Kachin Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/kachin/ geopolitica etc Fri, 11 Nov 2022 17:33:28 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Armi a regimi feroci: storia della diplomazia israeliana in Myanmar https://ogzero.org/armi-a-regimi-feroci-storia-della-diplomazia-israeliana-in-myanmar/ Thu, 27 Oct 2022 16:11:17 +0000 https://ogzero.org/?p=9267 Il 24 ottobre Israele ha bombardato i siti iraniani che riforniscono di armi la Russia: una scelta di campo precisa e non scontata, visti i rapporti tra le due potenze militari di reciproca tolleranza e spesso di collaborazione a prescindere da qualunque considerazione morale, che arriva a otto mesi dall’inizio della invasione dell’Ucraina. Infatti è […]

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Il 24 ottobre Israele ha bombardato i siti iraniani che riforniscono di armi la Russia: una scelta di campo precisa e non scontata, visti i rapporti tra le due potenze militari di reciproca tolleranza e spesso di collaborazione a prescindere da qualunque considerazione morale, che arriva a otto mesi dall’inizio della invasione dell’Ucraina.
Infatti è prassi per i governi di Tel Aviv intrattenere traffici con le peggiori dittature e i regimi più brutali, rifornendoli – spesso in gran segreto – di sofisticati sistemi di morte. Attingendo anche a un recente dossier pubblicato su “Haaretz” a firma dell’attivista Eitay Mack e ai dossier dell’attivismo di Justice for Myanmar, Eric Salerno ricostruisce la storia emblematica dei rapporti tra Israele dalla sua nascita con  Burma-Myanmar. Sul filo di eventi di sessant’anni fa si vede in tralice come il sistema della condivisione di armi e sistemi bellici con i regimi più autocratici sia rimasta invariata per Israele fin dalla sua fondazione; e un nuovo rapporto sull’uso di armi biologiche nel 1948 da parte dell’Haganà per avvelenare interi villaggi arabi in Palestina confermerebbe questa predisposizione. «Le cose da allora non sono cambiate», chiosa Eric, ed è interessante andare a scoprire i meccanismi ripetuti fino a oggi, che forse non a caso ora sono oggetto di studi accademici seri e circostanziati come quello di Benny Morris della Ben Gurion University e Benjamin Z. Kedar della Hebrew University di Gerusalemme sulla Guerra biologica dei sionisti.


«Sapevano, o avrebbero dovuto sapere, di essere coinvolti nella corruzione e nella cospirazione in Myanmar»

Così scrive Eitay Mack a proposito di una società in Myanmar implicata in crimini e corruzione – i cui responsabili ai massimi livelli sono stati arrestati in Thailandia con l’accusa di riciclaggio di droga e denaro. Avrebbe svolto un ruolo da intermediario tra gli esportatori di armi israeliani e la brutale giunta militare che governa il paese secondo i documenti svelati da Justice for Myanmar. Gli alti dirigenti della società mantengono legami d’affari e familiari con esponenti di spicco della giunta e dell’esercito del Myanmar. La Gran Bretagna ha imposto sanzioni alla società, Star Sapphire Trading, per i suoi legami con l’esercito di Naypyidaw durante la pulizia etnica dei Rohingya.

I documenti trapelati, e di cui l’organizzazione è entrata in possesso, sono oggetto di una lettera inviata dall’avvocato israeliano Eitay Mack al procuratore generale Gali Baharav-Miara, chiedendo l’avvio di un’indagine contro l’industria aerospaziale israeliana, Elbit e Cantieri navali israeliani per aver procurato sistemi d’arma usati per crimini contro l’umanità e genocidio , e contro figure di spicco dei ministeri della Difesa e degli Affari Esteri, incaricate di supervisionare, regolamentare e approvare commercializzazione ed esportazione di quei sistemi d’arma in Myanmar. Risulta che siano stati trasferiti a Tatmadaw anche droni, venduti da Elbit Systems e usati per commettere crimini di guerra, e i pattugliatori veloci Super Dvora MK III venduti da IAI (entrambe compagnie pubbliche controllate dal governo israeliano).

La tradizionale (e criminale) cooperazione militare

La denuncia è sempre la stessa. E l’alleanza Israele-Myanmar è soltanto un tassello di un quadro molto più vasto e inquietante. Tutti i governi israeliani, da quando è stato fondato lo stato nel 1948, hanno visto la corruzione di alcuni eserciti, certe guerre civili, la violenza di taluni regimi dittatoriali come una importante opportunità diplomatica per Israele e affaristica per l’esercito di quel paese mediorientale nonché per le industrie militari israeliane. Uno dei casi più eclatanti è stato recentemente raccontato sul quotidiano di Tel Aviv, “Haaretz”, da Eitay Mack, avvocato e attivista per i diritti umani, che ha analizzato 25.000 pagine degli archivi del ministero degli Esteri di Gerusalemme recentemente resi pubblici. Quello che deriva è un comportamento, o meglio una politica, che va avanti da sempre. Da pochi anni dopo la sua nascita, Israele infatti ha mantenuto relazioni militari con il paese asiatico che si chiamava Burma all’epoca e soltanto dal 1989 è noto come Myanmar.

«Una guerra civile assassina? Tortura? Massacro? Per Israele è terreno fertile per la cooperazione»

Riproponiamo qui con lo stesso ruolo uno dei sottotitoli del lungo e circostanziato articolo pubblicato dal quotidiano di Tel Aviv nel quale Mack, citando documenti ufficiali, dimostra come Israele ha armato, addestrato e per decenni rafforzato i regimi militari del Myanmar.

«Israele ha aiutato l’esercito a riorganizzarsi come una forza moderna, lo ha armato e addestrato e ha contribuito in modo drammatico a costruire la sua potenza e consolidare la sua presa come l’elemento più potente del paese. Quel potere inizialmente permise all’esercito di gestire il paese da dietro le quinte, e in seguito di rimuovere la leadership civile e forgiare una varietà di diversi regimi militari».

Mack è preciso, le carte che cita ufficiali e circostanziate. Non interessava ai successivi governi israeliani, scrive, che l’aiuto militare non fosse inteso a scopo di difesa contro nemici esterni, ma fosse usato per fare la guerra contro gli abitanti di quei paesi: «In tutte le migliaia di pagine, che coprono 30 anni di relazioni, non c’è nemmeno un rappresentante israeliano che esprima un’obiezione alla vendita di armi al Myanmar». Vale la pena riprendere alcune delle affermazioni di Mack tratte dalla documentazione ufficiale.

«Un cablogramma inviato dall’ambasciatore israeliano in Birmania nel dicembre 1981 riassume bene l’essenza delle relazioni tra i paesi dal 1949. L’ambasciatore, Kalman Anner, ha riferito al direttore dell’Asia Desk del ministero degli Esteri di aver incontrato il ministro degli Esteri birmano nel tentativo di persuaderlo a sostenere Israele nelle votazioni delle Nazioni Unite. “Israele è uno dei paesi più amichevoli con la Birmania, e la Birmania è un paese estremamente amichevole con Israele”, scrisse nel 1955 Mordechai Gazit, membro dello staff dell’ambasciata israeliana a Rangoon (ora Yangon), mentre riferiva di un incontro con il capo segretario del primo ministro birmano U Nu. “[Il segretario capo] ha osservato che i due paesi stanno cooperando strettamente nell’arena delle Nazioni Unite. Spiegando da dove deriva questa amicizia, ha notato che Israele e la Birmania sono gli unici paesi socialisti in Asia”».

La parola “socialismo” fu ampiamente usata, direi abusata, per giustificare la vicinanza politica dei due paesi: «Un cablogramma – scrive Mack – fu inviato al primo ministro David Ben-Gurion dal ministero degli Esteri nel settembre 1952 in cui affermava che la guerra civile in Birmania aveva causato fino ad allora 30.000 vittime e che “il 55% del bilancio statale è stanziato fino a oggi per scopi di difesa”».

Parlamento birmano negli anni Cinquanta

Gli accordi del 1955

Nel 1955, i due paesi arrivarono a un accordo: armamento massiccio e addestramento militare, in cambio di spedizioni annuali di migliaia di tonnellate di riso dalla Birmania. La corrispondenza vista da Mack e resa pubblica in Israele offre un quadro preciso e dettagliato dell’accordo. Da Tel Aviv, in cambio delle spedizioni di riso, sono arrivati nell’ex Birmania 30 aerei da combattimento, munizioni, 1500 bombe al napalm, 30.000 canne di fucile, migliaia di ordigni di mortaio e equipaggiamento militare, dalle tende all’attrezzatura per il paracadutismo. Inoltre, dozzine di esperti israeliani venivano inviati in Birmania per addestrare i soldati mentre ufficiali dell’esercito birmano furono condotti in Israele per un’istruzione completa sulle basi dell’Idf. Dai documenti risultano l’addestramento dei paracadutisti e quello per i piloti di caccia dell’aviazione birmana. In collaborazione con l’esercito birmano, Israele ha anche fondato in Myanmar società di navigazione, agricoltura, turismo e costruzioni.

«I birmani menzionavano spesso il grande aiuto che ricevevano da noi», risulta questo scritto da un delle carte del ministero degli Esteri, Shalom Levin, un diplomatico israeliano a Rangoon, inviata al direttore generale del ministero della Difesa Shimon Peres nel dicembre 1957. «L’equipaggiamento arrivava proprio quando ne avevano bisogno, per le operazioni contro i ribelli».

La società militarizzata, un modello targato Idf

Risulta che Israele abbia istituito una scuola per il combattimento aereo e terrestre in Birmania e la Birmania attinto all’assistenza di Israele per organizzare il suo esercito sulla base del modello dell’IDF di una divisione in corpi e in forze regolari e riserviste. Una serie di cablogrammi inviati alle legazioni israeliane nell’Asia orientale e citate da “Haaretz” ha fornito dettagli su una delegazione birmana di alto rango che era venuta in Israele per «imparare i metodi dell’Idf». La delegazione ha visitato una base di assorbimento e addestramento, il produttore di armi Israel Military Industries, basi di addestramento per l’amministrazione militare e per le nuove reclute, il comando centrale, una brigata di fanteria e il corpo di artiglieria. Inoltre, secondo un documento, «ufficiali di stato maggiore sono stati inviati per studiare la questione della mobilitazione della manodopera in Israele, i metodi di mobilitazione, la legge sul servizio di difesa [coscrizione obbligatoria] e simili».

Nel 1958 all’ombra di una profonda crisi politica ed economica e sullo sfondo della guerra civile in corso – infuriava da un decennio – il governo birmano crollò e subentrò un regime guidato dal gen. Ne Win. «L’esercito sta prendendo il controllo di molte aree della vita», ha scritto Zvi Kedar, il secondo segretario dell’ambasciata israeliana a Rangoon, in un cablogramma del dicembre dello stesso anno. «La stessa stampa è stata anche colpita dalla promulgazione di leggi di emergenza che limitano la libertà di scrittura… Sono stati effettuati ampi arresti tra i leader di gruppi di sinistra che hanno legami con i ribelli».

Ben Gurion passa in rassegna le truppe con Ne Win nel 1959

Israele, tuttavia, ha visto dei benefici nell’arrivo di un generale a capo del governo:

«Nonostante le numerose crisi interne che hanno afflitto la Birmania negli ultimi anni, l’amicizia Israele-Birmania rimane salda ed è stata in realtà notevolmente rafforzata nell’ultimo anno, da quando il governo è effettivamente passato nelle mani dell’esercito», ha scritto un ministero degli Esteri del giugno 1959. «Gli amici più fedeli di Israele sono principalmente nei circoli dell’esercito».

Ne Win visitò Israele quel mese. Incontro il primo ministro Ben-Gurion e il capo di stato maggiore, il capo della polizia, alcuni ufficiali dell’Idf, ha visitato le basi dell’esercito e, rilevano i documenti ufficiali dell’epoca, ha ricevuto in regalo un centinaio di fucili mitragliatori Uzi. Armi moderne considerate le più efficienti dell’epoca. Mark cita un episodio che definisce particolarmente strano nel coinvolgimento di Israele in Birmania. «I birmani, a quanto pare, consideravano Israele un’ispirazione per i programmi di insediamento di terre e tentavano di insediare personale militare in regioni abitate da minoranze etniche ribelli, nello stile degli avamposti della Brigata Nahal dell’Idf». Un’indagine del giugno 1959 redatta dall’Asia Desk del ministero degli Esteri citava un piano in Birmania per stabilire «locali di insediamento costruiti secondo il piano del distretto di Lachish, nel formato di un moshav dei lavoratori cooperativi israeliani, con i gruppi principali [di coloni] composto da ex militari». Agli esperti agricoli israeliani inviati nel cuore della patria della minoranza etnica shan, che si era ribellata al governo centrale era subito chiaro che la popolazione locale era ferocemente contraria al piano, vedendolo come un tentativo di invasione. «Lo stato Shan non ha assolutamente alcun desiderio per un piano di insediamento birmano o israeliano, e certamente non il nostro piano congiunto», scrisse Daniel Levin, ambasciatore di Israele in Birmania, nel 1958.

Col tempo cambiano i leader, non le prassi

Cambiarono i leader politici ma non la politica e la collaborazione tra il paese asiatico e Israele. «Questa sera l’esercito ha preso il potere», riferì a Gerusalemme in un cablogramma nel marzo 1962 l’ambasciata israeliana in Birmania. «Secondo notizie non confermate, tutti i ministri tranne il primo ministro e i ministri dell’istruzione e delle finanze sono agli arresti domiciliari. Tutto il traffico aereo è stato interrotto. Pattuglie dell’esercito in tutti gli angoli della capitale. Prevale la quiete assoluta». Tre mesi dopo quel colpo di stato, il viceministro della Difesa, Shimon Peres giunse in Birmania per incontrare i vertici del governo militare. «Il signor Peres ha dichiarato a nome del primo ministro che Israele è interessato, come sempre, ad aiutare su ogni argomento e in qualsiasi modo deciderà il generale», si legge in un memorandum.

Poche settimane dopo l’incontro con Peres, Ne Win, a quel punto capo del Consiglio Rivoluzionario, ordinò il massacro degli studenti che stavano tenendo manifestazioni a Rangoon: «I soldati hanno sparato sulla folla», scrisse Michael Elitzur, un consigliere dell’ambasciata israeliana, nel luglio 1962. Raccontò come l’esercito avesse demolito un edificio universitario dove gli studenti si erano barricati. Le autorità hanno fatto in modo che non si tenessero funerali pubblici per le vittime. È stato uno spettacolo scioccante vedere centinaia di persone – molte delle quali genitori e parenti di coloro che sono stati uccisi e feriti – riunirsi nel silenzio più totale intorno al Policlinico… Due giorni dopo, è stata ordinata la chiusura di tutti gli istituti di istruzione in tutto il paese. Elitzur riferì inoltre che i servizi di sicurezza avevano fatto sparire dozzine di altri studenti. I massacri da parte di Tatmadaw non sono mai stati sospesi fino all’ultimo raid –per ora – del 24 ottobre 2022: 4 bombe su un concerto per celebrazione dell’organizzazione per l’indipendenza kachin sganciate da un aereo militare che hanno ucciso 80 persone, ferendone almeno 70.

Kansi, una cittadina del distretto di Hkpant nello Stato nordorientale del Kachin, bombardata dall’aviazione birmana durante un concerto in corso per celebrare la resistenza Kachin il 23 ottobre 2022

Molti altri i documenti citati da Mack che ha rilevato come «La rottura, per periodo breve, del rapporto economico non ha portato Israele a smettere di sostenere la Birmania all’Onu, né ha comportato la cessazione degli aiuti militari al regime. Una parte considerevole delle esportazioni israeliane verso la Birmania è destinata all’esercito birmano (equipaggiamento militare, provviste, prodotti chimici delle industrie militari israeliane e così via)», scrisse Daniel Levin, allora direttore dell’Asia Desk, nel gennaio 1966.

Consiglieri militari, addestratori all’antiguerriglia… e al pogrom

In un cablogramma dell’aprile 1966, l’addetto militare israeliano in Birmania, il colonnello Asher Gonen, chiese l’approvazione al colonnello Rehavam Ze’evi, all’epoca assistente capo della divisione operativa dell’Idf, per un nuovo programma per addestrare i comandanti del battaglione birmano in Israele, con l’obiettivo di combattere i ribelli. Il programma includeva un corso da quattro a sei mesi in Israele con addestramento per una brigata di fanteria e una brigata aviotrasportata, integrazione della difesa territoriale, operazioni con il paracadute, problemi di manutenzione, artiglieria, comunicazioni, combattimento e partecipazione alle manovre. Nel marzo 1966, l’allora capo di stato maggiore Yitzhak Rabin visitò la Birmania. Un anno più tardi – giugno 1967 –, il diplomatico Zeev Shatil, rilevò che «a partire dalle 11:00 [AM], iniziò un pogrom organizzato e sistematico contro i residenti cinesi di Rangoon, che è davvero difficile da descrivere. Gruppi organizzati andavano di casa in casa e di negozio in negozio, buttavano via tutti i loro averi, li ammucchiavano e vi appiccavano il fuoco per le strade. Dalle finestre dei piani superiori sono stati lanciati oggetti in strada e nelle strade sono state date alle fiamme le auto… Fonti, non confermate, parlano di circa 30 morti e più di 100 feriti, alcuni gravemente».

La situazione non migliorò e pochi anni dopo, nel gennaio 1982, un funzionario dell’ambasciata, Avraham Naot, scrisse di aver parlato con un alto funzionario del ministero degli Esteri birmano di un’altra “crisi”: «Era chiaro … che il paese deve fare tutto il possibile per impedire alla popolazione musulmana in Birmania di crescere attraverso l’immigrazione dai paesi vicini». Nel mirino c’erano e ci sono ancora i Rohingya. Israele e Birmania hanno creato un collegamento tra servizi segreti e ambasciata israeliana in Birmania che ha ricevuto una busta dal Mossad contenente materiale di intelligence da trasmettere alla sua controparte birmana in merito alla attività «sotterranea musulmana nel Sudest asiatico [che opera sotto l’ispirazione] dell’Iran e della Libia». Le cose da allora non sono cambiate e nel novembre 2019, Ronen Gilor, ambasciatore di Israele in Myanmar, ha twittato un messaggio di sostegno e auguri di successo ai capi dell’esercito del Myanmar in merito alle deliberazioni in corso contro di loro presso la Corte internazionale di giustizia a L’Aia con l’accusa di genocidio contro il popolo Rohingya. «Incoraggiamento per un buon verdetto e buona fortuna!» Gilor ha scritto.

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Terre rare e guerre abbondanti https://ogzero.org/terre-rare-e-guerre-abbondanti/ Thu, 13 May 2021 16:45:36 +0000 https://ogzero.org/?p=3477 Lo stato kachin è una regione settentrionale di Myanmar/Birmania. Due volte la Svizzera, meno di 2 milioni di abitanti. Montagne himalaiane, fiumi solenni, distese vallate. Risorse naturali in eccesso: legname pregiato (teak), giada, oppio, oro. Una storia non placida: già retrovia dei nazionalisti cinesi di Chiang Kai-shek e del suo Kuomingtang, fin dall’indipendenza della Birmania […]

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Lo stato kachin è una regione settentrionale di Myanmar/Birmania. Due volte la Svizzera, meno di 2 milioni di abitanti. Montagne himalaiane, fiumi solenni, distese vallate. Risorse naturali in eccesso: legname pregiato (teak), giada, oppio, oro. Una storia non placida: già retrovia dei nazionalisti cinesi di Chiang Kai-shek e del suo Kuomingtang, fin dall’indipendenza della Birmania (1948) conflitti armati delle forze locali indipendentiste contro il governo centrale, popolazioni con culture, lingue e religioni diverse, profughi interni, andirivieni continuo sul lungo confine con la Cina.

terre rare e guerre

Gli stati che compongono il Myanmar e le etnie principali che vi abitano (fonte “Burma Blue”, di Massimo Morello, Rosenberg & Sellier, 2021, elaborazione OGzero).

Un boccone prelibato

Un concentrato genuino di geopolitica.

Le terre rare sono appetitose sostanze che fanno gola ai dispositivi che deliziano la nostra vita tecnologica, microchip, laser, energia solare, industria aerospaziale, militare …Un boccone prelibato. Hanno però un difetto, si trovano solo confuse e avvinghiate ad altri metalli tanto da richiedere enormi sbancamenti e lavorazioni molto elaborate, come si è accennato in un precedente articolo intitolato Materia della rete – rete della materia.

Dopo il colpo di stato del primo febbraio il traffico di autocarri e tir al confine cinese del Kachin si è molto intensificato. La Cina, tra i massimi produttori di terre rare, ne sta riducendo l’esportazione, per porre un limite alle devastazioni ambientali delle sue miniere e, soprattutto, per mettere in crisi l’impiego che ne fanno gli Usa principalmente in campo militare [un F-35 ha bisogno di 417 chilogrammi di terre rare]. Ne deriva che la supply chain – catena di approvvigionamento mondiale di terre rare entra in affanno.

Per le sue necessità la Cina da diversi anni si rivolge a Myanmar che ne è un ottimo produttore.

Da dove la Cina importa terre rare: percentuali per paese.

Gli eserciti etnici contro Tatmadaw

Ma Myanmar è in turbolenza. La feroce repressione della giunta militare non ha messo a tacere le proteste, ha, in qualche modo, addirittura ravvicinato le posizioni tra la maggior parte delle formazioni militari e politiche indipendentiste. Il più importante esercito dello stato kachin [Kia] ha abbattuto il 4 maggio un elicottero del Tatmadaw, l’esercito birmano.

Uno dei risultati del caos militare e politico è che nello stato kachin aumentano le già fiorenti miniere illegali di terre  rare, in una regione sfigurata da giganteschi scavi di altre materie e dalla deforestazione per il legname prezioso.

Miniere illegali a Pangwa, nel Kachin (fonte “Myitkyna Journal” e “The Irrawaddy”).

Il “capitalismo del cessate il fuoco”

Per concludere: nello stato kachin si ha una inequivocabile realizzazione dell’accumulazione per spoliazione attraverso la manipolazione della crisi permanente di una regione di frontiera dotata di risorse, schiacciata da appetiti di potenti apparati di potere (Cina, Myanmar, Signori della guerra locali) e dalla storica disarticolazione sociale prodotta dal colonialismo inglese. La globalizzazione del mercato ha aggravato una condizione già segnata da quello che Kevin Woods definiva dieci anni fa come capitalismo del cessate il fuoco: accordi saltuari di tregua tra militari e leader ribelli per spartirsi risorse e aree di influenza garantendosi reciproca impunità. Le citate miniere illegali sono gestite o direttamente da emissari che fanno riferimento alle aziende di stato cinesi o da milizie di frontiera collaborazioniste con l’esercito birmano. La ripartizione dei profitti ne è l’instabile architrave. Tutti i boss ci guadagnano.

terre rare e guerre

La rete di infrastrutture e le risorse (fonte “Burma Blue”, di Massimo Morello, Rosenberg & Sellier, 2021, elaborazione OGzero).

Non ci guadagnano le popolazioni che qualche volta al momento giusto riescono a reagire. È dal 2011 che la grande diga Myitsone, voluta dalla Cina famelica di energia elettrica, è stata bloccata dalle proteste popolari contro le evacuazioni di moltissimi villaggi, contro la distruzione radicale di un ampio sistema ecologico e, perché no?, contro la profanazione dell’anima idrica del paese, il fiume Irrawaddy.

La ricomposizione degli interessi e dei diritti è di là da venire.

terre rare e guerre

Fonti:

The Irrawaddy”, “S&P Global-Market Intelligence”, “Tea Circle”, “The Rare Earth Observer”, “Asia Times Financial”, “Roskill”.

 

Approfondimenti:

D. Harvey, The ‘new’ imperialism: Accumulation by dispossession, Socialist Register, n. 40, 2004.

K. Woods, Ceasefire Capitalism: Military–Private Partnerships, Resource Concessions and Military – State Building in the Burma – China Borderlands, “The Journal of Peasant Studies”, vol. 38, n. 4.

K. Dean e M. Viirand, Multiple borders and bordering processes in Kachin State, in A. Horstmann, M. Saxer, A. Rippa, Routledge Handbook of Asian Borderlands, Routledge, 2018.

R. Einzenberger, Frontier capitalism and politics of dispossession in Myanmar: The case of the Mwetaung (Gullu Mual) nickel mine in Chin State, “Austrian Journal of South-East Asian Studies”, vol. 11, n. 1.

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Rohingya: il genocidio silenzioso di una comunità musulmana nella sua città https://ogzero.org/rohingya-il-genocidio-silenzioso-di-una-comunita-musulmana-nella-sua-citta/ Tue, 08 Dec 2020 18:49:27 +0000 http://ogzero.org/?p=1991 Questo reportage è il frutto di un viaggio a Sittwe, capitale del Rakhine, nel luglio 2020. È stato pubblicato nell’ottobre 2020 sul n. 44 de “Il Reportage”, trimestrale diretto da Riccardo De Gennaro. Qui se ne riporta la versione integrale dell’Autore. Il duplice volto di Sittwe Sittwe (Stato del Rakhine). Quanto tempo ci vuole per […]

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Questo reportage è il frutto di un viaggio a Sittwe, capitale del Rakhine, nel luglio 2020. È stato pubblicato nell’ottobre 2020 sul n. 44 de “Il Reportage”, trimestrale diretto da Riccardo De Gennaro. Qui se ne riporta la versione integrale dell’Autore.

Il duplice volto di Sittwe

Sittwe (Stato del Rakhine). Quanto tempo ci vuole per dimenticare il dolore? E quanto ce ne vuole perché il dolore diventi abitudine, sistema di vita, quotidianità? Un musulmano di Sittwe lo sa anche se in questa città settentrionale del Myanmar le apparenze possono ingannare. La capitale del Rakhine, lo stato birmano da cui tra il 2012 e il 2017 almeno 850.000 musulmani rohingya sono stati obbligati a fuggire da una sistematica persecuzione, sembra una città tranquilla e invitante. Il lungomare porta a un belvedere affacciato da una parte sul Golfo del Bengala e dall’altra sul delta di un grande fiume limaccioso che confonde le sue acque con quelle del Mar delle Andamane. Lungo la passeggiata, coppiette mano nelle mano, bambini festosi e giovani che si allenano. Qualche surfista occidentale e giovani allegri che nuotano su pneumatici gonfiati come enormi salvagenti. Sulla spiaggia decine di baracchette con birra, gamberi arrostiti, piacevolezze da weekend e sorrisi. Sullo sfondo, pagode ristrutturate con lamine dorate.

Tempi dorati Rakhine

Il capo sul mar delle Andamane. Foto di Svetva Portecali

La città vecchia non dimentica

Nel cuore della città vecchia però si respira tutt’altra aria. Se l’occhio va oltre l’alto muro di cinta che circonda la grande moschea di Sittwe, l’antica costruzione ottocentesca – un piccolo gioiello dell’arte islamica con suggestioni mogul – è ora un ammasso di rovine. La struttura esterna ha resistito ma dentro tutto è devastato. Le piante si arrampicano rapide lungo i muri sbrecciati, corrosi dall’umidità e dall’incuria. E se dimenticare è difficile, alla natura bastano otto anni per cominciare a ripigliarsi ciò che era suo. Succede lo stesso per altri luoghi di culto islamici della città ed è accaduto anche a monasteri e templi buddisti, seppur in maniera minore. Non lontano dalla moschea si apre il ghetto islamico. Non ci si può entrare e non ci si può uscire. Quanti sono? Una stima dice 4000. Quanti erano? Forse 80.000. Come sopravvivono? È un altro mistero di una città divisa da una guerra per bande scoppiata nel 2012 che, nel giro di qualche mese, ha chiuso un bilancio per il solo Rakhine – dice un rapporto del 2013 di Pysichians for Human Rights – di almeno 280 morti, circa 135.000 sfollati e la distruzione di oltre 10.000 abitazioni, decine di moschee, madrase e monasteri.

Antica moschea abbandonata a Sittwe

La grande moschea devastata e chiusa. Foto di Svetva Portecali

La scintilla che scatena i pogrom

Se buddisti, cristiani e musulmani rohingya (una comunità di lingua bengalo-assamese ed etnicamente indo-ariana che vive qui da secoli) convivevano più o meno pacificamente, al netto di qualche ricorrente dissidio, nel 2012 uno stupro mortale di cui sono accusati tre musulmani scatena il caos. Un autobus viene assalito e vengono giustiziati dieci rohingya. Parte la caccia all’uomo dalle due parti ma con due grossi svantaggi per la comunità islamica: sono minoranza in un paese devoto a Budda il compassionevole e l’esercito chiude un occhio. Un occhio lo chiudono anche le autorità religiose buddiste che solo in seguito prenderanno le distanze dal movimento “969” del monaco oltranzista Ashin Wirathu, i cui infiammati sermoni istigano all’odio e alla violenza etnico-religiosa. Una violenza che si espande in decine di siti in tutto il paese – Meiktila, Yamethin, Mandalay – ma che ha il suo fulcro nel Rakhine, a Sittwe, dove i musulmani vengono “evacuati” nei campi sfollati fuori dalla capitale.
Il pogrom antimusulmano si ripete cinque anni dopo, nel 2017, quando un gruppo islamico (Arakan Rohingya Salvation Army – Arsa) attacca alcuni siti delle forze di sicurezza birmane nel Rakhine. È la loro risposta al 2012, ma per l’esercito birmano – conosciuto come Tatmadaw – è l’occasione per far piazza pulita. Nel giro di un mese quasi 700.000 rohingya scappano in Bangladesh a ingrossare le fila nei campi profughi oltre confine. Presto se ne aggiungono altri. Il Myanmar non è più casa loro: per Naypyidaw sono bengalesi immigrati, quindi clandestini, senza diritto a un documento. La parola rohingya è bandita dal vocabolario in quella che diventa la prima grande operazione di pulizia etnica del XXI secolo che si consuma, dopo 50 anni di governo militare, all’ombra del primo esecutivo civile con a capo un premio Nobel, la signora Aung San Suu Kyi. Poi, tra la fine 2018 e l’inizio del 2019, per Tatmadaw appare un’altra sfida: l’Arakan Army, autonomisti arakanesi per lo più buddisti e armati. Sono nati nel 2009 e sono attivi dal 2015 ma questa volta fanno sul serio. Non sono gli straccioni armati di machete e moschetto dell’Arsa. Una nuova guerra si riaccende tra le pianure del Rakhine e le montagne dello stato Chin, dove l’AA mantiene le sue basi operative.

Sfollati e vulnerabili

A fine 2019 il più recente aggiornamento dell’Ufficio Onu per gli affari umanitari (Ocha) diceva che circa la metà della popolazione sfollata in Myanmar a causa del conflitto vive nello stato del Rakhine: circa 241.000 sfollati – il 77% sono donne e bambini – vivono in campi o in situazioni simili a campi negli stati Kachin, Kayin, Shan e Rakhine. Ciò include – sempre secondo Ocha – circa 92.000 persone nel Kachin, 15.000 nello Shan, 5600 nel Kayin e quasi 130.000 persone nel Rakhine, in gran parte sfollate a causa delle violenze del 2012. Numeri che crescono e che il sito dell’Unhcr stimava nel 2019 a oltre 700.000 persone (prese in carico a diverso titolo, tra cui 600.000 rohingya). La condizione in cui vivono gli sfollati nei campi è di estrema vulnerabilità: persistenza dei conflitti armati, apolidia, restrizioni di movimento, malnutrizione, malattie. Le agenzie umanitarie fanno quel che possono ma «l’accesso ai campi sfollati viene impedito dall’esercito a qualunque straniero. Possiamo arrivarci – dice il funzionario di un’organizzazione internazionale che chiede l’anonimato – solo con personale locale». C’è una diffusa reticenza a parlare coi reporter da parte delle varie strutture internazionali – dalle Nazioni Unite alle Ong – presenti a Sittwe. Probabilmente è dovuta anche al fatto che nel 2014 ci fu una vera e propria sollevazione contro gli internazionali ritenuti pro-rohingya e a un episodio dell’aprile di quest’anno, quando è stato ucciso nel Rakhine un autista dell’Oms. Nessuno se la sente di parlare con un giornalista, nemmeno off the record. «Argomento troppo sensibile», è la vaga risposta quando una risposta viene data.

Una casa musulmana abbandonata. Foto di Svetva Portecali

Accesso vietato

A Yangon un funzionario Onu accetta di parlare ma anonimamente: «La situazione si è molto complicata dal 2019: in termini di flussi, stiamo parlando di 70 nuovi siti – difficile, dice, chiamarli “campi” – con 45.000 sfollati che nei primi sei mesi del 2020 sono raddoppiati: 150 siti con un totale di 90.000 sfollati. In queste aree del Rakhine il nostro lavoro è ostacolato da una burocrazia di permessi che comincia col governo ma finisce con i militari. E il Western Comand, che controlla l’area, ha sempre l’ultima parola. Per il personale non birmano l’accesso è praticamente impossibile e anche per i locali non è facile: ci sono cinque livelli da superare per avere un permesso nelle aree off limits salvo che il primo check point non ti rispedisca a casa. L’accesso è migliore nelle aree urbane ma in quelle rurali – nelle zone di Paletwa, Rathedaung e Buthidaung – non c’è niente da fare. Il mantra è “sicurezza” cui si sono aggiunte – conclude – le restrizioni del Covid». È abbastanza chiaro che non è molto piacevole dover ammettere di non aver quasi nessuna capacità di controllo sull’emergenza umanitaria degli sfollati che richiede comunque una spesa di circa 150 milioni di dollari l’anno. È possibile solo un monitoraggio a distanza che lascia libero Tatmadaw di controllare la situazione e la segregazione. Va aggiunto poi che, al di fuori di Sittwe, la regione è da oltre un anno isolata da Internet. Impossibile dunque persino comunicare, figurarsi controllare.

Impossibile comunicare: isolamento e mancanza di controllo

Anche ottenere i dati è complesso e i siti internet, cui le organizzazioni rimandano, non sono di grande aiuto. Quel che è certo e che la statistica non è di casa nel Rakhine. E difficile sapere con certezza le variazioni demografiche di Sittwe, l’unico posto che uno straniero possa raggiungere. In aereo. La città è sigillata e non si può uscire perché attorno si spara e «a volte in città scoppia qualche bomba», confida una fonte locale. L’Arakan Army è più vicino di quanto non si pensi e nel primo quadrimestre del 2020 ha messo a bilancio oltre 80 azioni armate al mese. A inizio agosto ci sono stati scontri con vittime tra Tatmadaw e l’AA nelle città di Rathedaung e Buthidaung, a Nord di Sittwe e, a fine luglio, due raid aerei dell’esercito birmano hanno bombardato l’area tra Kyauktaw e Mrauk U – a circa 150 chilometri Est da Sittwe per rispondere a un attacco dell’AA. Il giorno dopo, vediamo una colonna di camion trasporto truppe attraversare la capitale. Una cinquantina di soldati per camion usciti da una delle tante caserme di Sittwe. Molti residenti, si dice, avrebbero abbandonato l’area: la zona dista una sessantina di chilometri in linea d’aria dal territorio di Paletwa, nel Chin, dove, con la popolazione civile, sono intrappolati dai continui scontri armati anche alcuni sacerdoti cattolici. È l’altro fronte della guerra nei due “stati caldi” dove il processo di pace tra Naypyidaw e gli eserciti armati degli stati periferici birmani (l’ultimo vertice si e tenuto in agosto) non funziona. Con le fazioni che hanno firmato l’accordo di cessate il fuoco c’è tutt’al più qualche scaramuccia. Nel Chin e nel Rakhine si combatte. Quotidianamente.
Una fonte locale confida che «la guerra è purtroppo una realtà quotidiana anche nelle aree di Myay Bon e di Min Bya», sempre a Est di Sittwe, dove «si combatte tutti i giorni». A Nord della capitale è forse ancora peggio: a giugno «la situazione della sicurezza nelle aree settentrionali dello stato Rakhine rimane instabile, con continui combattimenti e una maggiore presenza di forze di sicurezza nel distretto di Rathedaung – scrive un rapporto congiunto Ocha-Unhcr – tuttavia i numeri sono difficili da verificare a causa della fluidità della crisi» ma quasi 3000 persone avrebbero lasciato la zone degli scontri. «È stata fornita assistenza agli sfollati, ma l’accesso per valutare e rispondere ai bisogni rimane una sfida, in particolare nelle zone rurali… aggravata dal Covid-19». Se il controllo sugli aiuti è difficile, quello sulle attività di Tatmadaw lo è ancora di più: «Molto semplice: bruciano tutto, passano coi bulldozer e dopo qualche settimana la foresta ricopre tutto», sostiene un’altra fonte a Yangon. Lo confermano le riprese satellitari che Amnesty o Human Right Watch fanno ciclicamente per monitorare, dal 2017, cosa succede da queste parti dove è facile sparire senza che se ne sappia più nulla.

Ambala: un lager a cielo aperto

All’ingresso di Aung Mingalar o “Ambala”, com’è conosciuto il quartiere musulmano di Sittwe, i gabbiotti azzurri della polizia presidiano mucchi di spazzatura e impediscono che ci si avvicini a un’area in cui non è permesso entrare e da cui non è permesso uscire. Un lager a cielo aperto col titolo di quartiere «in cui vivono circa 4000 persone», secondo Nay San Lwin, cofondatore della Free Rohingya Coalition: «Solo poche persone – dice – possono uscire dal quartiere per fare spesa ogni due settimane. Sorvegliati dalla polizia». Molte case musulmane sono semplicemente abbandonate, altre sono diventate caserme o aree di rispetto interdette. In una settimana a Sittwe incontriamo non più di tre quattro donne con l’hijab e quando ci imbattiamo in un gruppetto di ragazzi dai tratti somatici indiani, specificano subito di essere “indostani”, vale a dire non rohingya. Secondo le statistiche ufficiali del 2016, rielaborazione dei dati del censimento del 2014, nel Rakhine il 96,2% degli abitanti è buddista (il dato nazionale è 87,9%) mentre i musulmani sarebbero solo l’1,4% contro il 4,3% nazionale. Ma nel Nord Rakhine la percentuale cambia: 60% di buddisti contro 30% di musulmani (70% a 29 o 67% a 24 secondo altre fonti) anche se ormai la bilancia etnico-religiosa è cambiata. Con la fuga di quasi un milione di rohingya negli ultimi anni, i pochi che restano sono i prigionieri di Sittwe e dei campi sfollati.

Sittwe

Fuori dal mercato di Sittwe. Foto di Svetva Portecali

Il distretto di Sittwe conta oltre un milione di abitanti e per Sittwe città la stima è attualmente di oltre 150.000 di cui circa il 70% vive nell’area urbana. Quanti musulmani sono andati via dalla città e quanti ne sono rimasti, se gli sfollati a giugno 2017 erano – scrive il Sittwe Camp Profiling Report* – ancora quasi 100.000 distribuiti in 15 campi nell’area rurale di Sittwe e altri 20.000 dispersi in un’altra ventina di campi nel Nord Rakhine? La fotografia del 2017 non dice quanti di loro abbiano raggiunto, prima o dopo il 2017, l’ondata di profughi rohingya riversatasi in Bangladesh o abbiano scelto la via del mare verso Thailandia o Malaysia. Quel che si sa con certezza è che la piccola minoranza dei Kaman – una popolazione musulmana del Rakhine che è però riconosciuta tra le 135 nazionalità ufficiali (da cui i rohingya sono esclusi) – sarebbe sfollata a Yangon. Un provvedimento cui nel 2018 si oppone un ex ministro vicino ai militari, sostenendo che così si «esporta il cancro» nella parte sana del paese. Quanto ai musulmani nei campi attorno a Sittwe, nel 2017 l’84% proveniva dalla città che ne doveva dunque ospitare, prima del pogrom, almeno 80.000. Se contare i musulmani prigionieri a Sittwe è un’operazione incerta, qualche dato comunque illumina: per esempio il numero di trattamenti all’ospedale generale della città nel periodo settembre-dicembre 2019 che ha a bilancio 26.046 interventi per “razze nazionali” contro 814 per “musulmani”. Con una divisione razziale dei pazienti che, da sola, messa nero su bianco, mette i brividi.

Un conflitto senza soluzione?

Il Myanmar – ha scritto International Crisis Group nel suo ultimo rapporto sul Rakhine (giugno 2020) – «ha anche sviluppato una strategia legale per difendersi dalle accuse di genocidio (per il dossier rohingya [N.d.A.]) alla Corte internazionale di giustizia. Ma sembra non avere una più ampia strategia per risolvere la crisi di fondo… dovrà riconoscere che il conflitto con l’AA e la crisi dei rohingya sono collegati, ed entrambi devono essere affrontati per stabilizzare il Rakhine e migliorare significativamente le sue prospettive di sviluppo. Senza fine al conflitto con l’AA, il rimpatrio volontario dei rohingya (dal Bangladesh [N.d.A.]) è inconcepibile. Inoltre, qualsiasi progresso sostenibile nel miglioramento della vita dei rohingya richiede una consultazione con la popolazione del Rakhine per ottenere il suo via libera. Eppure nel contesto attuale, tutto ciò sembra quasi inconcepibile, dato che l’impegno a livello politico tra il governo e il popolo del Rakhine – conclude Ics – è del tutto assente».

Rohingya: il genocidio silenzioso

A Sittwe, mentre sul lungomare si gustano calamari e gamberoni, si consuma in sostanza un genocidio silenzioso dove i killer nei lager a cielo aperto sono anonimi: fame, malattie, depressione, prigionia. E tempo. Lo sterminio attraverso un lento stillicidio di quel che rimane di una comunità.

* Dati raccolti con questionario da CCCM, Danish Refugee Council, Unhcr. Il Rapporto (155 pagine più annessi) utilizza una sola volta il termine “rohingya” a testimoniare quanto l’argomento resti “sensibile”: «For the purposes of this paper, the term Muslims is used to refer to the population the Government refers to as “Bengali” and who refer to themselves as “Rohingya”. The labelling of this group in Rakhine State is a contentious issue and continues to fuel misunderstanding».

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“L’occhio del Buddha” e la Realpolitik di Aung San Suu Kyi https://ogzero.org/myanmar-la-realpolitik-della-signora-e-locchio-del-buddha/ Wed, 02 Dec 2020 20:05:02 +0000 http://ogzero.org/?p=1916 «La spiegazione è semplice: la gente non dimentica» dice un vecchio amico che vive in Birmania da più di vent’anni, un uomo per tutte le stagioni. «La gente sta meglio e ha paura di perdere quel poco che ha guadagnato». La memoria di un passato prossimo vissuto nella paura e la percezione del cambiamento spiegherebbero […]

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«La spiegazione è semplice: la gente non dimentica» dice un vecchio amico che vive in Birmania da più di vent’anni, un uomo per tutte le stagioni. «La gente sta meglio e ha paura di perdere quel poco che ha guadagnato». La memoria di un passato prossimo vissuto nella paura e la percezione del cambiamento spiegherebbero il successo di Aung San Suu Kyi e della sua National League alle elezioni dell’8 novembre.

Una vittoria schiacciante per la Nld

I risultati vanno oltre il “landslide”, la valanga di voti, ottenuta nel 2015. La Nld ha conquistato l’83,2% dei voti di 37 milioni di votanti, aggiudicandosi 396 seggi su 476 nelle due Hluttaw (le camere). L’Usdp, lo Union Solidarity and Development Party, avatar civile di Tatmadaw, le forze armate, ha ottenuto solo il 6,9% dei voti: una “umiliante disfatta”, è la ricorrente definizione, che rischia di essere pagata a carissimo prezzo dai suoi leader. I militari conservano il 25% dei seggi in parlamento, come previsto dalla costituzione creata su misura nel 2008 che assicura loro l’effettivo mantenimento del potere, ma grazie a questo risultato la Nld può formare il nuovo governo e “nominare” il prossimo presidente.

«Un risultato comunque inatteso che dimostra che il popolo la ama e la segue. Rispetto alle precedenti elezioni, queste le conferiscono un vero mandato per il cambiamento. E sono la prova di discontinuità con il passato», commenta un diplomatico, uno di quelli che hanno cercato di far comprendere quanto la realtà locale fosse lontana dall’opinione pubblica occidentale.

«Secondo me ha vinto perché l’hanno vista all’Aja. Lei non ha difeso i militari, ha difeso la nazione» spiega un missionario che percorre le vie meno battute della Birmania, riferendosi all’intervento di Aung San Suu Kyi alla Corte Internazionale dell’Aia per opporsi alle accuse di genocidio nei confronti dei rohingya, l’ormai tragicamente famosa etnia musulmana. «Se la prima volta era entusiasmo, questa volta la vittoria è pensata. Lei rappresenta l’unità. E sono stati proprio i rohingya che hanno unito la nazione».

Burma: “hermit kingdom”

Bisogna ancora affidarsi a “voci” di personaggi che per lunga abitudine preferiscono restare anonimi, per sapere che cosa accade “inside Burma”, all’interno della Birmania, come si diceva sino a dieci anni fa. Allora il paese era un “hermit kingdom”, una nazione, come la Corea del Nord (che ne era uno dei maggiori sostenitori) autoisolata, metaforicamente e fisicamente, dal resto del mondo per proteggere un ordine autocratico. Allora la stessa denominazione del paese, Birmania versus Myanmar, era segno di una presa di posizione, dissidente nel primo caso, ufficiale o “collaborazionista” nel secondo. Allora le voci che arrivavano a noi erano messaggi trasmessi da dissidenti, reporter più o meno in incognito, informatori. E per trasmetterli era necessario un programma per bypassare i blocchi del governo.

Oggi il Myanmar (ormai il termine è divenuto politicamente accettabile, intercambiabile con Birmania) è nuovamente chiuso. Ma ora è per proteggersi da una pandemia che qui potrebbe avere conseguenze inimmaginabili. Se il Myanmar è sfuggito alla prima ondata, con 800 contagi alla fine di agosto, la seconda si è rivelata brutale, con oltre 85.000 casi e 1800 morti a fine novembre. Le notizie, tuttavia, continuano ad arrivare: via mail, consultando siti locali, tramite telefonate, Messenger, WhatsApp, Facebook. In alcuni casi le “voci” si confondono, sovrappongono, appaiono fake, raccontano oscuri complotti, citano altre voci o esprimono analisi geopolitiche.

Le Covid-elections

Tutte quelle voci, nel mattino italiano dell’8 novembre, quando le urne stavano per chiudersi in Birmania, parlavano di lunghissime code ai seggi aperti alle 6 locali, di «banchetti di cibo allestiti dai militari di fronte ai seggi, ma che la gente non mangiava», oppure dell’organizzazione dei seggi «dove erano fornite gratis mascherine N-95 e gel igienizzanti».

Le “Covid elections”, come definite da molti osservatori, hanno “dominato la psiche locale” per oltre un mese, dal giorno in cui Suu Kyi ha affermato che le elezioni «erano più importanti del Covid». Secondo i suoi oppositori, lo ha fatto per sfruttare la visibilità ottenuta con la gestione dell’emergenza. Ma è più probabile che l’abbia fatto perché i militari chiedevano un rinvio, in seguito a cui avrebbero potuto dichiarare lo stato d’emergenza – previsto dalla costituzione del 2008 – quindi sciogliere il parlamento e reclamare il potere in nome della salvezza nazionale.

In questa situazione le elezioni di domenica 8 novembre, si possono rivelare le più critiche e decisive per il futuro del paese proprio perché Aung San Suu Kyi ha ormai maturato quella Realpolitik che invece le ha fatto perdere il consenso dell’Occidente.

Un modello di normalizzazione

È una storia che comincia con le elezioni del 1990, le prime dopo quasi trent’anni di dittatura. Anche allora vinse la Nld, ma furono annullate dai militari anche per una forma d’ingenuità da parte di Aung San Suu Kyi e del suo partito, che aveva proposto un processo contro gli stessi generali. Da allora nemmeno il Nobel per la pace conferitole nel 1991 riuscì a proteggerla dagli arresti e dagli attentati.

«La Signora ha vissuto all’estero sino al 1988. Non conosceva il suo paese, non aveva esperienza politica» dice una delle “voci” che commentano le elezioni da Yangon. «Adesso sembra accettare il compromesso. Si metterà d’accordo con i giovani militari perché anche i militari non sono quelli di un tempo. Vogliono essere considerati un esercito di professionisti».

Con più sottigliezza politica (frutto di una lunga militanza nella sinistra democratica) è la stessa opinione della senatrice Albertina Soliani, Presidente dell’Associazione Amicizia Italia-Birmania e amica personale di Aung San Suu Kyi. «C’è bisogno di normalizzazione. Anche lei pensa a una nuova generazione di militari. Che si distacchino dalla politica in cambio di una legittimazione».

La storia si evolve con le prime elezioni semilibere del 2010, quando la Birmania sembra avviarsi sulla “road map” verso la democrazia. Anzi: “una democrazia fiorente nella disciplina”, come in molti paesi asiatici. Allora la National League di Aung San Suu Kyi, ancora icona di democrazia, rifiutò di partecipare. Nel 2015, invece, le elezioni furono vinte dalla Nld in un vero e proprio plebiscito. Il Myanmar apparve come una sorta di “modello” per tutto il Sud-est asiatico: un compromesso storico tra un partito democratico e popolare, i militari e le rappresentanze della miriade di etnie che si contendono larghe aree del paese.

L’Affair Rohingya

La crisi di questo modello è stata innescata proprio dal problema etnico, sommato alla questione rohingya. La crisi è stata esacerbata dall’atteggiamento dell’Occidente che ha giudicato e condannato “in remoto” (forse influenzata da lobby finanziarie islamiche) arrivando ad annunciare sanzioni che avrebbero effetti devastanti in un paese dove le milizie etniche sono veri e propri eserciti (come dimostra lo stesso Arakan Army, che si oppone al governo e condanna Aung San Suu Kyi giudicata “complice” dei rohingya). Non è un caso che l’Ashin (il Maestro) Wirathu, monaco ultranazionalista definito “il volto del terrore buddhista”, latitante da 18 mesi in quanto “fomentatore d’odio”, si sia costituito a pochi giorni dalle elezioni. Per sua ammissione, così poteva «chiamare il popolo a votare contro Aung San Suu Kyi e il ‘demone’ della National League for Democracy». Per alcuni dei suoi seguaci, Wirathu è un weikza, un mago. In questo caso però si è scontrato con una figura più forte, Amay Suu, Madre Suu, che incarna quello che è stato definito il “culto dell’eroe” diffuso in Birmania (e in tutta l’Asia, del resto, secondo gli studi di mitologia e religione comparata di Joseph Campbell).

Centinaia di rohingya passano il confine con il Bangladesh

Riconciliazione nazionale: un processo schizofrenico

I birmani, evidentemente, credono che la Signora sia la sola ad avere l’autorità politica e morale per evitare che il paese torni a essere una dittatura, realizzare la riforma costituzionale e sviluppare un’economia equa e solidale in un paese dove il 24% della popolazione vive sotto il livello di povertà. Obiettivi che dipendono da un processo di riconciliazione nazionale che procede in modo schizofrenico. È accaduto anche in queste elezioni, cancellate in molti distretti controllati da milizie etniche (negli stati Rakhine, Shan e Kachin). La decisione è stata presa per “ragioni di sicurezza” giustificate sia dagli scontri tra Tatmadaw e milizie, sia dagli appelli alla violenza di estremisti come Wirathu, e apparentemente ha ottenuto il solo risultato d’inasprire le tensioni. A differenza di quanto accaduto nel 2015, però, quando il governo eletto aveva peccato d’arroganza pensando che fosse sufficiente il sostegno della maggioranza d’etnia bamar, questa volta il portavoce della Nld ha immediatamente dichiarato la volontà di formare un governo d’unità nazionale con i partiti etnici.

A contestare il risultato delle elezioni è rimasto solo l’ex generale Than Htay, segretario dell’Usdp, che ha denunciato brogli d’ogni genere e, seguendo l’esempio di Trump, ha richiesto nuove elezioni. Peccato sia stato subito sconfessato dagli stessi militari, in particolare dal Comandante in Capo di Tatmadaw, il generale Min Aung Hlaing che ha dichiarato di accettare l’esito delle urne. A nulla è valso il supporto del segretario di stato americano Mike Pompeo, che è sembrato voler accomunare nell’ingiustizia Trump e Than Htay, senza rendersi conto di quanto potesse apparire grottesco.

Sia pure con motivazioni diverse, la vittoria della Nld appare malaccetta in gran parte dell’Occidente, dove sembra ci sia un rifiuto concettuale di ciò che hanno affermato tutte le nostre “voci” birmane: Aung San Suu Kyi è amata e gode della fiducia del suo popolo. Analisti e osservatori occidentali non cercano risposte bensì conferme alle loro opinioni. Nella maggior parte degli articoli sulle elezioni birmane la parola rohingya appare sin dalle prime righe, condizionando le analisi, piegandole alla tesi secondo cui l’utopia birmana incarnata da Aung San Suu Kyi sia mutata nell’ennesima manifestazione di dittatura.

Miscuglio febbrile

Sfugge così la complessità della situazione. «La Birmania somiglia a parti dell’Europa e del Nord America nel XIX secolo: un miscuglio febbrile di nuove libertà e nuovi nazionalismi, capitalismo sfrenato, nuove ricchezze e nuova povertà, città e baraccopoli che spuntano come funghi, governi eletti, popoli esclusi e violente guerre di frontiera; uno specchio del passato, turbo-esasperato da Facebook e dalla vicina potenza ad alta industrializzazione, la Cina» scrive Thant Myint-U nel saggio L’altra storia della Birmania. Myint-U è lui stesso un “miscuglio”: storico, ex funzionario dell’Onu, nipote di quel Maha Thray Sithu U Thant che tra il 1961 e il 1971 fu segretario generale delle Nazioni Unite, nel 2011 ha iniziato a collaborare col governo come consigliere del presidente Thein Sein, ex generale che è il vero artefice della transizione verso la semidemocrazia. Nei suoi libri la Birmania è una metafora della geopolitica asiatica. È “L’occhio del Budda”, a indicare l’importanza strategica della Birmania nello scenario della regione che era definita Indocina, punto di unione e collisione delle grandi civiltà asiatiche.

Accordi e disaccordi: rotte e trattati

Oggi unione e collisione sono tra Cina e Stati Uniti. Anzi, tra Asia e Occidente. Negli ultimi anni i fronti sono divenuti ancor più fluidi: Occidente significa Stati Uniti e Unione Europea, Asia vuol dire Cina, India, Asean (l’associazione delle nazioni del Sudest asiatico) e Asia orientale (Giappone e Corea).

Il Myanmar firma il Regional Comprehensive Economic Partnership

«Entrambe le parti, Nld e militari, seguono una linea di bilanciamento fra le grandi potenze secondo la politica sancita con la conferenza di Bandung», afferma una delle “voci” di Yangon riferendosi alla conferenza del 1955 che segnò l’affermazione del movimento dei non-allineati. Ma nella geopolitica contemporanea appare sempre più difficile – specie per paesi come il Myanmar – sfuggire all’orbita della megastrategia cinese. Se ne è avuta rappresentazione una settimana dopo il voto, il 15 novembre, quando è stato siglato il Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) l’accordo economico-commerciale tra i 10 paesi dell’Asean plus Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. Il Rcep, oltre a creare il blocco commerciale e d’investimento più grande al mondo, si integra nei progetti della Belt Road Iniziative (Bri), le nuove vie della seta, e segna lo spostamento dell’Asean nella sfera d’influenza di Pechino. È un movimento di dimensione tettonica provocato anche dalla politica estera statunitense. Il presidente Trump, per marcare il distacco dal “pivot to Asia” di Obama, che affermava il ruolo strategico dell’Asia extracinese, e ribadire il suo “America First”, nel 2017 si è ritirato dalla Trans-Pacific Partnership, l’accordo di libero scambio tra gli Usa, il Canada e altri 10 paesi del Pacifico che sino ad allora si era rivelato il maggior ostacolo al progetto della Rcep. Ironia della sorte: il 17 novembre il presidente Xi Jinping ha annunciato la disponibilità ad aderire alla Tpp.

India: la grande esclusa

Oltre all’America, altro grande assente dal Rcep è l’India, preoccupata dallo strapotere cinese. Per questo, almeno in apparenza, affianca gli Stati Uniti nella strategia per «un Indo-Pacifico libero, aperto e inclusivo». In realtà è probabile che l’India, con Giappone e Corea del Sud, cerchi di bypassare i progetti cinesi di collegare Oceano Indiano e Pacifico Occidentale. Progetti che hanno il loro centro nell’occhio del Buddha, il porto birmano di Kyaukphyu, terminale che collegherebbe la baia del Bengala con la provincia dello Yunnan e da là, seguendo uno dei corridoi delle vie della seta, con il Mar della Cina Orientale. Non a caso l’India si è rivelata ben più proattiva dell’America, “regalando” al Myanmar un sottomarino. «I militari adorano questi giocattoli e non amano troppo la dipendenza dalla Cina» aggiunge la “voce” da Yangon appassionata di questo risiko.

«Dopo le elezioni dovrebbe aprirsi una nuova stagione di partnership», dice la Soliani. Ma si riferisce a quelle americane. La senatrice, infatti, afferma che il presidente eletto Joe Biden avrebbe stabilito un rapporto personale con Aung San Suu Kyi sin dal 2016, quando era vicepresidente e incontrò la Signora a Washington, un anno dopo la visita di Obama a Yangon. Secondo la Soliani, inoltre, Suu Kyi e la nuova vicepresidente Kamala Harris sono accomunate dall’influenza del pensiero di Gandhi.

Il piano di rilancio economico

Biden ha già manifestato attenzione verso l’Asean e annunciato un piano di commercio internazionale che potrebbe contrastare la Rcep, ma sembra difficile che in Birmania se ne possano avvertire le conseguenze nel breve termine. Più probabile che la combinazione di un presidente americano attento al Sudest asiatico e l’eclatante vittoria della Nld possano invertire la tendenza di Stati Uniti e Unione Europea nei confronti di una nazione criminalizzata ma che invece esprime un percorso democratico più avanzato rispetto a molti paesi dell’area. È anche grazie al rafforzamento della Nld, inoltre, che il governo del Myanmar sta per lanciare un ambizioso piano di riforme economiche, il Myanmar Economic Resilience and Reform Plan (Merrp).

La Birmania come Singapore?

«Tutti sognano Singapore. Aung San Suu Kyi potrebbe essere come Lee Kuan Yew», dice un vecchio amico di Yangon che dimostra una fiducia totale nella Signora, tanto da paragonarla al demiurgo della città-stato. E per sottolineare quanto la Birmania stia mutando su quel modello fa un’osservazione bizzarra ma significativa riferendosi alle chiazze gialle delle cicche di betel (impasto euforizzante di noce d’areca, foglie di betel e calce) che disseminavano le strade di Yangon e di tutta la Birmania. «Per terra non c’è uno sputo di betel».

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