Kabul Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/kabul/ geopolitica etc Sun, 31 Oct 2021 13:44:28 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Syngué sabour: appunti per un’Orestiade afgana https://ogzero.org/l-occidente-non-ha-mai-compreso-larea-centrasiatica/ Sat, 04 Sep 2021 13:40:21 +0000 https://ogzero.org/?p=4811 L’Occidente non ha mai compreso l’area centrasiatica, perché l’ha assimilata nell’immaginario alla propria mentalità e alla propria filosofia, senza sforzarsi di collocare i sistemi delle comunità nella loro tradizione di riferimento. A decolonizzazione avvenuta si può forse tentare di inquadrare alcuni aspetti per intessere poi una tragedia pasoliniana che possa raccontare il Great Game come […]

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L’Occidente non ha mai compreso l’area centrasiatica, perché l’ha assimilata nell’immaginario alla propria mentalità e alla propria filosofia, senza sforzarsi di collocare i sistemi delle comunità nella loro tradizione di riferimento. A decolonizzazione avvenuta si può forse tentare di inquadrare alcuni aspetti per intessere poi una tragedia pasoliniana che possa raccontare il Great Game come è avvenuto e perché si è arrivati a questo epilogo. E di lì imparare a trovare la corretta e rispettosa forma relazionale con il mondo compreso tra l’Hindu-Kush e il deserto iranico.

Syngué sabour: la pietra paziente, la pietra ascolta, finché non si frantuma.


La clanicità esibita dal processo di talebanizzazione

Rassicuranti non lo sono mai stati e le loro biffe senza sorriso non lo saranno mai. Ma ora sono cambiati: i Talebani hanno imparato soprattutto il modo di promuoversi sugli schermi occidentali e quanto sia importante la comunicazione in un mondo mediatico, dove persino l’impressione levantina dei capi e quella orrifica dei tagliagole, nei loro stracci e barboni vecchi di due millenni nell’iconografia stantia e un po’ razzista, diventano folklore; se fanno la parte a loro assegnata da Trump, risultando credibili a Doha, perché svolgono il ruolo di negoziatori (attribuitogli dal circo mediatico per assicurare il business degli accordi geopolitici), consentono al mondo di sfilare gli scarponi costosi dal terreno e consegnare al Pakistan, loro mentore, di controllare il territorio su mandato americano.

Un ruolo quello di negoziatori che la loro cultura riconosce ai capiclan maschi e che è quella ricercata dalla controparte fatta di maschi americani. Ciò che li ha accomunati è l’appartenenza al più vieto conservatorismo di entrambe le società.
Certo l’evoluzione degli squadristi diventa la requisizione delle auto degli anziani hazara nella provincia di Ghazni, come ci racconta un afgano delal diaspora di ciò che è avvenuto a suo padre al villaggio durante un rastrellamento (a cui il fratello si è sottratto scappando in montagna), quando 30 anni fa avrebbero perpetrato l’abigeato di tutti gli armenti; ma in fondo anche i fascisti nostrani usano con spregiudicatezza i social, pur rimanendo buzzurri celoduristi.

Colonizzatori si nasce

La solita eccezione culturale francese si chiede se sia possibile confrontarsi, e quindi conferirgli un riconoscimento, con le posizioni talebane senza venir meno ai propri principi. Una posizione palesemente ancora fondamentalmente colonialista perché connota il gruppo in senso razzista e prevede una superiorità di principi da esportare: in realtà quei principi dovrebbero riuscire a comprendere come ragiona la controparte per poter individuare i punti su cui avviare la trattativa (ed eventualmente insinuare un elemento che possa fare da base a un sincretismo che permetta un’evoluzione di entrambi), perché senza il confronto non c’è che la soluzione di forza, visto che non si è potuta creare una alternativa nazionale credibile riconosciuta dagli afgani ai quali si sono volute imporre figure – corrotte e inconsistenti – ritagliate sul modello occidentale, alieno a chi rimaneva povero e sfruttato dagli occidentali come dai Signori della Guerra – tutti ugualmente fondamentalisti (uzbeki di Dostum, tajik di Massoud, hazara di Mazari, pashtun di Hekmatyar). E questo è il risultato.

L’anima feroce

Vero che il movimento politicamente retrivo dei Talebani ha due facce: una pashtun, quindi interna alla nazione – anche se proveniente dall’unica cultura dei monti del Waziristan divisi dalla Durand Line tra Pakistan e Afghanistan – le cui tribù si possono scoprire nel capitolo (collocato nel 1960!) dedicato al Pakistan da Eric Salerno nel suo volume Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati – e guida politica di questo tradizionalismo che ambisce a dare vita a un governo che imponga tutte le convinzioni tribali, legittimate da un sunnismo invariato anche perché utilizzato per fungere da collante contro le molte aggressioni coloniali a cui ha fatto fronte proprio grazie alla sua chiusura; l’altra, in parte uzbeka e in buona parte araba – saudita, qatariota e tutta la compagnia di giro del jihadismo – che costituisce il nerbo dell’ala militare, feroce e pervasa di volontà di vendetta fanatica, che impone il giro di vite sui diritti all’interno della nazione… e questo potrebbe risvegliare le coscienze della società civile che mal tollerava la presenza straniera e ora guarda con altrettanto dispetto ai jihadisti di varia provenienza – con aggiunta di orrore nelle notti riempite da musiche inneggianti alla guerra santa sparate a tutto volume nei pressi dei quartieri hazara, minacciosa e incombente presenza che prelude a rastrellamenti e abusi come nelle notti kabuline subito dopo la fuga statunitense. Un disimpegno che ha permesso già molti abusi e atti di violenza: l’uccisione in diretta Fb di un hazara cittadino australiano che riprendeva violenze, apostrofato dagli squadristi e ucciso sotto gli occhi di moglie e figli; l’umiliazione di dover seguire un percorso attraverso le fogne per arrivare all’aeroporto e venire sollevati di peso e rigettati dai marines sul gregge vociante, ma incapace di ribellione (perché non è nelle modalità previste da nessun clan); essere sottomessi al trattamento dei militari addestrati dallo US Army, che nell’aeroporto ti fanno abbassare la mascherina per riconoscere i connotati hazara e a quel punto avvicinano l’arma al tuo orecchio, esplodendo colpi che sfiorano tua moglie… questi sono episodi narrati con indignato terrore da un hazara che usava le ferie per ottenere documenti per il ricongiungimento e che il Console buono ha sedotto e abbandonato.

Clan e tribù: la coazione a ripetere

Per capire come funziona un accordo che si va a stringere con una realtà simile a quella talebana ci si deve ancora una volta immergere nell’idea clanica, opposta a quella di comunità di individui postilluminista: ciò che accomuna gli afgani – a qualunque appartenenza culturale facciano riferimento (pashtun, tajik, uzbek, hazara, turkmeni, kirghizi, nuri, aimak, wakhi…) – è la consapevolezza che tutto si regge sulla tradizionale competizione tra tribù fondata sulla coazione a ripetere invariata di ogni singola consuetudine della struttura, e quindi dei riti, delle cerimonie, dei matrimoni combinati, ma soprattutto dei ruoli; ciò che l’Occidente non è in grado di capire, perché ha scardinato quel sistema secoli fa e non ne ha più memoria, è che nessuno dei fondamenti custoditi dai potenti del clan può venir meno, a rischio di implosione di tutto. E quindi, come ribadiscono testimoni abbandonati dai ponti aerei, le donne non devono poter accedere alla istruzione per più di 7 anni (perché la cultura è l’antidoto contro ogni forma di repressione), le barbe non vanno tagliate (perché si è sempre fatto così), le donne non possono indossare pantaloni bianchi (mamnu, perché il loro culo contaminerebbe il colore della bandiera talebana)… sciocchezze per altre tradizioni, ma metodi già ripristinati con il corredo di taglio di mani ai ladri e lapidazione alle adultere, per rassicurare chi ha introiettato un ordine prescrittivo forte che non tralascia alcun dettaglio per perpetuare invariato un mondo, preservandolo da incrinature che potrebbero rovesciare i rapporti di controllo sulla società.

L’articolo di Giuliano Battiston è stato pubblicato da “il manifesto” il 29 agosto 2021 e si trova tra gli articoli di analisi prodotti da “Lettera 22

La ribellione non è contemplata

Ma non è un caso che non ci siano state resistenze all’avvento delle orde talebane: erano già collaterali a una società che tra occupanti portatori di affari e tradizionalisti aveva già deciso come regolarsi. Sarebbe bastata quella incrinatura a minare il “cimitero degli Imperi” ben più di un’oliata macchina da guerra tecnologica. In realtà la ribellione, anzi anche solo la protesta, non è contemplata. Per esempio le donne (poche significative decine inizialmente e poi sempre di più, ma ancora minoranza, nonostante il supporto di molti uomini estranei alla tradizione patriarcale) che il 2 settembre hanno inscenato manifestazioni in particolare a Herat sono il risultato dei vent’anni di apparente vacanza dal controllo della tradizione: il fatto che abbiano potuto farlo senza una reazione significativa iniziale da parte dei fondamentalisti dimostra come non le considerino realmente pericolose e che i vent’anni di affari e traffici senza immaginare di poter consentire la creazione di un sistema alternativo non hanno emancipato che pochi individui… e che i Talebani hanno imparato anche come in certe situazioni conviene fingersi tolleranti: finisce che fa gioco mostrare che non si reprimono manifestazioni pubbliche. E non ci si può scandalizzare per un po’ di lacrimogeni il giorno successivo a Kabul, perché altrimenti gli stessi giornalisti inorriditi dai manganelli a Kabul, dovrebbero farlo anche in Val di Susa; piuttosto è da valutare l’imbarazzo e la reazione legata alla sorpresa di scoprire un mondo femminile sconosciuto, e così diventano le situazioni quotidiane, che vengono represse dal patriarcato, a fare la differenza rispetto alla predisposizione a un confronto dialettico impossibile, non avendo una lingua comune. Sparare nervosamente in aria, perché non si può (ancora) sparare addosso a questi che sono alieni per l’universo di riferimento talebano, è la più esplicita esibizione di lontananza dal mondo cresciuto in questi vent’anni a Kabul e nelle grandi città, spazi fuori controllo rispetto ai giochetti rassicuranti dei vilayet dei monti. Lo stesso distacco, che non può tollerare la ricetta oscurantista, produce un mondo separato di repressi, brutalmente – e quindi per la legge islamica giustamente terrorizzati dai poco lucidi e ancor meno rassicuranti filopakistani. E quelle donne a loro volta vengono sottoposte a minacce da parte dei confusi (dall’impatto con la metropoli) Talebani e sgomente al punto di indossare il burqa –anche manifestando – pur se nessuno lo ha prescritto.

Herat, manifestazione di donne 3 settembre 2021

Dal fronte femminile si registrano alcune ribellioni, contestazioni – impossibile sognare che si svolgano provocatoriamente senza veli: sarebbe davvero suicidio –, o prese di posizione che possano infastidire, ma non è vero che non agiscano “autonomamente”: sono sempre più numerosi i casi di mogli selezionate dal clan che – dopo un tempo più o meno lungo di permanenza nei paesi in cui i giovani afgani protagonisti della migrazione di 15 anni fa le hanno ricongiunte – abbandonano il tetto coniugale per raggiungere i paesi del Nordeuropa attraverso una rete che organizza il trasferimento. Fin dal primo momento insistono per ricollocarsi in paesi in cui le possibilità sono migliori di quelle del Sudeuropa – evidente la missione assegnata dal clan anche a loro, un incarico che non prevede il coinvolgimento del coniuge, ridotto a semplice passeur legale che spesso non è nemmeno a conoscenza dell’intenzione iniziale della famiglia, benché la blanda opposizione lasci intendere che l’epilogo era messo in conto, conoscendo i calcoli clanici. Anche in questo caso in cui apparentemente sembra che le donne prendano in mano il loro futuro, sono ancora una volta strumenti della volontà della famiglia patriarcale.

Una storia, tante storie

Figurarsi quanto possono radicarsi e durare i diritti mai realmente compenetrati nella società afgana, perché non è una società di individui: persino quando scrivono i libri che raccontano la loro storia, commuovendo l’Occidente, ciascuno dei giovani afgani, stimolati a far conoscere la loro storia dagli amici europei ammaliati dall’esotismo e colpiti dalle vicissitudini, non riesce a fare una biografia ma la figura dell’io narrante comprende tante storie di tanti esuli: tutti insieme costituiscono la comunità afgana della diaspora e la sua narrazione che è unica e collettiva e quindi è anche eticamente corretto per loro attribuirsi episodi non vissuti in prima persona, ma comuni ai “conoscenti” afgani che hanno incrociato nel viaggio e nell’inserimento nella società europea e contemporaneamente i nuovi rituali degli expat e le telefonate quotidiane con il clan.

Scatto di Seyf Karimi, Kabul – Chindawol, 4 settembre 2021

Una realtà che non si fonda sull’individuo riconosce solo il ruolo collettivo in cui il singolo è un numero la cui attività è regolata dalla tradizione: infatti ora i Talebani si trovano di fronte a un incrocio: i giovani che in questi 20 anni sono stati contaminati dalla frequentazione di mentalità e comportamenti estranei alla tradizione, o i ragazzi della diaspora costretti all’emigrazione – che tutti, nessuno escluso, hanno mantenuto i contatti con il clan e ne sono stati in qualche modo condizionati e manipolati, soprattutto per legami matrimoniali o per mantenere il ruolo che era loro prescritto già alla partenza – ora trentenni con metà della vita trascorsa in Europa, pur sempre avvolti o protetti o comunque coinvolti dalla comunità expat, sono portatori di modi di pensare e vivere che sarebbero letali per il meccanismo clanico, quindi vanno trattenuti per il loro know how tecnologico utile all’emirato di “trogloditi in turbante” come vengono concepiti da quelli intrappolati a Kabul dalla loro repentina avanzata, oppure è meglio consentirgli di abbandonare il territorio per continuare a mandare rimesse senza contaminare la restaurazione? Forse che vengano riconosciuti come elementi ormai irrecuperabili all’islam e quindi nocivi può consentire il successo dei corridoi umanitari; dopo probabilmente i restanti verranno eliminati, pena mantenere attivi e inglobati nella realtà congelata locale potenziali tarli capaci di minare il processo di conservazione.
Poi gli affari si fanno con chiunque anche da confini nei quali la cultura estranea non può insinuarsi, ma pecunia non olet.

Emanuele Giordana è attento da tempo alle potenziali esportazioni di califfati fuori dalla Mesopotamia, fin dal volume collettaneo pubblicato da Rosenberg & Sellier nel 2017: A oriente del califfo.

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La solita musica afgana? https://ogzero.org/studium/la-solita-musica-afgana/ Tue, 10 Aug 2021 22:08:56 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=4504 L'articolo La solita musica afgana? proviene da OGzero.

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  • Trompe l'oeil che nascond eil cantiere di restauro del Palazzo Darul Aman

Il nastro si riavvolge…

«La memoria che collega il passato e il presente ha molti linguaggi, molti suoni: non solo oralità e scrittura, tradizioni famigliari e letteratura, ma anche inglese e italiano [non solo articoli strutturati e reportage che in questo Studium riportiamo, ma narrazioni di prima mano, N.d.R.], e altre lingue dell’area indopersiana. Ma anche, infine, la musica. Musica in cassetta trasmessa dagli autisti con gli altoparlanti, musica indiana, “canzoni d’amore, allegre”, canzoni pashtun, canzoni afgane con strumenti a corde tradizionali afgani. “La musica che si ascoltava quarant’anni fa” [altri nastri che si riavvolgono affastellandosi, N.d.R.] e che piace anche a molti giovani, la musica recente e attuale, che a volte trae le parole delle canzoni da antichi poemi persiani. Tutto un mondo di suoni condiviso da molti giovani e non solo, che parla di scambi pacifici e creativi, mentre al “tempo dei Talebani c’erano canzoni, ma solo la voce, non la musica e gli strumenti, parlavano solo di religione e dell’Islam. C’era un programma radiofonico, ma trasmetteva solo discorsi religiosi, era Radio Shar’ia: parlava del Corano, parlava solo di storie islamiche, ma non di amore, proprio niente”»
Così nel 2009 Luisa Passerini scriveva nella prefazione a “Mi brucia il cuore! Viaggio di un Hazara in Afghanistan, e ritorno”, il virgolettato era il racconto di Hussain Nazari, il giovane afgano tornato con la missione di scortare la madre in salvo a Quetta, Pakistan.

Il trompe l’œil in copertina copre il restauro del Palazzo Darul Aman, «nel cortile del Museo Nazionale dell’Afghanistan» (la didascalia di Seyf Karimi quando ci ha inviato lo scatto del 9 agosto 2021) a Kabul, di fronte al parlamento e da quanto ci racconta questo amico hazara rientrato nella capitale afgana per procurarsi documenti e che mette il suo occhio fotografico al servizio del tentativo di capire la situazione attuale; forse quando sarà concluso il cantiere – dietro a cui Talebani e protagonisti delle realtà locali e stranieri stanno intessendo le loro trame – e si scoprirà quale nuovo impianto di potere e traffici verrà dato al territorio, solo allora – a polverone abbassato e sipario chiuso sullo spettacolo degli scontri che hanno portato i Talebani a occupare tutti i centri urbani principali con un Blitzkrieg così incontrastato da far pensare che ne siano complici tutti – probabilmente sarà più chiara la distanza dai precedenti governi, compreso quello talebano degli anni Novanta, e la direzione intrapresa nella quale si svilupperà il futuro degli afgani…



A nemmeno un mese il polverone è in parte abbassato e il paesaggio è lugubre…

Kabul, 9 settembre 2021

80%

Avanzamento




Diario dall’incubo. Kabul 15 agosto – 21 ottobre 2021

Kabul, 15 settembre 2021





Il 16 e poi il 30 settembre, lasciando passare una settimana tra un’intervista e l’altra abbiamo chiesto a un amico intrappolato a Kabul di offrirci delle suggestioni dopo un mese dall’ingresso dei Talebani nella capitale afgana: situazioni di vita quotidiana, episodi a cui ha assistito, regole e repentini adeguamenti a esse, file interminabili e prescrizioni.

La sequenza consente di cogliere quanto rapidamente il processo controriformista stia cercando di riportare le lancette a vent’anni fa, ma nelle parole del nostro corrispondente si coglie anche l’enorme differenza di approccio degli afgani a queste imposizioni… sebbene sia in corso il giro di vite, come se una entità estranea – aliena al mondo della città più di quanto non fossero gli emissari delle potenze occidentali – intervenisse su un mondo completamente avulso ormai da quei precetti incontrovertibili per i Talebani…

“Travolti da un insolito incubo nella Kabul d’agosto”.

… significa che non potrà reggere a lungo l’irrazionale separazione dei due mondi, dei quali quello armato impone alla maggioranza, ormai in miseria e affamata, di adeguarsi a superstizioni fuori da questi orizzonti…

“Dietro le tende del mercato a Kabul. Prospettive di miseria”.

… e sono già registrati i primi episodi di pulizia etnica in Daykundi, da dove provengono immagini di land grabbing in corso; ed è una via crucis qualsiasi spostamento, le cui stazioni sono pedaggi versati a uomini armati; sono percorsi di studi che universitari non potranno più concludere; strade d Kabul popolate di minacce arbitrarie…

E dietro a tutto ciò il Pakistan…
“L’autodistruzione dell’espressione artistica e le altre facce dell’ottusità talebana”.

E, come sottolineava il nostro interlocutore, c’è la volontà di cancellare persino la lingua persiana (evocativa della religione sciita) nello scontro tra differenti estremismi jihadisti, che vedono il Tehreek-e-Taliban (Ttp) pakistano contrapporsi ai Taliban (e al governo di Islamabad), nella volontà di creare il Pashtunistan, appoggiandosi alla Provincia del Khorasan – lo stato islamico dell’area centrasiatica.

Ma ormai il tritacarne geopolitico sta già volgendosi ad altri interessi, dimenticandosi dell’Afghanistan…
“Multilateralismo in salsa Kabuli”.

I giochi dei potenti sulle loro teste sono lontani anni luce dai problemi di sopravvivenza, o della ricerca di scampo lontano dal nulla siderale della proposta anacronistica del pensiero taliban, che però ha imposto tasse su ogni cosa, una prassi inedita per gli afgani, che già sono terrorizzati per i frequenti attentati Isis del Khorasan che vuole dimostrare l’insicurezza del paese talibanizzato.

Seyf, che ci ha narrato questi due mesi trascorsi in regime taliban, dovendo guardarsi a ogni passo dalla prepotenza dei miliziani coranici, è riuscito a ottenere il visto e un passaggio aereo per tornare al suo lavoro in Piemonte…

“Nostos, ma dov’è la vera casa?”.

Mentre Seyf tornava in Europa, Giuliano Battiston attraversava “Il ponte dell’amicizia” che consente il passaggio dall’Uzbekistan all’Afghanistan; il percorso inverso riporta impressioni simili a quelle trasmesse da Seyf, che nel suo soggiorno ha percorso strade e visitato famigliari in città diverse: Ghazni, ma anche il Bamian sono state sue mete e anche lui aveva registrato la percorribilità delle strade rispetto alla loro pericolosità… di quando i Taliban erano quelli che rendevano azzardato avventurarvisi, come subito aveva chiosato durante i suoi reportage.

Molto interessante vedere confermati con l’aggiunta di alcuni particolari e testimonianze quei racconti di un afgano intrappolato a Kabul dai primi sguardi di un ritorno in Afghanistan da parte di un esperto analista come Giuliano Battiston.

Articolo apparso su “il manifesto” il 2 ottobre 2021 a firma Giuliano Battiston

Articolo apparso su “il manifesto” il 2 ottobre 2021 a firma Giuliano Battiston

… Kabul, anno -zero

Il nastro ha completato il riavvolgimento e folgorante il titolo de “il manifesto” lo ha descritto: Talequali,

“Tel Quel” era una rivista francese di intellettuali poststrutturalisti degli anni Sessanta e Settanta e nel titolo dell’altro ieri l’assonanza fonde con amara ironia la radice Talebana con la ripresa di quello che rappresentavano e imponevano trent’anni fa le stesse identiche persone, con la medesima arroganza, gli stessi modi, le identiche convinzioni oscurantiste.

Tali e quali, Talebani. Il fascismo in salsa clanica, il patriarcato più retrivo.

Ma proprio quegli studiosi di “Tel-Quel” non avrebbero fatto lo stesso errore di guardarsi bene dallo sgravarsi delle proprie sovrastrutture compiuto dagli occidentali piombati a occupare lungo un ventennio un territorio non loro, saccheggiandolo e rendendosi invisi con torture, stupri, uccisioni, bombardamenti… traffici di armi, droga, beni sottopagati, sfruttamento.

“Tel-Quel” era fusione della più raffinata ricerca letteraria filosofica semiologica e aggiungerei antropologica, perché sicuramente avrebbe tenuto conto di come era indispensabile relazionarsi con una cultura così diversa. Avrebbero magari fatto l’errore opposto, da quegli inguaribili colonizzatori europei: cercando di evitare di sostituire le mentalità europee, sarebbero arrivati a condizionare comunque le soluzioni claniche che privilegiano la scorciatoia della sharia: è più facile, immediato (e poi si è sempre fatto così) lapidare un’adultera o presunta tale, piuttosto che andare a vedere in punta di diritto chi può educare il figlio della separazione e magari regolare rapporti con la famiglia dell’altro coniuge vantaggiosi per entrambi i clan; o forse svantaggiosi per chi ha subito il furto di una pecora… certo, è più facile – come decreterà Haqqani – tagliare una mano piuttosto che tentare di comporre una disputa che rischia invece meccanismi da faida famigliare.

Fa gioco ai maschi anziani dei clan usare un modello buono per tutte le occasioni nel villaggio, ma inservibile nella metropoli e allora si impone la sharia a tutti senza discussione (per proteggere le donne gli stessi impreparati a un confronto con loro e quindi potenziali violentatori, le rinchiudono: lo stesso meccanismo del pizzo mafioso, millantare una protezione non richiesta, perché al limite il pericolo proviene dal protettore), ma questa è una scorciatoia accettabile per tutte le comunità della galassia afgana, come di qualunque patriarcato. Così si continua a orchestrare il destino e il futuro di tutti, adulti o futuri adulti… come sia possibile nel 2021? Il Pakistan è una potenza nucleare ed è l’emissario degli Usa nella regione.

E così si arriva alla Kabul anno -zero del titolo, perché non si ricava dalle macerie di Berlino una palingenesi rinnovata, ma si infigge alle macerie di Kabul un percorso di oscurantismo tradizionalista

Considerare tutti sudditi, bambini da educare in madrase a codici basici ed elementari.

Non si scardinano secoli di soluzioni sbrigative – e facilmente riproducibili in eterno – che verrebbero inficiate dalla messa in discussione di una singola parvenza di libertà femminile, perché ogni deroga può aprire un buco nella diga eretta dal patriarcato; e tanto meno si può immaginare di aiutare le donne a emanciparsi dal giogo del clan con una guerra che riduce invece il paese nello stato in cui Rossellini fotografò la Germania distrutta dal passaggio attraverso l’incubo del Terzo Reich… solo che il grado zero afgano è all’opposto, ribaltato: quella finestra è chiusa e inquadra il ritorno dell’oscurantismo nazi-pakistano ordito dall’amministrazione di Trump e sancito da quella di Biden con la complicità del mondo che ha lasciato soli i ragazzini di queste foto di Seyf, scattate nella mattina del 9 settembre 2021.

Il ruolo del Pakistan



Il Pakistan è uno dei paesi che maggiormente vanno all’incasso di questa strategia iperconservatrice che chiude un ventennio proiettato alla chiusura a ogni emancipazione e all‘apertura degli accordi economici e di governance dell’area a scapito dei civili. Il sospetto che a Doha nel febbraio 2020 Washington avesse demandato a Islamabad di gestire i propri interessi era confermato dalla rapidità con cui Biden si è sfilato; ma la certezza si è avuta con l‘arrivo di Faiz Hammed a Kabul: il capo dell’intelligence pakistana dà le dritte ai miliziani per azzerare la resistenza armata. La spartizione vede le peggiori democrature in prima fila: Turchia, con il suo bancomat Qatar, tollerata dagli islamici, ma soprattutto il Pakistan che comprende in sé il jihadismo e le ambizioni religiose... forse meno quelle nazionaliste dei pashtun che vorrebbero in realtà ottenere l‘indipendenza del loro territorio, che per metà si trova a est della Durand Line e per metà si trova a ovest di quel segno coloniale. E poi c’è quel 40 per cento non pashtun che abita da sempre gli stessi territori... Se ci poniamo la domanda se i Talebani siano strumenti pakistani, allora diventa importante tentare di cogliere il fulcro pakistano della vicenda afgana a partire dalle mire (il Kashmir, la disputa con gli odiati indiani...) e dalla realtà interna alla Nazione dei Puri. Beniamino Natale ci permette di entrare in quel mondo censurato, oppresso, militarizzato... centralizzato. Le ambiguità (bin Laden!), il doppiogiochismo, le illusioni di sviluppo e sfruttamento del territorio, l‘espansionismo; la convenienza e lo sfruttamento dell’emergenza migratoria per ricavare il più possibile. Ma non si può capire il Pakistan attuale che occupa – anche per conto di Pechino, non solo per gli accordi con gli Usa – il vicino che ha sempre considerato sua proprietà senza gettare uno sguardo sul suo passato...



Tempo fa, in occasione della stesura del libro La Grande Illusione (Rosenberg&Sellier, 2019) a cura dello stesso Emanuele Giordana, ci eravamo posti insieme a lui il problema etico della pubblicazione di un’immagine d’autore in copertina che raffigurava dei bambini di Kabul intorno a un carro armato sovietico abbandonato, in un tempo di “pace”, e ci pareva di manipolare l’emotività del lettore con un messaggio retorico e di applicare così un approccio deviato al senso del libro che stavamo dando alle stampe.

Ieri, 18 agosto, @Faraydun Karimi ci invia da una Kabul ben lontana dalla pace una breve sequenza di una quotidianità – bambini che smontano una jeep abbandonata – in cui, ci dice con tristezza l’autore delle riprese, si teme la guerra civile.


Emanuele Giordana ha raccontato sulle pagine di Lettera22 l’evoluzione delle diverse anime del movimento degli studenti coranici. Riportiamo qui il testo integrale del suo intervento apparso anche su “il manifesto” e “Atlante delle guerre”.

Talebani vent’anni dopo. Un movimento con più anime

Un racconto lungo due decenni che inizia con l’ascesa degli studenti coranici. Sono cambiati? Sono omogenei? Come pensano di gestire le loro relazioni internazionali? Che rapporto c’è tra una raffinata cupola politica e le bande sul terreno?

Nel V anno dalla proclamazione dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, un fokker delle Nazioni Unite ci portò a Jalalabad, uno dei pochi ingressi nel Paese che mullah Omar governava da Kandahar, la città più tradizionalista del Paese dove Omar era nato e aveva fondato il movimento degli studenti coranici. Era l’anno 2000, ventun anni fa. Le formalità doganali venivano espletate da due ragazzi col kalashnikov che non sapevano né leggere né scrivere sulla pista di un malconcio aeroporto assolato dove stazionava un Dc-10 dell’Ariana, la vecchia compagnia di bandiera. Aveva i finestrini oscurati ma, sbirciando tra gli scatoloni che ne venivano scaricati, notammo i brand occidentali di radio o televisori che venivano dal Golfo. Allora, quando attraversammo un Paese in sfacelo, senza più strade e dove si erano rubati tutti i fili di rame dell’elettricità, solo Pakistan, EAU e Arabia Saudita avevano riconosciuto l’emirato scalcinato che a Kandahar contava su un solo telefono pubblico e in cui le strade erano pattugliate dai pickup, la chiave della rapida avanzata talebana dal Pakistan verso Jalalabad e poi sempre più all’interno del Paese.

Oggi le cose sono cambiate. E non solo perché i pickup hanno cilindrate più potenti o perché ogni combattente ha un telefonino. Quell’emirato di rozzi contadini allevati nei campi profughi del Pakistan, cui la riscossa religiosa pareva anche la riconquista di una dignità, non è più così anche se non sappiamo esattamente cosa sarà. Né il vertice politico dei talebani odierni è lo stesso di allora, disposto ad accontentarsi del riconoscimento internazionale di soli tre Paesi o dei soldi di un bin Laden, motivo per il quale i nazionalisti pashtun di Omar avevano accettato di buon grado il facoltoso ideologo saudita.

Che non siano più gli stessi lo si capisce, per partire dalla guerra, dalla capillare rete di intelligence costruita mentre si negoziava a Doha con gli americani o, osserva qualcuno, da anni. Un rete sotterranea così segreta da sfuggire alle occhiute agenzie americane che non ne avevano probabilmente contezza. Una rete che preparava non solo la guerra guerreggiata ma quella, meno sanguinaria e meno impegnativa, dell’accordo sottobanco. Con governatori, capi villaggio, colonnelli e capitani. Gioco facile con un esercito governativo, sappiamo oggi con certezza, tenuto per mesi senza stipendio nonostante i miliardi iniettati dai consiglieri militari occidentali che, evidentemente, si sono per anni accontentati di resoconti di carta che non rispondevano alla realtà del terreno: quella di salari non pagati, di benzina rubata, di soldati fantasma a libro paga di un governo corrotto che ha già visto scappare all’estero ministri e funzionari (solo ieri l’agenzia Pajhwok ha reso noto il furto di 40 milioni di afganis dal Ministero dello Sviluppo Urbano e di 273 milioni pagati illegalmente a due società per un progetto solo sulla carta).

La costruzione di questa rete sofisticata, una delle ragioni della rapida vittoria talebana, dice dunque di una leadership sofisticata, non solo tecnologicamente. Negli anni questa leadership ha tentato di smarcarsi dal marchio pashtun sul movimento e ha persino tentato di dimostrarsi attenta ai bisogni delle donne, concedendo persino di aver fatto in passato degli errori. Una strada che sembra aprire in due direzioni: quella della ricerca del consenso interno in un mondo, soprattutto urbano, radicalmente cambiato. E quella del rendersi accettabili a un consesso da cui non si può esser più tagliati fuori. I Talebani di oggi, che sottolineano più del Corano una guerra fatta per l’indipendenza, non possono accettare che sia solo il Pakistan l’unico padrino da cui dipendere. Ecco dunque che le aperture di cinesi o russi (che non sono una novità) sono ben accette così come la possibilità che il loro regime sia sì un regime, ma non del terrore.

Ma ammesso e non concesso che la leadership sia davvero cambiata, il che resta da dimostrare, qual è la distanza tra il vertice e i soldati della cui brutalità abbiamo già notizia? E quale può essere il prezzo che il vertice dovrà pagare ai capi bastone che hanno consentito la rapida conquista? I prossimi giorni diranno subito se si scatenerà, come tutti temiamo e come i locali ci raccontano, lo stillicidio della vendetta e della caccia al collaborazionista, o se, almeno di facciata, l’Emirato non voglia mostrarsi al mondo come un governo conservatore ma non solo di efferati aguzzini. [Emanuele Giordana]


E le voci che giungono dalla diaspora afgana in Occidente si chiedono: è meglio trattare o isolare i Talebani prima di riconoscere l’Emirato proclamato?

Sarà ancora possibile vietare il ballo?

Vent’anni di lutti, torture, attentati, bombe e madri di tutte le bombe, governi e corruzione, traffici di vario tipo e tentativi di riconvertire, investire nel nuovo sono destinate a venire azzerate, riportando il tempo dell’Afghanistan alla solita casella iniziale con gli stessi Signori della guerra, le stesse dispute tribali… la stessa musica, quella proibita dai Talebani?

Sopra i tetti di Kabul

Kabul, 7 agosto 2021, bambina hazara danza su un tetto

Si registrano scontri e bombardamenti nelle province attaccate dai Talebani, che si appropriano di intere province, perché l’esercito – che sarebbe sulla carta molto più preparato, numeroso ed equipaggiato – addestrato dagli americani implode davanti alle consuete motociclette dell’immaginario Talebano, come l’esercito iracheno si è sciolto davanti alle orde di tagliagole dell’Isis. Probabilmente ciò avviene perché l’incapacità dell’esercito più tecnologico del mondo ad affrontare la guerriglia (fin dal Vietnam) si ripercuote sui reparti che ha addestrato malamente e in modo inadeguato.

Infatti Herat in un primo tempo aveva respinto l’aggressione soltanto grazie alle milizie di Ismail Khan, nato nel 1946, sciita di etnia tajika, mujahedin contro l’Armata Rossa, poi Signore della guerra, ex governatore della provincia fino al 2004 (rimosso da Karzai), molto stimato localmente, anche perché aveva gestito i proventi doganali del confine iraniano investendoli sul territorio di Herat. Probabilmente solo con queste benemerenze e la preparazione ad affrontare i jihadisti si poteva affrontare la resistibile spinta talebana.

Intanto la vita a Kabul scorreva normalmente all’inizio di agosto.

Nessuno qui a Kabul ha paura dei Talebani (9 agosto) I talebani hanno annunciato che le ragazze senza marito devono sposarsi con i talebani Le persone sono molto preoccupate della situazione soprattutto le donne e le ragazze giovani La burca che una volta indossavano le donne afgane, ora introvabile, costa un sacco di soldi si preparano a indossare di nuovo la famosa burca (14 agosto)

Kabul, 9 agosto 2021, venditori di uva proveniente dall’Hellmand.
La via verso Ghazni e Kandahar era ancora aperta e praticabile.

[scatti @Faraydun Karimi]

L’impressione di Seyf che riportavamo nel primo titolo nasceva da una osservazione diretta dello svolgimento normale della caotica vita kabulina del 9 agosto ed è documentata dalle prime foto che ci ha inviato del suo soggiorno nella capitale. Coincide con l’idea che, controcorrente, si è fatto Emanuele Giordana della potenziale evoluzione susseguente alla fine della ennesima nociva occupazione straniera. Ovvero: la consapevolezza che il consesso civile degli afgani – modificato nel suo sentire comune dal ventennio trascorso con contatti e diaspora, esperienze e vicissitudini, accordi improbabili e conferenze di pace alternate a preparazioni di guerre – non permetterà una riedizione dell’oscurantismo che tutti paventano a fronte delle occupazioni spettacolari di città periferiche e importanti per il controllo dei commerci, ma che difficilmente potranno essere definitive senza il consenso delle comunità locali, così profondamente caratterizzate tribalmente; a meno che le donne s’infilino la testa nella burca prima che venga imposto l’obbligo, come suggeriscono gli altri titoli che sono andati a modificare l’impressione iniziale.

Nel paese centrale in Asia gli interessi sono tanti dunque... agli eserciti degli imperi conviene eclissarsi ma... ... il gioco non finisce

In questo contesto diventa importante riuscire a tracciare quali possono essere gli interessi esterni dei paesi limitrofi o delle grandi potenze che si insinuano nel vuoto lasciato dall’occupazione militare della Nato e così capire quali accordi riusciranno a stipulare i vari concorrenti al controllo del territorio.

Ciascuna delle grandi potenze sta perseguendo una strategia, in base anche e soprattutto alle proprie aspettative; e sia i Talebani, sia i Signori della guerra locali (sempre gli stessi del conflitto precedente), sia il governo di Kabul si disponevano a proporsi come interlocutori della spartizione.

Il mare di Astana: il Mediterraneo


Sabrina Moles

Due paesi che guardano con molto interesse alla nuova situazione del paese che fa da cerniera tra Oriente, in fattispecie quella Cina confinante con il Corridoio di Wakhan, e Occidente – di cui la Turchia svolge ormai da decenni il ruolo di mediatore, collocandosi nella Nato, ma con cultura e religione legata a quelle nazioni del Centrasia particolarmente allarmate dalla ascesa nuovamente di una realtà jihadista alle frontiere.

Prontamente due esperti analisti di Turchia (Murat Cinar – giornalista turco) e Cina (Sabrina Moles – redattrice di “China Files”) hanno dato luogo a questo dialogo su quale possa essere il ruolo delle due potenze nella aggrovigliata vicenda afgana e ci hanno gentilmente concesso di riprendere in questo dossier dove affastelliamo i materiali più interessanti che troviamo per elaborare un’opinione il più possibile completa del Great Game che sottende ai traffici più o meno legali e alla conferma di appalti e gestioni di infrastrutture. 

Ma come si descrivevano l’Afghanistan e le sue speranze residue prima che gli accordi tra potenze, scatenati da strategie della Casa Bianca come al solito prive di visione globale e rispondenti soltanto a criteri meramente elettorali di politica interna, si spartissero le risorse e il territorio afgano scatenando lo spettacolo del ritorno dell’oscurantismo sulla popolazione (unico soggetto non protagonista della macchinazione spartitoria) a cui mai è stato concesso di operare scelte, perché gli americani erano intenti allo stesso saccheggio per diritto di occupazione?

Era il 21 ottobre 2020, a un anno esatto dalla pubblicazione del bel libro di Emanuele Giordana La Grande Illusione (Rosenberg & Sellier, 2019) quando lo scrittore e giornalista da quarant’anni divulgatore della passione per l’Afghanistan incontrava Murat Cinar sul suo divano che “inquadra” con semplicità nazioni che salgono alla ribalta geopolitica senza che i più sappiano collocarli sullo scacchiere internazionale.

Abbiamo registrato a metà luglio nella trasmissione radiofonica Bastioni di Orione di Radio Blackout a più voci tre punti di vista sul rebus afgano, tre spunti di analisti degli affari internazionali, ognuno a partire dal proprio ambito di competenza, intrecciando i discorsi laddove andavano a sovrapporsi.

“Mettere a fuoco l’Afghanistan”.

Da questi stessi protagonisti della diretta radiofonica i concetti sono stati sviluppati, ampliati e argomentati in tre articoli utili per comprendere meglio su quali basi erano già stati stipulati accordi che tutelavano le potenze da possibili perdite di posizione con l’avvento dei Talebani… solo gli afgani non hanno partecipato a nessun vertice. E quindi sono alla mercé degli studenti coranici.

13 luglio 2021. Afghanistan interno dell’esterno dell’interno

Emanuele Giordana ha una conoscenza pluridecennale delle sensibilità della zona e il suo approccio ci pare coerente con l’interpretazione più plausibile delle strategie normalmente messe in atto dai contendenti. Infatti per quanto i Talebani possano occupare territori periferici e snodi comunicativi (siano essi infrastrutture stradali, siano i canali della spettacolarizzazione mediatica); benché quasi senza colpo ferire s’introducano in città come Kunduz e combattano per appropriarsi di Lashkar-gah e si avvicinino a Mazar-i-Sharif, difficilmente potranno esercitare il potere e mantenerlo in centri così abitati, luoghi tanto ostili come il Nord del paese – per quanto siano stati rifugio dei veterani dell’Isis, potenziali truppe uzbeke e tajike a supporto dell’occupazione dei distretti di confine –, soprattutto se la popolazione, come ci testimonia Seyf da Kabul (che commenta, entusiasta – lui laicissimo –, notti segnate da alti «Allah Akbar» lanciati dai tetti della capitale contro i Talebani; gli stessi che anche Giuliano Battiston nei suoi articoli su “il manifesto” e “Lettera22” segnala), non intende avvallare la presa del potere da parte di una fazione così oscurantista.

La zona delle operazioni talebane di inizio agosto e delle esercitazioni russe terminate il 10 agosto

Yurii Colombo ci parla da esperto del mondo che orbita attorno agli interessi di Mosca, che nell’infuocato agosto dell’Asia centrale è impegnata in esercitazioni a ridosso di un confine blindato dai Talebani, in particolare quell’area settentrionale storicamente tajika – e dunque alleata dei russi – attraverso cui scorrono i traffici più importanti di merci legali o meno. Meno di 100 chilometri costituiscono il confine afgano/tajiko, ma sono importantissimi, da difendere mostrando apparati militari agguerriti, ma anche con mosse diplomatiche come accogliere una delegazione talebana a livello istituzionale, nonostante sia una organizzazione illegale a Mosca. Ma anche il resto della galassia dei paesi centrasiatici è preoccupato al punto da chiudere i valichi di frontiera turkmeni e uzbeki (riferimenti ancora adesso per i Signori della guerra come l’inaffidabile Dostum, di origine uzbeka, cresciuto nell’Armata Rossa e protagonista di infinite sgradevoli giravolte)

L’intervento di Sabrina Moles ci torna utile per inquadrare i primi passi cinesi ai confini dell’Afghanistan, un confine condiviso anche in questo caso per meno di 100 chilometri, ma una linea molto importante sia per la Via della Seta di Xi (Belt Road Initiative), sia per il contenimento degli uyguri, che abitano proprio le terre confinanti dell’Hindu Kush, sia geopoliticamente perché le alleanze – e segnatamente quella con il Pakistan, arcinemico della comune rivale India – evidenziano le differenti fazioni e le possibili noncuranze tra potenze con ambiti di interesse differenti. E anche nel caso dello sguardo orientale emerge una sofferenza di una comunità tra quelle che costituiscono l’Afghanistan: il Kirghizistan è disponibile a conferire la nazionalità ai gruppi kirghizi appartenenti a quella cultura che venissero dislocati dalla manovra di “pulizia etnica” orchestrata dall’accordo sino-pachistano nel Corridoio: i profughi verrebbero sostituiti da realtà che possono agevolare il controllo dei commerci di quel territorio vitale per la Cina (e per il Pakistan)

Un interessante scambio tra punti cardinali di osservazione

I russi ancora scottati dalla avventura sovietica: hanno preferito identificarsi in uno dei protagonisti clanici, i tagiki, a cui Mosca ha promesso appoggio militare senza coinvolgimento diretto per ottenere una sorta di cuscinetto, che allontani dai confini russi i Talebani, che già controllano i confini lungo il fiume Amu Darya; però Yurii Colombo ricorda come la recente guerra caucasica al fianco degli armeni è stata un fallimento. E anche in questo caso Putin ha cominciato a cercare una qualche intesa con chi probabilmente controllerà l’Afghanistan: i Talebani pare abbiano cercato di monetizzare con i russi l’assicurazione che non attaccheranno i loro alleati.

2021-07-08_Baradar da Putin

Il leader talebano Mullah Abdul Ghani Baradar a Mosca per la conferenza di pace (8 luglio 2021)

Situazione militare a inizio agosto

La Sara Khitta

Ma qualche forma di scontro armato si è scatenata, come i nostri interlocutori, che potete ascoltare nel podcast, immaginavano, perché una guerra civile è richiesta dal business del traffico d’armi; ciò che è imponderabile era quanto sarebbe stata intensa, la durata e chi ne sarebbe stato coinvolto. Poi gli scontri armati sono divenuti guerra aperta (e forse gli americani non hanno voluto credere a chi limetteva sull’avviso, visti i tradimenti di tutti gli accordi siglati dai Talebani), anche per la presenza di una squadra d’élite come la Sara Khitta (Il Gruppo Rosso), addestrata come le truppe d’eccellenza dei più sofisticati eserciti mondiali; la loro base pare sia in Paktîkâ, la regione frontaliera orientale abitata da tribù pashtun che fanno capo alla famiglia Haqqani. il cui leader Sirajuddin è uno dei triumviri a capo dei talebani, quello più vicino ad al-Qaeda, secondo “Mediapart“. Questa forza speciale ha fatto la prima comparsa nel 2015 nell’Hellmand, ora è stata impiegata per attaccare le 5 principali città (Herat, Mazar, Kunduz, Kandahar, Ghazni), ma Bill Roggio su The Long War Journal considera che sia riduttivo comparare queste truppe ai commandos capaci di affrontare il nemico con regole d’ingaggio che prevedono il contatto, perché sono anche forze speciali, usate per occupare valichi e controllare vie di comunicazione.

Sala Khitta - Red Unit

Forze speciali talebane in addestramento con il capo Ammar Ibn Yasir, palesemente uno straniero pure lui come gli americani o i russi o l’impero britannico

Quale dibattito interno alle forze talebane e loro strategia

I Talebani hanno agito strategicamente attaccando le zone del Nord del paese mentre le forze governative sono dislocate maggiormente al Sud: interessante al proposito l’analisi di Antonio Giustozzi sull’evoluzione e le dinamiche interne all’organizzazione, i rapporti tra ala militare e politica, le relazioni con le famiglie e quanto sono diversi rispetto a vent’anni fa. Gli “studenti” islamici hanno occupato i posti di frontiera senza quasi colpo ferire, controllando il transito delle merci e così facendo un’azione di propaganda, come nel caso di Spin Boldak, il valico con il Pakistan; infine il traguardo dei negoziati di Doha comporta una corsa ad arrivarci in posizione di preminenza e dunque avendo fatto azioni di forza; eliminando il tappo della presenza militare straniera, si dà la stura alla violenza repressa scatenando la spirale. Si è venuto dunque a creare un garbuglio di interessi che va a detrimento soprattutto dei giovani.

Ma i Talebani dovranno presto affrontare due gravi problemi, uno interno e uno “esterno”. Quello interno: la conquista territoriale ha rafforzato la componente militare del movimento, che era stata abilmente condotta dal leader Haibatullah Akhundzada ad accettare la sua linea politica: accordo con Washington e mantenimento dei canali diplomatici. Ora che anche Kabul non è lontana dalle mire dei militanti, è da vedere chi prevarrà nel dettare la linea sul “che fare”. L’altro problema è più decisivo. Nella loro avanzata i Talebani hanno macinato territori su territori, ma hanno anche macinato e distrutto vite umane, raccolti estivi, contribuito a sradicare donne e bambini dalle loro case, innescato un’enorme spinta migratoria.

Continuano a dire ai cittadini e ai funzionari governativi di non preoccuparsi. Ma i resoconti delle loro conquiste – dai distretti periferici di Kandahar al distretto hazara di Malistan, nella provincia di Ghazni – sono infarciti di abusi, rappresaglie, omicidi mirati, documentati tra gli altri da Human Rights Watch e dall’Afghanistan Independent Human Rights Commission. Bravi a conquistare i territori, non gli afghani e le afghane. La cui vita è diventata ancora più vulnerabile di prima. La linea del fronte si è spostata dentro le città. A meno che non ci sia un cessate il fuoco, ha sostenuto Deborah Lyons, rappresentante speciale dell’Onu per l’Afghanistan, il risultato sarà «una catastrofe senza precedenti nella storia» [Giuliano Battiston, Schiaffo talebano all’ex Alleanza del Nord, “Lettera22”, 11 agosto, 2021]

I Talebani sono una forza retriva, reazionaria del paese, ma sono anche sottomessi al consenso nel paese, oggi: sanno di non avere popolarità, se non derivante dall’errata gestione di questi vent’anni di occupazione e di bombardamenti ed eccidi, perché il periodo del regime talebano fu di fame e stenti, oltreché di mancanza di diritti. E gli afgani non vogliono tornarci, perciò Emanuele Giordana si dichiara fiducioso nella pressione della cittadinanza per evitare la continuazione di 40 anni ininterrotti di guerra e che l’unica strada sia l’accordo di tutti gli afgani e si possono rilevare come passi in questa direzione una maggiore tolleranza da parte talebana del rispetto dei diritti delle donne, persino nelle zone da loro controllate, o l’apertura ad altre etnie diverse da quella pashtun. Ed è proprio la rottura di questa cappa clanica a poter rappresentare quel poco di buono che hanno rappresentato questi vent’anni di occupazione militare, se si immagina cosa ha potuto significare in termini di contaminazione culturale il contatto instauratosi tra le genti che hanno attraversato il territorio. Nonché gli afgani della diaspora, come il nostro Seyf e le sue istantanee.

Mercato a Kabul

9 agosto 2021, mercato kabulino di kote sangi mirwais maidan

La fibrillazione degli altri “stan” e l’allerta russo…

Emanuele Giordana ci ricorda come i russi già 3 anni fa, durante l’offensiva afgana avevano rafforzato i dispositivi di difesa tagiche; l’intento è duplice e mira anche a tenere fuori dai territori delle ex repubbliche sovietiche le basi americane. Peraltro anche per gli Usa l’intento è duplice: fa comodo poter dire che si ritirano dall’Afghanistan, puntando a interventi dalle navi dislocate strategicamente nel territorio per controllare il fronte sud dell’ex Urss, ma è pure importante il deterrente antiraniano.

Yurii Colombo tiene ad accendere un riflettore sui vari “stan”: in particolare Uzbekistan e Turkmenistan non hanno alcuna intenzione di rientrare sotto l’ombrello russo, e già non sono entrati nell’alleanza. Sono neutrali; e infatti Mosca ha già cercato di sensibilizzarli al pericolo talebano. Infatti proprio l’Uzbekistan ha già iniziato a trattare direttamente con i Talebani, ai quali – secondo Yurii – interessa per ora aprire falle e con i russi sembra ci stiano riuscendo, dopo l’invito a Mosca, le dichiarazioni e l’irritazione di Putin nei confronti del governo di Kabul.
Su questo si innesta anche il problema dei molti jihadisti coinvolti nella guerra siriana e nei tanti focolai di guerra che vedono l’utilizzo di mercenari alla ricerca di nuovi padroni; e se c’è stato uno scontro tra Talebani e militanti dell’Isis, i perdenti staranno cercando di riorganizzarsi (probabilmente in quella zona tagika che torna come luogo centrale in questa fase). E per Mosca questo è un problema molto sentito, visti gli episodi nei decenni scorsi di attentati islamisti – ceceni, ma anche ultimamente kirghizi – che hanno segnato la sensibilità alla sicurezza antijihadista di Mosca e dei suoi servizi.

La questione imperiale vede a seconda dell’approccio con occhiali moscoviti, han o dalla realtà afgana, impressioni che si differenziano molto: dalla considerazione russa che aveva secondo Yurii Colombo scarso interesse imperiale per il territorio afgano rispetto al Great Game dell’impero britannico o della grande partita sovietica della Guerra Fredda, fino alla Cina stessa che si andrebbe a posizionare su ancora altre forme di interesse rispetto all’invasione americana.

… e l’inserimento cinese, alleato del Pakistan filotalebano

Perciò nella discussione si inserisce Sabrina Moles, che riconosce come l’Afghanistan è stato coinvolto nella Belt Road Initiative solo tangenzialmente, proprio perché considerato instabile. La Cina ha preferito avvicinare il Pakistan che ora è un alleato particolare nella regione, di cui interessa nella logica cinese una stabilizzazione per poter fare affari. L’altro aspetto interessante è che il corridoio afgano condiviso con il territorio cinese si affaccia sulle estreme propaggini dello Xinjiang, territori a ovest del Taklimakan, di grandi mercati interetnici… nazione uygura, con cui i Talebani sono stati invitati a tagliare i ponti in cambio del riconoscimento della loro autorevolezza a riempire il vuoto di potere lasciato dal ritiro americano in presenza di un governo fantoccio che è ancora più debole di quello di Najibullah, lasciato a suo tempo dai sovietici.

Delegazione talebana al completo per ottenere l’appoggio della Cina in cambio di affari e della rinuncia alla diffusione del jihad in Xinjiang

La provocazione di Emanuele Giordana a proposito dei cinesi è un augurio che davvero decidano di occuparsi dell’area afgana e in buona misura lo hanno già fatto con dei contratti capestro: i cinesi si sono accaparrati risorse, miniere e possono contrapporsi a tutti gli altri protagonisti, rispetto ai quali ha una sostanziale differenza: non prediligono la via militare per il controllo del territorio; poi non hanno remore a trattare con chi detiene il potere, chiunque egli sia. Persino i Talebani. Il principio è sempre quello improntato a “commercio e modernizzazione economico-infrastrutturale”, come ben spiegato da Giulia Sciorati su “China Files” (Cinastan3 – Quale Cina nell’Afghanistan post-statunitense?): «La Cina continua a supportare una soluzione politica e non militare al conflitto afghano, proponendosi ciclicamente come ospite degli incontri di dialogo tra il governo afghano e le forze talebane … Se, dal punto di vista cinese, il processo di pace rimane “a guida e proprietà afghana,” l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (SCO) è identificata come l’organismo multilaterale attraverso cui preservare la stabilità regionale, ed è proprio la SCO che Pechino vorrebbe ricoprisse un ruolo più centrale nelle vicende afghane. Come ricordano i ricercatori Niva Yau e Raffaello Pantucci, rispettivamente della OSCE Academy di Bishkek in Kirghizistan e della Scuola di Studi Internazionali S. Rajaratnam di Singapore, l’atteggiamento scelto dalla Cina nella gestione della questione afghana post-statunitense – sostanzialmente limitato e ancorato a questioni di sicurezza interna – non tiene conto di quelle che sono, invece, le aspettative dei paesi centrasiatici che accoglierebbero di buon grado una Cina “con un ruolo più lungimirante e sostanziale in Afghanistan”».

Zhang Jiadong scriveva il 6 luglio su “Global Times” che, «rispetto ad altre potenze, la Cina ha l’opportunità di partecipare agli affari afghani senza impantanarvisi».

Yurii Colombo è perplesso riguardo alla possibilità che si possa arrivare a una reale alleanza tra Russia e Cina, venuta meno negli scontri tra le due potenze comuniste degli anni Sessanta. Anche Sabrina concorda, seppure proprio riguardo al rapporto con gli “stan” si potrebbe individuare una sorta di organismo di sicurezza accomunante Mosca e Pechino, solo che attraverso la Shanghai Cooperation Organisation la Cina tende a essere egemone con i semplici fini di controllo dei confini e di estensione degli affari. Mentre i governi laici delle ex repubbliche sovietiche centrasiatiche assoldano guerriglieri uyguri in funzione antitalebana.
Un ultimo aspetto riprende il ruolo specifico del Pakistan nel contesto afgano che Sabrina conferma esistere realmente come collaborazione con Pechino, benché Islamabad abbia proprio in questi mesi convulsi dialogato riguardo alla Bri sul confine afgano con entità non istituzionali; l’interesse deriva anche dall’ingombrante presenza dell’India e dall’importanza del corridoio sino-pachistano con interessi per 62 miliardi.

Come riportato da Fabrizio Poggi su “Contropiano” in un articolo chiarificatore, comparso il 7 agosto:

«Sulla questione dell’Afghanistan, Delhi è preoccupata per il fattore islamista, soprattutto se i talebani prenderanno il potere: un pericolo esterno e interno, dato dal Pakistan e dall’ex stato di Jammu e Kashmir, trasformato in territorio federale nel 2019. Qui, sostiene Vladimir Pavlenko (“IA Rex”), gli interessi dell’India, da un lato, convergono con quelli russi e cinesi (destabilizzazione islamista in Asia centrale e Xinjiang); dall’altro, sono in conflitto con gli interessi USA. Delhi non dimentica che è stato l’intervento Usa in Afghanistan a creare questa situazione di crisi nella regione. E, però, si trova stretta da due lati: da una parte, la cooperazione con gli Stati Uniti nell’ambito del QSD; dall’altra, gli interessi comuni con Mosca, Pechino e Islamabad nella SCO, in cui l’Afghanistan è inserito come osservatore. Anche solo così, conclude Pavlenko, “la SCO è un meccanismo molto più affidabile, che non la partnership “Indo-Pacifico” con gli Stati Uniti”: dipende dall’India la “scelta tra consolidamento eurasiatico, trasformando la SCO in strumento di congiunzione transcontinentale di Ueea (Unione economica euroasiatica) e Belt and Road, e la scissione dell’Eurasia: più precisamente, la separazione e la rinascita dei “limitrofi”, ora usati da forze esterne per aumentare la tensione”».

E poi: «Secondo Mohammed Ayoob, che ne scriveva il 2 agosto sull’australiano “The Strategist”, l’unico paese scontento dell’uscita Usa dall’Afghanistan sarebbe proprio l’India, mentre Pakistan e Cina si preparerebbero a colmare il vuoto e Russia e Iran, sebbene temano i talebani, sarebbero contenti della mossa Usa».



Il mare di Astana: il Mediterraneo


Sabrina Moles

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]]> n. 5 – Afghanistan: la soluzione si allontana https://ogzero.org/una-difficile-eredita-mina-la-soluzione-dei-conflitti-in-afghanistan/ Wed, 21 Apr 2021 07:13:24 +0000 https://ogzero.org/?p=3177 Prosegue la raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose […]

L'articolo n. 5 – Afghanistan: la soluzione si allontana proviene da OGzero.

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Prosegue la raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Il quinto contributo focalizza l’attenzione sull’Afghanistan.


n. 5

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Una guerra che dura da più di 40 anni

La nazionalità afgana è tra le maggiormente riscontrate tra i migranti che percorrono le attuali rotte migratorie, in particolare quella balcanica. Infatti, uno dei conflitti più longevi che si registra a livello internazionale, con riferimento all’area dell’Asia centrale, è quello che interessa l’Afghanistan. Quest’anno ricorre il ventennale del conflitto, iniziato per mano dell’intervento armato degli Stati Uniti e della Nato nel 2001, in conseguenza alla strage terrorista di al-Qaeda, dell’Undici Settembre dello stesso anno compiuta negli Stati Uniti. Il paese è comunque in guerra da più di quarant’anni e al momento non ci sono buone prospettive né in ordine a una risoluzione realmente pacifica del conflitto in corso che possa rassicurare la popolazione civile,  né tantomeno in ordine a un riconoscimento  di una posizione di stabilità dell’esecutivo, presieduto formalmente dal presidente Ashraf Ghani, rispetto alla costante guerriglia per opera di Talebani e del sedicente Stato Islamico in Afghanistan, costituitosi nel 2015, nonostante la presenza militare degli Usa e degli stati membri della Nato.

Il palazzo Darul Aman a Kabul subì ingenti danni durante gli anni di scontri tra mujaheddin e talebani (foto JonoPhotography)

Dai mujaheddin ai Talebani e ritorno

Come noto l’Afghanistan dal 1979 al 1989 è stato oggetto dell’offensiva e dell’occupazione armata da parte dell’ex Unione Sovietica, alle quali sono corrisposti gli attacchi armati contro il regime di Naijbullah e dei suoi alleati sovietici, da parte dei guerrieri islamici mujaheddin (“coloro che compiono il jihad, la lotta”), sostenuti da diversi governi stranieri in particolare dal Pakistan, dall’Arabia Saudita e proprio dagli Stati Uniti che fornirono loro denaro, addestramento e armi, durante tutta la durata del conflitto, preoccupati com’erano dal continuo espansionismo dell’Urss e dei quali faceva parte lo stesso Osama Bin Laden. Tale sostegno da parte degli Usa venne definito l’ultimo conflitto simbolo della Guerra Fredda tra i due paesi: nel 1989 l’Urss fu costretta a ritirarsi decretando così la vittoria dei mujaheddin e abbandonò l’invasione militare dell’Afghanistan, portando con sé il pesante fardello della perdita di migliaia dei propri uomini. Tuttavia, una volta caduto il regime sovietico di Mohammed Najibullah, che ormai non godeva più dell’appoggio dell’Urss, i mujaheddin conquistarono Kabul destituendo la Repubblica democratica dell’Afghanistan (Rda) nel 1992, proclamando la nascita dello Stato Islamico dell’Afghanistan. Dopo tale proclamazione vi furono dissidi politici e ideologici tra le diverse fazioni e ciò agevolò la costituzione del movimento armato dei Talebani (“studiosi del Corano”) i cui membri si erano addestrati in Pakistan. Il gruppo venne fondato nel 1994 da Mohammad Omar, che nel 1996 destituì lo Stato Islamico e instaurò un Emirato Islamico, ossia un regime teocratico, fondato sulla ferrea applicazione della legge coranica. Tale regime si consolidò negli anni successivi ma i mujaheddin nel 1997 si allearono tra loro formando l’Alleanza del Nord (Fronte islamico nazionale unito per la Salvezza dell’Afghanistan), e si scontrarono nuovamente con i Talebani dando inizio a una sanguinaria guerra civile. I Talebani progressivamente durante la guerra ottennero il controllo di quasi tutto il territorio afgano (alla fine del 2000 più del 95 per cento), nonché il riconoscimento dal Pakistan, dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi. I mujaheddin continuarono comunque a opporsi ai Talebani, soprattutto nel Nord del paese e riacquisirono il potere nel novembre del 2001, solo dopo l’intervento militare della Nato in Afghanistan, in esito all’attentato terroristico alle torri gemelle a causa dei legami del regime talebano con il gruppo terrorista al-Qaeda, ritenuto responsabile della strage negli Stati Uniti.

Le sanzioni e il governo provvisorio

La nota organizzazione terroristica, infatti, fondata proprio da Osama Bin Laden, di origine saudita, negli anni Novanta si avvicinò al regime dei Talebani dal quale ottenne per diversi anni sostegno e protezione.  Gli attentati alle ambasciate americane in Kenya e in Tanzania, attribuiti ad al-Qaeda e gli insuccessi dei tentativi della diplomazia internazionale di riavviare il dialogo fra i Talebani e l’Alleanza del Nord portarono all’inasprimento delle sanzioni da parte dell’Onu per la mancata consegna da parte dei Talebani di Bin Laden, nel 2000. Si accentuò cosi l’intransigenza del governo talebano: nel 2001 venne ucciso Ahmad Shah Massud, capo militare e politico dell’opposizione dei Talebani, e il giorno successivo avvenne l’attacco terroristico dell’11 settembre negli Usa.

Massud, figura culto nel Panshir (foto di Michal Hvorecky)

La guerra statunitense, in coalizione con la Nato contro il gruppo terrorista di al-Qaeda, guidato dallo stesso Osama Bin Laden, iniziò nell’ottobre del 2001 in modo del tutto singolare: l’organizzazione venne considerata, fin da subito, dagli Usa al pari di un’organizzazione statuale. Il governo statunitense appoggiò le forze dell’Alleanza del Nord fino al definitivo abbattimento del regime talebano nel novembre 2001.

Tuttavia il conflitto armato che si instaurò in Afghanistan a partire dal 2001 ha visto il succedersi di diversi accadimenti nei quali i Talebani hanno registrato “sconfitte” e “vittorie”. Dopo la capitolazione di Kabul del novembre del 2001 infatti con gli accordi di Bonn siglati tra le varie fazioni politiche presenti nel paese fu istituito un governo provvisorio formato dalle diverse etnie presenti in Afghanistan a capo del quale venne nominato il presidente di etnia pashtun Hamid Karzai affiancato dalle Nazioni Unite. Nel mentre le truppe speciali americane continuarono la ricerca nel 2001 di Osama Bin Laden e l’individuazione dei gruppi armati dei Talebani che intanto sferravano costantemente la loro guerriglia anche contro il contingente internazionale presente nel paese. Il 9 ottobre del 2004 si tennero le prime elezioni nazionali presidenziali durante le quali Karzai venne eletto con il 55 per cento dei voti a favore, confermandosi così come presidente. Con la nuova tornata elettorale del 2009 che confermò nuovamente la presidenza di Karzai crebbe l’attività terroristica che si basò sulle accuse di brogli elettorali che decretarono la vittoria dell’allora presidente. Anche per questa ragione Karzai propose di intraprendere dei dialoghi di pace con i Talebani che questi rifiutarono. Dopo l’uccisione di Osama Bin Laden nel 2011 una volta individuato il suo rifugio nei pressi della città di Islamabad sono invece stati intrapresi tra Usa e Talebani colloqui volti all’identificazione di una soluzione politica alla guerra. Da quanto esposto si comprende come i Talebani non sono mai usciti di scena nel conflitto afgano fino a costituire, ancora oggi, una forza così influente nel paese da essere stati chiamati dall’amministrazione Trump, nel 2019, a sedere al tavolo dei negoziati con gli Usa per la costituzione di un sistema di pace in Afghanistan.

La madre di tutte le bombe

In questo processo storico però non va taciuto il ruolo del sedicente Stato Islamico in Afghanistan, costituitosi nel 2015 e contro il quale nel 2017 nella regione di Nangharan, nel Nordest afgano, dove risiede prevalentemente il gruppo terrorista, è stato lanciato un ordigno esplosivo di undici tonnellate da parte degli Usa, considerata la madre di tutte le bombe (Moab – Mother of all the bomb). In particolare, l’IS-K – lo Stato Islamico della provincia di Khorasan nell’area nordoccidentale del paese (oggi regione divisa tra Iran, Turkmenistan e nella sua parte sud con l’Afghanistan) – è stato fondato nel 2015 da ex membri dei Talebani pakistani e ha diffuso la propria ideologia nelle aree rurali del paese come la provincia di Kunar nella quale si evidenzia una maggiore presenza di musulmani salafiti, lo stesso ramo religioso dell’Islam sunnita del sedicente Stato Islamico in Afghanistan. Nel 2019 Kabul, come esito di una campagna militare durata diversi anni, ha ripreso di nuovo possesso dei territori da questi occupati.

Gli Stati Uniti hanno dichiarato ufficialmente la sconfitta dello Stato Islamico in Afghanistan, ma ciò non corrisponde alla realtà come si evince dai recenti attentati che hanno interessato il paese.

Doha, il negoziato

Nel 2019 iniziano ufficialmente i negoziati di pace tra Stati Uniti e Talebani a Doha nel Qatar dove la forza talebana vanta di avere una sorta di ambasciata. Ciò che si pone alquanto sconcertante è, dopo vent’anni di guerra nel paese e dopo due tornate elettorali che hanno visto vincitore Ghani, l’estromissione dal tavolo dei negoziati del Governo di Kabul presieduto dallo stesso, compiendo in questo modo una vera e propria sua delegittimazione.

I negoziati, finalizzati a un accordo di pace, che verrà poi firmato il 29 febbraio 2020, per quanto riguarda gli Usa sono gestiti da Zaimai Khalizai, diplomatico afgano americano già ambasciatore dell’Afghanistan negli Stati Uniti, i Talebani, invece, sono rappresentati da Mohammad Abbas Stanikzai diplomatico a capo dell’ufficio di Doha e da mullah Abdul Ghani Baradar cofondatore dei Talebani rilasciato nel 2018 da una prigione pakistana.

L’oggetto dell’accordo di febbraio 2020 è stato essenzialmente basato su due punti: il ritiro di tutte le truppe armate straniere entro il primo maggio del 2021 e l’impegno da parte dei Talebani a che il territorio afgano non sia più la base di attività terroristiche o di minaccia nei confronti degli Usa; nonché l’avvio di un dialogo interno tra afgani. Tuttavia, va detto che se gli Usa mirano a portare sostegno principalmente militare per il consolidamento di un governo di tipo repubblicano in Afghanistan, i Talebani vogliono creare di nuovo l’istituzione di un Emirato islamico auspicabilmente retto da Pakistan, Iran, Cina e Arabia Saudita.

La sigla dell’accordo è avvenuta alla presenza dei ministri e delle rappresentanze delle organizzazioni internazionali di trenta paesi. L’accordo, quindi, ha sicuramente una rilevanza internazionale ma non è ancora risolutivo in quanto, a oggi, non si registra né la fine della guerra né tantomeno quella dell’intervento americano in Afghanistan.

Gli equilibri dell’area: l’utilità (tutta Usa) della pressione

L’accordo dimostra inevitabilmente la sconfitta riportata dall’amministrazione americana rispetto al conflitto afgano, questione che intende abbandonare – come già avvenuto in passato – lasciando alle forze di influenza locali la risoluzione effettiva del medesimo per occuparsi di questioni che al momento le premono maggiormente, come l’avanzata dell’egemonia economica internazionale da parte della Cina o il controllo delle aree di influenza della Russia. Tuttavia, è chiaro allo stesso tempo che risulta sempre importante mantenere per gli Usa una certa pressione sull’Afghanistan, data la sua geolocalizzazione, vicina com’è all’Iran alla Cina alla Russia e al Pakistan con i quali gli Stati Uniti sono in contrasto o in competizione. La sconfitta americana nel conflitto si evince anche dalla progressiva diminuzione dei toni della narrazione delle amministrazioni americane che si sono susseguite nel tempo rispetto agli obiettivi iniziali della guerra in Afghanistan da parte degli Usa, per i quali, dopo venti anni di conflitti, è sufficiente la sigla di un accordo con gli insorti talebani anche se gli attacchi a opera di questi sono ancora oggi tutt’altro che sedati. Il disimpegno completo delle forze armate statunitensi, quindi, è stato previsto dopo 14 mesi dalla stipula dell’accordo, mentre i militari della Nato e altri alleati determineranno un progressivo disimpegno in modo proporzionale. L’amministrazione Trump si è impegnata formalmente anche a rimuovere tutte le sanzioni che gravano sui Talebani e ha promesso la liberazione dei loro prigionieri. Da parte loro, i Talebani devono assicurare una notevole diminuzione degli atti di violenza e l’impegno a negoziare con il governo afgano, oltre che, come detto, a far sì che il gruppo terrorista non rappresenti una minaccia per gli Stati Uniti.

L’indagine dell’Aja sui crimini di guerra (di tutti)

Non è in ogni caso da sottovalutare quanto è avvenuto immediatamente dopo la stipula dell’accordo Usa-Talebani, ossia la decisione all’unanimità, da parte del Tribunale Internazionale dell’Aja del 5 marzo del 2020, con la quale si è autorizzato il procuratore generale Fatou Bensouda ad avviare un’indagine sui crimini di guerra commessi in Afghanistan da parte dei Talebani, degli Usa e delle forze del governo afgano. La richiesta di avviare un’indagine era già stata presentata alla Camera preliminare della Corte internazionale nel 2017 in esito alle denunce delle vittime dei familiari per i crimini puniti dal diritto internazionale compiuti nel conflitto, ma all’epoca era stata respinta sulla base della mancata collaborazione che le parti chiamate in causa avrebbero sicuramente posto in essere rispetto a una chiarificazione degli avvenimenti oggetto delle indagini. Inoltre l’altra motivazione addotta dalla Camera fu quella concernente l’elevato costo che un processo di questo tipo avrebbe comportato. Se lo scorso anno si è arrivati a ribaltare la sentenza è sia per il cambiamento dello scenario politico del conflitto afgano, sia perché vi sono nuove evidenze fattuali portate avanti dall’accusa che non possono essere ignorate e sulla base delle quali è soddisfatto sicuramente il fumus delicti. Ciò che va sottolineato è che oggetto delle indagini non saranno soltanto i crimini commessi nel territorio afgano ma anche quelli compiuti in altri paesi connessi con il conflitto afgano, come Lituania, Polonia e Romania e che, non solo, si procederà per i crimini per i quali è stata richiesta l’autorizzazione a procedere da parte del procuratore generale presso il Tribunale dell’Aja, ma anche per qualsiasi crimine di competenza della Corte che emergesse nel corso delle indagini, collegato a tale conflitto. Secondo Amnesty International si tratta di «una decisione storica con cui il massimo organo di giustizia internazionale, rimediando a un suo terribile errore, si è posto da parte delle vittime dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità commessi da tutte le parti coinvolte nel conflitto afgano».

Inoltre l’Ispettorato generale delle forze di difesa australiane in un rapporto pubblicato nel 2020, basato su un’inchiesta diretta dal giudice Paul Brereton durata 4 anni, ha ritenuto credibili le informazioni circa la responsabilità da parte delle forze speciali australiane di gravi violazioni dei diritti umani, in particolare dell’uccisione di 39 civili e di trattamenti disumani commessi tra il 2005 e il 2016 in Afghanistan, raccomandando un’indagine penale in merito. La Commissione indipendente dei diritti umani dell’Afghanistan ha quindi invitato gli Stati Uniti e il Regno Unito a seguire l’esempio australiano e a indagare in merito ad alcuni atti commessi dalle proprie forze speciali potenzialmente qualificabili come crimini di guerra.

Il 2020 inoltre viene ricordato anche per essere stato l’anno in cui si è registrato il più alto numero di vittime dall’inizio del conflitto nel 2001 e in cui sono iniziati dei nuovi negoziati, questa volta, tra il governo di Kabul e i Talebani sempre finalizzati, come quelli del 2019, tra Usa e Talebani, alla costituzione di un sistema di pace in Afghanistan.

I nuovi negoziati e la delegittimazione di Ghani

Tali nuovi negoziati, portati avanti a partire da settembre del 2020, sono stati – come detto precedentemente – conseguenza diretta delle condizioni poste alla base dell’accordo siglato nel febbraio 2020 tra Stati Uniti e Talebani. I rappresentanti delle due diverse fazioni nel paese sono dal lato della squadra nazionale della Repubblica islamica in Afghanistan (IRoaA team), Abdullah Abdullah, in quanto presidente dell’Alto Consiglio di Riconciliazione Nazionale (Hncnr) e, per la delegazione talebana, Mawlavi Abdul Hazim Ishaqzai, figura di alto rilievo religioso nel paese e vicino a Hibatullah Akhunzada.

Il governo bicefalo

Le cause dell’estromissione dell’esecutivo retto dall’attuale presidente Ghani in tali negoziati intrafgani vanno individuate in due fenomeni. Il primo è costituito dal fatto che i Talebani non hanno mai riconosciuto le vittorie elettorali ottenute da Ghani, sia nel 2014 che nel 2019, ritenendo che in entrambe le occasioni vi sia stata una manipolazione dei risultati elettorali; il secondo fenomeno invece è fondato sull’ampia contestazione subita, sempre in conseguenza dell’esito delle votazioni, da parte dei partiti di opposizione e così accesa d’aver costretto l’esecutivo neoeletto, nel 2014, ad affidare ad Abdullah Abdullah, il leader del principale partito di opposizione, il ruolo di amministratore delegato del governo presieduto da Ghani e, dopo le elezioni del 2019, a concedergli proprio la carica di capo del Consiglio di pace in Afghanistan. Infatti, il risultato delle elezioni di settembre del 2019 non è stato mai avallato da Abdullah Abdullah che aveva costituito un governo “ombra” speculare a quello di Ghani, tentando di impedirne l’insediamento, fino al maggio del 2020 quando, con l’intensificarsi degli attacchi dei Talebani, i due leader hanno concordato una ripartizione proporzionata degli incarichi all’interno del neoeletto esecutivo. Per questo motivo il governo di Kabul oggi viene definito bicefalo. Per aggirare questi ostacoli già nel 2019 all’inizio dei negoziati Usa-Talebani, per l’accordo siglato a febbraio del 2020, il capo negoziatore del governo afgano Stanikzai ha inventato lui stesso il termine “squadra nazionale inclusiva efficace”, identificata poi nel 2020 come team IRoA.

Parte del Team IRoA incontra il ministro degli Esteri americano Pompeo

Tuttavia l’attuale repubblica che siede accanto ai Talebani nei negoziati intrafgani, avviati a settembre del 2020, non esprime tanto un pluralismo democratico presente nel paese, quanto una frammentazione delle forze politiche afgane. La posizione dei Talebani, dopo i negoziati intrafgani, sembra spingere più verso un sistema di governo ibrido islamico che verso un nuovo Emirato. Per quanto riguarda invece l’influenza degli altri attori regionali, quali Pakistan, Russia Iran e Cina, anche se hanno svolto un ruolo importante per l’instaurarsi dei negoziati, la loro influenza nella formalizzazione di un accordo conseguente a questi non deve essere sopravvalutata: i vicini dell’Afghanistan infatti hanno poca capacità di plasmare il pensiero dei Talebani che sanno di potersi liberamente sganciare da eventuali concessioni o promesse di supporto a un governo repubblicano afgano, potendo rinunciare ai colloqui intrafgani e persistere con i propri atti di guerriglia.

Una difficile eredità

A novembre del 2020, inoltre, l’allora segretario americano alla difesa Christopher Miller ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero ritirato le proprie truppe dall’Afghanistan con un’ulteriore riduzione delle stesse dopo le 8000 ritirate lo scorso anno, fino ad arrivare a 2500 entro il mese di gennaio 2021. Questa decisione si è determinata in esito alla vittoria elettorale di Joe Biden, il 7 novembre del 2020, prima del suo insediamento il 20 gennaio del 2021. Biden infatti al momento sta gestendo la difficile eredità lasciata dal suo predecessore nel conflitto afgano dovendo fare i conti, da un lato con le condizioni poste dall’accordo Usa-Talebani del febbraio 2020, dall’altro con l’esacerbarsi degli attacchi armati per mano dei Talebani e del sedicente Stato Islamico in Afghanistan.

Trump, dal canto suo, non ha mancato di evidenziare più volte i risultati diplomatici ottenuti dalla sua amministrazione rispetto alla questione afgana, in particolare: il ritiro delle truppe americane, le garanzie sull’antiterrorismo e del cessate il fuoco, in una prospettiva futura, da parte dei Talebani nonché dell’inizio dei negoziati intrafgani con due incontri rispettivamente tenutisi a settembre del 2020, e all’inizio di gennaio del 2021. Tuttavia, il conflitto resta oggi tutt’altro che concluso.

Il ritiro condizionato delle truppe

Alla data del suo insediamento nel 2021, anno in cui ricorre il ventennale dall’inizio del conflitto in Afghanistan, Biden ha, in tale sede geopolitica, come primo elemento con cui confrontarsi, quello temporale dettato dall’accordo Usa-Talebani siglato a Doha, ossia quello del ritiro, entro il primo maggio del 2021 di tutte le truppe americane.

Al riguardo si sottolineano le dichiarazioni del neoeletto consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan che ha ritenuto, fin da subito, di chiarire l’intenzione della nuova amministrazione a rivedere l’accordo siglato con i Talebani a febbraio del 2020 per verificare se, effettivamente, i Talebani stiano ponendo del tutto fine ai loro legami con i gruppi terroristi e se questa verifica potrebbe comportare la proroga di ulteriori sei mesi della presenza delle truppe americane in Afghanistan, dilazionando la data del loro ritiro. Ciò, in ragione anche del fatto che il ritiro delle forze armate statunitensi deve essere interpretato, secondo l’attuale amministrazione americana, nel senso che questo avverrà solo se vi saranno evidenze fattuali circa l’effettivo adempimento, da parte dei Talebani, delle condizioni dettate nell’accordo con gli Usa.

Fonte: “la Repubblica”, 15 aprile 2021

La società civile: attore e osservatore permanente

In tale scenario il ruolo della società civile afgana si è evoluto nel tempo: all’inizio del XX secolo i rappresentati della società civile erano il clero e gli attori religiosi mentre a partire dalla metà del XX secolo, la rappresentanza della società civile è stata identificata nei professionisti, nei politici, negli artisti e più in generale in tutti i cittadini con alle spalle un sistema di istruzione superiore. Con l’invasione sovietica vi è una rilevante mutazione degli attori della società civile, sia durante il conflitto contro l’Urss, sia nel corso del governo del paese da parte dei mujaheddin sia in seguito, con gli stessi Talebani. La società civile, da questo momento in poi, sarà stata costituita prevalentemente dalle organizzazioni non governative nazionali e internazionali.

A partire dal 2001 la società civile afgana, invece, ha operato in un contesto maggiormente inclusivo grazie al riconoscimento del suo ruolo da parte delle istituzioni statali e ha lavorato nell’ambito dell’educazione civica ricoprendo posizioni di rilievo anche nei media e nelle organizzazioni di diverso tipo.

Infine, oggi, la società civile in Afghanistan è composta da ong, sindacati, organizzazioni sociali e culturali, organizzazioni comunitarie, organizzazioni femminili e di cittadini che promuovono l’organizzazione religiosa, i diritti delle donne, la libertà di parola e più in generale i diritti umani. In quest’ottica è facile comprendere come essa costituisca un attore rilevante per il raggiungimento di un’effettiva condizione di pace nel paese, quantomeno come osservatore permanente.

L’escalation di attacchi terroristici

Nel mese di marzo 2021 infatti – nonostante l’accordo di pace firmato il 29 febbraio del 2020 tra Stati Uniti e Talebani e le due tornate negoziali intra- afgane – si è registrata un’escalation degli attacchi terroristici nel paese. Intanto si avvicina sempre maggiormente il termine del Primo Maggio per il ritiro delle truppe americane. Gli attacchi di cui sopra hanno interessato soprattutto le donne. A essere rimaste uccise, infatti, agli inizi di marzo, sono state una giovane dottoressa afgana che si stava recando al lavoro nella città di Jalalabad, a causa di un ordigno esplosivo posizionato sotto la sua automobile e di tre giornaliste dipendenti della stessa emittente locale, in esito a tre diversi attentati, mentre, tre mesi prima, era già stata uccisa la presentatrice della stessa emittente. Il 30 marzo 2021 Amnesty International inoltre ha riportato l’assassinio di tre operatrici sanitarie, impegnate nella campagna di vaccinazione contro la poliomielite, sempre nella città di Jalalabad, definendo tale atto «codardo, contro tre donne impegnate a proteggere la salute di 10 milioni di bambine e bambini al di sotto dei cinque anni di età, all’inizio della campagna di vaccinazione».

Negli ultimi mesi gli omicidi sono stati rivolti specificatamente a un tipo di appartenenti alla società civile: giornalisti, giovani istruiti, attiviste per i diritti umani. Tali uccisioni sono finalizzate a distruggere la speranza di quanti si impegnano quotidianamente per un futuro diverso dell’Afghanistan e sono stati rivendicati dal gruppo terrorista dello Stato Islamico in Afghanistan con l’intento di affermare la propria presenza sul territorio al pari di al-Qaeda e dei Talebani.

Per questo motivo, in esito agli omicidi di marzo, Fatima Gailani, una delle negoziatrici a Doha per l’accordo Usa-Afghanistan, ha chiesto che i Talebani, distaccandosene, condannino pubblicamente gli attacchi rivendicati dall’IS-K e che si impegnino maggiormente a favore dei cittadini afgani, con una buona istruzione, affinché rivestano ruoli di rilievo nella società civile.

Regioni strategiche: il Nangarhar…

Come visto, i recenti attentati si sono accentuati proprio nella regione del Nangarhar di cui la capitale è la città di Jalalabad, e l’autore è sempre l’IS-K che, come detto, è stato ufficialmente dichiarato sconfitto nel 2019 dagli Usa, ma che in realtà non è stato mai debellato dal territorio afgano e, negli ultimi mesi, sta sferrando sanguinari attacchi prevalentemente sulla popolazione civile come quelli avvenuti dall’11 al 17 marzo e tra il 20 e il 21 marzo del 2021. Secondo il governo di Kabul, pur essendo la maggior parte degli attacchi rivendicati dal sedicente Stato Islamico, essi vengono realizzati con l’appoggio dei Talebani che forniscono militanti e agevolano le attività del gruppo terrorista, Talebani che, a loro volta, sarebbero sostenuti da alcuni militanti pakistani.

La regione del Nangarhar è particolarmente coinvolta dagli attacchi terroristi per diverse ragioni. In primo luogo, la città di Jalalabad ha una posizione strategica, essendo il primo centro urbano prima del confine a Nordest dell’Afghanistan con il Pakistan, nel quale, fin dagli anni Ottanta, si è stanziato, dopo l’occupazione sovietica, il gruppo dei Talebani. In secondo luogo, la regione ha una rilevante importanza poiché la zona risulta essere un punto di snodo cruciale per i due paesi in ragione del passaggio di merci e delle risorse del territorio prettamente rurale. A tali caratteristiche, tipiche dell’area, si aggiunge poi l’attuale presenza massiccia di esponenti del sedicente Stato Islamico, per cui in tali territori si sono accesi negli ultimi anni gli scontri più cruenti tra Stato Islamico e Talebani con conseguenze disastrose sotto il profilo economico, ambientale e rispetto alla condizione della popolazione civile locale, considerando le migliaia di sfollati interni dirette in altre aree del paese e di rifugiati nei paesi limitrofi, provenienti da quest’area.

una difficile eredità

Siyad Darah (foto JonoPhotography)

… e linee tracciate sulla carta

Infine, si aggiunge il problema della certa determinazione del confine territoriale tra tale parte Nordest dell’Afghanistan e il Pakistan, in quanto l’attuale delimitazione viene contestata e non è stata mai riconosciuta dall’Afghanistan poiché imposta sotto il dominio inglese senza tener conto che in prossimità dei due lati del confine risiedevano e risiedono da sempre molti individui di etnia pashtun. Da ciò si comprende anche la molteplicità di aspetti culturali, etnici, religiosi condivisi tra i due paesi e che, nel corso degli anni e ancora oggi, i Talebani hanno saputo sfruttare per il perseguimento dei propri obiettivi. I Talebani, tuttavia, sono responsabili attualmente di un diverso tipo di attentati rivolti, non tanto verso la popolazione civile come nel caso del sedicente Stato Islamico, quanto piuttosto verso le istituzioni dell’esecutivo afgano: come i convogli militari e di polizia gli stessi edifici istituzionali, facendo emergere così il preoccupante cambiamento in ambito securitario seguito al parziale ritiro delle truppe statunitensi nel 2019.

 

18 marzo: la conferenza di pace di Mosca

Infatti, come dimostrano gli accadimenti di metà marzo il rapporto Talebani-Usa, in virtù dell’accordo, non può certo considerarsi disteso: il 17 marzo 2021 i militari statunitensi hanno dichiarato di aver compiuto un attacco aereo contro i Talebani a sostegno del governo afgano che ha provocato la morte di 48 persone nella provincia di Kandahar. Tuttavia, se da un lato gli Stati Uniti hanno affermato che è stato eseguito in piena conformità con l’accordo di Doha, i Talebani hanno invece ritenuto che l’attacco aereo sia da considerarsi una violazione esplicita dell’accordo di pace di febbraio dello scorso anno.  In tale contesto, il 18 marzo, si è tenuta una conferenza internazionale sulla pace in Afghanistan a Mosca coerente con l’intento americano di includere anche gli altri stati che esercitano una sfera d’influenza sull’Afghanistan. Infatti, la conferenza è stata l’occasione per la sottoscrizione di una dichiarazione congiunta della Russia, della Cina, degli Stati Uniti e dal Pakistan in merito al conflitto afgano, mediante la quale hanno deciso che non offriranno sostegno alla creazione di un nuovo Emirato islamico in Afghanistan ma che sosterranno un’azione diplomatica per la risoluzione del conflitto. La dichiarazione è suddivisa in dieci sezioni nelle quali si afferma: l’esistenza di una ferma volontà del popolo afgano rispetto a una condizione di pace duratura nel paese da conquistare solo mediante un’azione diplomatica; la richiesta della riduzione degli atti di violenza del paese e più specificamente la richiesta ai Talebani di non portare avanti ulteriori offensive in primavera; l’impossibilità per i paesi partecipanti alla conferenza di sostenere il ripristino di un Emirato islamico; la necessità del proseguimento dei negoziati intrafgani con una specifica tabella di marcia rispetto agli obiettivi che le parti si propongono; l’imprescindibilità di creare un governo afgano indipendente, sovrano, unificato e democratico; la garanzia dell’assenza di qualsiasi legame con gruppi terroristi; il presupposto fondamentale  della  protezione di tutti i cittadini afgani; l’importanza di un dialogo internazionale dell’Afghanistan in grado di fronteggiare la crisi del paese; l’apprezzamento per il sostegno offerto da Qatar a ospitare i colloqui di pace e, infine, la nomina del segretario generale delle Nazioni Unite Jean Arnault  come inviato nel paese.

La possibile proroga del ritiro delle truppe Usa

Inoltre il 22 marzo del 2021, il segretario alla difesa Lloyd Austyn si è recato in Afghanistan: Il capo del Pentagono infatti ha ritenuto necessario incontrare personalmente l’attuale presidente Ashraf Ghani per discutere dell’escalation degli attentati nel paese e, il 22 marzo, il portavoce dei Talebani ha confermato alla stampa che si sta mettendo in atto un piano di sostanziale di riduzione della violenza nel paese entro 90 giorni, tuttavia ancora non qualificabile come un vero e proprio “cessate il fuoco”. Inoltre, il presidente della Commissione delle Forze Armate Statunitensi Adam Smith, il 25 marzo, ha rivelato l’intenzione dell’amministrazione Biden di negoziare una proroga della scadenza per il ritiro delle truppe statunitensi – condivisa dalla Nato che è pronta ad aspettare con gli Usa il ritiro delle proprie forze – e che, tuttavia, i militanti talebani stanno combattendo contro l’IS-K, quanto contro il governo afgano. Al riguardo si sottolinea che il parlamento tedesco, il 25 marzo 2021, ha già però avallato il rinnovo della partecipazione delle truppe tedesche Nato nel conflitto afgano fino alla fine del 2022. Infine, il 31 marzo, secondo il quotidiano “Tolo News” gli stati Uniti sarebbero sul punto di decidere per una proroga dai 3 ai 6 mesi per il ritiro delle truppe, mentre i Talebani hanno richiesto la liberazione di 7000 loro detenuti nelle prigioni afgane.

Intanto le violenze nel paese si stanno esacerbando sempre di più. La sensazione che si ha, quindi, è che sia nel caso in cui Joe Biden rispettasse la condizione del ritiro delle truppe dal Primo Maggio entro l’11 settembre, conseguenza dell’accordo formalizzato dalla precedente amministrazione degli Stati Uniti con i Talebani, sia nel caso in cui il presidente neoeletto decidesse di non rispettarla, prorogando i termini di alcuni mesi, potrebbero comunque verificarsi nuovi scontri e attacchi armati: nel primo caso perché i Talebani e il sedicente Stato Islamico potrebbero, in questo modo, continuare a contrastare il consolidamento dell’esecutivo afgano, avendo maggiore campo libero e approfittando del totale disimpegno delle truppe americane, mentre nel secondo caso avrebbero l’alibi del mancato rispetto del termine per giustificare il perdurare delle loro attività sanguinarie di guerriglia.

Quello che si evince in tale scenario politico e che condiziona anche le dinamiche strategiche e tattiche degli altri paesi interessati alla stabilizzazione dell’area è il principio secondo il quale, per risolvere situazioni complesse come quella afgana, l’intervento militare è una soluzione meramente transitoria nel processo di pace che coinvolge il paese. Questo infatti dovrebbe essere accompagnato da politiche basate principalmente sul miglioramento del sistema scolastico-educativo per la popolazione civile e sulla messa in atto di strumenti di state building rispetto alle forze politiche locali: solo in questo modo si potrebbe raggiungere effettivamente il tanto auspicato cambiamento.

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La montagna di Doha e il topolino del dialogo intra-afgano https://ogzero.org/la-montagna-di-doha-e-il-topolino-del-dialogo-intra-afgano/ Wed, 07 Oct 2020 09:38:26 +0000 http://ogzero.org/?p=1432 A quasi un mese dallo storico incontro di settembre tra Talebani e governo di Kabul l’unico passo avanti lo fa la guerra. Mentre il presidente afgano Ashraf Ghani reiterava il 21 settembre dal podio virtuale delle Nazioni Unite la sua richiesta di un cessate il fuoco nel paese, le statistiche del Ministero dell’Interno di Kabul […]

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A quasi un mese dallo storico incontro di settembre tra Talebani e governo di Kabul l’unico passo avanti lo fa la guerra.

Mentre il presidente afgano Ashraf Ghani reiterava il 21 settembre dal podio virtuale delle Nazioni Unite la sua richiesta di un cessate il fuoco nel paese, le statistiche del Ministero dell’Interno di Kabul stimavano a un centinaio le sole vittime civili in 24 province nelle ultime due settimane seguite allo storico incontro del 12 settembre a Doha. In quella data, formalmente per la prima volta, il governo di Kabul e i Talebani si sono incontrati dando vita al tanto sospirato dialogo intra-afgano. Ma da allora le bocce sono rimaste ferme, segnate da combattimenti e incidenti il cui bilancio è di decine di morti anche tra le forze di sicurezza afgane e la guerriglia. Le due delegazioni, rappresentate da altrettanti “gruppi di contatto”, hanno da allora cercato faticosamente di stabilire l’agenda di discussione che dovrebbe impegnare l’Alto Consiglio di pace – che ha da Kabul il mandato a trattare – e gli inviati della shura di Quetta, che dovrebbero rappresentare la variegata e disomogenea galassia talebana. Ma all’inizio di ottobre le tante riunioni preliminari hanno prodotto scarsi risultati mentre il calendario continua invece a segnalare raid aerei, incursioni nei villaggi, uccisioni mirate, accuse reciproche un po’ ovunque nel paese. Se il primo obiettivo doveva essere una tregua o almeno una diminuzione delle ostilità, il risultato è ancora uguale a zero.

All’interno: una pace scomoda

I punti in discussione dell’agenda negoziale dovrebbero essere una ventina ma il primo scoglio (a parte il sospirato cessate il fuoco) sembra sia il dovuto riconoscimento dell’accordo tra Talebani e americani, siglato sempre a Doha in febbraio. Per i Talebani è la premessa, per Kabul invece un riferimento da evitare poiché assegna al governo afgano un ruolo da comprimario e non certo da protagonista. Un protagonismo che i Talebani vogliono tenere per sé. Vogliono e debbono, poiché al loro interno l’ala radicale (non si sa per ora quanto forte) incalza il gruppo dirigente che rischia, con la pace, di lasciare disoccupati decine di capibastone e di militanti cui premono più le singole rendite di posizione che non il futuro equilibrio pacifico del paese. Cosa altrettanto vera tra i sostenitori del governo che si stanno comunque armando, semmai le cose dovessero precipitare.

Dall’estero: denaro e forze militari

C’è dunque una dinamica interna (intra-afgana appunto) che si interseca con una dinamica esterna che riguarda attori primari e secondari del conflitto le cui sedi si trovano fuori dal paese. In primis gli Stati Uniti con le incombenti elezioni presidenziali. Poi tutti gli altri, alleati di questo (il governo) o di quella (la guerriglia) e a volte di entrambi. Cominciamo da Ashraf Ghani e dal suo litigioso esecutivo: molto dipenderà, a novembre, oltreché dall’esito delle elezioni americane, dall’esito della Conferenza dei donatori di Ginevra dalla quale si capirà quante risorse Europa e Stati Uniti intendono ancora impegnare nel paese. Il flusso di cassa, sia per l’economia nazionale sia per le forze di sicurezza (circa 300.000 uomini tra esercito e polizia), diventa essenziale per Ghani poiché può garantire al governo di Kabul un elemento di forza da opporre alla temerarietà dei Talebani che pure si trovano nelle stesse difficili acque. Anche la guerriglia corre infatti il rischio di una “donor fatigue” dei suoi sostenitori abituali, dal Pakistan all’Arabia saudita al Golfo, senza contare le donazioni private o il sostegno di Iran, Russia e Cina che possono aprire o chiudere i rubinetti a seconda delle convenienze. Con pochi denari anche la guerriglia potrebbe trasformarsi in una presenza militare più debole nelle campagne afgane, caposaldo militare degli studenti coranici. Nonché in un indebolimento della leadership del loro capo “ufficiale”, quel Mawlawi Hibatullah Akhundzada, criticato da quanti si sentono traditi dal negoziato o che vedono nella pace una diminuzione dei propri poteri di controllo territoriale su diverse aree del paese. È su queste basi (i soldi e la forza militare) che si giocherà probabilmente la vera partita tra Talebani e Kabul: più ancora che sulla futura forma di governo, sui diritti civili e di genere, sull’istruzione, sul voto, sul ruolo dell’islam. Temi gravati dall’incognita Covid-19 che ufficialmente – ma le riserve sul dato sono molte – conta pochi casi (39.422 al 6 ottobre) e poche vittime (1466) ma che resta una variabile con cui tocca fare i conti.

Il ritiro delle truppe condizionato

Su tutto ciò regna incontrastata la guerra anche se, questa volta, ai combattimenti partecipano solo afgani e il conflitto sembra essere tornato nell’alveo di una guerra civile, senza più l’aiuto di forze esterne – almeno ufficialmente – anche se le forze esterne (Usa, Nato) restano nel paese se non altro per “osservare”. Senza utilizzare le armi ma anche senza smettere di addestrare l’esercito afgano e continuando a pagare gli stipendi, un elemento fondamentale per tenerlo insieme. Al momento dunque nessuno abbandona gli afgani al loro destino e se, sulla base dell’accordo Usa-Talebani firmato il 29 febbraio 2019 a Doha, gli Stati Uniti hanno deciso di lasciare l’Afghanistan entro 18 mesi e hanno iniziato a far tornare a casa parte della truppa, il segretario di stato Mike Pompeo ha messo le mani avanti. Ha sottolineato che Washington cercherà di ritirare i soldati entro la primavera del 2021 ma anche che il ritiro è condizionato dalla completa cessazione delle ostilità dei gruppi terroristici come al-Qaeda e Stato Islamico nel Khorasan (Isis), per ora ancora attivi in Afghanistan. Una carta di riserva, insomma.

La Nato rimane sul terreno

Quanto alla Nato, per ora si resta con quasi 16.000 uomini (8000 statunitensi, 1300 dalla Germania, 950 dalla Gran Bretagna, 895 dall’Italia, 860 dalla Georgia, 600 dalla Turchia e così a scalare tra i 38 membri Nato della missione Resolute Support. Missione no-combat anche se in questi anni l’Alleanza ha operato anche militarmente, pur senza fanfare, al fianco dell’esercito afgano. Ora dovrebbe limitarsi ai consigli in attesa che gli americani decidano quel che succede o deve succedere. Le incognite restano tante in attesa che si sblocchi (ovvero inizi) il negoziato tra le due delegazioni. Mentre il paese continua a pagare il suo tributo al conflitto più lungo della Storia recente a cavallo di due secoli.

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