jihad Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/jihad/ geopolitica etc Sat, 12 Nov 2022 08:48:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi https://ogzero.org/guerre-di-religione-continuazione-del-colonialismo-con-altri-mezzi/ Sat, 12 Nov 2022 08:48:30 +0000 https://ogzero.org/?p=9436 Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che […]

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Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che si fonde e intreccia con le altre che muovono masse di disperati, distruggono il clima, depredano territori, spacciano armi, innescano conflitti per controllare risorse. Si può interpretare questo uso della divisione religiosa come un nodo delle diverse emergenze del Finanzkapitalismus nella sua fase iperliberista, un nodo a cui arrivare dagli altri orrori geopolitici, o da cui partire per inserirlo nella rete che mette insieme l’uso politico-aggressivo della religione, il pastone mediatico, la scorciatoia militarista, l’espansionismo imperialista… ma partiamo dallo storico conflitto irlandese tra cattolici separatisti e unionisti protestanti e poi ci espandiamo nelle più complesse – ma riconducibili agli stessi modelli di potere – contrapposizioni mediorientali.


Solo un’ipotesi, la mia. Da “proletario autoalfabetizzato” senza pretese accademiche. A naso diciamo.
Se in passato le “guerre di religione” potevano, forse, esprimere (“fotografare”) in qualche modo i conflitti etnici e/o sociali del tempo (vedi alcune “eresie” e certe “riforme” diretta conseguenza dei conflitti di classe), direi che in seguito, perlomeno dal secolo scorso, il più delle volte sono state la copertura, la “vetrina” di interessate strumentalizzazioni.

Partiamo dall’Irlanda…

A titolo di esempio, il conflitto irlandese, soprattutto dopo la divisione dell’Isola di smeraldo. Se già nel Settecento cattolici e protestanti (discendenti i primi dagli indigeni irlandesi colonizzati, gli altri dai coloni scozzesi presbiteriani) avevano fatto fronte comune per l’indipendenza dell’Irlanda, anche in seguito (vedi gli scioperi di lavoratori salariati cattolici e protestanti a Belfast) non mancarono lotte comuni. A porvi fine intervennero le ricche borghesie filobritanniche (si veda La Casa d’Orange) elargendo piccoli privilegi e organizzando milizie settarie “lealiste” (v. Uvf). Non potendo utilizzare – che so – un diverso colore della pelle o diversità etniche rilevanti (in quanto entrambe le comunità erano di origine celtica, diversamente dagli inglesi anglosassoni – di origine germanica – e anglicani) si accontentarono di ampliare il modesto solco di natura religiosa.


Poi è andata come sappiamo. Esperimento sostanzialmente riuscito, un modello per future strumentalizzazioni a “geometria variabile”.

… e giungiamo tra le comunità beluci, curde e hazara

Quindi ritengo che anche le sanguinose faide mediorientali tra sunniti e sciiti (con ricadute particolarmente gravi per le minoranze qui presenti: yazidi, alaviti, assiro-cristiani, zoroastriani…) siano state perlomeno “pompate”, gonfiate, esasperate ad arte.
Quanto è avvenuto nelle aree curde, occupate militarmente dalla Turchia, di Afrin e di Sere Kaniyê (Nord della Siria) appare emblematico. Non essendo in grado di controllare adeguatamente le proprie milizie mercenarie (vedi l’Esercito Nazionale Siriano, Sna), Ankara si starebbe affidando direttamente al gruppo terrorista Hayat Tahrir al-Sham (Hts, successore di al-Nusra), con tutta probabilità l’emanazione locale di al-Qaeda.

Il ruolo della Turchia

Anche perché tra le fila di alcune formazioni sul libro paga di Ankara ultimamente serpeggiava, oltre al malcontento, anche una certa preoccupazione.

Le voci su un possibile riavvicinamento tra Ankara e Damasco (patrocinato da Mosca) lasciava intravedere la possibilità di venir scaricati, se non addirittura consegnati, per diversi membri delle milizie mercenarie. In quanto ricercati da Damasco potrebbero venire estradati e questo suggerisce una possibile spiegazione su alcuni episodi di insubordinazione. Come per gli scontri a mano armata intercorsi tra membri di Jabhat al-Shamiya e di Jaish al-Islam.
Tali dispute ricorrenti (oltre al rischio concreto di insubordinazione e defezione) tra le diverse fazioni di Sna (forse non adeguatamente attrezzate, oltre che sul piano politico, anche in quello religioso?) avrebbero suggerito a Erdoğan di far leva sul maggiore entusiasmo, fervore religioso (eufemismo per fanatismo) di Hts. Un fanatismo indispensabile per annichilire le minoranze “eretiche” e non omologate (tutti apostati, dissidenti, “pagani”… addirittura comunisti o anarchici talvolta) del nord della Siria. Nella prospettiva di ulteriori invasioni.
Già all’epoca delle prime manifestazioni contro il regime siriano si assisteva a una proliferazione di gruppi armati, in genere appoggiati, oltre che dalla Turchia, da alcuni stati del Golfo come il Qatar.

Negli Usa è ancora in corso il processo contro “Qatar Charity” e contro Qatar Bank per aver finanziato con 800.000 dollari il leader dell’Esercito Islamico Fadhel al-Salim.

Pulizie etnico-religiose nella Mezzaluna sciita

Per inciso, è probabile che questo stia oggi avvenendo in Iran, nel tentativo di strumentalizzare, “dirottare” altrove, le legittime proteste popolari. Con un occhio di riguardo per i beluci, già manovrati in passato anche da qualche potenza imperialista di Oltreoceano. Come da manuale, ça va sans dire, anche i beluci ci mettono “del loro”: per esempio in Pakistan alcuni gruppi indipendentisti beluci sono ritenuti responsabili di vere e proprie stragi ai danni degli hazara, un’altra minoranza, ma di fede sciita.
Va anche detto che da parte sua la Repubblica islamica sembra far di tutto per fornire pretesti in tal senso. In una recente manifestazione (4 novembre 2022) a Khach, provincia di Zahedan, le forze di sicurezza hanno ucciso una ventina di civili beluci (16 le vittime identificate, tra cui alcuni bambini) ferendone oltre sessanta. Da segnalare – stando a quanto dichiarato da alcuni attivisti – che altri feriti erano poi deceduti non essendo stati traspostati all’ospedale dove rischiavano seriamente di essere arrestati.


Un’altra strage di 90 civili beluci era già avvenuta, sempre nella provincia di Zahedana, il 30 settembre.

Appare evidente che – analogamente a quella curda – anche la popolazione minorizzata dei beluci (“minorizzata” e non minoritaria, in quanto divisa da frontiere statali) in Sistan e Baluchistan subisce quotidiane discriminazioni ed è sottoposta a una dura repressione (come del resto altre comunità delle aree periferiche del paese) da parte di Teheran.
Sia per la loro appartenenza etnica, sia per ragioni religiose in quanto sunniti.
Il comandante di al-Nusra, Al-Hana (Abu Mansour al-Maghrebi) arrestato nel 2020 in Iraq aveva rivelato che lo sceicco Khalid Sueliman (della potente famiglia al-Thani), a capo del Jabhat al-Nusra (e pare anche delle organizzazioni derivate), veniva finanziato con qualcosa come un milione di dollari al mese. Turchia e Qatar sosterrebbero, sia finanziariamente, sia con la fornitura di armamenti, i vari gruppi combattenti emanazione dei Fratelli musulmani salafiti in quanto utile strumento per la loro politica estera. Anche in chiave panislamica.

Guerra turca ai curdi in Siria

Alcune organizzazioni hanno stabilito un’analogia, per vastità e inasprimento, tra l’attuale repressione in Iran e i massacri subiti dai beluci a Deraa (in Siria) nel 2011, denunciati dall’Onu come crimini di guerra.
Storicamente accertato che potenze regionali ostili a Damasco avevano favorito la militarizzazione (vedi appunto la formazione di Sna) e l’escalation del conflitto.
Oltre che a Sna, la Turchia non avrebbe lesinato nel fornire sostegno al fronte al-Nusra (dal 2012 nella lista del terrorismo internazionale in quanto ritenuto emanazione di al-Qaeda) e addirittura a Daesh. Formazioni entrambe notoriamente jihadiste.

Quanto al fronte al-Nusra, va ricordato che nell’ottobre 2012 attaccava i distretti autonomi di Şêxmeqsûd e Eşrefiye (regione di Aleppo) uccidendo decine di curdi. Subito dopo gli ascari jihadisti si scagliavano contro Afrin, incontrando però la ferrea resistenza delle Ypg/Ypj. Nel voler annichilire in primis le zone curde del Rojava (dove si sperimentava la rivoluzione del Confederalismo democratico) il Jabhat al -Nusra si smascherava da solo, mostrando apertamente di agire su indicazione della Turchia.

Sempre nel 2012, in novembre, veniva attaccata, partendo direttamente dalla Turchia, anche Serêkaniyê. Un’operazione congiunta tra al-Nusra e alcune milizie curde collaborazioniste legate al Pdk. Entrando in alcuni dei quartieri a maggioranza araba di Serêkaniyê, queste milizie si spacciavano per ribelli antiAssad cercando di stabilire alleanze. Solo successivamente (il 19 novembre) partiva il brutale attacco contro i quartieri a maggioranza curda. Veniva assassinato il sindaco della città e la chiesa diventava un bivacco per il loro quartiere generale.

Nel frattempo la loro già consistente presenza veniva rinforzata dall’apporto della cosiddetta Coalizione nazionale (Etilaf), che – secondo i curdi – sarebbe al Etilaf di Sna o comunque della sua derivazione, il “governo di transizione siriano”. Oltre al seggio di Istanbul, Etilaf ne controlla uno anche a Berlino (oltretutto finanziato dal governo tedesco).
Avrebbe anche una certa influenza in alcuni progetti (ugualmente finanziati dal governo tedesco) che sembrano funzionare come “specchietti per allodole”, allo scopo di creare cortine fumogene sulla realtà della situazione curda. Tra questi, il Centro europeo di studi curdi (Ezks) e il sito Kurdwatch, divulgatore di notizie farlocche intese a giustificare le operazioni militari di Erdoğan nel Nord della Siria e nel Nord dell’Iraq. Ma nonostante questo ulteriore apporto di milizie, successivamente venivano scacciati dalla popolazione insorta dei quartieri curdi, grazie anche all’intervento dei combattenti di Ypg e Ypj.

Gli scontri ripresero, durissimi, nel gennaio 2013. Praticamente una vera e propria ammucchiata di gruppi mercenari guidata da al-Nusra quella che contese per circa due settimane il controllo dei quartieri alle milizie curde. Sconfitte nuovamente, le truppe jihadiste si misero in salvo direttamente oltre il confine turco (immediatamente blindato dai soldati turchi per maggior sicurezza), ma lasciando in mano ai curdi un’ampia documentazione della loro intensa collaborazione con Ankara.
Purtroppo durante la ritirata sia al-Nusra che Daesh non mancarono di vendicarsi sulla popolazione curda con una vile rappresaglia.

Come a Til Eran (luglio 2013) e a Tal Hasil. Dichiarando pubblicamente, attraverso le moschee, che sia il bagno di sangue nei confronti della popolazione curda (circa un’ottantina le vittime accertate) che il sequestro-rapimento delle donne curde (prelevate a centinaia) era giustificato dal punto di vista religioso. Rastrellando poi casa per casa le due località sopracitate alla ricerca di “Apoisti”, ossia di seguaci di Apo Öcalan. Oltre a quelli crudelmente assassinati (alcuni bruciati vivi, con le immagini poi diffuse nei social), vanno considerati anche i desaparecidos (qualche decina) e i cadaveri (una ventina) di cui non è stata possibile l’identificazione.

Til Hasil

Da sottolineare che – per quanto entrambe aspirassero alla supremazia – Al-Nusra e Daesh (o Stato Islamico che dir si voglia) non smisero mai di collaborare proficuamente. Sia garantendo una certa “osmosi” di combattenti –praticamente intercambiabili – da una formazione all’altra (in base alle necessità del momento), sia dandosi il cambio, alternandosi nel controllo delle aree occupate. E soprattutto instaurando congiuntamente durante l’occupazione delle città, dei villaggi e dei quartieri curdi un aspro regime di ispirazione salafita. Anche a livello di tribunali islamici dove operavano in coppia.

Sempre sotto la supervisione di Ankara ovviamente. L’assalto al carcere di Sina à Hesekê (gennaio 2022) era stato pianificato dai territori occupati dalla Turchia.

Come già detto negli ultimi tempi al-Nusra aveva cercato di “riciclarsi” prendendo (almeno ufficialmente) le distanze da al-Qaeda e cambiando pelle e nome. Diventando prima, nel 2016, Liwa Fatah al-Sham e successivamente, nel 2017, appunto Hayat Tahrir al-Sham (Hts, in realtà una finta coalizione di vari gruppi, sostanzialmente sotto il controllo della vecchia al-Nusra, comunque denominata). Attualmente la casa madre sarebbe localizzata in quel di Idlib, in felice coabitazione con l’alleato turco. Allo scopo dichiarato di soffocare il risorgere e la diffusione del Confederalismo democratico in questa parte del Rojava. Esperienza pericolosa perché esemplare e contagiosa, soprattutto così in prossimità del confine turco.

Dal maggio di quest’anno (a seguito dell’incontro di Idlib-Sarmada con esponenti del regime turco) le milizie di Hts hanno ripreso a riposizionarsi e raggrupparsi su Idlib puntando quindi su Afrin. Inoltre si sarebbero acquartierati anche nelle zone di Girê Spî, Azaz, al-Bab, Cerablus e intorno alla città di Minbić (ancora gestita dall’amministrazione autonoma).
Sempre in vista di ulteriori attacchi in Rojava.

Per concludere, pur essendo presto rientrato nella lista nera dei gruppi terroristi, Hts continua a godere dei finanziamenti di Turchia, Qatar, Arabia Saudita…
Pare anche di qualche non meglio identificato “paese occidentale”…

Vai a sapere.

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Le divergenze parallele nei piani sino/russi per l’Africa https://ogzero.org/le-divergenze-parallele-nei-piani-sino-russi-per-lafrica/ Fri, 18 Feb 2022 09:21:43 +0000 https://ogzero.org/?p=6384 I rapporti tra le potenze globali s’improntano alla “differenziazione” a seconda degli svariati livelli di confronto e a seconda della complementarietà dell’offerta e della richiesta della zona interessata alle manovre sociali, economiche, politiche, culturali… Il continente africano è sempre più complesso e gli attori in commedia sono sempre di più; e le comunità non sono […]

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I rapporti tra le potenze globali s’improntano alla “differenziazione” a seconda degli svariati livelli di confronto e a seconda della complementarietà dell’offerta e della richiesta della zona interessata alle manovre sociali, economiche, politiche, culturali… Il continente africano è sempre più complesso e gli attori in commedia sono sempre di più; e le comunità non sono rappresentabili con la logora narrativa neocoloniale. Gli osservatori più attenti ritengono che in Africa l’intento cinese è quello di cementare il proprio ruolo di partner a lungo termine e di principale protagonista del suo sviluppo. Per esempio a Lusaka si sta completando una delle 4000 infrastrutture costruite dalla Cina dal 2020: un centro per conferenze in tempo per ospitare il summit dei capi di stato africani. Come riferito da Andrea Spinelli Barrile la Cina ha investito più del doppio in infrastrutture africane (23 miliardi di dollari) rispetto al resto del mondo; e anche i prestiti cinesi sono un quinto di tutti quelli erogati al mondo.

Mentre altrove gli interessi sino-russi possono stridere, in Africa, come nell’area eurasiatica la cooperazione in funzione antioccidentale può raggiungere buoni risultati, offrendo servizi diversi: la Russia si propone come fornitrice di armi, mercenari e addestratori e il Sahel appare come l’area più sensibile da accogliere quel tipo di sicurezza che 9 anni di Barkhane e Takuba non hanno saputo o voluto risolvere: infatti la popolazione di Mali e Burkina hanno cominciato a pensare che gli europei avessero interesse a non debellare definitivamente le milizie jihadiste, pur di avere un pretesto per occupare militarmente la zona. Altro impegno russo è quello applicato all’estrattivismo delle molte risorse africane.

Mentre “Deutsche Welle” dà conto di un summit tra Unione europea e Unione africana per proporre il Global Gateway Project su investimenti (300 miliardi in 7 anni), salute, sicurezza e migrazione in alternativa alla Belt and Road cinese nel momento in cui la Russia diventa riferimento principale della sicurezza per gli stati del Sahel, approfittiamo di un saggio scritto da Alessandra Colarizi per l’e-book numero 10 di China Files su questi argomenti per aggiungere suggestioni a integrazione dell’articolo di Angelo Ferrari, scritto a caldo a commento dell’annuncio parigino con il G5 del Sahel del ritiro delle missioni militari.


Semplici amici, avversari, alleati? Come altrove, anche in Africa, le relazioni tra Cina e Russia sfuggono all’imposizione di categorie precostituite. Rivali al tempo della Guerra Fredda, durante la crisi sino-sovietica i due giganti sostennero partiti e movimenti di liberazione nazionale, aiutando le fazioni alleate nelle guerre civili in Zimbabwe, Angola e Mozambico. Poi nel corso dei decenni Pechino e Mosca si sono spartite ruoli e competenze, seguendo un copione già utilizzato in Asia centrale.

Belt and Road cinese: finanziatori

La Cina, fedele al principio cardine della non ingerenza, si è perlopiù dedicata agli affari economici: primo partner commerciale del continente dal 2009, è da oltre dieci anni il principale investitore nella regione subsahariana. Una tendenza rafforzata dal lancio della Belt and Road, la strategia di politica estera con cui Pechino sostiene la penetrazione internazionale delle aziende statali cinesi attraverso la costruzione di grandi vie di comunicazione marittime e terrestri in Eurasia, e presto estesa all’Africa.

Armi e mercenari russi: risolutori

Mosca, invece, dopo la dissoluzione dell’Urss ha riacquistato il terreno perso grazie alla sua industria bellica: ha continuato a supportare le capitali africane con la vendita di armamenti e altre forme di assistenza militare; complice la minaccia del terrorismo islamico. Nel 2018, cinque paesi dell’Africa subsahariana – Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania – hanno fatto esplicitamente appello a Mosca per ottenere sostegno nella guerra contro Isis e al-Qaeda. In Libia, l’appoggio fornito dai mercenari russi al generale Khalifa Haftar (affiancato militarmente nell’assedio di Tripoli), anziché al governo riconosciuto dalla comunità internazionale – come spiega il Csis –, ha permesso di rafforzare “la posizione geostrategica e l’influenza diplomatica russa” nel Nordafrica, rendendo Mosca un interlocutore imprescindibile in qualsiasi tentativo di soluzione al conflitto.

Spartizione delle risorse africane

Negli ultimi tempi però, pur partendo da percorsi opposti, gli interessi dei due giganti hanno intrapreso traiettorie convergenti. Gli scambi commerciali tra la Russia e il continente sono raddoppiati nel giro di sei anni. Adocchiando ulteriori potenzialità economiche, nel novembre 2019 la città di Soči ha ospitato il primo forum russo dedicato all’Africa, di cui la seconda edizione è prevista per quest’anno. La nascita delle prime piattaforme istituzionali è stata accompagnata dalla fioritura parallela di canali informali.

Secondo Heidi Berg, direttore dell’intelligence presso il United States Africa Command Africom (Africom), «l’impegno militare russo e l’uso di contractor militari privati in Mozambico sono progettati per aumentare l’influenza [di Mosca] nell’Africa meridionale e per consentire l’accesso russo alle risorse naturali locali, inclusi gas naturale, carbone e petrolio».

Qualcosa di simile sta avvenendo nella Repubblica Centrafricana, dove militari russi sono stati nominati consiglieri per la sicurezza nazionale del presidente Faustin-Archange Touadéra, e il governo sta vendendo diritti minerari per oro e diamanti a una frazione del loro valore in cambio di armi.

Riposizionamento olimpionico: colmare un vuoto con un sodalizio a tutto campo?

Da parte sua, dopo aver privilegiato per tre decenni le sinergie economiche, la Cina sente necessità esattamente opposte. Sente di dover difendere i propri asset strategici nel continente e ricoprire un ruolo più proattivo in materia di sicurezza, come si addice a una superpotenza. Nel 2017 il porto di Gibuti, nel Corno d’Africa, è stato scelto come sede della prima base militare cinese all’estero.  La recente nomina di un inviato speciale per il Corno d’Africa sembra confermare questa nuova vocazione cinese per il mantenimento della stabilità, oltre il tradizionale impegno nelle operazioni internazionali di peacekeeping e lotta alla pirateria. Notizia che certamente non rallegrerà Mosca: secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), il continente è diventata una delle prime destinazioni dell’export di armi cinesi, pari al 17% delle forniture ottenute dalle capitali africane tra il 2012 e il 2017 e il 55% in più rispetto ai cinque anni precedenti.

È lecito, quindi, chiedersi se questo reciproco riposizionamento avvicinerà ancora di più o finirà invece per dividere Pechino e Mosca. Se anche in Africa, come nei rispettivi cortili di casa, i due vecchi rivali saranno capaci di muoversi in sincrono. Se, insomma, saranno semplici amici, avversari, o alleati. Entrambi i giganti stanno beneficiando della rapida perdita di influenza delle vecchie potenze imperialiste, di cui il ritiro francese dal Sahel è il segno più lampante. Alla vigilia delle Olimpiadi invernali di Pechino, Putin ha rimarcato come gli sforzi di Cina e Russia siano tesi alla promozione di una democratizzazione delle relazioni internazionali basata sui valori di “eguaglianza e inclusività”. Un messaggio che strizza l’occhio al Sud globale, sempre più emarginato dai sodalizi occidentali tra “like-minded country”. Siamo di fronte a un “gran plan”? Difficile a dirsi. Negli Stati uniti però i recenti sviluppi hanno già alzato il livello di allarme.

Secondo il senatore dell’Oklahoma, Jim Inhofe: «Cina e Russia stanno usando l’Africa per espandere la loro influenza [internazionale] e la loro estensione militare».

Il vantaggio di Pechino si misura in decenni di investimenti

“L’unione fa la forza”, dicevano gli antichi. D’altronde, l’arrivo tardivo dei capitali russi difficilmente rappresenterà una minaccia per gli interessi cinesi. Con venti anni di vantaggio, oggi la presenza del gigante asiatico beneficia della messa a sistema di una strategia di soft power che spazia dagli investimenti nei media, all’assistenza sanitaria passando per gli scambi people-to-people. Nei piani africani del Cremlino non sembra esserci nulla di lontanamente paragonabile.

Allo stesso tempo, sebbene le operazioni mercenarie di Mosca rischino di destabilizzare ulteriormente il continente, la preannunciata apertura di basi militari russe nella regione (ben sei) potrebbe persino tornar utile alla Cina. Come ammesso nell’ultimo libro bianco sulla Difesa pubblicato dal Consiglio di stato, l’esercito cinese non è ancora in grado di proteggere pienamente gli interessi nazionali oltremare a causa delle carenze logistiche e dell’insufficienza dei mezzi difensivi navali e aerei. Secondo il documento, alcuni di questi impedimenti sono aggirabili coltivando rapporti sinergici con altri paesi. Dalla crisi di Crimea, Cina e Russia hanno cementato le relazioni bilaterali con un focus militare molto forte. Sebbene dagli anni Ottanta Pechino rifugga le alleanze in senso proprio, il partenariato con Mosca sembra un gradino sopra le usuali consorterie cinesi per uniformità di interessi e visione globale.

La partnership competitiva, ma globale… dunque anche africana

L’instabilità politica in Africa apre uno spiraglio per la definizione di una “strategia” di sicurezza sino-russa nei paesi terzi. Un segno in questa direzione arriva dalla risposta concertata di Mosca e Pechino in sede Onu alla crisi del Tigray, così come ai colpi di stato in Sudan e Mali.

Dopo il ritiro americano in Afghanistan il coordinamento militare con Putin è diventato sempre più centrale per Xi. Lo è anche nel continente oltre l’Oceano indiano, dove Mosca può mettere a frutto l’esperienza militare maturata in Medio Oriente, un’area con profondi legami economici e culturali all’Africa. Le manovre aeree e marittime eseguite congiuntamente dai due giganti nell’Indopacifico, nel Mediterraneo e nel Mar arabico, costituiscono un precedente duplicabile nei teatri africani. Ma fino a che punto? Samuel Ramani, ricercatore della Oxford University, evidenzia diversi ostacoli: la storica diffidenza reciproca, la sovrapposizione tra interessi regionali spesso contrastanti, e la mancanza di un coordinamento sul campo ancora limitato ai tavoli multilaterali. È indicativo che, posizionati su fronti opposti in Libia e Sudan, Pechino e Mosca non abbiano mai tenuto colloqui bilaterali specifici sul continente. Nemmeno il tema del terrorismo è riuscito a ispirare una reazione pianificata in tandem.

Sono tutti aspetti che sommati compongono una sagoma dai contorni sfumati. Quella che Ramani definisce una “partnership competitiva” tra aspiranti grandi potenze. Non semplici amici, né avversari e nemmeno alleati. Almeno per ora.

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n. 10 Maghreb – parte I: Tunisia, terra di transito e di povertà https://ogzero.org/terra-di-origine-e-transito-i-flussi-migratori-dalla-tunisia/ Sun, 27 Jun 2021 10:47:02 +0000 https://ogzero.org/?p=4040 Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: iniziamo dalla Tunisia, terra di origine che presenta una situazione variegata e che produce spostamenti volontari per cause economiche, nonché terra di transito di migranti provenienti da altre regioni: tutte dinamiche che hanno portato ad accordi […]

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Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: iniziamo dalla Tunisia, terra di origine che presenta una situazione variegata e che produce spostamenti volontari per cause economiche, nonché terra di transito di migranti provenienti da altre regioni: tutte dinamiche che hanno portato ad accordi bilaterali anche con l’Italia. Seguiranno interventi su altri paesi del Nord Africa.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Nord Africa sponda strategica

Oggetto dell’analisi geopolitica in tale sezione del saggio è l’area del Nord Africa e più specificatamente paesi quali Tunisia, Algeria e Libia. L’area invero per definizione è costituita anche da Egitto e Marocco nonostante alcuni studiosi in materia, per comunanze linguistiche, etniche e politiche tendano a ricomprendere in tale contesto geopolitico anche altri paesi africani come la Mauritania e il Sudan facendo anch’essi parte della Lega araba. Il Nord Africa rappresenta geograficamente il canale mediante il quale sia l’Europa sia il Medio Oriente hanno accesso all’area subsahariana del continente africano in quanto essa lambisce l’Oceano Atlantico e il Mar Rosso e al contempo rappresenta una delle principali sponde del Mediterraneo. Al fine di approfondire il processo migratorio volontario o forzato derivante da questa specifica regione risultano dunque rilevanti, rispettivamente, sia le situazioni di instabilità politica rappresentate oggi dalla Tunisia e dall’Algeria quanto le situazioni di conflitto come nel caso della Libia, attualmente “contenute” da parte di un governo transitorio delle Nazioni Unite prima del processo elettorale previsto a dicembre del 2021, come per la Tunisia.

La peculiarità della Tunisia, dell’Algeria e della Libia è da rinvenirsi nel fatto che essi sono paesi di origine e al medesimo tempo di transito dei flussi migratori.

Al riguardo quindi non può essere ignorato il dato secondo il quale lo scorso anno il maggior numero dei migranti sbarcati in Italia, attraversando il Mediterraneo, provenissero proprio dalla Tunisia, oltre 400.000, ma l’aspetto particolarmente rilevante è che in tale circostanza dalla Tunisia non approdarono sulle coste italiane soltanto i migranti dei paesi subsahariani ma i medesimi cittadini tunisini che invece sbarcarono principalmente per motivi economici determinando così un processo di migrazione prettamente volontario fatte salve alcune situazioni specifiche che, come si evincerà dall’analisi completa del paese, potrebbero portare al riconoscimento della protezione internazionale. Tale aspetto risulta di particolare importanza prima di addentrarci più direttamente nella sezione riguardante le nuove rotte migratorie e gli accordi bilaterali a esse sottesi, come quello tra Italia e Tunisia, aventi come fine la limitazione delle correnti umane verso i paesi dell’Unione Europea, espressione di quella prassi illegittima dell’esternalizzazione delle frontiere che costituisce il fulcro argomentativo di questo saggio: si rammenta che la maggior parte dei 12.500 giovani tunisini sbarcati lo scorso anno sono stati rimpatriati proprio in ragione dell’accordo in materia di migrazione tra Italia e Tunisia.

Tunisia: stato debole, immobilismo politico e povertà

L’emigrazione dei giovani tunisini è dovuta principalmente dalla situazione geopolitica del paese caratterizzata attualmente da un crollo economico senza precedenti che, negli scorsi anni, ha già causato numerose proteste da parte della popolazione civile: non possono che riscontrarsi dunque quegli aspetti di assoluta familiarità con le situazioni attuali di instabilità politica, economica e sociale della regione del Medio Oriente, in particolare Libano e Iraq, già precedentemente analizzate.

Anche in Tunisia, infatti, si riscontra al momento un importante indebolimento dell’apparato statale e la conseguente formazione di un governo tecnico guidato da Hichem Mechichi.

Come noto in Tunisia si rilevano sostanziali differenze sociali, industriali, occupazionali, sanitarie e appunto migratorie tra la fascia costiera che gode di un maggiore benessere e quelle interna e meridionale fortemente marginalizzate.

Ciò è fondamentale se si pensa che proprio nella zona interna del paese scoppiarono i moti di proteste che diedero vita alle cosiddette Primavere arabe, termine assolutamente improprio coniato dall’Occidente se si riflette sulle crisi istituzionali che oggi molti di quei paesi – compresa la Tunisia – devono fronteggiare. Inoltre, è sempre nell’area interna del paese che si determinò l’avamposto del Sedicente Stato islamico negli anni successivi alla caduta del regime di Ben Ali tra il 2011 e il 2014 quando i jihadisti di Ansar al-saria – designato come organizzazione terroristica nel 2013 – reclutarono circa 70.000 militanti tunisini.

Il jihadismo: fenomeno fisiologico

Il proselitismo del jihadismo in Tunisia è al momento un fenomeno che rischia di divenire fisiologico: già negli anni precedenti il paese è stato vittima dei brutali attentati del gruppo estremista islamico messi in atto in alcuni dei principali poli turistici nel 2015 così come nelle zone più impervie nelle quali gli attacchi proseguono ancora oggi anche se con minor frequenza rispetto al passato.

Al contempo la Tunisia è stata la nazione che ha esportato il maggior numero di foreign fighters nel conflitto libico e mediorientale come quello siriano e iracheno.

Molti ragazzi tunisini inoltre sono divenuti “cellule” degli attacchi terroristici dell’Isis in Europa, come nel caso del cittadino tunisino Anis Amiri, autore dell’attentato terroristico di Berlino nel 2016. Con il crollo dell’economia è aumentata l’affiliazione al movimento jihadista, soprattutto tra i giovani meno istruiti, essendo talvolta l’unica possibilità di sostentamento dei propri nuclei familiari, mentre i ragazzi con un profilo professionale più rilevante e che hanno completato il loro ciclo di studi, solitamente se possono, fuggono dal paese. La fuga delle professionalità maggiormente qualificate, quali medici e ingegneri, va considerata in relazione al fatto che in passato hanno contribuito non poco alla crescita economica della Libia, ma la continua instabilità determinata dal conflitto libico ha fatto sì che venisse meno una delle principali risorse economiche tunisine ossia quella delle rimesse estere (in particolare quelle libiche): oggi questo flusso legale si è notevolmente ridotto mentre continuano i traffici illegali in particolare nelle città di Madanin e Bin Quantin al confine con la Libia.

Tuttavia, l’instaurazione di un governo ad interim in Libia sotto l’egida delle Nazioni Unite, al fine di accompagnare il paese a un trasparente processo elettorale, ha migliorato seppure solo in parte tale situazione tra i due paesi del Nord Africa.

La chiusura dei confini per pandemia

A peggiorare la situazione economica già al collasso ha ulteriormente contribuito la chiusura dei confini in conseguenza della propagazione del Covid-19: insieme alle rimesse dall’estero infatti, un altro ingente introito dell’economia tunisina era quello legato al turismo che ha visto, a causa della pandemia, la perdita di oltre due milioni di posti di lavoro. In tale contesto dai paesi dell’Unione Europea non arrivano flussi economici di sostentamento per la popolazione civile, diversamente da quanto è avvenuto da parte della Banca Mondiale, ma piuttosto accordi economici sia sul controllo dei migranti che – con riferimento specificatamente ancora all’Italia – sullo smaltimento illecito dei rifiuti provenienti dalla regione Campania.

Il Fondo Monetario Internazionale, invece, a febbraio del 2021 ha esortato la Tunisia ad adottare alcune importanti riforme, come quella della riduzione dei salari, e ha subordinato la concessione dei sussidi economici all’attuazione di queste riforme. Nella recente visita in Italia, il capo di stato tunisino Saied, eletto nel 2019, ha incontrato il presidente Mattarella e il premier Mario Draghi sottolineando come questo evento fosse «una rinnovata occasione per continuare a discutere dei modi per sviluppare i meccanismi di cooperazione e partenariato tra Tunisia e Italia in diversi settori».

Una frammentazione politica eccezionale

Prima ancora Saied si era recato in Libia e in Egitto per rafforzare i rapporti con gli altri due paesi appartenenti alla medesima area geografica. Una delle questioni di maggior interesse per l’analisi degli equilibri istituzionali del paese, del quale il potere è ripartito tra presidente della repubblica, esecutivo e parlamento – continuamente in contrasto tra di loro – in una frammentazione politica eccezionale (circa 200 sigle parlamentari),  è quella delle proteste portate avanti dalla popolazione civile, giovani tra i 15 e i 25 anni, interessata da una nuova ondata partita dalla zona meridionale a gennaio di quest’anno.

Non è certamente la prima volta: la Tunisia invero non ha mai smesso di protestare per la situazione socioeconomica dalla fine della cosiddetta Rivoluzione dei Gelsomini.

Le domande dei tunisini rispetto alla “Primavera” del 2011 non sono tuttavia cambiate anche se oggi non si chiede più la caduta di un regime ma principalmente giustizia sociale; a gennaio vi sono state proteste contro l’esecutivo e contro proteste a sostegno del principale partito tunisino in parlamento Ennahda, partito islamista guidato dall’anziano Rasid Gannusi al vertice del movimento legato ai Fratelli Musulmani. La causa principale delle proteste del 2021 è proprio dovuta alla severa crisi socioeconomica, indubbiamente la peggiore dal 1956, nella quale si registra una vertiginosa caduta del Pil, un forte aumento del tasso di disoccupazione e del debito pubblico, nonché il crollo degli investimenti e la svalutazione del dinaro. Va precisato, tuttavia, che essendo l’economia tunisina soprattutto di tipo informale è difficile rinvenire dati precisi che rispecchino esattamente l’entità dei succitati fenomeni. La pandemia non ha fatto altro che peggiorare tale scenario considerato l’aumento del costo dei generi alimentari, la chiusura di moltissimi hotel del paese nei quali era impiegata buona parte della popolazione tunisina, l’elevato costo dei tamponi rispetto al salario medio di un lavoratore tunisino e il conseguente aumento dei senzatetto che si riscontrano in numero elevato anche nelle strade della capitale.

Disuguaglianze tra zone costiere e interno del paese

Sembra dunque che oggi il paese continui a fare i conti con il passato dal punto di vista economico poiché continuano le disuguaglianze tra le città costiere e le zone interne e dal punto di vista politico poiché, seppure il regime di Ben Ali sia caduto, la popolazione tunisina ha perso totalmente la fiducia vista l’assenza nel paese dell’idea di stato. Tutti i partiti al governo che si sono succeduti a partire dal 2011, inoltre, hanno sempre contato sull’appoggio del partito islamista Ennahda, e continuo è lo scontro tra il premier Mechichi  – sostenuto sia dal partito Ennahda che da quello di Qalb Tounes di stampo liberista e populista del magnate Nabil Karoui – e  il presidente della repubblica Saied che si pone come difensore della Costituzione e primo nemico della corruzione come è avvenuto a gennaio del 2021 quando il capo di stato ha rifiutato la lista dei ministri proposta dal premier Mechichi perché tra i nomi vi erano degli “impresentabili”.

Quello che ha tentato di fare il premier Mechichi era un rimpasto di governo con l’intento di inserire nell’esecutivo figure più vicine ai partiti di maggioranza in modo da trasformare gradualmente il governo del presidente della repubblica in un governo maggiormente “politico”. La classe politica come notiamo è oggi dunque ancora fortemente ripiegata su se stessa, incapace di progettare una società diversa perché ancorata agli stereotipi del passato.

In questo scenario lo stato è per lo più identificato – quando non è ritenuto assente – con le forze di polizia presenti nel paese.

La repressione non si ferma

Rimangono infatti anche nella neonata democrazia tunisina le gravissime violazioni dei diritti umani perpetrati dalle forze di polizia come durante il regime di Habib Bourghiba prima e di Zine el-Abidine Ben Ali dopo, qualificabili come veri stati di polizia che si macchiarono di atroci torture e violentissime repressioni contro i dissidenti. In particolare, occorre sottolineare che a oggi i responsabili degli abusi, delle torture, delle uccisioni commesse dalle forze di polizia nel 2011, in seguito ai moti di protesta della Primavera Araba, restano ancora impuniti (viene ancora loro concessa dal governo la possibilità di non assumersi la responsabilità di quanto avvenuto in passato).  Si ricorda al riguardo che tra il 17 dicembre del 2010 e il 14 gennaio 2021 furono uccisi 132 manifestanti e circa 400 furono feriti, ma il maggiore sindacato di polizia nel paese ha chiesto ai funzionari di non presentarsi alle udienze dei procedimenti penali per le violazioni dei diritti umani compiute in quella circostanza. I sopravvissuti della Rivoluzione dei Gelsomini, in particolare gli eredi dei manifestanti deceduti, le vittime stesse, ossia le persone che hanno subito le violenze, riempiono ancora le aule dei tribunali senza vedersi riconosciuta alcuna forma di risarcimento mentre gli imputati continuano a non presentarsi nonostante molti siano i testimoni. Infatti, pur cambiando il nome di alcuni ministeri o destituendo i ministri al potere durante il regime di Ben Ali, molti funzionari cosiddetti medio-alti perché appena “al di sotto” dei ministri sono attualmente in carica e ritenuti inamovibili. Non sorprende quindi quanto sia avvenuto nel corso delle manifestazioni dello scorso gennaio del 2021 durante le quali sono stati registrati circa 1650 arresti dei manifestanti.

Arresti o sequestri?

Dopo il 30 gennaio del 2021 il sindacato di polizia promise che avrebbe messo in atto una repressione ancora più violenta se i manifestanti avessero continuato. Tra gli abusi delle recenti repressioni si ricorda il caso di Lassad Buajila, mediatore culturale di Torino, avente cittadinanza italiana e tunisina, che venne arrestato per aver filmato le proteste del 15 gennaio 2021 e la conseguente repressione delle forze di polizia: nonostante Buajilla fosse anche un cittadino italiano ha scontato oltre un mese di carcere senza che di lui vi fossero più notizie.

C’è da ricordare inoltre che manifestazioni pacifiche sono state portate avanti anche dalle donne oltre alle persone Lgbtqi, ancora legalmente perseguitate secondo l’art. 230 del codice penale tunisino, denunciando la discriminazione a causa dell’identità di genere o all’orientamento sessuale.

Con riferimento alle donne occorre precisare che, nonostante la Tunisia da sempre sia considerato un paese progressista rispetto al ruolo che queste hanno nella società, avendo riconosciuto loro, già durante il regime di Bourghiba, diversamente dagli altri paesi arabi, alcuni diritti fondamentali come quello al voto o il diritto allo scioglimento del matrimonio, il processo democratico anche in questo caso rimane sospeso poiché ancora oggi queste ereditano la metà di quanto ereditano gli uomini al momento della morte di un familiare, non hanno lo stesso accesso al sistema bancario e soprattutto la maggior parte di loro sono oggi arrestate per prostituzione e adulterio mentre l’adulterio non costituisce reato per gli uomini.

Lo standard minimo non basta

Non sembra pertanto opportuno continuare a considerare la Tunisia quell’unico esempio di successo delle cosiddette Primavere Arabe – nonostante la Costituzione del 2014 e il raggiungimento di “standard minimi  di democratizzazione” – considerata oggi la condizione di povertà estrema della popolazione civile rispetto alla classe dirigente, la diffusa discriminazione di genere, le gravi violazioni dei diritti umani a opera delle forze di polizia nonché l’immobilismo di un sistema politico che non ha saputo compiere un processo di epurazione completo rispetto ai passati regimi e che non osa compiere quelle tanto agognate riforme che porterebbero alla compiutezza del sistema democratico nel paese.

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La Siberia tra il Dragone e il Sultano https://ogzero.org/la-luna-di-miele-turco-russa-e-finita/ Sat, 14 Nov 2020 19:09:43 +0000 http://ogzero.org/?p=1765 La luna di miele turco-russa è finita La linea di faglia apertasi nel Nagorno-Karabakh ha dimostrato, se ce ne era ancora bisogno, che la luna di miele tra Turchia e Russia è ormai archiviata malgrado proprio sull’enclave a etnia armena Putin sia stato costretto – con gli accordi del 9 novembre – a un nuovo […]

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La luna di miele turco-russa è finita

La linea di faglia apertasi nel Nagorno-Karabakh ha dimostrato, se ce ne era ancora bisogno, che la luna di miele tra Turchia e Russia è ormai archiviata malgrado proprio sull’enclave a etnia armena Putin sia stato costretto – con gli accordi del 9 novembre – a un nuovo compromesso tattico per impedire il completo collasso del fronte. L’intraprendenza di quello che alcuni osservatori già chiamano “imperialismo ottomano” è sotto gli occhi di tutti e a Oriente i danni maggiori di tale intraprendenza li potrebbe subire proprio la Federazione. Non a caso sulla Moscova hanno da tempo iniziato a ricalibrare la politica nei confronti di Ankara: Sergej Lavrov, il ministro degli esteri russo, ha recentemente sostenuto di non aver mai considerato la Turchia “un alleato” ma solo un “partner”.  Il massiccio bombardamento russo a Idlib contro la guerriglia filoturca in Siria della fine di ottobre 2020, da questo punto di vista, è probabilmente stato un parlare a moglie perché suocera intenda. Ma la Transcaucasia è solo la punta dell’iceberg di uno scontro ben più ampio che parte dalla Crimea e si estende fino all’estremo Oriente russo ai confini con la Cina.

L’intelligence turca a caccia di spie

Il 16 ottobre scorso nell’incontro tra Volodomyr  Zelenskij e Recep Erdoğan non solo quest’ultimo ha dato il suo via libera alla cosiddetta “piattaforma di Crimea” promossa dal governo di Kiev (un’offensiva diplomatica volta al recupero della penisola annessa dalla Russia nel 2014, a cui guarda caso aderisce anche l’Azerbaijan) ma ha anche siglato degli accordi di collaborazione commerciali con l’Ucraina nel settore degli armamenti. La settimana successiva poi esplodeva una vera e propria spy-story tra Turchia e Russia. L’intelligence turca annunciava di aver arrestato il vicedirettore delegato di Bosphorus Gaz Emel Oztürk e altri quattro suoi collaboratori, che da tempo, secondo l’accusa, passavano informazioni riservate a un agente di Gazprom. Il gigante russo dell’energia avrebbe ottenute notizie sui volumi di acquisti di gas non russo della Turchia e dati sui giacimenti scoperti dalla Turchia nel Mar Nero quest’estate.

La guerra del gas

Al momento Putin fornisce a Erdoğan – via Turkish Stream – 7,75 miliardi di metri cubi all’anno di gas ma è chiaro che “l’indipendenza energetica” anelata da Erdoğan – se divenisse realtà – potrebbe rappresentare un duro colpo ai volumi di esportazioni russe, già in forse in Europa dopo che il progetto di North Stream 2 è entrato in stand-by in seguito al “caso Navalny”. Per tutta risposta la Duma russa ha fatto baluginare il blocco del turismo russo verso la Turchia, un business da qualche miliardo di dollari annuo. Più che punzecchiature tra i due eterni rivali con possibili conseguenze geopolitiche più vaste. La leva di un nuovo fondamentalismo islamico, di un califfato sui generis in cui la Turchia diventi la “protettrice di tutti i sunniti nel mondo”, potrebbe produrre una divisione insanabile tra i due stati. Si tratta di suggestioni – quelle dell’“imperialismo ottomano” – che vengono confermate negli ambienti diplomatici dei paesi balcanici anch’essi preoccupati dell’incipiente aggressività turca: «Indubbiamente, se analizziamo ciò che leggiamo e vediamo oggi, diventa chiaro che in alcuni circoli islamici radicali e organizzazioni religiose vaga l’idea che l’Europa dovrebbe essere un califfato islamico. Ciò che sta accadendo oggi in Francia, in Svezia, in altri stati dell’Europa occidentale, mi sembra che dovrebbe destare grande preoccupazione tra questi stati. Non mi occupo di attività di spionaggio in particolare, ma di tanto in tanto leggo in note analitiche che i servizi speciali turchi sono molto attivi», ha sostenuto l’ex ambasciatore serbo a Mosca, Slavenko Terzič.

Il Caucaso e il “laicismo irresponsabile dell’Occidente”

Il riflesso dello scontro con la Francia sulla questione dei limiti del laicismo si è subito sentito a Mosca dove la preservazione degli equilibri, faticosamente costruiti dal regime di Putin, in una federazione multiconfessionale, sono considerati intangibili. Le manifestazioni antifrancesi guidate prima di tutto dai migranti azeri nella capitale russa sono state sì stroncate con durezza dalla polizia sul nascere, ma Putin ha voluto al contempo anche denunciare il “laicismo irresponsabile dell’Occidente”. Il terrorista che ha ucciso a Parigi l’insegnante francese faceva parte della diaspora cecena, e quindi formalmente antirussa, ma la reazione del presidente della Repubblica cecena Rusman Kadyrov, scagliatosi con forza contro Macron nei giorni successivi all’attentato, dimostra quanto gli umori dei musulmani del Caucaso restino antioccidentali: non è un caso che nel Caucaso russo furono migliaia i reclutati dall’Isis per la guerra in Siria. Del resto, non si soffia sulla “guerra di civiltà” solo da una parte: anche il primo ministro armeno Nikol Pashinyan aveva invitato gli stati europei a sostenere l’Armenia cristiana nel Nagorno-Karabakh in funzione antiturca, anche se sia Macron sia Trump hanno preferito fare orecchie da mercante.

Lo sguardo russo verso lo Xinjiang

Dmitry Ruschin, Professore Associato del Dipartimento di Teoria e Storia delle Relazioni Internazionali all’Università di San Pietroburgo sostiene che “l’internazionalismo sunnita” di Ankara è veramente su scala globale: «Erdoğan sta perfino interessandosi della regione autonoma uigura dello Xinjiang dove Xi ha più di un problema. È del tutto possibile che in questo modo voglia diventare un unificatore dei popoli turchi e un leader islamico su scala globale. Curiosamente, lo scontro della Turchia con la Cina significa supporto automatico per Ankara da Washington perlomeno in quel contesto». E a medio termine ciò potrebbe condurre a un confronto diretto tra Russia e Turchia.

Siberia: la protesta anticentralista

In questo quadro la Siberia può diventare uno dei teatri più importanti. Dallo scorso luglio Khabarovsk, la più grande città dell’Estremo oriente russo, a un paio di centinaia di chilometri da Vladivostok, “porta bianca” ai mercati orientali, sono in corso delle manifestazioni di massa dopo che Sergej Furgal il governatore della provincia, outsider e antiPutin, è stato arrestato con l’accusa di essere il mandante di alcuni omicidi risalenti a un’epoca in cui non aveva ancora in carico l’amministrazione. Il protrarsi e le dimensioni del movimento di protesta segnala però in maniera evidente che le sventure del governatore sono state solo la miccia dietro cui covano a livello di massa spinte anticentraliste (oblastničestvo) nei confronti di Mosca se non apertamente secessioniste. “The Diplomat” ha riassunto così la situazione: «Sin dai tempi della Russia imperiale, i suoi paesi e città sono stati visti come una semplice estensione della nazione europea, una frontiera asiatica da colonizzare e domare. Come parte dell’Unione Sovietica, le deportazioni di massa verso est e il suo status di destinazione per i prigionieri dei GULag hanno rafforzato questa nozione. Ma ora, come dimostrano i manifestanti a Khabarovsk, l’estremo Oriente russo potrebbe formare la propria identità».

proteste pro-Furgal in Siberia

Un punto importante della contesa è che, mentre la Russia orientale detiene gran parte delle risorse naturali del paese – inclusi petrolio, gas e metalli preziosi – i proventi della loro estrazione sono ampiamente usati per rimpolpare i forzieri di Mosca piuttosto che arricchire le comunità locali.

E la terra va ai cinesi

Che la Cina sicuramente sia interessata a sfruttare a suo vantaggio la situazione che sta montando nell’estremo Oriente russo non è un segreto. In questa zona della Siberia gli investimenti del Dragone sono massicci e alla fine del 2018, proprio a Khabarovsk, un’azienda russa ha annunciato l’intenzione di affittare ben 100.000 ettari di terreno paludoso coltivabile a soia e affittarlo a imprese cinesi. Alexander Bortnikov, il presidente del Fsb, ha più volte segnalato l’attivismo di servizi di molti paesi in tutta la Siberia. E se il nome della Cina non è stato fatto ufficialmente, la presenza discreta di informatori cinesi nelle zona è stata più volte confermata da più parti.

Dietro la provocazione, la mano dei turchi

Chi invece sicuramente opera in quell’area è l’intelligence turca. Questa può fare affidamento su un vasto retroterra di gruppi fondamentalisti islamici nel Centro Asia allo sbando dopo il crollo dell’Isis. L’Fsb (Federal’naja služba bezopasnosti – Agenzia federale per la sicurezza interna) nell’ultimo anno ha contato ben 22 tentativi di organizzare azioni terroristiche e diversive in Siberia. Si tratta per lo più di incidenti provocati da foreign-fighters di ritorno ai confini del Tagikistan e del Kazakhstan collegati a contingenti più folti del fondamentalismo islamico afgano. Ma alcune di queste avrebbero segni e obiettivi diversi e rimanderebbero a un inedito protagonismo turco. In particolare parliamo di una fallita provocazione organizzata proprio a Khabarovsk questa estate nel momento più caldo delle dimostrazioni di strada, il cui mandante sarebbe da ricercarsi proprio ad Ankara. Secondo quanto riportato da Semyon Pegov – un reporter russo di guerra che da molti anni gravita tra il Medio Oriente e la Siberia – quest’estate l’organizzazione terroristica siriana Hayat Tahrir Al-Sham, supervisionata dai servizi speciali turchi, aveva reclutato due residenti di Khabarovsk, guarda caso di origine uzbeka e di fede musulmana, per organizzare il lancio di bottiglie molotov contro la manifestazione a sostegno di Furgal, al fine di far ricadere poi la responsabilità sul governo russo e rendere ancora più incandescente di quanto non sia la situazione nella provincia. Un’azione diversiva fallita in seguito all’arresto dei due provocatori prezzolati da parte della polizia russa, ma che dimostrerebbe quanto la Turchia intenda sfruttare le contraddizioni interne russe.

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Il jihad come instrumentum regni https://ogzero.org/il-jihad-come-instrumentum-regni/ Sat, 30 May 2020 08:27:40 +0000 http://ogzero.org/?p=182 Segmentazione e unificazione tribale periodica nel contesto magmatico dei brand jihadisti. La capacità di resistere alla centralizzazione dello stato Elisa Giunchi, novembre 2019 – maggio 2020 L’islam tribale e la sua militarizzazione Già nell’Ottocento funzionari, etnografi e viaggiatori britannici annotarono quanto sarebbe poi stato confermato dagli studi antropologici a partire dagli anni Cinquanta del Novecento: […]

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Segmentazione e unificazione tribale periodica nel contesto magmatico dei brand jihadisti. La capacità di resistere alla centralizzazione dello stato

Elisa Giunchi, novembre 2019 – maggio 2020

L’islam tribale e la sua militarizzazione

Già nell’Ottocento funzionari, etnografi e viaggiatori britannici annotarono quanto sarebbe poi stato confermato dagli studi antropologici a partire dagli anni Cinquanta del Novecento: le tribù pashtun del Sudest erano caratterizzate da un codice etico, il pashtunwali, incentrato su alcuni valori che, pur presenti anche presso altre comunità, erano stati qui tradotti in norme minuziose, da una struttura acefala che rendeva necessaria la pratica del consenso attraverso assemblee consultive (jirga) e da una sostanziale indipendenza dal potere centrale, che era facilitata dalle distanze e dalla natura impervia del Sudest. Tra i pashtun dell’Ovest, per lo più Durrani, e quelli detribalizzati vi era sì una “memoria tribale”, fondata su genealogie mitiche, ma la struttura sociale era maggiormente legata allo stato e gli elementi caratterizzanti del pashtunwali risultavano meno evidenti. Non che le tribù del Sudest fossero realmente indipendenti, come immaginavano i britannici: nella seconda metà dell’Ottocento esse erano legate da tempo al centro da un sistema di sussidi, favori e privilegi, e come contropartita assicuravano al potere politico centrale il loro sostegno militare, in un rapporto di reciprocità che sostanzialmente rimarrà invariato fino agli anni Venti-Trenta del Novecento. 

In materia religiosa, la differenza tra pashtunwali e sharia, spesso rimarcata dagli studiosi, non era percepita come problematica dai pashtun: nella concezione comune i legami genealogici che collegano al profeta Muhammad l’ascendente apicale Qais bin Rashid rendevano i pashtun inerentemente musulmani: osservare il pashtunwali – “fare pashtun” – significava essere musulmani. La sostanziale assenza del potere centrale e il modello acefalo, tendenzialmente egalitario, che era prevalente tra i pashtun più “tribalizzati”, in particolare nel Sudest, provocava tensioni e faide continue tra i segmenti che componevano la comunità. In questa situazione di conflittualità endemica, la composizione delle faide e la ricomposizione del tessuto sociale dopo le violazioni del pashtunwali potevano avvenire solo grazie a figure esterne. Tra queste, le figure religiose, che erano “esterne” in un duplice senso: innanzitutto, in quanto appartenevano a rami minori della genealogia locale o provenivano da altre tribù; in secondo luogo, soprattutto se erano dotate di baraka, rappresentavano la dimensione sacrale, e si prestavano a mediare, quindi, in quanto parte non interessata, con riferimento al volere divino e non a un segmento specifico della tribù.

Questi aspetti si ritrovano attualizzati nella decentralizzazione del controllo del paese alle tribù pashtun del Sudest del paese ma con una forza minore del potere centrale delegittimato dalle compromissioni con gli americani e con potenze regionali come il Pakistan con maggiore possibilità di gestire il territorio a cavallo della Durand Line e di indirizzare il jihad. Si riscontrano similitudini con il passato e differenze, come le interferenze di altri paesi e la necessità di trovare l’accordo con le altre etnie che costituiscono il paese, in precedenza marginalizzate da Durrani, come si coglie in questa clip dell’intervento di Elisa Giunchi registrato il 28 maggio 2020 sulle frequenze di Radio Blackout:

Elisa Giunchi, 28 maggio 2020: Similitudini e differenze tra altre epoche di decentramento controllato e attuale difficoltà di Kabul a controllare il territorio
Porzione della mappa delle separazioni territoriali coloniali contenuta nel volume Sconfinate, a cura di Emanuele Giordana, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018. Al numero 1 si dipana la Durand Line; la Radcliffe Line corrisponde al numero 2; lungo la linea 9 scorre l’Hindukush; il numero 11 coincide con il Khyber Pass. A, B, C indicano le tre zone in cui è diviso il Kashmir.

Il ruolo dei religiosi in ambito tribale

Contro una presupposta laicità del sistema tribale, sulla quale hanno insistito alcuni antropologi, le figure religiose, anche quando non prendevano parte alle jirga, o lo facevano esprimendosi solo su aspetti specifici della fede, assicuravano la liceità religiosa delle decisioni comunitarie: approvavano le decisioni della jirga pur non concorrendo sempre alla loro elaborazione, potevano avviare procedimenti contro individui o clan e disponevano spesso di proprie milizie, composte dai loro deputati e seguaci e da membri della comunità locale che si attivavano ad hoc per rendere effettive le decisioni dei “religiosi carismatici”. Un ruolo di non poco conto che i religiosi ricoprirono più volte presso le tribù pashtun nel corso dell’Ottocento era quello di proclamare e guidare il jihad contro nemici esterni, con l’effetto di ricomporre temporaneamente le differenze interne. Il riferimento ai valori sacrali e, nel caso di coloro che possedevano la baraka, l’incarnazione – per così dire – di quei valori, permettevano di superare la segmentazione locale e di mobilitare più tribù, compito che risultava impossibile al malek/khan che rappresentava uno specifico segmento clanico o tribale. Non è un caso, quindi, che nelle due guerre anglo-afgane (1839-1842 e 1878-1880) i religiosi ricoprissero un ruolo importante, mobilitando la popolazione tribale in nome del jihad e, in diversi casi, soprattutto nel Sudest, guidando le milizie contro l’esercito anglo-indiano. Nelle sollevazioni che scoppiarono al Sud e Sudest sul finire del secolo in reazione alla forward policy britannica le figure carismatiche della variante marabutica riuscirono ancora una volta a unire clan e tribù, superando almeno temporaneamente divisioni e rivalità locali.

Gli stessi inglesi, paradossalmente, contribuirono alla turbolenza tribale e alla militarizzazione delle figure religiose: innanzitutto, i tentativi di occupazione perseguiti con le due guerre anglo-afgane, e le annessioni e ingerenze successive, favorirono il compattamento delle tribù pashtun sotto la guida dei religiosi carismatici, accrescendo l’influenza di questi ultimi rispetto ai capitribù, inerentemente impossibilitati a superare, come si è visto, la segmentazione locale. In secondo luogo, le necessità del jihad contro gli inglesi (e i russi, che premevano da Nord) aumentò la domanda di armi e munizioni, che verso la fine del secolo iniziarono ad affluire in grandi quantità dal Golfo. Al traffico illegale di armi provenienti dall’Europa si sommavano fucili e munizioni provenienti dagli arsenali governativi, sottratti ai sepoy in India e prodotti localmente. Sia i capitribù sia i religiosi più influenti, che si avvalevano di milizie di murid/talib, si dotarono così di armi moderne, costringendo l’Indian Army ad aggiustamenti tattici e il governo in India a incorrere in nuove spese, proprio in una fase in cui la minaccia russa tornava a turbare i sonni di politici e strateghi a Londra e Calcutta. In terzo luogo, la politica inglese di istituire tribal levies e di armare i khassadar perché proteggessero le postazioni britanniche e i passi contribuirono alla militarizzazione delle aree al confine con l’India, di cui i religiosi erano parte integrante. 

Un islam di stato

All’evoluzione dell’islam tribale sul finire dell’Ottocento contribuì, con ogni probabilità, anche l’uso strumentale che l’emiro Abdurrahman (1844-1901) fece dell’islam non solo in funzione antimperialista, ma anche con l’obiettivo di accentrare e unire il paese.

Al potere dal 1880, Abdurrahman si adoperò per trasformare una struttura politica in cui l’assenso all’emiro era contrattato ad hoc e si fondava sulla reciprocità in una monarchia assoluta. L‘emiro fino ad allora era stato una sorta di primus inter pares che poteva in qualsiasi momento, se non andava incontro alle istanze e ai valori pashtun, perdere il sostegno delle tribù e, quindi, il trono. Il potere centrale era quindi fortemente instabile, e chi deteneva le redini del potere era impossibilitato a perseguire riforme di ampio respiro, soprattutto se contraddicevano gli interessi e l’ethos pashtun. E difatti la storia afgana è puntellata da rivolte guidate da figure religiose, che esprimevano la resistenza di ampi settori della popolazione pashtun a imposizioni percepite come devianti rispetto al sistema valoriale e agli interessi delle tribù dalle quali dipendeva in ultima analisi il potere dell’emiro. Già nel 1880 a Shinwar il mullah Najm al-Din, noto nelle fonti britanniche come ‘mullah Hadda’, accusò l’emiro, che si era appena insediato al potere con l’aiuto britannico, di essere un infedele; accusa di non poco conto, visto che il mullah aveva moltissimi seguaci, soprattutto a Est del paese, ma anche nelle aree a maggioranza pashtun sottoposte al controllo del Raj britannico. 

Negli anni successivi i tentativi dell’emiro di ridurre i privilegi e l’autonomia delle figure religiose, e la delimitazione nel 1893 della Durand Line, che attribuiva alcuni territori pashtun ai britannici, costituirono l’occasione di nuove proteste in cui mullah e pir ricoprivano un ruolo fondamentale. Le proteste non dissuasero l’emiro, che anzi moltiplicò i tentativi di arginare la loro influenza e centralizzare il potere. A tal fine, oltre a mettere a morte alcuni mawlawi e a costringerne all’esilio altri, rafforzò il potere dell’esecutivo, diminuì l’indipendenza economica delle figure religiose – sottoponendo i waqf al controllo centrale, imponendo una tassa sulle proprietà religiose e riducendo i finanziamenti alle khanaqa – e integrò mawlawi e mullah nell’apparato statale, favorendone la fedeltà: i mawlawi ottennero il diritto a percepire uno stipendio previo esame da parte di una commissione nominata dall’emiro, al quale spettava il compito di controllare che la loro dottrina non si discostasse dall’islam “corretto”, vale a dire dall’interpretazione approvata dall’emiro. Muhtasib e qazi dovevano vigilare sull’applicazione dei precetti religiosi, epurati dalle loro degenerazioni popolari e di ogni carica eversiva. Agli ulama più fidati fu chiesto, infine, di propagare l’islam ufficiale nel paese, uniformando la pratica religiosa. Significativamente, se nei testi religiosi non trovavano una risposta, i qadi, che erano nominati dall’emiro, erano tenuti non a esercitare l’ijtihad (l’interpretazione di Corano e Sunna), ma a rivolgersi ad Abdurrahman. Fu sempre sotto Abdurrahman che sorse la prima scuola coranica finanziata dal governo, la Madarasa-e-shahi, i cui studenti, una volta diplomati, diventavano funzionari dello stato, secondo un processo di “statalizzazione” dei religiosi che si è verificato ovunque, nel mondo musulmano, tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del secolo successivo. 

Le dinamiche illustrate in questo brano pubblicato nella raccolta La Grande Illusione che si applicano all’analisi del rapporto tra apparati religiosi, tribali e statali nei secoli precedenti nel territorio del Khorasan trovano continuità in queste delucidazioni sull’attualità che Elisa Giunchi ha esposto intervenendo il 28 maggio 2020 durante la mattinata informativa di Radio Blackout, dove descrive il contesto magmatico instabile sui due lati della Durand Line in cui operano i jihadisti – adattandosi alle strutture tribali pashtun – con i diversi intenti che contrappongono i brand: governare uno stato come obiettivo ultimo per l’Isis, mentre al Qaeda è dedita a creare basi da cui lanciare attacchi al potere centrale. Entrambi non rappresentano comunque una novità nella storia afgana, bensì si potrebbe trattare della attualizzazione di quel «ruolo dei religiosi presso le tribù pashtun di proclamare e guidare il jihad contro nemici esterni», di cui si accennava nel testo:

Elisa Giunchi, 28 maggio 2020 (Radio Blackout): continuità delle prassi tribali di contrapposizione nei gruppi jihadisti affiliati sia a Isis che ad al Qaeda

Il jihad come instrumentum regni

Abdurrahman decise di enfatizzare, nei manuali religiosi e nei pamphlet che autorizzava e in alcuni casi scriveva di proprio pugno, la necessità di compiere il jihad contro gli infedeli, contribuendo a consolidare la tradizione militante delle aree pashtun. Il jihad, beninteso, poteva essere proclamato solo dall’emiro. Se era l’emiro a proclamarlo, era dovere di ogni afgano combattere o contribuire alla battaglia con i propri averi. Il jihad senza il suo benestare equivaleva invece a una forma di kufr, principio che permetteva di bollare come blasfema ogni forma di sedizione. Si recuperava quindi la componente quietista della dottrina sunnita classica: per giustificare l’importanza dell’obbedienza al potere costituito si sottolineava che Dio aveva delegato ai sovrani la conduzione degli affari dei fedeli; disobbedire all’emiro significava quindi contravvenire al volere di Dio. Oltre a essere un obbligo religioso, l’obbedienza al potere costituito preservava la comunità dalla fitna, l’anarchia sociale paventata dai giuristi classici. Persino un sovrano ingiusto era preferibile al caos che sarebbe risultato dalla sua deposizione. Ma se, da una parte, si sottolineava che spettava all’emiro proclamare il jihad, al contempo, delegando la difesa del territorio ai leader carismatici pashtun – gli unici in grado di coagulare e guidare i segmenti tribali –, si manteneva in vita e anzi si alimentava la turbolenza tribale e, paradossalmente, la sua capacità di resistere alla centralizzazione dello stato. 

Il jihad, oltre a costituire un utile strumento anticoloniale, si prestava a essere usato per ottenere il consenso dei religiosi proprio nel momento in cui si intaccava la loro autonomia. Tra il 1891 e il 1893 l’emiro organizzò, infatti, diverse spedizioni contro gli sciiti hazara, che furono privati dei terreni più fertili, ridotti in schiavitù e costretti a fuggire in Iran e in Baluchistan; sempre a lui si deve la conversione forzata dei kafiri nel 1895-1896, che era già iniziata sul finire del Cinquecento con una spedizione dei mughal. I mullah – incluso quel mullah Hadda che si era inizialmente opposto all’emiro – furono impiegati nel processo di conversione dei kafiri, beneficiarono dell’espropriazione dei terreni hazara e, di conseguenza, sul finire del regno di Abdurrahman erano nel complesso ben disposti nei suoi confronti.

Quando, nel contesto di una crescente ostilità popolare contro il colonialismo europeo, Habibullah (regnante tra il 1901 e il 1919) si rifiuterà di rinnegare gli accordi conclusi dal padre con i britannici, e quando Amanullah (che regnò fino al 1929) cercherà di imporre dall’alto riforme volte a trasformare in senso “moderno” l’ambito più privato – la famiglia – e a intaccare i valori prevalenti tra i pashtun, mawlawi e pir torneranno, soprattutto nel Sudest, a opporsi frontalmente al potere centrale, grazie alla loro tradizionale capacità di mobilitare e unire i segmenti tribali e alle armi affluite nella regione nei decenni precedenti. Habibullah sarà ucciso e Amanullah, prima di abdicare, si vedrà costretto a rinnegare le riforme che aveva introdotto.

Gli aspetti correlati alla frammentazione del territorio e alle pulsioni a resistere all’accentramento da parte dello stato e il richiamo al jihad come strumento anticoloniale che accentua la turbolenza tribale e l’incapacità di costituire un’“afganità” si ritrova nell’attualità descritta sempre da Elisa Giunchi nel prosieguo dell’intervento, laddove si occupa di ricondurre ai contrasti tradizionali tra le strutture verticistiche verticali della cultura turkmena-mongola con quella orizzontale acefala del sistema pashtun, che rappresentano la tensione costante tra tendenza ad accentrare/decentrare il controllo del potere: Durrani e il periodo della difesa della cintura pashtun emarginava le altre etnie, da cui le rivolte contro l’accentramento; mentre ora i gruppi sono infiltrati da potenze esterne (con i corrispondenti signori della guerra), che favoriscono la frammentazione etnica regionale volta a impedire a Kabul la possibilità di essere un centro forte in grado di impedire interferenze e mediare tra le identità di base. L’instabilità deriva forse proprio dall’eccessivo decentramento. L’unica soluzione sarebbe un programma di emancipazione sociale che esuli da apparato confessionale e etnicità, coagulando gruppi diversi su un programma socioeconomico che si concentrino attorno a figure carismatiche di varie componenti; si parla di Massoud, ma forse è troppo connotato e quindi potrebbe rinfocolare il dissidio tra pashtun e tajik.

Elisa Giunchi, 28 maggio 2020 (Radio Blackout): il superamento della frammentazione etnica regionale può passare attraverso uno sviluppo sociale che superi divisioni etniche e religiose, mancano leader e gruppi disposti a svoltare rispetto a un passato ingombrante di divisioni.

Enfatizzare l’identità religiosa rispetto ad altri fattori identitari

La nascita dei Talebani (letteralmente “studenti”) nei primi anni Novanta all’interno delle madrase affiliate al Jamiat-e Ulema-e Pakistan, il partito pakistano deobandita, trae le sue origini proprio dal legame formatosi a partire dalla fine dell’Ottocento tra madrase deobandite e “religiosi carismatici” del Sudest afgano. Anche altre influenze esterne penetrarono nel paese attraverso i suoi porosi confini meridionali, dal nazionalismo confessionale della Lega musulmana, che nel 1947 avrebbe portato alla nascita del Pakistan, al nazionalismo etnico di Ghaffar Khan, venato di istanze egalitarie e alleato al Congresso nazionale indiano. Negli anni Sessanta, grazie a una limitata apertura politica e in un clima di grande effervescenza intellettuale, si diffusero in ambito urbano movimenti islamisti che, ispirandosi al pensiero di Qutb e Maududi, criticavano la religiosità popolare a favore di un approccio più scritturalista e dogmatico; a essi si sommeranno, durante la resistenza antisovietica, militanti jihadisti, provenienti per lo più dal mondo arabo, che contribuiranno a delegittimare le autorità tribali tradizionali e introdurranno nella società pashtun una rigidità e una spietatezza nuove. Queste concezioni militanti dell’islam si sono diffuse nelle aree tribali, talora intrecciandosi con le reti religiose marabutiche, altre volte scontrandosi con la religiosità e le strutture di autorità locali. Il loro effetto è stato di enfatizzare l’identità religiosa rispetto ad altri fattori identitari, di diffondere una religiosità più normativa, di fornire ai “religiosi carismatici” un’agenda più vasta e di svalutarne parallelamente le competenze “tradizionali”, minando di conseguenza anche la loro capacità di mediare in ambito tribale; parallelamente, le jirga hanno perso la loro autorità originaria; il pashtunwali, infine, appare oggi più un’idealizzazione del passato che una realtà, e quel che è rimasto di questo codice etico si trova a competere con altri sistemi valoriali. L’opinione secondo la quale sia stato il solo jihadismo di matrice araba ad avere impresso una svolta militante all’islam tribale e determinato la nascita del fenomeno Talebano è tuttavia difficilmente condivisibile. Anche l’enfasi sul ruolo che le madrase pachistane hanno avuto nella “nascita” dei Talebani e sugli interessi geostrategici che hanno indotto Islamabad e Riad a sostenere l’estremismo in Afghanistan è eccessiva, e offusca sia le specificità pashtun degli “studenti coranici” sia i processi storici che, ben prima degli anni Ottanta del Novecento, influirono sulla loro militanza. 

Sulla natura pashtun dei Talebani – basti qui dire che negli anni Novanta, quando emersero sulla scena afgana, i loro vertici, per quanto avessero studiato per periodi più o meno lunghi nelle madrase pachistane, provenivano dall’ambiente rurale e tribale pashtun, un ambiente che, nonostante le influenze esterne, manteneva alcune peculiarità. Il mullah Omar, che guiderà i Talebani fino alla sua morte, avvenuta nel 2013, era il mullah di un villaggio vicino a Kandahar ed era sostenuto da altri mullah della sua provincia originaria, l’Uruzgan. Almeno il 60 per cento dei vertici Talebani aveva ricevuto quasi tutta la propria istruzione nelle hujra, un’istituzione tradizionale degli ambienti tribali. Molti erano intrisi della religiosità popolare – quella, in particolare, tipica del sufismo marabutico, fatta di amuleti, reliquie e visite alle tombe dei pir: lo stesso mullah Omar prendeva le proprie decisioni sulla base dei sogni, secondo modalità tipiche dei pir. Alcuni suoi stretti collaboratori erano pir o murid, e il simbolismo sufi era onnipresente nel movimento. Sarà questo, tra l’altro, un elemento di attrito tra i Talebani e al-Qaeda, che porterà quest’ultima a interrogarsi sull’ortodossia degli “studenti” coranici. I Talebani mantenevano inoltre negli anni Novanta, e mantengono tutt’ora, alcune peculiarità dell’ambiente tribale da cui provengono – continuando per esempio a seguire pratiche decisionali inclusive, tipiche delle jirga, che smussano quel potere assoluto dei singoli comandanti che caratterizza i gruppi jihadisti arabi. 

Frags tratti da L’islam: la declinazione afgana della parola del Profeta, di Elisa Giunchi, in La grande Illusione. L’Afghanistan in guerra dal 1979, a cura di Emanuele Giordana, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

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