Khamenei Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/khamenei/ geopolitica etc Fri, 29 Apr 2022 14:49:12 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Gli iraniani cercano casa, in Turchia https://ogzero.org/gli-iraniani-cercano-casa-in-turchia/ Thu, 10 Feb 2022 20:00:43 +0000 https://ogzero.org/?p=6255 Il governo Raisi fronteggia una forte emigrazione di cittadini iraniani (soprattutto in Turchia, dove la lira si è indebolita) e la crisi interna ha bisogno dell’eliminazione delle sanzioni. Molto dipende dall’esito dei colloqui in corso a Vienna per salvare l’accordo sul nucleare, intanto la Cina aggira i blocchi Usa e acquista il petrolio iraniano. In […]

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Il governo Raisi fronteggia una forte emigrazione di cittadini iraniani (soprattutto in Turchia, dove la lira si è indebolita) e la crisi interna ha bisogno dell’eliminazione delle sanzioni. Molto dipende dall’esito dei colloqui in corso a Vienna per salvare l’accordo sul nucleare, intanto la Cina aggira i blocchi Usa e acquista il petrolio iraniano. In questo articolo Marina Forti fornisce un quadro economico e sociale della realtà iraniana.


Sono sempre di più gli iraniani che cercano di comprare casa. Non stupisce: l’immobiliare sembra tra i pochi investimenti sicuri in tempi incerti. Gli iraniani però comprano casa all’estero, e soprattutto in Turchia. Non solo gli iraniani più abbienti, e non solo ville o proprietà di alto standard: gli acquirenti di case sono spesso professionisti, universitari, insegnanti, piccoli negozianti, infermieri. Media o piccola borghesia, persone che cercano di mettere in salvo i risparmi. Magari puntano a comprare casa per prendere la cittadinanza e poi spostarsi ancora più lontano – Regno Unito, Canada, Australia, Usa.

A Tehran, si sente spesso di persone che vendono la seconda casa, o magari l’appartamento dei nonni defunti, o perfino quello in cui vivono, per raggranellare il possibile e tentare il grande passo. Non ci sono dati precisi sull’emigrazione degli iraniani, ma alcuni indizi sono chiari.

In parte vengono proprio dalla Turchia, uno dei pochi paesi dove gli iraniani possano andare senza visto, e dove sono un po’ meno penalizzati in termini di potere d’acquisto. Infatti la moneta iraniana, il rial, ha dimezzato il suo valore negli ultimi tre anni. Ma anche la lira turca ha perso almeno il 20 per cento del suo valore nel corso dell’anno passato, cosa che ha contribuito a impoverire milioni di cittadini turchi ma ha favorito l’arrivo di acquirenti stranieri sul mercato immobiliare, a Istanbul e altrove. Ebbene, nel 2021 al primo posto tra gli stranieri c’erano gli iraniani, seguiti da iracheni e russi; nel periodo tra gennaio e novembre gli iraniani hanno comprato 8594 case (ma il trend era già visibile negli anni precedenti; nello stesso periodo del 2020 ne avevano comprate 6425).

Secondo dati raccolti dal “Financial Times”, inoltre, più di 42.000 iraniani sono emigrati (hanno preso la residenza) in Turchia nel 2019; nello stesso anno circa 18.000 iraniani hanno lasciato la Turchia, ma non è chiaro se per tornare in Iran o emigrare altrove.

Altri segnali si possono raccogliere dalla stampa iraniana, o dai dibattiti parlamentari. L’ex ministro della Scienza, Mansour Gholami, ha dichiarato mesi fa in parlamento che 900 professori universitari hanno lasciato l’Iran nel solo 2019. Il Consiglio medico (l’organismo che rilascia la licenza all’esercizio della professione medica) fa sapere che ogni anno se ne vanno circa 3000 dottori. L’emigrazione, in particolare di persone istruite e con buone qualifiche professionali, non è una novità nella storia della Repubblica islamica dell’Iran: ora però sembra accelerare. In parlamento, sui giornali, si parla di “fuga dei cervelli”. Il leader supremo, ayatollah Ali Khamenei, di recente ha accusato chi semina “illusioni” nell’animo di tanti giovani spinti a cercare chissà cosa all’estero.

E poi non solo giovani. Si racconta di persone che vendono tutto e si affidano a intermediari per trovare la casa da acquistare e poi trasferire il denaro per vie traverse, dato che i normali trasferimenti bancari sono bloccati e portare grosse somme in contanti è rischioso e illegale. L’intermediazione è un mercato a sé, ovviamente sommerso; si racconta di speculatori e di truffe.

Ma cosa spinge tante persone a mettere i propri risparmi in mano a intermediari e speculatori nella speranza di comprare un appartamento in una periferia turca? Le risposte sono verosimilmente molte, ma si possono riassumere nelle parole “incertezza” e “sfiducia”.

Incertezza economica, in primo luogo, dopo due anni di recessione profonda. Riassumiamo. Sull’Iran gravano le sanzioni, le più drastiche mai viste nei 42 anni di vita della Repubblica islamica, quelle decretate dall’amministrazione di Donald Trump dopo che nel maggio 2018 ha stracciato l’accordo sul nucleare (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa, firmato dall’Iran e da cinque potenze mondiali). Sono centinaia di sanzioni mirate ai principali settori dell’industria, a cominciare da quella petrolifera; colpiscono enti, imprese, banche, individui, perfino aerei, navi e petroliere. Gli Usa sono riusciti a imporle a tutto il mondo grazie alle sanzioni secondarie (contro le imprese di paesi terzi che commerciano con l’Iran). Non solo: nel 2020 le banche iraniane sono state espulse dalla Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication (Swift), che garantisce le comunicazioni interbancarie (è un meccanismo internazionale, ma ha sede a Washington ed è sotto il controllo Usa). Senza un codice Swift nessuna transazione internazionale è possibile. Poi la Financial Action Task Force (Fatf), che ha sede a Parigi e veglia su norme antiriciclaggio, ha messo l’Iran sulla lista dei paesi sospetti.

Così l’isolamento è pressoché totale, nessun settore dell’economia è risparmiato. E queste sanzioni restano in vigore con il presidente Joe Biden, in attesa dell’esito dei colloqui in corso a Vienna per rilanciare l’accordo sul nucleare.

Questo dovrebbe far riflettere sul potere ma anche i limiti delle sanzioni. Non c’è dubbio, la “massima pressione” imposta da Trump ha fatto precipitare l’Iran nella recessione. L’inflazione, che il governo dell’ex presidente Hassan Rohani era riuscito a tenere sotto controllo, è riesplosa – oggi è ufficialmente del 42%, aveva raggiunto il 48% nel febbraio 2021, e nell’esperienza reale è molto più alta. Le imprese pubbliche e private stentano; a volte pagano in ritardo i salari o non li pagano affatto. La disoccupazione cresce: ufficialmente al 9% della forza lavoro, ma molto più alta per i giovani. Il crollo del rial rende tutto più costoso, anche mandare un figlio a studiare all’estero. È quasi impossibile importare farmaci e attrezzature mediche, benché non siano sotto sanzioni, per il semplice motivo che non si riesce a trasferire i pagamenti – perfino in tempi di pandemia sono state fatte solo rare eccezioni.

Il paese, e ogni singolo cittadino, pagano tutto questo in modo pesante. E però l’economia iraniana non è collassata. La “economia di resistenza”, ovvero la strategia di sviluppare capacità industriali interne, promuovere l’export di prodotti diversi dal petrolio, rafforzare legami commerciali con i paesi della regione oltre che con la Cina e la Russia, ha permesso all’Iran di sopravvivere.

Il lavoro minorile in Iran, una delle conseguenze della crisi economica (fonte Asianews).

Anzi, i dati parlano di ripresa. Nell’anno 2020-2021 (l’anno fiscale comincia il 21 marzo, secondo il calendario persiano) il Prodotto interno lordo è cresciuto del 3,4 per cento, stima la Banca mondiale, grazie al settore manifatturiero e a una timida ripresa dell’industria petrolifera. Nell’anno che sta per concludersi la crescita è stimata tra il due e il tre per cento. Quanto al petrolio, nel novembre 2021 la produzione si aggirava su 2,4 milioni di barili al giorno (barrel-per-day, bpd): ancora lontano dai 3,8 milioni bpd del 2017 prima delle sanzioni Trump, ma in lenta ripresa. Quanto all’export di prodotti petroliferi, nei primi mesi del 2018 l’Iran esportava 2,5 milioni bpd, nel 2020 era crollato a circa 400.000; oggi si parla di un milione di barili al giorno (sono stime: è un’attività sotto embargo e non ci sono dati ufficiali).

Dunque l’economia cresce: ma non bisogna ingannarsi, cresce da una base molto bassa dopo il crollo precedente.

La Banca Mondiale osserva che in termini reali, il Pil iraniano si trova più o meno al livello di un decennio fa: nel frattempo però una generazione di giovani per lo più istruiti si è affacciata sul mercato del lavoro e non ha trovato occupazione. Per loro è stato un decennio perso.

E poi, i segnali di ripresa contrastano con l’esperienza quotidiana di prezzi sempre più alti, disoccupazione, ristrettezze. Tutto aggravato dalla lunga pandemia di Covid-19 e dalla siccità. L’Iran resta un paese impoverito e disilluso. Si capisce che molti sognino di emigrare.

In questo quadro vanno visti i conflitti sociali che han segnato gli ultimi mesi. E anche le prime mosse del presidente Ebrahim Raisi, insediato lo scorso agosto.

Le piazze si riempiono

Il 13 gennaio centinaia di migliaia di insegnanti hanno riempito strade e piazze nelle maggiori città dell’Iran. Era la quarta giornata di mobilitazione da settembre, proclamata dal Consiglio nazionale dei sindacati degli insegnanti. A Tehran una folla massiccia ha manifestato davanti al parlamento, con slogan come “la penna è più forte del fucile”, “gli insegnanti contro la discriminazione”. Chiedono aumenti salariali e miglioramenti normativi. Chiedono anche il rilascio dei sindacalisti e insegnanti arrestati dopo i primi scioperi: in effetti ogni giornata di protesta è stata seguita da arresti, che però non hanno impedito alla mobilitazione di crescere.

Il caso degli insegnanti è indicativo. Come tutti i dipendenti pubblici, e come i pensionati, hanno visto crollare i salari reali almeno del 40 per cento tra il marzo 2018 e il marzo 2021, causa l’inflazione. Il governo Rohani aveva aumentato gli stanziamenti per l’istruzione e la previdenza sociale, nella finanziaria del 2020-2021 (portati al 55 per cento della spesa pubblica, contro il 45% dell’anno precedente), nel tentativo di proteggere dalla crisi la piccolissima borghesia per lo più urbana. Ma la perdita di potere d’acquisto reale è stata comunque più forte. Ora, quando gli insegnanti hanno visto che i promessi aumenti erano stati cancellati nella finanziaria di quest’anno, sono scesi in piazza.

Proteste in piazza per la crisi economica (foto CC – Fars Media Corporation).

Gli insegnanti non sono soli. Nei primi mesi dell’anno numerose proteste hanno coinvolto i pensionati. Tra giugno e agosto ci sono stati scioperi a singhiozzo e mobilitazioni dei lavoratori petroliferi, in particolare quelli precari (anche a loro l’amministrazione uscente ha concesso aumenti di salario). Le agitazioni si sono intensificate in settembre, il primo mese di effettivo lavoro della nuova amministrazione: decine di proteste, alcune locali, altre di portata più ampia. Tra novembre e dicembre sono riesplose anche le proteste per l’acqua a Isfahan, che rimandano a un complicato scontro di interessi tra regioni rurali e urbane per la suddivisione delle scarse risorse idriche.

Come ha risposto l’amministrazione di Ebrahim Raisi, il presidente eletto con il voto meno partecipato della storia dell’Iran repubblicano?

Favorito dall’establishment (al punto che ogni serio concorrente era stato escluso dalla competizione elettorale), Raisì è arrivato con la promessa di portare benessere “sulla tavola di tutti gli iraniani”. Nei primi cento giorni del suo mandato ha girato il paese in lungo e in largo, con visite nelle province che ricordano un po’ quelle del presidente Mahmoud Ahmadi Nejad. Anche Raisi è andato in ospedali, farmacie, quartieri popolari. Ma andare “vicino al popolo” e promettere giustizia non basta. Servivano segnali concreti: e il primo è stato ordinare massicce importazioni di vaccini contro il Covid-19.

Nel solo mese di settembre in Iran sono arrivate 30 milioni di dosi di vaccino, contro 19 milioni in tutti i 7 mesi precedenti. D’improvviso, pratiche di importazione che prima richiedevano settimane si sono sbloccate. I vaccini sono importati dalla Mezzaluna Rossa Iraniana, per lo più attraverso accordi bilaterali e tramite la Croce Rossa Cinese; vaccini cinesi, russi, o il Covishield di Astra Zeneca (fabbricato in India) grazie al programma delle Nazioni unite Covax. Anche vaccini di produzione nazionale sono ora disponibili. Fatto sta che alla vigilia dell’insediamento di Raisì erano state somministrate circa 10 milioni di dosi a una popolazione di 80 milioni di iraniani; oggi 60 milioni di persone hanno ricevuto la prima dose e 53 milioni la seconda, secondo l’Organizzazione mondiale per la sanità.

Questo però è l’unico successo concreto da esibire, per ora. Il fatto è che importare vaccini in fondo è più semplice che rilanciare l’economia.

Per questo bisogna guardare al parlamento, che in queste settimane sta discutendo la legge finanziaria: presentata in dicembre, va approvata in tempo per entrare in vigore con l’anno nuovo, il 21 marzo. La prima finanziaria del presidente Raisi afferma obiettivi ambiziosi, parla di crescita dell’8 per cento. Afferma che le linee guida saranno “aumentare la produzione e l’occupazione” nel quadro della “economia di resistenza”. Il governo prevede di aumentare del 10% le entrate nel bilancio generale dello stato, e del 25% il bilancio delle imprese statali (attraverso cui è gestita una buona parte dell’economia). Spera di contenere l’inflazione sotto il 40 per cento, e di aumentare le entrate fiscali del sessanta per cento anche con la lotta all’evasione. L’amministrazione Raisi basa le sue previsioni sull’ipotesi di esportare 1,2 milioni di barili al giorno di prodotti petroliferi, messi in bilancio al prezzo medio di 60 dollari a barile.

Se questo basterà a contenere la perdita di potere d’acquisto degli iraniani, resta da vedere. Il parlamento ha ripristinato gli aumenti per gli insegnanti e sta discutendo di aumentare il salario degli impiegati pubblici tra il 5 e il 28 per cento: considerata l’inflazione però resta una diminuzione di reddito netta. Moshen Rezai, ex comandante delle Guardie della Rivoluzione e oggi uno dei massimi consiglieri economici del presidente Raisi, ha annunciato che il governo raddoppierà i sussidi in contanti distribuiti agli iraniani sotto una certa soglia di povertà. Istituito da Ahmadi Nejad, si tratta di un assegno di 455.000 rials: solo che nel 2010 equivaleva a 40 dollari, oggi al cambio libero equivale a meno di 2 dollari.

Già, il cambio. Il parlamento sta discutendo anche la proposta di abolire il cambio ufficiale imposto nel 2018, che aveva “congelato” la parità a 42.000 rial per un dollaro – mentre sul mercato libero oggi per un dollaro servono 275.000 rial. Il cambio di stato serve a finanziare le importazioni di beni essenziali e strategici e calmierare i costi, ma ha dato luogo ad arbitri e corruzione; lasciare tutto al mercato libero però potrebbe aumentare ancor più l’inflazione.

Il presidente Raisi riuscirà a mantenere la sua promessa di benessere? Secondo un osservatore informato come Bijan Khajehpour, molto dipenderà dalle sanzioni. L’Iran ha dimostrato di avere una economia diversificata (non solo petrolio: esporta automobili, prodotti meccanici, agroalimentare e altro), e di riuscire a vivere nonostante l’isolamento internazionale. Un effetto delle sanzioni è stato ridirigere le relazioni commerciali iraniane verso i paesi vicini, l’Asia centrale, la Cina e la Russia.

Tehran ha firmato accordi di cooperazione economica con Pechino e ne sta negoziando con Mosca – anche se non è ancora chiaro quale sarà l’impatto concreto.

Ma finché restano le sanzioni sul sistema bancario il costo di ogni transazione renderà molto più costose sia le importazioni che le esportazioni. Per sostenere la crescita inoltre servono investimenti in infrastrutture, e anche questi sono frenati dalle sanzioni.

Certo, il probabile aumento dei prezzi petroliferi potrebbe aiutare l’Iran. Anche qui però pesano le sanzioni: la Cina è divenuta il principale acquirente di petrolio iraniano, ma finora è stato tutto in via ufficiosa; solo a metà gennaio, per la prima volta dal dicembre 2020, Pechino ha annunciato una importazione di greggio iraniano sfidando le sanzioni Usa.

In definitiva il governo Raisi ha bisogno di veder togliere le sanzioni, se vuole davvero riportare “il benessere a tutti gli iraniani”. Così molto dipende dall’esito dei colloqui in corso a Vienna per salvare l’accordo sul nucleare: anche i salari e le pensioni degli iraniani, e le prospettive di una generazione che sogna di emigrare.

 

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Raisi, il Giudice senza grazia https://ogzero.org/l-iran-e-in-ebollizione-raisi-le-sanzioni-e-le-sfide-internazionali/ Wed, 25 Aug 2021 11:03:15 +0000 https://ogzero.org/?p=4708 Non c’è luna di miele per Ebrahim Raisi, insediato il 5 agosto nella carica di presidente della repubblica iraniana. Nessun “periodo di grazia”, né all’interno di un paese attraversato da proteste sociali e stremata da una nuova ondata di Covid-19, e neppure sul piano internazionale. Durante il suo discorso inaugurale il presidente Raisi si è […]

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Non c’è luna di miele per Ebrahim Raisi, insediato il 5 agosto nella carica di presidente della repubblica iraniana. Nessun “periodo di grazia”, né all’interno di un paese attraversato da proteste sociali e stremata da una nuova ondata di Covid-19, e neppure sul piano internazionale.

Durante il suo discorso inaugurale il presidente Raisi si è dichiarato un «servitore del popolo», e ha detto che la sua priorità sarà risollevare l’economia e portare il benessere «sul tavolo da pranzo di tutti gli iraniani». Ha anche detto che perseguirà una «diplomazia intelligente» per veder togliere le «crudeli sanzioni che opprimono» l’Iran, riferimento ai negoziati in corso a Vienna per riesumare l’accordo sul nucleare iraniano (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa) firmato nel 2015, e vanificato nel maggio 2018 quando l’allora presidente degli Stati uniti Donald Trump ha deciso di uscirne, decretando nuove sanzioni all’Iran.

Il sessantenne Raisi, un religioso di medio rango, è molto vicino al leader supremo Ali Khamenei, di cui era stato allievo. Ha svolto tutta la sua carriera nella magistratura, roccaforte delle correnti più ortodosse della Repubblica Islamica. Negli anni Ottanta è stato nel comitato di giudici incaricati di epurare le carceri iraniane mettendo a morte migliaia di detenuti politici, una delle pagine più inquietanti dell’Iran rivoluzionario. Negli ultimi due anni, come Procuratore capo della repubblica si è fatto paladino della lotta alla corruzione, suo tema di battaglia elettorale. È stato alla testa di una delle più potenti fondazioni islamiche, la Astan Qods Razavi di Mashhad, che controlla un impero commerciale e una rete di beneficenza e opere sociali: un pilastro del consenso al sistema.

Oggi ripete che la sua sarà un’amministrazione «popolare».

Eppure Ebrahim Raisi è stato eletto con il voto meno partecipato nella storia dell’Iran repubblicano: meno di metà degli aventi diritto è andata alle urne. È stato un voto senza concorrenti, poiché gli avversari di qualche peso erano stati esclusi: quella del 18 giugno scorso è stata l’elezione presidenziale meno libera da sempre perfino per gli standard della Repubblica Islamica dell’Iran, dove un organismo che risponde solo al leader supremo ha potere di veto sulle candidature. Insomma, la legittimità popolare del nuovo presidente è molto debole. Lo stesso Raisi riconosce che bisogna «ripristinare la fiducia» degli elettori.

Sta di fatto che, con Raisi alla presidenza, gli oltranzisti del sistema (quelli che alcuni chiamano il deep state, lo stato profondo) controllano tutti i centri di potere della Repubblica Islamica: eletti (il parlamento, la presidenza) e non. La lista dei suoi ministri, sottoposta al parlamento il 12 agosto è significativa: comprende uomini delle Guardie della rivoluzione, ex militari, ex dirigenti dei servizi di intelligence e della Tv di stato (altra roccaforte del sistema). Ci sono anche i dirigenti di due potenti fondazioni islamiche, la Astan Qods Razavi, già citata, e quella intitolata all’Imam Khomeini (rispettivamente ministri dell’istruzione e del lavoro e welfare).

Dunque legge, ordine, forze armate, e welfare. Eppure il neopresidente non avrà periodo di grazia.

La sfida di Vienna

Sul piano internazionale, la prima sfida è proprio quella che si gioca a Vienna. L’amministrazione di Joe Biden ha dichiarato di voler rientrare nell’accordo sul nucleare stracciato da Trump, ma sei round di colloqui tra i partner residui (Iran, Francia, Germania, Regno Unito, Cina e Russia), e indirettamente con gli Usa, non hanno ancora dato esito positivo.

Fare previsioni è inutile; meglio ricapitolare ciò che sappiamo. Il nuovo presidente iraniano ha dichiarato di volere il negoziato, «nei termini indicati dal Leader Supremo» (in effetti è stato Khamenei sei mesi fa ad avallare i colloqui di Vienna). Ebrahim Raisi non ha competenze specifiche in politica internazionale. Come ministro degli Esteri ha scelto un diplomatico di carriera: Hossein Amir-Abdollahian, già viceministro degli Esteri nel primo governo Rohani, poi consigliere di politica internazionale dell’ex presidente del parlamento Ali Larijani. Un uomo di regime con solidi legami con le Guardie della rivoluzione, ma non uno degli oltranzisti che avevano avversato l’accordo sul nucleare (di cui pure erano circolati i nomi). Amir-Abdollahian conosce il dossier nucleare e ha esperienza di colloqui con le controparti occidentali, inclusi gli Usa. Presenterà un volto più duro dei predecessori. Però si può aspettare che nel futuro negoziato l’amministrazione Raisi avrà meno opposizioni interne del suo predecessore Hassan Rohani, il quale è stato boicottato in tutti i modi (interessante il suo ultimo discorso al governo uscente: l’accordo era quasi fatto e le principali sanzioni statunitensi sarebbero cadute già da tempo, ha detto, non fosse stato per l’attivo boicottaggio del parlamento dominato dagli oltranzisti).

Non sarà un negoziato facile neppure per la nuova amministrazione. Non sono di buon auspicio gli “incidenti” navali di fine luglio, che riaccendono i riflettori sulla guerra-ombra in corso tra Israele e Iran (e forse su un nuovo “consenso” anglo-americano contro l’Iran). Ma ci sono anche segnali positivi per la diplomazia: l’inviato dell’Unione Europea ai negoziati sul nucleare, Enrique Mora, era a Tehran per l’inaugurazione del presidente Raisi, con cui si è intrattenuto (anche se il suo gesto è stato criticato da molti difensori per i diritti umani, tra cui l’avvocata Narges Mohammadi).

Un paese impoverito e disilluso

Ma lasciamo per un istante lo scenario internazionale. L’altra sfida per il neopresidente Raisi è all’interno del paese, ed è perfino più urgente. È la crisi dell’economia, appesantita dalle sanzioni internazionali: l’inflazione supera il 44 per cento, le imprese sono in difficoltà, la disoccupazione galoppa, mentre le grandi ricchezze sono sempre più grandi: pochi miliardari e una classe media impoverita. Tutto aggravato dalla lunga pandemia di Covid-19, dalla siccità, i conflitti per l’acqua, la penuria di energia elettrica. Un paese impoverito, disilluso, e senza fiducia nel futuro.

«La tensione nel paese è molto forte e Raisi deve prendere decisioni molto in fretta», dice l’economista e analista politico Saeed Leylaz (riprendo questo commento dal “Financial Times”). Per esempio il contrasto all’inflazione o la conduzione della campagna di vaccinazioni, spiega il presidente:

«ha bisogno di presentare qualche carta vincente, che gli permetta di prendere tempo fino a quando ci saranno decisioni definitive sull’accordo nucleare e sulle sanzioni».

L’urgenza è evidente. L’insediamento di Ebrahim Raisi è stato preceduto da settimane di proteste per la mancanza d’acqua che attanaglia le province occidentali, e per i blackout di corrente elettrica divenuti frequenti in tutto il paese nella stagione estiva.

La rivolta dell’acqua

La rivolta dell’acqua è scoppiata la sera del 15 luglio ad Ahwaz, capoluogo del Khuzestan, provincia occidentale affacciata sul golfo Persico e confinante con l’Iraq.

 

I quattro fiumi della provincia sono ridotti ai minimi storici, l’acqua è razionata, esce dai rubinetti solo un’ora al giorno. La folla gridava «il fiume ha sete», «noi abbiamo sete».  E poi

«abbiamo dato il sangue e la vita per il Karun»,

il fiume che attraversa Ahwaz. I manifestanti chiedevano forniture urgenti d’acqua. Molti chiedevano le dimissioni delle autorità locali accusate di incompetenza, o di corruzione, o entrambe le cose.

La crisi è tutt’altro che inaspettata. In maggio il ministero dell’Energia aveva avvertito che l’Iran andava verso l’estate più secca da 50 anni, con temperature che potevano sfiorare i 50 gradi, e l’allarme era stato ripreso da tutti i giornali. Poi è successo, e le conseguenze sono devastanti: per chi deve sopportare un’estate torrida e umida senza acqua, ma anche per l’agricoltura e l’intera economia.

Il paradosso è che il Khuzestan è tra le province più povere dell’Iran, in termini di sviluppo sociale: la disoccupazione e il tasso di povertà assoluta sono i più alti del paese (secondo Iran Open Data, che analizza statistiche ufficiali), ma è tra le più ricche in termini di risorse: racchiude circa l’80 percento delle riserve di petrolio e il 60 per cento di quelle di gas naturale per paese, e produce una parte importante del prodotto interno lordo iraniano (il 15 per cento nel 2019). Inoltre il Khuzestan era una terra fertile e ricca d’acqua, anche se oggi pare incredibile: ha quattro fiumi tra cui il Karun; due importanti zone umide (incluse le paludi condivise con l’Iraq), e aveva un’importante economia agro-industriale – ora in crisi.

Il sito storico del sistema idrico di Shushtar, patrimonio Unesco.

Il giorno dopo le prime manifestazioni, il governatore provinciale ha mandato camion cisterna a portare acqua in oltre 700 villaggi e cittadine del Khuzestan, cosa che non ha placato gli animi. La penuria d’acqua è da attribuire in parte al cambiamento globale del clima: dall’inizio del secolo il regime delle piogge è sempre più scarso, le temperature sempre più alte, e la siccità è ormai cronica nell’Iran occidentale insieme a ampie zone dei vicini Iraq e Siria.

Le tempeste di sabbia che avvolgono periodicamente città come Ahvaz ne sono una conseguenza tangibile.

È in causa però anche la gestione dell’acqua disponibile. Negli ultimi decenni sono state costruite numerose dighe sui fiumi dell’Iran occidentale, sia per produrre elettricità, sia per sostenere ambiziosi progetti di espansione agricola, o per trasferire acqua verso la provincia centrale di Isfahan.

Il ponte di Allahverdi Khan sul fiume ormai secco, Isfahan (foto Wanchana Phuangwan).

Negli ultimi anni inoltre le autorità hanno autorizzato lo scavo di migliaia di pozzi. Dunque sempre più acqua è estratta dal sottosuolo, ma le piogge non bastano a “ricaricare” le riserve. Il livello delle falde idriche così è crollato; l’acqua salmastra del Golfo penetra sempre più all’interno. La salinità dei terreni causa ulteriori problemi per l’agricoltura; a nord di Ahwaz le famose palme da datteri cominciano a morire. Nelle zone petrolifere inoltre l’acqua disponibile è spesso inquinata da sversamenti di greggio.

Ad aumentare la rabbia poi ci sono ragioni storiche. Le proteste per l’acqua hanno coinvolto città come Abadan, Khorramshahr, e altre: sono nomi che richiamano la Guerra Iran-Iraq. Su Abadan e le sue raffinerie puntava l’esercito di Saddam Hussein quando invase l’Iran nel settembre 1980; nella “città martire” di Khorramshahr si combatté casa per casa. Tutto l’ovest dell’Iran fu il fronte di quella guerra sanguinosa, durata otto anni. In Khuzestan però la ricostruzione è stata solo parziale, le attività economiche non sono mai tornate al benessere precedente. Perché? I dirigenti iraniani adducono la mancanza di mezzi e risorse da investire, o la cronica instabilità nel vicino Iraq. La provincia è abitata da una forte minoranza arabo-iraniana (c’è anche un movimento indipendentista, minuscolo ma foraggiato dai potenti vicini arabi del Golfo). A precedere le proteste generali, il 6 luglio una delegazione di agricoltori e anziani delle tribù arabe era andata a Ahwaz per fare rimostranze alle autorità locali per la penuria d’acqua.

La rivolta “legittima” e la polizia che spara

Insomma: la provincia si sente negletta. L’agricoltura e le fabbriche che ne dipendono sono sempre più in crisi. I giovani non trovano lavoro. Aumenta l’emigrazione verso le grandi città; a Tehran o Isfahan sorgono nuove borgate di migranti arrivati dalle zone rurali del Sudovest.

Cambiamento climatico, dighe, inquinamento, cattiva gestione delle risorse, disoccupazione, discriminazione delle minoranze: tutto spiega la rabbia esplosa in luglio.

«Per otto anni [durante la guerra con l’Iraq] questa provincia è stata devastata, e ora i nostri soldati sparano contro di noi», diceva un manifestante di 24 anni di Dezful al corrispondente di “Middle East Eye”.

Di fronte alla protesta infatti lo stato ha risposto come al solito: con la forza. Anche perché le proteste si sono estese; c’è notizia di manifestazioni a Kermanshah, capoluogo della provincia omonima nell’Iran occidentale, nel Lorestan, a Isfahan, fino a Tehran. Organizzazioni di avvocati, attivisti sociali, l’associazione degli scrittori, hanno manifestato solidarietà. Sui social media sono circolate foto di blindati e veicoli antisommossa scaricati dagli aerei cargo nell’aeroporto di Ahwaz. Le proteste si sono prolungate per giorni. Le autorità hanno sospeso internet in gran parte del Khuzestan, senza riuscire a bloccare del tutto le informazioni.

È cominciata la guerra di notizie: il 20 luglio, dopo la quinta notte consecutiva di proteste, il governatore del Khuzestan ha parlato di un morto, una persona che accompagnava le forze di polizia e sarebbe stato ucciso dai dimostranti (i media di stato hanno addirittura accusato “terroristi armati”). Pochi giorni dopo Amnesty International ha parlato di almeno otto morti, tutti manifestanti.

Le proteste bloccano la strada tra Ahvaz e Andimeshk.

Eppure perfino il Leader supremo l’ayatollah Ali Khamenei ha ammesso che la protesta è legittima. È intervenuto tardi, ben una settimana dopo l’inizio delle manifestazioni e degli scontri, ma infine lo ha riconosciuto:

«Se i problemi dell’acqua e delle fogne in Khuzestan fossero stati risolti, non vedremmo oggi questi problemi». E poi: «Le persone esprimono il loro malcontento perché sono esasperate. (…) Le autorità devono risolvere al più presto i problemi della leale popolazione di questa provincia».

Il fatto è che mentre il leader parlava così, la polizia sparava sui manifestanti. Risolvere il problema dell’acqua è di sicuro una sfida per la nuova amministrazione, come lo è stato per le precedenti: ma richiede strategie a lungo termine, rivedere le scelte di sviluppo, combattere sprechi e malversazioni, rilanciare il dialogo con le minoranze e con gli enti locali. Nell’immediato, reprimere le proteste è più facile.

Le proteste per l’acqua, o quelle segnalate a Tehran alla fine di luglio per i continui blackout di corrente, non alludono a un’opposizione politica organizzata – anche se in alcuni casi sono stati sentiti slogan come «abbasso la Repubblica islamica», o «a morte il dittatore», «a morte Khamenei». Proprio come era successo nel dicembre del 2019 nelle proteste suscitate dall’aumento del prezzo dei carburanti, e due anni prima per il carovita.

Proteste senza una direzione politica riconoscibile, “solo” manifestazioni spontanee di esasperazione.

Ma questo non dovrebbe preoccupare di meno i dirigenti iraniani: al contrario.

Si aggiungano croniche proteste di lavoratori in tutto il paese, e un’ondata di scioperi tra gli addetti dell’industria petrolifera. Mentre la “variante delta” del virus fa strage, i medici lanciano appelli disperati, e solo il 3 per cento degli iraniani è completamente vaccinato: anche nelle code alle farmacie si sente imprecare contro il leader supremo, che mesi fa ha vietato di importare vaccini prodotti in Usa e Regno Unito.

L’Iran dunque è in ebollizione. Il neopresidente Raisi dovrà mostrare qualcosa di concreto, in fretta, che non siano solo i blindati antisommossa. Ma per questo ha anche bisogno di veder togliere le sanzioni che soffocano l’economia del paese: come al solito, le sfide internazionali e quelle interne sono strettamente legate.

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La telenovela e la fuga di notizie, lotta politica a Tehran https://ogzero.org/realta-e-finzione-si-sovrappongono-la-telenovela-e-la-fuga-di-notizie-lotta-politica-a-tehran/ Sun, 09 May 2021 10:19:38 +0000 https://ogzero.org/?p=3421 Quando la politica e la fiction si intrecciano, in un uso strumentale dei mezzi di comunicazione, per uscire vincitori in una lotta di potere tra le diverse correnti del sistema politico iraniano. Marina Forti ci racconta come realtà e finzione si sovrappongono a Teheran, tra arresti, condanne a morte, fughe di notizie pilotate, messaggi lanciati […]

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Quando la politica e la fiction si intrecciano, in un uso strumentale dei mezzi di comunicazione, per uscire vincitori in una lotta di potere tra le diverse correnti del sistema politico iraniano. Marina Forti ci racconta come realtà e finzione si sovrappongono a Teheran, tra arresti, condanne a morte, fughe di notizie pilotate, messaggi lanciati via social e vere e proprie azioni di intelligence.


Pragmatici e riformisti, ortodossi e oltranzisti

Una serie tv e una strana “fuga di notizie” illustrano la furibonda lotta di potere in corso a Tehran, in un momento particolarmente delicato per l’Iran. Infatti, da un lato sono in corso a Vienna difficili negoziati tra l’Iran e le sei potenze mondiali per resuscitare l’accordo sul programma nucleare iraniano firmato nel 2015 – da cui l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump si era ritirato nel 2018 benché l’Iran avesse osservato tutti i suoi obblighi. D’altro lato, il 18 giugno l’Iran eleggerà un successore al presidente Hassan Rohani, che conclude il suo secondo mandato. Le candidature non sono ancora definite, e la competizione tra le diverse correnti del sistema politico iraniano è serrata: i pragmatici al governo con il presidente Rohani, i riformisti, o all’opposto le correnti più ortodosse e oltranziste, le Guardie della rivoluzione, la magistratura (sottotraccia c’è anche la corsa a “posizionarsi” per influenzare la futura successione al leader supremo, l’ottantunenne Ali Khamenei).

I negoziati in corso a Vienna e la battaglia elettorale sono molto intrecciati. E questo ci porta alla serie tv intitolata Gando, dal nome di un coccodrillo delle zone palustri del Sistan Baluchistan, provincia sudorientale dell’Iran.

Gando: il coccodrillo e la spy story

Gando è una spy story in cui eroici agenti del controspionaggio delle Guardie della Rivoluzione combattono agenti stranieri infiltrati fino ai vertici della diplomazia iraniana. Messa in onda dalla tv di stato, la prima stagione è andata in onda nel 2019: sullo sfondo dei negoziati sul nucleare, coraggiosi agenti iraniani smascherano il corrispondente di una famosa testata degli Stati Uniti, in realtà una spia americana. I titoli di testa avvertivano che la fiction era “ispirata a fatti reali”. In effetti il giornalista-spia assomigliava molto a Jason Rezaian, l’ex corrispondente del “Washington Post” a Tehran arrestato nel 2014 e accusato appunto di spionaggio (accuse mai spiegate in modo convincente), condannato dopo un processo a porte chiuse e infine liberato nel 2016 grazie a uno scambio di prigionieri con gli Usa, proprio mentre l’accordo sul nucleare entrava in vigore. Ovviamente la fiction sposa le tesi dell’accusa.

Jason Rezaian, dopo la liberazione

La prima puntata della seconda stagione è andata in onda lo scorso 21 marzo, un giorno dopo Nowruz (il capodanno persiano). Questa volta “i nostri eroi” sventano l’infiltrazione di spie occidentali nei ranghi della delegazione iraniana ai negoziati avvenuti tra il 2013 e il 2015, conclusi con la firma dell’accordo sul nucleare. Una puntata dopo l’altra, gli spettatori scoprono con orrore che tra i massimi negoziatori ci sono agenti stranieri.

Anche nella nuova stagione troviamo “citazioni” esplicite. C’è per esempio un giornalista che ricorda un noto oppositore iraniano residente in Europa, Ruhollah Zam, invitato a Baghdad e là rapito da agenti di sicurezza iraniani, portato in Iran, processato e condannato a morte per spionaggio (fatto reale: la condanna di Zam è stata eseguita lo scorso dicembre).

Ruhollah Zam di fronte ai giudici che lo condanneranno. L’esecuzione è avvenuta il 12 dicembre 2020.

Non solo. I due negoziatori che (nella fiction) fanno il doppio gioco a favore di potenze straniere assomigliano molto a due assistenti del ministro degli Esteri Javad Zarif, che guida la delegazione (reale) ai negoziati. La fiction sembra suggerire che lo stesso capo delegazione sia una spia.

La censura e le accuse

La serie ha suscitato grandi polemiche, poi si è interrotta bruscamente. Pare che il presidente Rohani abbia fatto grandi rimostranze presso il leader supremo. Ora giornali e media legati a settori oltranzisti accusano il governo di aver censurato Gando.

Accusa paradossale, perché Irib, la radiotelevisione statale, costituisce un potere a sé tra le istituzioni della Repubblica islamica. Il suo direttore è nominato direttamente dal leader e non risponde al governo. È un monopolio (non esistono radio e tv private), ed è sempre stata una roccaforte delle correnti più oltranziste. Le voci vicine ai riformisti non vi trovano spazio, che si tratti di artisti, cineasti o intellettuali non allineati. Al governo del moderato Rohani la tv di stato riserva una copertura ridotta e spesso malevola.

Il monopolio della radio e tv di stato però è sempre più insidiato. In primo luogo dalle tv che arrivano via satellite, tra cui diversi canali occidentali in lingua farsi (“Bbc Persian” o “Voice of America” in lingua farsi) che lo stato vieta ma non riesce del tutto a oscurare. Ma non solo dei canali di news, anche la fiction e l’intrattenimento sono terreni di battaglia per imporre una “narrativa”. Le serie tv più guardate per esempio vengono dalla Turchia: più spigliate e professionali, doppiate in farsi in modo molto professionale, sono diffuse da canali satellitari o su piattaforme come Namava, un equivalente di Netflix.

Lo stile aiuta

Dunque una buona fiction è un investimento politico. Gando è più brillante delle solite serie della tv di stato. Ha attori famosi, uno stile tra James Bond e l’ironia di Ncis, è stata girata tra l’Iran e la Turchia, prodotta con grande dispendio di denaro. Sceneggiatore e produttore sono nomi noti. Nel 2019 il giornale (governativo) “Jam-e Jam” aveva scritto che la casa produttrice era finanziata da società delle Guardie della Rivoluzione (nulla di strano: hanno interessi in ampi settori dell’economia iraniana e anche nell’industria culturale). Nel gennaio scorso il ministro Zarif è stato esplicito: «L’intelligence delle Guardie della Rivoluzione ha fatto Gando». La cosa non è stata smentita.

Giornalisti e commentatori vicini ai riformisti o al governo Rohani accusano Gando di travisare la realtà, screditare il governo con false illazioni, gettare fango sui negoziatori che invece hanno lavorato nell’interesse dell’Iran. È ben noto che le correnti più oltranziste della Repubblica islamica, in particolare legate ai militari, hanno osteggiato il negoziato: non potevano impedirlo, perché aveva il beneplacito del leader supremo, ma non l’hanno mai digerito.

Parlare a nuora perché suocera intenda

Sembra che quando Gando è tornato sugli schermi, in marzo, il presidente Rohani si sia lamentato presso il leader per questo attacco subdolo. Così, quando la serie si è interrotta in modo un po’ brusco, giornali e social media vicini ai conservatori hanno accusato il governo. Il produttore, Mojtaba Amini, ha parlato di censura. Un noto commentatore (Pooyan Hosseinpour, su Twitter, 24 marzo) ha ammonito il governo: «Non dimentichiamo il disastro di Dorri-Esfahani, che spiava i negoziatori sul nucleare». Abdolrasoul Dorri-Esfahani era il rappresentante della Banca centrale iraniana nel team negoziale guidato da Zarif tra il 2013 e il 2015; in seguito è stato accusato di passare informazioni riservate a governi stranieri e per questo è stato condannato nel 2017: a molti è sembrata una ritorsione degli oltranzisti furiosi per l’avvenuto accordo. Un avvertimento obliquo? Qualcuno l’ha inteso così: Zarif è avvertito, potrebbe fare la fine di Dorri-Esfahani.

Fatto sta che nei primi giorni di aprile il quotidiano “Vatan-e Emrooz”, allineato su posizioni oltranziste, ha criticato aspramente la diplomazia iraniana per aver accettato di tenere colloqui con gli Stati Uniti in vista del rilancio dell’accordo sul nucleare, in un editoriale di prima pagina dall’eloquente titolo: La terza stagione di “Gando” verrà scritta a Vienna?.

Zarif, il bersaglio

Insomma: Gando è un’operazione politica e il suo target, ancor più che il presidente Rohani, è proprio il ministro degli esteri Javad Zarif.

I motivi sono almeno due. Primo, screditare i colloqui di Vienna – che però di nuovo hanno il beneplacito del Leader (se arriveranno a un esito è ancora incerto, anche se alcuni segnali sono positivi; è chiaro che molti lavorano contro, non solo a Tehran ma anche a Washington e in alcune capitali del Medio Oriente).

Ma il discredito buttato su Zarif ha soprattutto lo scopo di mobilitare la base dei conservatori a fini interni, e premere perché l’organismo di controllo (il Consiglio dei Guardiani) sbarri la strada alla sua possibile candidatura alle elezioni presidenziali del 18 giugno.

Infatti Javad Zarif resta una figura popolare in Iran, proprio perché è stato il volto pubblico di un Iran che si riapre al dialogo, e la sua popolarità sarebbe di sicuro rafforzata se i colloqui di Vienna portassero a far cadere le sanzioni che soffocano l’economia del paese. Anche se Zarif ha sempre escluso di volersi candidare, molti sono convinti che sarebbe la carta migliore per moderati e riformisti, l’unica in grado di sfidare i pronostici che danno vincente lo schieramento opposto. Di più: l’unica capace di mobilitare l’elettorato, di fronte a diffusi propositi di astensione.

È qui che entra in gioco la “strana” fuga di notizie. Una intervista, o meglio: tre ore di conversazione tra il ministro Zarif e un noto giornalista ed economista, Saeed Leylaz, diffusi il 25 aprile da “Iran International”, tv satellitare con sede in Arabia Saudita e a Londra. Il capo della diplomazia parla in modo schietto e critica l’eccessivo ruolo delle Guardie della Rivoluzione nel determinare la politica estera iraniana, scavalcando la diplomazia. Hanno fatto scalpore i passaggi in cui cita le brigate Al Qods, il corpo speciale delle Guardie della Rivoluzione, e il defunto comandante Qassem Soleimani (ucciso da un attacco mirato degli Stati Uniti a Baghdad nel gennaio 2020).

La fuga di notizie

Chi ha diffuso quella registrazione, per di più facendola arrivare a un canale tv “avversario”? Tre giorni dopo la devastante fuga di notizie, un infuriato presidente Hassan Rohani ha dichiarato durante una riunione di gabinetto (trasmessa dalla tv) che quella conversazione era confidenziale, fa parte di un progetto di storia orale a cui sta lavorando il Centro di ricerche strategiche affiliato alla presidenza della repubblica. Ha aggiunto che diffondere quei brani è stato un gesto irresponsabile che mira a far deragliare i colloqui in corso a Vienna per rilanciare l’accordo sul nucleare e rimuovere le sanzioni contro l’Iran. E ha annunciato un’indagine: «il ministero dell’Intelligence dovrà usare tutte le sue abilità per scoprire come sia successo». (A quanto pare anche l’intelligence delle Guardie della rivoluzione, separata e spesso concorrente a quella del governo, ha aperto la sua indagine.)

Intanto tutto lo schieramento conservatore ha lanciato attacchi feroci contro il ministro degli Esteri, chiedendo che si scusi per le affermazioni “sacrileghe” su Soleimani, o meglio ancora si dimetta.

Ovviamente diversi media hanno citato solo questa o quella frase. Chi ha ascoltato per intero quelle tre ore di audio (tratte da una conversazione di sette ore) riferisce che Zarif non fa affermazioni del tutto nuove. Riferisce precisi episodi in cui le Guardie della Rivoluzione hanno preso iniziative non coordinate. Dice che la Russia avrebbe preferito far fallire i negoziati sul nucleare (per mantenere l’Iran nella sua sfera d’influenza), e le Guardie della Rivoluzione hanno cercato l’aiuto russo per lo stesso scopo.

Zarif racconta che sei mesi dopo l’entrata in vigore dell’accordo sul nucleare è venuto a sapere dal suo omologo John Kerry (allora segretario di stato Usa) che l’Iran aveva intensificato l’invio di aiuti a Damasco usando i voli di Iran Air, con evidente danno per la posizione negoziale iraniana, al punto di scoprire dalla tv che il presidente siriano Bashar al-Assad era in visita a Tehran (era il febbraio 2019, e in effetti quella volta Zarif diede le sue dimissioni – rifiutate da Rohani: «quel giorno compresi che se non mi dimettevo… nessuno più mi avrebbe preso sul serio», dice in quella conversazione confidenziale).

La politica delle cannoniere

Il ministro degli Esteri rivendica però i suoi buoni rapporti con Soleimani, che incontrava spesso, e proclama la sua fedeltà al sistema della Repubblica islamica. Ricorda che le linee di politica estera vengono definite dal Consiglio di sicurezza nazionale, in cui sono rappresentate diverse istituzioni tra cui i militari, e sanzionate dal leader supremo: però poi i militari prendono iniziative proprie. Secondo Zarif, vedono le relazioni internazionali “con lenti da guerra fredda”: «pensano che chi è forte sul piano militare sia anche forte sulla scena internazionale… perseguono la politica delle cannoniere. Non credono che anche l’economia, e la diplomazia, e la solidarietà nazionale possano renderci più forti». (Secondo la corrispondente del “Financial Times”, dalle parole di Zarif emerge chiaro che chi detiene davvero il potere a Tehran sono i militari).

Il 2 maggio il leader in persona è intervenuto a criticare i giudizi dati da Zarif in quella registrazione, pur senza nominarlo: «non dobbiamo fare commenti che evocano quelli del nemico»; questo è “un grave errore” che «un alto funzionario dello stato non dovrebbe commettere». Poche dopo il ministro degli Esteri, in un post su Instagram, ha precisato che le sue parole volevano offrire in modo “onesto” il suo punto di vista, si scusa se hanno “contrariato” la massima autorità e ringrazia il leader per aver “messo fine al dibattito”.

Un noto esponente riformista, Abbas Abdi, ha scritto che le rivelazioni «avranno il sicuro effetto di impedire la candidatura di Zarif». Aggiunge però che danno un ritratto degli oltranzisti come degli irresponsabili, e dei riformisti come deboli, quindi in ultima istanza non beneficiano proprio nessuno. Certo descrivono una lotta di potere senza esclusione di colpi.

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