuro nel nostro ‘buco’.

Burnashev ritiene che l’Uzbekistan oggi stia costruendo il suo ideale di Asia centrale, ma si presentano due problematiche impreviste. Spiega:

Il primo è rafforzare i legami con l’Afghanistan: non tiene più le distanze e comincia a vederlo come un’opportunità. L’Uzbekistan è un ponte verso l’Asia meridionale e il Medio Oriente. Esistono ancora collegamenti con l’Iran. Ciò fornisce all’Uzbekistan maggiori opportunità per entrare nel mercato mondiale ed espandere il proprio.

Il secondo punto è il cambiamento nella percezione della sicurezza. Burnashev dice:

La recente conferenza internazionale sull’Asia centrale e meridionale a Tashkent ha chiarito che per l’Uzbekistan il concetto di sicurezza va ora ben oltre la cosiddetta “sicurezza nuda” in quanto tale, ma si estende anche alla sicurezza degli esseri umani, dell’ambiente e dell’economia. Allo stesso tempo, l’Istituto di ricerca internazionale dell’Asia centrale nella capitale dell’Uzbekistan è stato ufficialmente messo in funzione.

In ogni caso, tutti gli esperti concordano sul fatto che il modello tradizionale di risoluzione del problema afghano stia diventando un ricordo del passato. Sergey Belyakov, professore alla Siberian School of Management, ha dichiarato:

L’Asia centrale ha bisogno di sviluppare un suo modo di risoluzione di questo problema e sviluppare una propria strategia. Forse l’idea di una potenziale espansione esterna dei talebani è un po’ esagerata, perché i Pashtun si concentrano principalmente sul controllo del proprio Paese. Ma in ogni caso, in quanto vicini dell’Afghanistan, abbiamo molti legami in comune, etnie in comune. Questo significa che una risposta pronta deve essere necessaria.

 

La normalizzazione talebana: meglio non scuotere l’albero

Andrei Chebotarev, direttore del Kazakhstan Center for Alternative Contemporary Research, ritiene che le vaghe prospettive di ulteriore sviluppo della situazione in Afghanistan abbiano oggettivamente stimolato i paesi dell’Asia centrale non solo a proseguire il processo di cooperazione multilaterale intraregionale avviato nel 2018, ma anche ad accelerare il processo di instaurazione di meccanismi di coordinamento e azione.

Ha sottolineato:

Il punto centrale della questione riguarda la sicurezza della regione. La base giuridica di questi accordi risale già al 2000, ma non è mai stato attuato concretamente il Trattato per combattere il terrorismo, l’estremismo politico e religioso, la criminalità organizzata transnazionale e altre minacce alla stabilità e alla sicurezza. I suoi firmatari sono Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan. Questi paesi potrebbero da subito avviare discussioni di cooperazione nell’ambito di questo documento e invitare il Turkmenistan ad aderire.

Un altro aspetto, sostiene Chebotarev, riguarda il fatto che le controversie nei rapporti bilaterali tra le varie nazioni dell’Asia centrale potrebbero ostacolare questo processo di integrazione.

Soprattutto i problemi irrisolti di confine. In questo caso, è meglio che i paesi della regione considerino e discutano l’istituzione di un meccanismo di mediazione congiunto per facilitare la risoluzione di determinate controversie e conflitti. Questo potrebbe avvicinare i cinque paesi.

Anche Doron Aben, ricercatore presso l’Accademia delle scienze eurasiatica, si trova d’accordo con questa interpretazione. Ha affermato:

La normalizzazione della situazione in Afghanistan è nell’interesse di tutte le parti. Pertanto, nella realtà attuale, è necessario prestare attenzione, in modo pragmatico, alla cooperazione tra Uzbekistan e Kazakistan, che sono i principali attori in questo. Quando il bacino idrico di Saldoba è crollato e l’acqua si è riversata in Kazakistan, le due parti hanno dato l’esempio di come sia possibile cooperare in una situazione di emergenza. L’Uzbekistan ha contribuito alle operazioni postcrisi e al risarcimento dei danni al Kazakistan. Allo stesso tempo, le due parti stanno risolvendo la questione della creazione di un centro di cooperazione internazionale transfrontaliera al confine tra i due paesi. In altre parole, «possiamo cooperare e abbiamo il potenziale di cooperare».

Anche l’analista Zamir Karazhanov tende a credere che la situazione non sia così grave. Ha detto:

In generale ci sono pochissime regioni al mondo che si stanno integrando e hanno gli stessi obiettivi e interessi. Per esempio, quando è comparsa la crisi del debito e i relativi problemi in Europa, c’era persino una tendenza a dividersi, non è un’organizzazione o un’associazione perfetta. I problemi esistono e l’attenzione deve andare su come superarli. Questo potrebbe essere l’indicatore più importante di integrazione e regionalizzazione.

L’esperto ha sottolineato che l’Afghanistan è oggi uno dei motori principali di questa tendenza. Sebbene in linea di principio l’Afghanistan influisca da 30 anni sui paesi postsovietici della regione, anche solo perché questi ultimi non hanno accesso ai porti del Sud, dell’Oceano Indiano, del Pakistan e dell’India. Karazhanov ha dichiarato:

Tutti capiscono che i Talebani influiscono sulla stabilità dell’Afghanistan. Forse, con i talebani che finalmente saliranno al potere, la situazione in Afghanistan tornerà alla normalità. Se sia possibile negoziare con loro o meno non è ancora certo, ma sappiamo bene che sono tanti gli obbiettivi e interessi comuni. Tuttavia, l’attuazione di questi progetti è possibile solo se sarà garantita la sicurezza della regione. In Afghanistan, dobbiamo trovare il male minore.

Nel frattempo, Karazhanov confida nel fatto che i paesi dell’Asia centrale possono creare dei forti legami di cooperazione. E conclude:

Tutti sono paesi senza sbocco sul mare. È come un albero con degli uccelli posati sopra: meglio non scuoterlo, altrimenti voleranno tutti via.

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Kabul post-Usa: il Cremlino corre ai ripari in Centrasia https://ogzero.org/astana-e-realmente-tramontata-l-afghanistan-e-la-ritirata-usa/ Thu, 22 Jul 2021 10:13:50 +0000 https://ogzero.org/?p=4306 Il punto di vista di Yurii Colombo sulla situazione che la Russia si trova ad affrontare con il ritiro delle truppe Usa dal suolo afgano. L’equilibrio dei paesi ex sovietici traballa e Putin si muove cautamente: dopo le vicende in Nagorno-Karabach e di fronte alla conquista neotalebana che potrebbe riportare l’islamismo radicale nei paesi più […]

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Il punto di vista di Yurii Colombo sulla situazione che la Russia si trova ad affrontare con il ritiro delle truppe Usa dal suolo afgano. L’equilibrio dei paesi ex sovietici traballa e Putin si muove cautamente: dopo le vicende in Nagorno-Karabach e di fronte alla conquista neotalebana che potrebbe riportare l’islamismo radicale nei paesi più poveri del Centrasia la Russia non può che trattare con molta cautela direttamente con i Talebani. Al Cremlino si pensa che gli Stati Uniti abbiano intenzione di usare l’Asia centrale come trampolino di lancio per contenere Russia, Cina, Turchia e Iran. Astana è realmente tramontata?

Questo articolo di Yurii Colombo si affianca ad altri due interventi contemporanei ospitati sul sito, uno di Emanuele Giordana e l’altro di Sabrina Moles, completando la panoramica sulla situazione geopolitica afgana in seguito al ritiro delle truppe americane dal paese che abbiamo intrapreso cominciando da una tavola rotonda che li ha visti partecipi e trasmessa in diretta nella serata del 13 luglio da Radio Blackout, un’analisi che poi abbiamo cercato di approfondire nello studium “La solita musica afgana?”, chiedendoci se sarà un altro Afghanistan quello imbandito in questi due mesi di approcci internazionali.


L’ormai prossima conquista da parte dei neotalebani di tutto il territorio afgano sta inquietando non poco il Cremlino. I motivi sono evidenti. Malgrado Mosca non abbia più confini con Kabul, tre paesi centroasiatici ex sovietici (Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan) si trovano a diretto contatto con il paese più conteso dell’area, facendo diventare molto concreta la possibilità di una futura penetrazione in Russia della guerriglia radicale islamica.

Fonte: elaborazione OGzero, da La Grande Illusione. L’Afghanistan in guerra dal 1979, a cura di Emanuele Giordana (Rosenberg & Sellier, 2019)

Dopo che Michail Gorbaciov ordinò il ritiro delle truppe sovietiche, l’Urss e poi la Federazione Russa non cessarono naturalmente di interessarsi alle vicende afgane: sostennero il regime di Najibullah e seppur con accortezza, anche lo sforzo bellico degli Usa e dei suoi alleati per stabilizzare e neocolonizzare il paese dopo l’Undici Settembre. Non è un caso che quando l’amministrazione Trump decise di lasciare l’Afghanistan al suo destino, al Cremlino non hanno avuto ragioni per festeggiare la ritirata americana, anzi. Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha espresso un giudizio molto netto sui 20 anni di presenza Nato in Afghanistan e sulle sue prospettive:

«La situazione tende a un rapido deterioramento, anche nel contesto del ritiro precipitoso delle truppe americane e di altre truppe della Nato, che nei decenni della loro permanenza in questo paese non hanno raggiunto risultati tangibili in termini di stabilizzazione della situazione».

Il confine afgano-tagiko

La Russia però, ancor prima di pensare a strategie ad ampio raggio, ha bisogno di affrontare con urgenza la situazione apertasi al confine tra Afghanistan e Tagikistan con l’inizio dell’estate. Ai primi di luglio 2021, le guardie di frontiera del Tagikistan hanno permesso l’ingresso nel paese a più di 1000 soldati afgani in rotta dopo un duro scontro con i Talebani. Secondo quanto riportato da fonti dell’intelligence russa, i Talebani controllerebbero già oltre il 70 per cento dei 1344 chilometri del confine afgano-tagiko. Che le valutazioni russe siano in linea di massima corrette è stato confermato dal Comitato di Stato per la sicurezza nazionale del Tagikistan, il quale sostiene che i Talebani sarebbero riusciti a impossessarsi dell’ufficio del comandante di frontiera di Ovez nella contea di Hohon. Si tratta del Gorno-Badakhshan, dove gli insediamenti tagiki e afgani si trovano uno di fronte all’altro, separati solo dal fiume Pyanj.

Putin e l’impegno coi tagiki

Vladimir Putin sta monitorando la situazione da vicino e ha espresso dopo un colloquio con il presidente tagiko Emomali Rahmon, anche formalmente la sua disponibilità a fornire sostegno al Tagikistan su base bilaterale e nel quadro dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (l’alleanza militare guidata dalla Russia che ha sostituito il Patto di Varsavia e di cui fanno parte oltre la Federazione Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan l’Armenia e la Bielorussia) se i Talebani dovessero decidere di far penetrare le loro strutture militari nel paese ex sovietico. La Russia ha una presenza non propriamente simbolica in Tagikistan: la sua base militare nel paese è a soli 70 chilometri dal confine afgano e può garantire in pochissimo tempo l’arrivo in zona di truppe e di artiglieria pesante. Tuttavia l’avvertimento del presidente russo per ora sembra più che altro formale come già era avvenuto con l’Armenia in autunno durante la guerra dello scorso autunno nel Nagorno-Karabach. La Russia è rimasta scottata in Afghanistan e ha dovuto constatare che neppure l’alleanza militare più forte del mondo è riuscita a sconfiggere l’islamismo radicale e quindi agirà con molta cautela.

Tanto è vero che mentre rassicurava l’alleato tagiko ha invitato per una due-giorni di colloqui informali a Mosca proprio una delegazione talebana (a dimostrazione che in politica e diplomazia tutto è possibile visto che l’organizzazione musulmana in questione è fuorilegge in Russia).

Una delegazione dell’ufficio politico del movimento talebano composta da quattro persone e guidata dallo sceicco Shahabuddin Delawar ha provato a rassicurare i russi sulle loro intenzioni una volta che avranno conquistato Kabul. I Talebani, secondo il comunicato del ministero degli Esteri russo seguito agli incontri, «hanno confermato il loro interesse a raggiungere una pace sostenibile nel paese attraverso negoziati, tenendo conto degli interessi di tutti i gruppi etnici della popolazione del paese, nonché della loro disponibilità a rispettare i diritti umani, comprese le donne nel quadro delle norme islamiche e delle tradizioni afgane».

I Talebani hanno perfino sostenuto di voler combattere l’Isis sul proprio territorio e di non voler violare i confini degli stati dell’Asia Centrale.

Non credete alle promesse dei Talebani

Forse i Talebani sono cambiati, forse sono meno rigidi ideologicamente e più “glamour”, ma è pur sempre un’organizzazione radicale, è un “ordine della sharia” di cui i russi non si fidano. Si tratta di un approccio condiviso da Andrey Serenko, direttore del centro di analisi della Società russa di scienze politiche, che aggiunge: «Non bisogna credere alle promesse talebane di combattere il narcotraffico, le cui entrate ammontano oggi ad almeno la metà dell’intero bilancio dei Talebani (cioè circa un miliardo di dollari), e neppure bisogna far conto sulle loro promesse di non proliferazione della guerra oltre i confini afgani».

I russi si sarebbero trovati di fronte alla stessa faccia moderata che gli islamici radicali hanno già tentato di mostrare agli americani, anche se nessuno ovviamente può realmente prevedere quali saranno le loro intenzioni una volta che conquisteranno Kabul. Mosca però deve fare di necessità virtù e ha accolto positivamente le rassicurazioni e sottobanco probabilmente si è dimostrata persino disponibile a finanziare la ricostruzione delle infrastrutture afgane proponendo di fornire bollette petrolifere low-cost al futuro governo a trazione talebana.

Turkmeni e uzbeki: di nuovo sotto l’ala di Mosca?

La prudenza del Cremlino è stata intesa perfettamente a Dushanbe tanto è vero che il presidente tagiko Emomali Rahmon ha capito che per ora dovrà difendersi da solo e ha incaricato il ministro della Difesa di mobilitare 20.000 riservisti per rafforzare il confine tagiko-afgano.

Anche gli altri paesi centro-asiatici sono sul chi vive e mostrano preoccupazione, soprattutto il Turkmenistan e l’Uzbekistan, i quali dopo il crollo dell’Urss si erano defilati su posizioni neutrali ma che ora potrebbero essere costretti, almeno temporaneamente, a tornare sotto l’ala protettrice di Mosca.

Le autorità uzbeke hanno già chiuso il ponte di Termez, attraverso il quale i soldati sovietici entrarono in Afghanistan nel 1979 e se ne andarono nel 1989 e il loro esercito sta conducendo esercitazioni su larga scala al confine con l’Afghanistan, mentre nelle scuole si tengono corsi di addestramento militare.

L’arrivo di Lavrov in Uzbekistan.

Il terreno fertile per il successo dei Talebani

Se si esclude il Kazakistan dove la crescita economica sta perfino conducendo alla formazione di una significativa classe media, gli altri paesi centroasiatici restano poverissimi, sono spesso governati da caste corrotte e autoritarie e alimentano costanti flussi migratori verso le metropoli russe.

I Talebani una volta insediatisi al potere potrebbero far diventare il paese la “terra promessa” per radicali e islamisti di tutto il mondo ma soprattutto attirare dalla loro parte quelle frange giovanili del Centrasia che hanno partecipato in migliaia all’avventura dell’Isis in Siria.

Mercenari siriani alleati della Turchia

Tra le fila talebane del resto già adesso si trovano molti giovani militanti di etnia uzbeka, turkmena e tagika, attirati dalle sirene di un’ideologia reazionaria che si presenta radicale e non incline ai compromessi. Ma anche organizzazioni più strutturate e con una certa tradizione come per esempio il Movimento islamico del Turkestan orientale piuttosto attivo nella regione negli ultimi anni, soprattutto in Kirghizistan. Dopo le disfatte subite dall’esercito cinese negli scorsi decenni, questa formazione ha costruito legami stabili anche con i Talebani.

I Talebani verso l’Asia Centrale

Secondo l’editorialista di “Kommersant” Maxim Yushin anche la stessa determinazione dei Talebani a combattere lo Stato Islamico potrebbe rivelarsi un boomerang per i russi e i propri alleati. «I Talebani – scrive Yushin – possono iniziare l’espansione in Asia Centrale, possono cacciare i loro avversari dello Stato Islamico. Ci sarebbero allora decine di migliaia di tagiki e uzbeki, in precedenza arruolati nell’Isis, in fuga dai nuovi padroni del paese che potrebbero riversarsi in Tagikistan e Uzbekistan, il che inevitabilmente aumenterebbe la tensione sociale e politica in questi stati, dove già ci sono abbastanza problemi».

Se la situazione prendesse un tale corso, secondo lo specialista russo di Afghanistan, Mosca allora non potrebbe abbandonare i regimi laici di Dushanbe, Tashkent, Ashgabat e Bishkek al loro destino. «La radicalizzazione della popolazione dell’Asia centrale – conclude Yushin – è uno scenario disastroso per le autorità russe, dato che milioni di persone di queste repubbliche lavorano nel nostro paese. Tutto sommato, da un mal di testa americano, l’Afghanistan molto presto potrebbe trasformarsi in un mal di testa russo».

Un ragionamento che filerebbe fino in fondo se non fosse che una parte dei gruppi dirigenti dei paesi del Centrasia sarebbe tentata di avere relazioni dirette con i Talebani per evitare di tornare a essere delle specie di protettorati russi.

Resta da vedere per la Russia anche quali relazioni stabilire pure con il traballante governo di Kabul. Secondo gli specialisti del Fsb l’esercito afgano sta perdendo la partita con la guerriglia musulmana sul terreno motivazionale come la persero i vietnamiti filoamericani negli anni Sessanta. In teoria il governo in carica dovrebbe avere una struttura di 300.000 uomini bene equipaggiata e dotata di artiglieria pesante che avrebbe agevolmente la meglio contro i 75.000 miliziani talebani. Ma negli ultimi mesi a fronte dell’avanzata dell’opposizione in diverse province, interi distaccamenti governativi, intere tribù, che in precedenza avevano giurato fedeltà a Kabul, avrebbero fatto il più prosaico “salto della quaglia”.

Nessun sostegno a Ghani

Putin continua ovviamente a tenere i contatti con il governo in carica guidato dal presidente Ashraf Ghani provando a capire quanto ancora potrebbe reggere e quanto sia pronto a farsi da parte, alla malaparata, in buon ordine. Secondo un grande esperto di Asia centrale e Afghanistan come Arkady Dubnov,

Mosca non sarebbe pronta ad assicurare il sostegno a Ghani dopo la partenza definitiva degli americani, perché ciò danneggerebbe il dialogo recentemente aperto proprio con i Talebani.

Questi ultimi avrebbero fatto intendere – durante la loro visita moscovita – che la figura di Ghani sarebbe per loro del tutto inaccettabile in qualsiasi ipotesi di governo di coalizione ed è proprio il fatto che lo stesso Ghani cerchi di restare a galla che finisce per irritare Mosca.

Secondo Dubnov, «più a lungo Ghani si aggrappa al potere, maggiore sarà la portata dello spargimento di sangue in Afghanistan e minore sarà l’influenza di Mosca sul futuro governo di Kabul».

E malgrado Kabul abbia fatto di tutto per accreditarsi di fronte a Putin negli ultimi anni, facendo anche scelte bizzarre, come il riconoscimento dell’annessione della Federazione della Crimea nel 2014.

Il tradimento Usa

Mosca non nasconde che vive il ritiro americano come un piccolo tradimento. Quando gli Stati Uniti intervennero in Afghanistan nel 2001, Mosca appoggiò la risoluzione 1368 e più tardi, nel 2008, quando i Talebani iniziarono ad attaccare la rotta pakistana, attraverso la quale veniva effettuato l’80 per cento dei rifornimenti per le truppe della Nato, la Russia garantì all’Alleanza persino il suo spazio aereo. Ora con l’Accordo di Doha, che prevede l’evacuazione delle forze armate statunitensi e la riconciliazione nazionale in Afghanistan, la Russia si è trovata spiazzata di fronte a una mossa che riconosce legittimità all’islamismo radicale e anche per questo ha deciso di trattare direttamente con i Talebani senza ritessere troppo il filo con gli americani.

Al Cremlino si è inteso che gli Stati Uniti non sarebbero tanto interessati a mantenere il controllo sulla situazione in Afghanistan quanto di utilizzare l’Asia centrale come trampolino di lancio per contenere Russia, Cina, Turchia e Iran.

Il ritorno di Astana

Oggi del resto sono le truppe turche a garantire la sicurezza dell’aeroporto di Kabul, la Cina si è offerta di finanziare la ripresa del paese proponendo di farlo entrare di sbieco nel grande progetto della Via della Seta e l’Iran ha già annunciato di volersi proporre come grande mediatore tra Talebani e autorità ufficiali afgane. Se Astana è tramontata, con la ritirata Usa in Afghanistan potrebbe ripresentarsi però in inedite e più estese varianti.

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Il Grande Gioco in Asia centrale: la Cina palleggerà da sola contro il muro? https://ogzero.org/la-bri-cambia-rotta-in-asia-centrale-la-cina-palleggera-da-sola/ Thu, 26 Nov 2020 15:32:30 +0000 http://ogzero.org/?p=1844 Ricordate il “nuovo Grande Gioco”? Agli inizi degli anni Duemila, qualcuno aveva etichettato così la competizione tra Cina, Russia e Stati Uniti in Asia Centrale, rievocando la rivalità regionale tra impero russo e britannico nel XIX secolo. Ebbene, negli ultimi anni il “Grande Gioco” è diventato un “singolo” tra i due ingombranti vicini: la Russia, […]

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Ricordate il “nuovo Grande Gioco”? Agli inizi degli anni Duemila, qualcuno aveva etichettato così la competizione tra Cina, Russia e Stati Uniti in Asia Centrale, rievocando la rivalità regionale tra impero russo e britannico nel XIX secolo. Ebbene, negli ultimi anni il “Grande Gioco” è diventato un “singolo” tra i due ingombranti vicini: la Russia, che da vecchia Madre ha continuato a garantire la sicurezza dell’area ex sovietica, e la Cina, la potenza emergente che con il suo peso economico si è gradualmente imposta nelle dinamiche interne, arrivando a esercitare un maggiore ascendente anche sugli equilibri politici e sul mantenimento della sicurezza nel quadrante minacciato dal terrorismo islamico. Con la pandemia di coronavirus c’è chi prevede che Pechino comincerà presto a palleggiare da solo contro il muro.

Pechino e i suoi rapporti diretti con gli “stan”

Ma facciamo un passo indietro. Dalla caduta dell’Unione Sovietica il gigante asiatico non ha lesinato gli sforzi per cercare di recuperare il tempo perduto stabilendo rapporti diretti con gli “stan”, gestiti fino agli anni Novanta attraverso il filtro di Mosca. Nel 2009, il Dragone ha soppiantato la Russia diventando primo partner commerciale dell’Asia Centrale con 10 miliardi di dollari di scambi contro i 527 milioni del 1992. Di più. Ha cominciato a ridisegnare il network di infrastrutture energetiche d’epoca sovietica entrando a gamba tesa negli affari di Mosca. Ormai la Cina controlla un quarto del petrolio kazako ed è il primo acquirente di gas turkmeno. Tiene a galla Kirghizistan e Tagikistan finanziando un terzo del debito estero di Bishkek e coprendo il 42 per cento dei conti in rosso accumulati da Dushambe.

L’Asia Centrale: un ponte tra Oriente e Occidente

La nascita della Belt Road Initiative (BRI) – annunciata nel 2013 in Kazakistan – si colloca alla fine di un lungo corteggiamento cominciato nel 1994, quando l’allora premier cinese Li Peng passò in rassegna tutta l’Asia Centrale – Tagikistan escluso – trascinandosi al seguito una truppa di imprenditori per promuovere lo sviluppo di “una nuova Via della Seta” a base di “infrastrutture moderne”. Il resto è storia recente. Sette anni fa, il presidente cinese Xi Jinping ha individuato nella regione, ricca di risorse naturali, uno snodo cruciale per stabilizzare e rilanciare economicamente le arretrate regioni della Cina occidentale, che condividono confini ed etnie con Tagikistan, Kirghizistan e Kazakistan. Per sua vocazione naturale, l’Asia Centrale si candidava a ponte tra Oriente e Occidente.

La Nato asiatica e il soft power cinese

Da allora Pechino ha guadagnato terreno a scapito di Mosca coltivando il proprio soft power (con borse di studio e l’istituzione di oltre 20 centri specializzati in studi centroasiatici), cementando la propria presenza militare con esercitazioni sulle alture del Pamir, e rafforzando la propria posizione all’interno della Shanghai Cooperation Organization, la “Nato asiatica” che dopo aver svolto per il primo decennio funzioni di antiterrorismo è stata arricchita di finalità economiche in previsione di possibili sinergie con la Bri e l’Unione economica eurasiatica. Nonostante l’iniziale reticenza di Mosca, la spartizione dei vecchi ruoli è andata sfumando. Agli attori regionali, inizialmente, la cosa stava anche bene. Nell’ottica di un processo di “derussificazione” nello spazio postsovietico, l’avanzata cinese serviva a controbilanciare l’influenza moscovita, fornendo un nuovo modello di riferimento a base di capitalismo di stato, sistema politico monopartitico e scarsa tutela dei diritti umani. Risultato: nel 2018, gli investimenti diretti esteri cinesi nei cinque “stan” hanno raggiunto i 14,7 miliardi di dollari rispetto agli 8,9 miliardi registrati al momento del lancio della Bri.

Il nuovo “impero” è economicamente e politicamente instabile

Poi è successo qualcosa. Come spiega Jonathan Hillman in The Emperor’s New Road: China and the Project of the Century, a oggi la nuova via della seta si presenta come un insieme di «iniziative mal coordinate più che una vera e propria strategia». Nonostante le ricorrenti accuse di “neocolonialismo”, il gigante asiatico non sembra gestire al meglio il nuovo “impero”. L’insostenibilità economica degli investimenti cinesi, in Asia Centrale, è stata amplificata dalla corruzione endemica, mentre la stabilità assicurata per anni dalla longevità politica dei leader sovietici non è più così scontata dopo la successione in Kazakistan e Uzbekistan, e la recente insurrezione popolare in Kirghizistan. A conti fatti, nell’ultimo lustro l’heartland ha perso terreno a vantaggio del Sudest asiatico, dove si concentra quasi un terzo degli investimenti complessivi della Bri. Ma questo non implica necessariamente un disimpegno del Dragone dalle steppe centroasiatiche, quanto piuttosto un cambiamento di rotta. Un cambiamento reso anche più necessario dall’arrivo di Covid-19 .

Il virus fa cambiare rotta ai cinesi

Con gli Stati Uniti in balia del coronavirus e la Russia schienata dal crollo dei prezzi del petrolio, la Cina rimane l’unica ancora di salvezza per la regione. Dopo un primo illusorio contenimento dell’epidemia, la chiusura dei confini di Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan non solo non ha prevenuto la diffusione del contagio – secondo cifre sottostimate sono oltre 162.000 le infezioni in Kazakistan, il paese centroasiatico con il bilancio più elevato. Ma ha persino aggravato le difficoltà economiche della regione interrompendo la catena di approvvigionamento, impedendo il ritorno dei lavoratori migranti e facendo schizzare l’inflazione. Secondo la Banca Mondiale, l’Asia Centrale chiuderà il 2020 con una contrazione della crescita del 5,4%. Al contrario la locomotiva cinese ha ripreso a viaggiare in terreno positivo. Qualche incidente di percorso c’è stato. A giugno il ministero degli Esteri cinese aveva ammesso che il 20% dei progetti Bri è risultato “gravemente compromesso” dalla pandemia, mentre il 30-40% lo è stato parzialmente. Ma le ultime statistiche ufficiali danno gli investimenti cinesi lungo la via della seta in crescita del 30% nei primi tre trimestri. Secondo dati dell’Amministrazione generale delle dogane cinese il commercio estero con i paesi Bri è aumentato dell’1,5% fino a oltrepassare i mille miliardi di dollari.

Nuovi piani strategici

Nonostante le molte criticità, l’interessamento per l’Asia Centrale non sembra prossimo a svanire. Lo scorso 16 luglio, per la prima volta, Pechino ha chiamato virtualmente a raccolta i ministri degli Esteri di tutti e cinque gli “stan” replicando un format già utilizzato nella regione da Giappone, Corea del Sud e Unione europea. L’iniziativa, che rompe con l’usuale predilezione cinese per i bilaterali, ha spianato la strada per la visita fisica del capo della diplomazia cinese Wang Yi in Kazakistan e Kirghizistan poco prima che la contestazione del voto gettasse Bishkek nella peggiore crisi politica dagli scontri etnici del 2010. In quell’occasione, non è stata fatta nemmeno una parola dei nuovi investimenti da 600 milioni di dollari preannunciati a giugno da Pechino e Nursultan. In compenso, Wang ha promesso il supporto cinese «fino a quando la pandemia sarà completamente sconfitta».

La Nuova Via della Seta “sanitaria”…

In tempi di virus e difficoltà economiche globali, i capitali cinesi saranno in buona parte dirottati nel sistema sanitario locale, noto per le condizioni ospedaliere non ottimali, il limitato accesso ai farmaci e le carenze di un personale medico mal pagato. Dall’inizio dell’epidemia, la regione ha beneficiato di donazioni, forniture sanitarie e assistenza medica a distanza, messi a disposizione tanto dalle autorità provinciali quanto dalle aziende cinesi presenti nella regione, come Huaxin, Sany, Sinopec, China Construction e China Road and Bridge Corporation. Anche la Sco ha fatto la sua parte organizzando un seminario in tandem con Alibaba e l’Università di Medicina di Wenzhou. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, a seguito dell’ultimo meeting tra i rispettivi ministri degli Esteri «Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan e Mongolia hanno deciso di costruire insieme una fortezza antipandemia, una via della seta sanitaria e una comunità della salute per tutti». I partner regionali non hanno perso tempo. Solo pochi giorni fa l’Uzbekistan ha annunciato che 5000 volontari si sottoporranno alla sperimentazione del vaccino prodotto dalla Anhui Zhifei Longcom Biopharmaceutical nella speranza di ottenere un accesso privilegiato nel caso in cui il farmaco dovesse rivelarsi efficace.

Quello che sta avvenendo in Asia Centrale rispecchia su piccola scala il nuovo corso della Bri. Come spiega su “Eurasianet” Dirk van der Kley, Research Fellow presso l’Australian National University, Pechino non abbandonerà l’heartland, ma probabilmente cambierà la natura del suo attivismo economico puntando sempre meno sul finanziamento delle infrastrutture tradizionali per privilegiare gli investimenti diretti esteri, l’export di sovracapacità industriale e l’importazione di prodotti agricoli. Un segnale in tal senso giunge dal progressivo calo del debito accumulato da Tagikistan e Kirghizistan, i due paesi centroasiatici più dipendenti dai capitali cinesi. Secondo “Eurasianet”, l’ultimo prestito consistente concesso a Bishkek e Dushambe risale addirittura al 2014. Solo pochi giorni fa l’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), la superbanca nata per colmare il deficit infrastrutturale dei paesi asiatici, ha annunciato la creazione di un dipartimento dedicato alla sanità e all’istruzione.

… e informatizzata

Con queste premesse è lecito attendersi un maggior protagonismo non solo della via della seta sanitaria ma anche della sua declinazione digitale: telemedicina, e-commerce, e-learning e fintech potrebbero in futuro sostituire le grandi opere. Il motivo lo sintetizza il Csis così: «Rispetto ai massicci progetti energetici e dei trasporti che hanno dominato i primi anni della Bri quelli che coinvolgono la tecnologia dell’informazione e della comunicazione sono generalmente a basso costo, meno visibili e destabilizzanti per le comunità locali, più semplici da realizzare e facili da monetizzare. Tutte qualità che li rendono meno rischiosi e più attraenti per gli investitori». Le cinesi Huawei, Ceiec, Citic Group e Costar Group sono già presenti da anni in Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan con l’istallazione di sistemi di videosorveglianza contro il crimine e gli incidenti stradali. Tashkent, Dushambe e Nursultan hanno speso ciascuna tra i 21 e i 22 milioni di dollari per realizzare il progetto “Safe City” in partnership con Huawei.

Il rigurgito etnonazionalista anticinese

Quello della sicurezza è un tema che sta a cuore tanto alle autocrazie centroasiatiche quanto al regime comunista cinese. Assicurare la stabilità dei paesi partner è diventata una priorità per Pechino. Soprattutto da quando, nel 2016, l’ambasciata cinese di Bishkek è stata colpita da un attacco dinamitardo attribuito a militanti uiguri, la minoranza etnica musulmana che l’Asia Centrale condivide con la regione autonoma del Xinjiang aldilà del confine con la Cina.

Dopo un ventennio di guerra a bassa intensità, l’astio degli uiguri nei confronti delle politiche cinesi ha finito per contagiare anche le altre etnie centroasiatiche. La reclusione di kazaki e kirghisi nei “centri per la rieducazione” del Xinjiang hanno infiammato l’opinione pubblica nei paesi d’origine. A febbraio accese proteste anticinesi hanno costretto alla cancellazione di un progetto Bri da 275 milioni di dollari per la costruzione di un hub logistico ad At-Bashy, nel Kirghizistan settentrionale. Nonostante il controllo sulle informazioni da oltrefrontiera, ci sono le prime avvisaglie di un latente rigurgito etnonazionalista. Secondo Oxus Society for Central Asian Affairs, negli ultimi due anni e mezzo si sono verificate almeno 98 manifestazioni contro la penetrazione cinese nella regione. Non è facile quantificare l’impatto del malumore popolare sugli interessi economici del gigante asiatico. Con la Russia e gli Stati Uniti messi fuori gioco dal Covid difficilmente i “nuovi khanati” sapranno dire di no ai finanziamenti cinesi. Ma è indicativa l’assenza di Kazakistan e Kirghizistan tra i 50 paesi firmatari della mozione presentata da Pechino per difendere le proprie politiche etniche in sede Onu.

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