Khomeini Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/khomeini/ geopolitica etc Fri, 24 Mar 2023 22:48:09 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 L’eterogenea unità dell’opposizione iraniana https://ogzero.org/leterogenea-unita-dellopposizione-iraniana/ Tue, 21 Mar 2023 23:43:39 +0000 https://ogzero.org/?p=10543 Un bell’ossimoro quello del titolo, ma se si facessero paragoni con il passato e le modalità con cui si andò agglomerando l’enorme insurrezione contro il regime dello shah nel 1978, portando alla sua caduta l’anno successivo, potrebbe assomigliare molto a un corso e ricorso storico: infatti anche allora ci fu un coacervo di opposte fazioni […]

L'articolo L’eterogenea unità dell’opposizione iraniana proviene da OGzero.

]]>
Un bell’ossimoro quello del titolo, ma se si facessero paragoni con il passato e le modalità con cui si andò agglomerando l’enorme insurrezione contro il regime dello shah nel 1978, portando alla sua caduta l’anno successivo, potrebbe assomigliare molto a un corso e ricorso storico: infatti anche allora ci fu un coacervo di opposte fazioni e ideologie politiche che portarono al potere Khomeini, il quale per prima cosa fece stragi dei comunisti e dei più progressisti, che furono i più impegnati nello sforzo di cacciare Pahlavi (al punto che il quotidiano “Lotta continua” esaltava la lotta che avrebbe condotto alla repubblica islamica). Quell’ossimoro discende da una situazione che vede la diaspora diversificata (e che si permette di dire che il Savak non si sarebbe dovuto sciogliere!) ringalluzzita dalle lotte che i giovani stanno portando nelle piazze iraniane e pronta ad approfittarne, magari sognando di mettere il cappello sull’onda degli insorti e dei morti costati alla spontanea rivolta… proprio come gli ayatollah 44 anni fa.

Giulia Della Michelina è riuscita a raccogliere informazioni e dati sulle manovre dei fuorusciti più eminenti che stanno preparandosi a rientrare in scena nel caso le rivolte dovessero aprire varchi nel regime, in cui potrebbero intrufolarsi, cavalcando il malcontento… e la restaurazione. 


Diaspora al vertice con dinastia

Mentre la Repubblica islamica si preparava a festeggiare il suo 44esimo anniversario con manifestazioni pubbliche e decine di migliaia di partecipanti, a 10.000 chilometri di distanza, a Washington, si teneva un incontro tra 8 figure della diaspora iraniana. Il tema del vertice era il futuro di quelle proteste che il presidente Ebrahim Raisi ha dichiarato di aver sconfitto durante le celebrazioni della Rivoluzione. Gli attivisti si sono riuniti al Georgetown Institute for Women, Peace and Security per costruire una piattaforma comune atta a preparare la transizione democratica del paese. È il primo tentativo di consolidamento dell’opposizione all’estero dall’inizio delle rivolte, innescate lo scorso settembre dall’omicidio della ventiduenne curda Mahsa Jina Amini in custodia della polizia morale. Eppure, sono molti i dubbi che aleggiano su questo progetto, capeggiato da Reza Pahlavi, figlio dell’ultimo shah deposto con la rivoluzione del 1979.

Ritorno alla monarchia… certo: “liberale”

Pahlavi invoca da anni il cambio di regime e la costruzione di uno stato secolare e liberale, sostenuto da alcuni iraniani residenti all’estero che lo ritengono un interlocutore affidabile per dialogare con la comunità internazionale. A gennaio l’attore Ehsan Karami aveva lanciato una petizione sottoscritta da 456.000 persone per sostenere il suo progetto di transizione, basato su tre principi: integrità territoriale, democrazia laica e rispettosa dei diritti umani e diritto del popolo a scegliere la nuova forma di governo attraverso il voto. In diverse occasioni il figlio dello shah ha precisato che il gruppo riunito a Washington non intende proporsi come nuova leadership, ma che il suo intento è creare le condizioni per trovare una nuova guida per il paese. Tuttavia Pahlavi, che non disdegna di farsi chiamare “principe” dai suoi sostenitori, ha espresso anche la sua apertura alla possibilità di instaurare una “monarchia elettiva”. Tra i suoi sostenitori ci sarebbero infatti diversi nostalgici della monarchia, come il prigioniero politico Manouchehr Bakhtiari, ma anche persone comuni che a colpi di tweet e di hashtag l’hanno investito del potere di rappresentanza in attesa della caduta della repubblica islamica. Al contempo Pahlavi è stato duramente criticato per non aver mai preso sufficientemente le distanze dal regime di Mohammad Reza, una dittatura non meno sanguinaria di quella degli ayatollah. L’accusa è di aver approfittato del patrimonio familiare costruito sulle sofferenze degli iraniani per la propria ascesa personale.

La coa(li)zione a ripetere

Kamelia Entekhabifard, caporedattrice dell’“Independent Persian” ha sollevato il dubbio che affidare a Pahlavi il mandato di transizione possa impedire la candidatura di persone più qualificate, con un passato più chiaro e richieste ben definite. Per esempio tra le migliaia di prigionieri rinchiusi nelle carceri come quello di Evin, tristemente ribattezzato “l’università Evin” per il grande numero di studenti e intellettuali presenti. In molti hanno sottolineato come affidare la responsabilità della transizione a una sola figura sia già di per sé lontano dalla democrazia auspicata. C’è poi chi vede nell’investitura di Pahlavi il ripetersi di una storia che l’Iran ha già vissuto affidandosi all’ayatollah Ruollah Khomeini per sbarazzarsi del padre dell’odierno candidato a rappresentare la volontà popolare.

Secondo lo scrittore e traduttore Khashayar Dayhimi se ci fosse un referendum «Pahlavi vincerebbe solo perché gli iraniani non conoscono un’altra alternativa».

La coalizione sta cercando di consolidarsi: si è dotata di un nome ufficiale e di un manifesto, intitolato Mahsa Charter. Sul loro sito si legge che l’obiettivo dell’Adfi (Alleanza per la democrazia e la libertà in Iran) è rovesciare il regime in maniera non violenta e costruire le fondamenta di una democrazia laica che possa servire la volontà del popolo iraniano. Oltre a Reza Pahlavi i primi firmatari del manifesto sono l’attivista e giornalista Masih Alinejad, l’attrice Nazanin Boniadi, l’avvocata premio Nobel Shirin Ebadi, Hamed Esmaeilion (ex portavoce dei familiari delle vittime del volo ucraino PS752) e il segretario del partito curdo Komala Abdulla Mohtadi.

Un supporto esterno alle lotte… neutrale, da Occidente

Secondo l’Adfi l’attivismo al di fuori del paese deve essere uno strumento per facilitare l’azione degli iraniani in patria. Un altro punto fondamentale è l’isolamento della Repubblica islamica, per cui è richiesta la collaborazione della comunità internazionale. Un sostegno che la coalizione sta cercando di guadagnarsi in diversi modi, partecipando a eventi internazionali e proclamando la propria adesione ai valori e agli obiettivi dei paesi occidentali. Tra i punti del manifesto compaiono l’adesione alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura, la Convenzione Internazionale sulla Sicurezza nucleare. Quest’ultimo punto risulta particolarmente sensibile dopo che i funzionari dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) hanno riportato che l’Iran ha arricchito l’uranio all’83,7%, un livello prossimo a quello necessario per la bomba atomica. Si cita inoltre la volontà di stabilire politiche di pacificazione nella regione. Pahlavi ha già dichiarato che un nuovo governo «non sarà belligerante e non manderà droni». Il figlio dello shah ha anche menzionato la volontà di cooperare con l’Europa sulla questione migratoria.

Quale legittimazione fuori dai confini iraniani?

Alcuni membri della coalizione hanno preso parte alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, che si è svolta dal 17 al 19 febbraio e dalla quale è stato escluso il governo di Teheran. Per i dissidenti è stata un’importante opportunità per dimostrarsi all’altezza di dialogare con i paesi occidentali e guadagnarsi la loro approvazione. La loro presenza non è stata sostenuta all’unanimità. Un gruppo di attivisti ha scritto una lettera aperta per denunciare la contraddizione di questa partecipazione con i valori della rivoluzione e la «completa mancanza di legittimazione democratica» della coalizione. Reza Pahlavi ha affermato di essere in contatto con i dissidenti in Iran, ma il reale supporto per la sua coalizione all’interno del paese rimane difficile da sondare.
Il 21 febbraio Alinejad e Esmaeilion hanno partecipato a un incontro al Senato italiano, dove solo un paio di mesi prima era stata invitata anche Maryam Rajavi, leader del Consiglio Nazionale della Resistenza dell’Iran, evoluzione dei Mojahedin-e-Khalq. Odiata dalla maggioranza degli iraniani in patria per la sua attività terroristica e per aver appoggiato Saddam Hussein durante la guerra tra Iran e Iraq, l’organizzazione gode di appoggio e finanziamenti di diversi paesi occidentali. Se la presenza di Rajavi ha suscitato lo sdegno della comunità iraniana in Italia, quella di Alinejad è stata accolta molto più calorosamente, sia dai suoi connazionali che dai media italiani.

Il volto conservatore non incorniciato dall’hijab

La conduttrice di Voice of America vive da anni in esilio negli Stati Uniti e si è sempre battuta per i diritti delle donne, in particolare per il diritto di scegliere di non indossare il velo. Il suo attivismo le è costato prima il suo lavoro di giornalista in Iran e poi diverse minacce di morte. Allo stesso tempo è stata bersagliata dalle critiche per la sua vicinanza a personaggi conservatori e antifemministi come Mike Pompeo e John Bolton. Secondo alcuni, Alinejad sarebbe la portavoce di quel femminismo “accettabile” agli occhi degli occidentali ossessionati dall’hijab e da una visione pietistica delle donne dei paesi musulmani.

“La diaspora iraniana e la realtà del paese dopo 40 anni”.

 

Manovre strategiche globali

I rapporti tra questa nuova coalizione e gli Stati Uniti rimangono un nodo importante da chiarire, oltre che una fonte di preoccupazione per il futuro delle proteste in Iran. Washington potrebbe trarre numerosi benefici da un nuovo “governo amico” allineato alle sue politiche. Inoltre, la mediazione cinese nell’accordo tra Iran e Arabia Saudita potrebbe portare gli Stati Uniti a un’ulteriore accelerazione nel sostegno all’opposizione al regime di Ali Khamenei, già avallata formalmente da diverse risoluzioni del Congresso.
Nel frattempo però anche all’interno del paese non mancano i tentativi di organizzazione e di confronto in vista di uno scenario postrivoluzionario. Mir Hossein Mousavi, ex primo ministro e leader delle proteste dell’Onda Verde del 2009 ha invocato un libero referendum per scrivere una nuova costituzione. Mousavi, agli arresti domiciliari dal 2011, si è sempre collocato nell’area riformista dell’establishment della repubblica islamica, pur facendosi portavoce di uno dei movimenti di contestazione più importanti degli ultimi anni. Questa presa di posizione rende ancora più evidente la fine dell’ambizione di trasformare il regime dall’interno e la necessità di un cambiamento radicale per il futuro dell’Iran.

Richieste dell’opposizione vera: cittadini che rischiano e lottano

Il 16 febbraio una ventina di sindacati, associazioni studentesche e gruppi femministi hanno pubblicato un documento contenente le richieste minime per «costruire una nuova, moderna e più umana società». Tra queste ci sono il rilascio incondizionato dei prigionieri politici, la separazione della religione dalla sfera pubblica, la libertà d’opinione e di espressione, la parità tra uomini e donne, il rispetto dei diritti della comunità Lgbtqia + e delle minoranze etniche e religiose.
Secondo l’antropologa Chowra Makaremi l’orizzontalità dell’organizzazione politica che si sta sviluppando nell’opposizione iraniana è un valore, coerente con le istanze portate avanti dalle proteste.


Per quella che si proclama una rivoluzione partita dalle donne e che porta avanti le rivendicazioni delle minoranze e della classe lavoratrice sarebbe un punto di forza mantenere in dialogo una pluralità di voci e di visioni.

L'articolo L’eterogenea unità dell’opposizione iraniana proviene da OGzero.

]]>
Raisi, il Giudice senza grazia https://ogzero.org/l-iran-e-in-ebollizione-raisi-le-sanzioni-e-le-sfide-internazionali/ Wed, 25 Aug 2021 11:03:15 +0000 https://ogzero.org/?p=4708 Non c’è luna di miele per Ebrahim Raisi, insediato il 5 agosto nella carica di presidente della repubblica iraniana. Nessun “periodo di grazia”, né all’interno di un paese attraversato da proteste sociali e stremata da una nuova ondata di Covid-19, e neppure sul piano internazionale. Durante il suo discorso inaugurale il presidente Raisi si è […]

L'articolo Raisi, il Giudice senza grazia proviene da OGzero.

]]>
Non c’è luna di miele per Ebrahim Raisi, insediato il 5 agosto nella carica di presidente della repubblica iraniana. Nessun “periodo di grazia”, né all’interno di un paese attraversato da proteste sociali e stremata da una nuova ondata di Covid-19, e neppure sul piano internazionale.

Durante il suo discorso inaugurale il presidente Raisi si è dichiarato un «servitore del popolo», e ha detto che la sua priorità sarà risollevare l’economia e portare il benessere «sul tavolo da pranzo di tutti gli iraniani». Ha anche detto che perseguirà una «diplomazia intelligente» per veder togliere le «crudeli sanzioni che opprimono» l’Iran, riferimento ai negoziati in corso a Vienna per riesumare l’accordo sul nucleare iraniano (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa) firmato nel 2015, e vanificato nel maggio 2018 quando l’allora presidente degli Stati uniti Donald Trump ha deciso di uscirne, decretando nuove sanzioni all’Iran.

Il sessantenne Raisi, un religioso di medio rango, è molto vicino al leader supremo Ali Khamenei, di cui era stato allievo. Ha svolto tutta la sua carriera nella magistratura, roccaforte delle correnti più ortodosse della Repubblica Islamica. Negli anni Ottanta è stato nel comitato di giudici incaricati di epurare le carceri iraniane mettendo a morte migliaia di detenuti politici, una delle pagine più inquietanti dell’Iran rivoluzionario. Negli ultimi due anni, come Procuratore capo della repubblica si è fatto paladino della lotta alla corruzione, suo tema di battaglia elettorale. È stato alla testa di una delle più potenti fondazioni islamiche, la Astan Qods Razavi di Mashhad, che controlla un impero commerciale e una rete di beneficenza e opere sociali: un pilastro del consenso al sistema.

Oggi ripete che la sua sarà un’amministrazione «popolare».

Eppure Ebrahim Raisi è stato eletto con il voto meno partecipato nella storia dell’Iran repubblicano: meno di metà degli aventi diritto è andata alle urne. È stato un voto senza concorrenti, poiché gli avversari di qualche peso erano stati esclusi: quella del 18 giugno scorso è stata l’elezione presidenziale meno libera da sempre perfino per gli standard della Repubblica Islamica dell’Iran, dove un organismo che risponde solo al leader supremo ha potere di veto sulle candidature. Insomma, la legittimità popolare del nuovo presidente è molto debole. Lo stesso Raisi riconosce che bisogna «ripristinare la fiducia» degli elettori.

Sta di fatto che, con Raisi alla presidenza, gli oltranzisti del sistema (quelli che alcuni chiamano il deep state, lo stato profondo) controllano tutti i centri di potere della Repubblica Islamica: eletti (il parlamento, la presidenza) e non. La lista dei suoi ministri, sottoposta al parlamento il 12 agosto è significativa: comprende uomini delle Guardie della rivoluzione, ex militari, ex dirigenti dei servizi di intelligence e della Tv di stato (altra roccaforte del sistema). Ci sono anche i dirigenti di due potenti fondazioni islamiche, la Astan Qods Razavi, già citata, e quella intitolata all’Imam Khomeini (rispettivamente ministri dell’istruzione e del lavoro e welfare).

Dunque legge, ordine, forze armate, e welfare. Eppure il neopresidente non avrà periodo di grazia.

La sfida di Vienna

Sul piano internazionale, la prima sfida è proprio quella che si gioca a Vienna. L’amministrazione di Joe Biden ha dichiarato di voler rientrare nell’accordo sul nucleare stracciato da Trump, ma sei round di colloqui tra i partner residui (Iran, Francia, Germania, Regno Unito, Cina e Russia), e indirettamente con gli Usa, non hanno ancora dato esito positivo.

Fare previsioni è inutile; meglio ricapitolare ciò che sappiamo. Il nuovo presidente iraniano ha dichiarato di volere il negoziato, «nei termini indicati dal Leader Supremo» (in effetti è stato Khamenei sei mesi fa ad avallare i colloqui di Vienna). Ebrahim Raisi non ha competenze specifiche in politica internazionale. Come ministro degli Esteri ha scelto un diplomatico di carriera: Hossein Amir-Abdollahian, già viceministro degli Esteri nel primo governo Rohani, poi consigliere di politica internazionale dell’ex presidente del parlamento Ali Larijani. Un uomo di regime con solidi legami con le Guardie della rivoluzione, ma non uno degli oltranzisti che avevano avversato l’accordo sul nucleare (di cui pure erano circolati i nomi). Amir-Abdollahian conosce il dossier nucleare e ha esperienza di colloqui con le controparti occidentali, inclusi gli Usa. Presenterà un volto più duro dei predecessori. Però si può aspettare che nel futuro negoziato l’amministrazione Raisi avrà meno opposizioni interne del suo predecessore Hassan Rohani, il quale è stato boicottato in tutti i modi (interessante il suo ultimo discorso al governo uscente: l’accordo era quasi fatto e le principali sanzioni statunitensi sarebbero cadute già da tempo, ha detto, non fosse stato per l’attivo boicottaggio del parlamento dominato dagli oltranzisti).

Non sarà un negoziato facile neppure per la nuova amministrazione. Non sono di buon auspicio gli “incidenti” navali di fine luglio, che riaccendono i riflettori sulla guerra-ombra in corso tra Israele e Iran (e forse su un nuovo “consenso” anglo-americano contro l’Iran). Ma ci sono anche segnali positivi per la diplomazia: l’inviato dell’Unione Europea ai negoziati sul nucleare, Enrique Mora, era a Tehran per l’inaugurazione del presidente Raisi, con cui si è intrattenuto (anche se il suo gesto è stato criticato da molti difensori per i diritti umani, tra cui l’avvocata Narges Mohammadi).

Un paese impoverito e disilluso

Ma lasciamo per un istante lo scenario internazionale. L’altra sfida per il neopresidente Raisi è all’interno del paese, ed è perfino più urgente. È la crisi dell’economia, appesantita dalle sanzioni internazionali: l’inflazione supera il 44 per cento, le imprese sono in difficoltà, la disoccupazione galoppa, mentre le grandi ricchezze sono sempre più grandi: pochi miliardari e una classe media impoverita. Tutto aggravato dalla lunga pandemia di Covid-19, dalla siccità, i conflitti per l’acqua, la penuria di energia elettrica. Un paese impoverito, disilluso, e senza fiducia nel futuro.

«La tensione nel paese è molto forte e Raisi deve prendere decisioni molto in fretta», dice l’economista e analista politico Saeed Leylaz (riprendo questo commento dal “Financial Times”). Per esempio il contrasto all’inflazione o la conduzione della campagna di vaccinazioni, spiega il presidente:

«ha bisogno di presentare qualche carta vincente, che gli permetta di prendere tempo fino a quando ci saranno decisioni definitive sull’accordo nucleare e sulle sanzioni».

L’urgenza è evidente. L’insediamento di Ebrahim Raisi è stato preceduto da settimane di proteste per la mancanza d’acqua che attanaglia le province occidentali, e per i blackout di corrente elettrica divenuti frequenti in tutto il paese nella stagione estiva.

La rivolta dell’acqua

La rivolta dell’acqua è scoppiata la sera del 15 luglio ad Ahwaz, capoluogo del Khuzestan, provincia occidentale affacciata sul golfo Persico e confinante con l’Iraq.

 

I quattro fiumi della provincia sono ridotti ai minimi storici, l’acqua è razionata, esce dai rubinetti solo un’ora al giorno. La folla gridava «il fiume ha sete», «noi abbiamo sete».  E poi

«abbiamo dato il sangue e la vita per il Karun»,

il fiume che attraversa Ahwaz. I manifestanti chiedevano forniture urgenti d’acqua. Molti chiedevano le dimissioni delle autorità locali accusate di incompetenza, o di corruzione, o entrambe le cose.

La crisi è tutt’altro che inaspettata. In maggio il ministero dell’Energia aveva avvertito che l’Iran andava verso l’estate più secca da 50 anni, con temperature che potevano sfiorare i 50 gradi, e l’allarme era stato ripreso da tutti i giornali. Poi è successo, e le conseguenze sono devastanti: per chi deve sopportare un’estate torrida e umida senza acqua, ma anche per l’agricoltura e l’intera economia.

Il paradosso è che il Khuzestan è tra le province più povere dell’Iran, in termini di sviluppo sociale: la disoccupazione e il tasso di povertà assoluta sono i più alti del paese (secondo Iran Open Data, che analizza statistiche ufficiali), ma è tra le più ricche in termini di risorse: racchiude circa l’80 percento delle riserve di petrolio e il 60 per cento di quelle di gas naturale per paese, e produce una parte importante del prodotto interno lordo iraniano (il 15 per cento nel 2019). Inoltre il Khuzestan era una terra fertile e ricca d’acqua, anche se oggi pare incredibile: ha quattro fiumi tra cui il Karun; due importanti zone umide (incluse le paludi condivise con l’Iraq), e aveva un’importante economia agro-industriale – ora in crisi.

Il sito storico del sistema idrico di Shushtar, patrimonio Unesco.

Il giorno dopo le prime manifestazioni, il governatore provinciale ha mandato camion cisterna a portare acqua in oltre 700 villaggi e cittadine del Khuzestan, cosa che non ha placato gli animi. La penuria d’acqua è da attribuire in parte al cambiamento globale del clima: dall’inizio del secolo il regime delle piogge è sempre più scarso, le temperature sempre più alte, e la siccità è ormai cronica nell’Iran occidentale insieme a ampie zone dei vicini Iraq e Siria.

Le tempeste di sabbia che avvolgono periodicamente città come Ahvaz ne sono una conseguenza tangibile.

È in causa però anche la gestione dell’acqua disponibile. Negli ultimi decenni sono state costruite numerose dighe sui fiumi dell’Iran occidentale, sia per produrre elettricità, sia per sostenere ambiziosi progetti di espansione agricola, o per trasferire acqua verso la provincia centrale di Isfahan.

Il ponte di Allahverdi Khan sul fiume ormai secco, Isfahan (foto Wanchana Phuangwan).

Negli ultimi anni inoltre le autorità hanno autorizzato lo scavo di migliaia di pozzi. Dunque sempre più acqua è estratta dal sottosuolo, ma le piogge non bastano a “ricaricare” le riserve. Il livello delle falde idriche così è crollato; l’acqua salmastra del Golfo penetra sempre più all’interno. La salinità dei terreni causa ulteriori problemi per l’agricoltura; a nord di Ahwaz le famose palme da datteri cominciano a morire. Nelle zone petrolifere inoltre l’acqua disponibile è spesso inquinata da sversamenti di greggio.

Ad aumentare la rabbia poi ci sono ragioni storiche. Le proteste per l’acqua hanno coinvolto città come Abadan, Khorramshahr, e altre: sono nomi che richiamano la Guerra Iran-Iraq. Su Abadan e le sue raffinerie puntava l’esercito di Saddam Hussein quando invase l’Iran nel settembre 1980; nella “città martire” di Khorramshahr si combatté casa per casa. Tutto l’ovest dell’Iran fu il fronte di quella guerra sanguinosa, durata otto anni. In Khuzestan però la ricostruzione è stata solo parziale, le attività economiche non sono mai tornate al benessere precedente. Perché? I dirigenti iraniani adducono la mancanza di mezzi e risorse da investire, o la cronica instabilità nel vicino Iraq. La provincia è abitata da una forte minoranza arabo-iraniana (c’è anche un movimento indipendentista, minuscolo ma foraggiato dai potenti vicini arabi del Golfo). A precedere le proteste generali, il 6 luglio una delegazione di agricoltori e anziani delle tribù arabe era andata a Ahwaz per fare rimostranze alle autorità locali per la penuria d’acqua.

La rivolta “legittima” e la polizia che spara

Insomma: la provincia si sente negletta. L’agricoltura e le fabbriche che ne dipendono sono sempre più in crisi. I giovani non trovano lavoro. Aumenta l’emigrazione verso le grandi città; a Tehran o Isfahan sorgono nuove borgate di migranti arrivati dalle zone rurali del Sudovest.

Cambiamento climatico, dighe, inquinamento, cattiva gestione delle risorse, disoccupazione, discriminazione delle minoranze: tutto spiega la rabbia esplosa in luglio.

«Per otto anni [durante la guerra con l’Iraq] questa provincia è stata devastata, e ora i nostri soldati sparano contro di noi», diceva un manifestante di 24 anni di Dezful al corrispondente di “Middle East Eye”.

Di fronte alla protesta infatti lo stato ha risposto come al solito: con la forza. Anche perché le proteste si sono estese; c’è notizia di manifestazioni a Kermanshah, capoluogo della provincia omonima nell’Iran occidentale, nel Lorestan, a Isfahan, fino a Tehran. Organizzazioni di avvocati, attivisti sociali, l’associazione degli scrittori, hanno manifestato solidarietà. Sui social media sono circolate foto di blindati e veicoli antisommossa scaricati dagli aerei cargo nell’aeroporto di Ahwaz. Le proteste si sono prolungate per giorni. Le autorità hanno sospeso internet in gran parte del Khuzestan, senza riuscire a bloccare del tutto le informazioni.

È cominciata la guerra di notizie: il 20 luglio, dopo la quinta notte consecutiva di proteste, il governatore del Khuzestan ha parlato di un morto, una persona che accompagnava le forze di polizia e sarebbe stato ucciso dai dimostranti (i media di stato hanno addirittura accusato “terroristi armati”). Pochi giorni dopo Amnesty International ha parlato di almeno otto morti, tutti manifestanti.

Le proteste bloccano la strada tra Ahvaz e Andimeshk.

Eppure perfino il Leader supremo l’ayatollah Ali Khamenei ha ammesso che la protesta è legittima. È intervenuto tardi, ben una settimana dopo l’inizio delle manifestazioni e degli scontri, ma infine lo ha riconosciuto:

«Se i problemi dell’acqua e delle fogne in Khuzestan fossero stati risolti, non vedremmo oggi questi problemi». E poi: «Le persone esprimono il loro malcontento perché sono esasperate. (…) Le autorità devono risolvere al più presto i problemi della leale popolazione di questa provincia».

Il fatto è che mentre il leader parlava così, la polizia sparava sui manifestanti. Risolvere il problema dell’acqua è di sicuro una sfida per la nuova amministrazione, come lo è stato per le precedenti: ma richiede strategie a lungo termine, rivedere le scelte di sviluppo, combattere sprechi e malversazioni, rilanciare il dialogo con le minoranze e con gli enti locali. Nell’immediato, reprimere le proteste è più facile.

Le proteste per l’acqua, o quelle segnalate a Tehran alla fine di luglio per i continui blackout di corrente, non alludono a un’opposizione politica organizzata – anche se in alcuni casi sono stati sentiti slogan come «abbasso la Repubblica islamica», o «a morte il dittatore», «a morte Khamenei». Proprio come era successo nel dicembre del 2019 nelle proteste suscitate dall’aumento del prezzo dei carburanti, e due anni prima per il carovita.

Proteste senza una direzione politica riconoscibile, “solo” manifestazioni spontanee di esasperazione.

Ma questo non dovrebbe preoccupare di meno i dirigenti iraniani: al contrario.

Si aggiungano croniche proteste di lavoratori in tutto il paese, e un’ondata di scioperi tra gli addetti dell’industria petrolifera. Mentre la “variante delta” del virus fa strage, i medici lanciano appelli disperati, e solo il 3 per cento degli iraniani è completamente vaccinato: anche nelle code alle farmacie si sente imprecare contro il leader supremo, che mesi fa ha vietato di importare vaccini prodotti in Usa e Regno Unito.

L’Iran dunque è in ebollizione. Il neopresidente Raisi dovrà mostrare qualcosa di concreto, in fretta, che non siano solo i blindati antisommossa. Ma per questo ha anche bisogno di veder togliere le sanzioni che soffocano l’economia del paese: come al solito, le sfide internazionali e quelle interne sono strettamente legate.

L'articolo Raisi, il Giudice senza grazia proviene da OGzero.

]]>
Usa e Iran: “Missiles will be on the table” https://ogzero.org/strategie-per-accordi-epocali-sugli-armamenti-in-iran/ Mon, 01 Mar 2021 10:25:23 +0000 https://ogzero.org/?p=2521 Pubblichiamo un articolo che Lorenzo Forlani ha scritto per OGzero a breve distanza dal primo bombardamento ordinato da Biden su postazioni missilistiche sciite in Siria come segnale nei confronti dell’Iran, all’interno di un cambio di strategie Usa per raggiungere accordi epocali sul programma nucleare iraniano che coinvolgono anche gli armamenti missilistici di Teheran. Nel ridimensionamento […]

L'articolo Usa e Iran: “Missiles will be on the table” proviene da OGzero.

]]>
Pubblichiamo un articolo che Lorenzo Forlani ha scritto per OGzero a breve distanza dal primo bombardamento ordinato da Biden su postazioni missilistiche sciite in Siria come segnale nei confronti dell’Iran, all’interno di un cambio di strategie Usa per raggiungere accordi epocali sul programma nucleare iraniano che coinvolgono anche gli armamenti missilistici di Teheran. Nel ridimensionamento delle potenze regionali (il contenimento di Bin Salman e la spregiudicatezza di Erdoğan non più tollerabile), collegabile al cambio di strategia dell’amministrazione americana, il negoziato sul nucleare – in cui è anche incluso il programma missilistico iraniano – si trova a un punto delicatissimo e nel panorama mediorientale (e con gli ultimi eventi di Erevan) torna alla ribalta il fallimento dei nuovi equilibri che si erano insinuati negli spazi lasciati vuoti da Trump durante gli Accordi di Astana, al punto che la Turchia rientra nell’alveo della Nato con un regalo “balistico”, condividendo con gli Usa la tecnologia del missile russo Pantsir, catturato sull’ambiguo fronte libico, emblematico della svolta nel dopo Trump.


Quanto può essere alzata la posta?

Esiste una porzione della società e dell’arena politica americana convinta che l’amministrazione guidata da Donald Trump, con la sua strategia della “massima pressione” sull’Iran, abbia lasciato a Joe Biden una preziosa eredità, mettendolo in condizione di “alzare la posta” in un nuovo possibile negoziato sul nucleare. E nelle stanze del potere statunitense, quando si parla di “alzare la posta” sul dossier iraniano, si fa riferimento a due dimensioni: quella delle milizie filoiraniane in Medio Oriente, e soprattutto quella del programma missilistico iraniano. Non solo una parte dei repubblicani ma anche un segmento dei democratici – oltre agli alleati americani nella regione, cioè Israele, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita – spinge per inserire soprattutto quest’ultimo nei nuovi colloqui sul nucleare. «Missiles will be on the table», ha detto recentemente Jack Sullivan, National Security Advisor di Joe Biden.

Si tratta di un aspetto molto delicato, potenzialmente anche in grado di far fallire un accordo di massima sul nucleare, perché il programma missilistico costituisce per l’Iran una linea rossa, un pilastro della sua capacità di difesa asimmetrica. I missili, è noto, sono armamenti facili da occultare e relativamente difficili da intercettare: per Teheran, che rispetto ai suoi rivali regionali ha una tecnologia meno avanzata e una minore capacità militare complessiva – riflesso di spese militari annuali in rapporto al Pil che mediamente, dal 1990 al 2012, ammontano a un terzo di quelle saudite e alla metà di quelle israeliane –, i missili sono un vitale strumento di deterrenza, in una regione nella quale il fronte antiraniano – ulteriormente rafforzato dalla firma degli “Accordi di Abramo” tra Israele e una serie di Paesi arabi, soprattutto nel Golfo – è sempre più compatto.

Potenza e potenzialità degli arsenali

Non sorprende, quindi, che quella iraniana sia la flotta missilistica più eterogenea e ricca in termini numerici nella regione. Nel marzo 2020 si stimava attorno ai 2500-3000 la somma di missili balistici iraniani, ai quali va aggiunto un numero imprecisato di missili Cruise. I missili balistici si dividono in quattro classi: a raggio corto (fino a 1000 km di gittata), medio (da 1000 a 3000), intermedio (da 3000 a 5500) e intercontinentale (da 5500 in su).

Missili iraniani nel Museo della Difesa di Teheran (Foto di Elena Odareeva)

L’arsenale iraniano è composto da missili a corta gittata (Tondar, Fateh, Shabab 1 e 2) e soprattutto da missili a gittata media (Shabab 3, Zolfaghar, Qiam 1, Burkhan 2h, , Sejil, Emad e Ghadr), mentre a oggi la Repubblica islamica non sembra avere le capacità – ma forse neanche l’interesse, considerando la natura regionale delle sue preoccupazioni in politica estera e di sicurezza – di sviluppare missili intercontinentali (Icbm), in grado di raggiungere l’Europa, sebbene al dipartimento della Difesa americana si registri una certa inquietudine rispetto ai progressi fatti da Teheran nella realizzazione di veicoli di lancio spaziale (Slv), con cui sono stati mandati dei satelliti in orbita (il primo fu il Sina-1, satellite iraniano mandato in orbita nell’ottobre 2005 dalla Russia). Secondo il Worldwide Threat Assessment realizzato dall’intelligence americana nel 2019: «I progressi dell’Iran con gli Slv diminuiscono i tempi per arrivare agli Icbm, poiché Icbm e Slv usano tecnologie simili».

40 anni di Repubblica islamica fondata sui sistemi di difesa

L’Iran ha maturato la decisione di sviluppare un programma missilistico autonomo durante la Guerra con l’Iraq (1980-1988). Il programma missilistico precedente, nato con lo shah, era stato interrotto da Khomeini, per via della avviata collaborazione con Israele e dei sospetti che pendevano sugli ufficiali delle Forze armate, specie dopo il tentato golpe del 1980 (il golpe di Nojeh).

L’indisponibilità di gran parte della comunità internazionale a fornire a Teheran i missili con cui rispondere agli attacchi di Saddam Hussein sulle città iraniane convinse in realtà già nel 1985 l’allora presidente del Parlamento e membro del Consiglio di guerra, Ali Akbar Rafsanjani, a ottenere i missili Scud da Corea del Nord e Libia, per poi produrre localmente, nel 1990, il primo missile a corto raggio (il Mushak, probabilmente con l’assistenza cinese).

Reazioni difensive meccaniche introiettate e…

Ciò è utile a ricordare una postura non più molto familiare in Occidente: a torto o a ragione, sin dalla fine della guerra con l’Iraq, Teheran attribuisce una natura esistenziale alle minacce che affronta, fronteggiamenti che rendono il mantenimento di un programma missilistico fuori discussione. Ciò si spiega anche con quella che i politologi chiamano la path dependance (dipendenza dal percorso): una concezione interiorizzata, per cui piccoli o grandi eventi del passato, anche se non più rilevanti (l’Iraq oggi non è più un paese ostile come con Saddam), possono avere conseguenze significative in tempi successivi, che l’azione economica può modificare in maniera limitata, anche perché i costi di una regressione da un cammino intrapreso sono alti.

Nel caso iraniano, il motivo contingente alla base della decisione di dotarsi di missili fu l’aggressione di Saddam Hussein: una motivazione che non sussiste più ma che è stata “riempita” con le minacce di strike da parte di Israele. Spesso nel Parlamento iraniano è stato citato il caso di Libia e Iraq per mettere in guardia da qualunque concessione sul programma missilistico: sia la Libia che l’Iraq, infatti, furono invasi dopo aver accettato alcune limitazioni al proprio programma missilistico. Diverse componenti politiche in Iran, in sostanza, si chiedono: a che prezzo porre limitazioni al principale deterrente contro un regime change? Chi garantisce che non sia la premessa per ulteriori restrizioni militari?

… quali priorità nelle riduzioni degli arsenali?

Se in molti, sia in Occidente che nei paesi del Medio Oriente riconducibili al blocco antiraniano, spingono in diverse sedi e modalità per porre un freno al programma missilistico dell’Iran, in pochi sembrano in grado di entrare nel dettaglio, rispondendo anzitutto alla domanda: cosa limitare? La capacità iraniana di trasporto delle testate nucleari? Il numero di missili (a prescindere dalla capacità di trasporto nucleare) prodotti e impiegati dall’Iran? Il dispiegamento di nuovi e più avanzati sistemi? È difficile trovare delle risposte elaborate a questi punti.

Vista la diffidenza diffusa nella regione, qualunque accordo sul dossier missilistico – con limitazioni anche per gli altri paesi regionali – dovrebbe essere sostenuto da adeguati meccanismi di verifica, che a oggi sono impossibili da implementare, non esistendo peraltro alcun framework internazionale per il controllo dei programmi missilistici (per cui l’Iran percepirebbe l’eccezionalità del controllo esclusivo sul suo programma, in una riedizione del dossier nucleare). Privare l’Iran degli strumenti e dei sistemi per trasportare armi nucleari è inverosimile, poiché i missili Shabab 3 e Ghadr – utilizzabili anche a questo scopo – costituiscono soprattutto il cuore della capacità iraniana di rispondere a eventuali attacchi israeliani; limitare il numero dei missili prodotti e impiegati richiederebbe ispezioni intrusive e approfondite alle basi militari e ai centri di produzione militare iraniani, difficili da accettare per l’Iran, specie in assenza del framework menzionato.

Il fatto che a oggi Teheran non sia interessata agli Icbm è in parte dimostrato dal fatto che, a fronte di enormi progressi in campo missilistico negli ultimi 20 anni, Teheran non abbia mai effettuato nemmeno dei test con missili a lungo raggio, in grado di raggiungere gli Stati Uniti, e che abbia ristretto volontariamente la gittata massima dei suoi missili a 2000 km. Se da una parte l’unico aspetto “controllabile”, senza essere eccessivamente intrusivi, è la capacità iraniana di trasporto di testate nucleari, per la quale potrebbero essere introdotte restrizioni ai test di volo, è bene anche ricordare che eventuali pressioni o ricatti sui missili da parte dell’Occidente potrebbero spingere le autorità iraniane a inaugurare per rappresaglia proprio i test sui missili a lungo raggio.

Strategie per accordi epocali

In conclusione, anche a prescindere dal raggiungimento in tempi brevi di un nuovo accordo sul nucleare, appare chiaro come le richieste unilaterali all’Iran di cessazione o limitazione al proprio programma missilistico siano destinate a non funzionare. Ne consegue che l’eventuale tentativo americano di inserire modifiche al programma missilistico iraniano come precondizione a un rientro degli Stati Uniti nel nuclear deal sarebbe rovinoso: nel più roseo dei casi ne uscirebbe un accordo “vuoto”, e delle limitazioni che non soddisferebbero nessuno. Sarebbe forse più utile aprire discussioni di lungo termine – e allargate alla regione – sui missili intercontinentali, come ricordano gli studiosi Fabian Hinz e Sahil Shah.

Ex ambasciata degli Stati Uniti a Teheran (Foto di Fotokon)

Con i presupposti attuali, una ipotesi – comunque complessa da percorrere – potrebbe essere quella di accordare all’Iran il rafforzamento della flotta di missili a medio raggio (con la attuale soglia massima di 2000 chilometri) in cambio di limitazioni all’uso di tecnologie militari nel programma spaziale di Teheran e/o al trasferimento di missili Cruise e balistici ad attori non statali sostenuti da Teheran (come gli houthi in Yemen). A ogni modo, così come sul dossier nucleare, anche sul programma missilistico sarebbe profondamente sbagliato guardare all’Iran con il “prisma” libico, nella convinzione quindi che Teheran ceda se messa sotto pressione. Se non altro, perché Teheran è sotto pressione dal 1979.

Lo sforzo empatico non sarebbe tanto una concessione ma anzitutto una operazione funzionale all’inquadramento del problema: tenere conto della percezione delle minacce – le strategie israeliane, i paesi del Golfo, le formazioni jihadiste perlopiù antisciite e antipersiane, le basi militari americane in tutti i paesi confinanti… – da parte dell’Iran, e in particolare della convinzione che la sua sicurezza, in una regione polarizzata e instabile, dipenda dalla sofisticazione del suo arsenale missilistico. Le lezioni della Guerra fredda possono essere d’aiuto, ma fino a un certo punto: se è infatti vero che la limitazione delle capacità militari sovietiche non avvenne grazie alle sanzioni, ma mediante l’istituzione dei meccanismi di controllo e concessioni accompagnate da leveraging militare, è anche bene ricordare che in Medio Oriente la citata scarsa fiducia diffusa sussista non tra due ma tra un numero consistente di attori regionali, mossi da agende quasi inconciliabili.

L'articolo Usa e Iran: “Missiles will be on the table” proviene da OGzero.

]]>