Jabhat al-Nusra Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/jabhat-al-nusra/ geopolitica etc Sat, 12 Nov 2022 08:48:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi https://ogzero.org/guerre-di-religione-continuazione-del-colonialismo-con-altri-mezzi/ Sat, 12 Nov 2022 08:48:30 +0000 https://ogzero.org/?p=9436 Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che […]

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Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che si fonde e intreccia con le altre che muovono masse di disperati, distruggono il clima, depredano territori, spacciano armi, innescano conflitti per controllare risorse. Si può interpretare questo uso della divisione religiosa come un nodo delle diverse emergenze del Finanzkapitalismus nella sua fase iperliberista, un nodo a cui arrivare dagli altri orrori geopolitici, o da cui partire per inserirlo nella rete che mette insieme l’uso politico-aggressivo della religione, il pastone mediatico, la scorciatoia militarista, l’espansionismo imperialista… ma partiamo dallo storico conflitto irlandese tra cattolici separatisti e unionisti protestanti e poi ci espandiamo nelle più complesse – ma riconducibili agli stessi modelli di potere – contrapposizioni mediorientali.


Solo un’ipotesi, la mia. Da “proletario autoalfabetizzato” senza pretese accademiche. A naso diciamo.
Se in passato le “guerre di religione” potevano, forse, esprimere (“fotografare”) in qualche modo i conflitti etnici e/o sociali del tempo (vedi alcune “eresie” e certe “riforme” diretta conseguenza dei conflitti di classe), direi che in seguito, perlomeno dal secolo scorso, il più delle volte sono state la copertura, la “vetrina” di interessate strumentalizzazioni.

Partiamo dall’Irlanda…

A titolo di esempio, il conflitto irlandese, soprattutto dopo la divisione dell’Isola di smeraldo. Se già nel Settecento cattolici e protestanti (discendenti i primi dagli indigeni irlandesi colonizzati, gli altri dai coloni scozzesi presbiteriani) avevano fatto fronte comune per l’indipendenza dell’Irlanda, anche in seguito (vedi gli scioperi di lavoratori salariati cattolici e protestanti a Belfast) non mancarono lotte comuni. A porvi fine intervennero le ricche borghesie filobritanniche (si veda La Casa d’Orange) elargendo piccoli privilegi e organizzando milizie settarie “lealiste” (v. Uvf). Non potendo utilizzare – che so – un diverso colore della pelle o diversità etniche rilevanti (in quanto entrambe le comunità erano di origine celtica, diversamente dagli inglesi anglosassoni – di origine germanica – e anglicani) si accontentarono di ampliare il modesto solco di natura religiosa.


Poi è andata come sappiamo. Esperimento sostanzialmente riuscito, un modello per future strumentalizzazioni a “geometria variabile”.

… e giungiamo tra le comunità beluci, curde e hazara

Quindi ritengo che anche le sanguinose faide mediorientali tra sunniti e sciiti (con ricadute particolarmente gravi per le minoranze qui presenti: yazidi, alaviti, assiro-cristiani, zoroastriani…) siano state perlomeno “pompate”, gonfiate, esasperate ad arte.
Quanto è avvenuto nelle aree curde, occupate militarmente dalla Turchia, di Afrin e di Sere Kaniyê (Nord della Siria) appare emblematico. Non essendo in grado di controllare adeguatamente le proprie milizie mercenarie (vedi l’Esercito Nazionale Siriano, Sna), Ankara si starebbe affidando direttamente al gruppo terrorista Hayat Tahrir al-Sham (Hts, successore di al-Nusra), con tutta probabilità l’emanazione locale di al-Qaeda.

Il ruolo della Turchia

Anche perché tra le fila di alcune formazioni sul libro paga di Ankara ultimamente serpeggiava, oltre al malcontento, anche una certa preoccupazione.

Le voci su un possibile riavvicinamento tra Ankara e Damasco (patrocinato da Mosca) lasciava intravedere la possibilità di venir scaricati, se non addirittura consegnati, per diversi membri delle milizie mercenarie. In quanto ricercati da Damasco potrebbero venire estradati e questo suggerisce una possibile spiegazione su alcuni episodi di insubordinazione. Come per gli scontri a mano armata intercorsi tra membri di Jabhat al-Shamiya e di Jaish al-Islam.
Tali dispute ricorrenti (oltre al rischio concreto di insubordinazione e defezione) tra le diverse fazioni di Sna (forse non adeguatamente attrezzate, oltre che sul piano politico, anche in quello religioso?) avrebbero suggerito a Erdoğan di far leva sul maggiore entusiasmo, fervore religioso (eufemismo per fanatismo) di Hts. Un fanatismo indispensabile per annichilire le minoranze “eretiche” e non omologate (tutti apostati, dissidenti, “pagani”… addirittura comunisti o anarchici talvolta) del nord della Siria. Nella prospettiva di ulteriori invasioni.
Già all’epoca delle prime manifestazioni contro il regime siriano si assisteva a una proliferazione di gruppi armati, in genere appoggiati, oltre che dalla Turchia, da alcuni stati del Golfo come il Qatar.

Negli Usa è ancora in corso il processo contro “Qatar Charity” e contro Qatar Bank per aver finanziato con 800.000 dollari il leader dell’Esercito Islamico Fadhel al-Salim.

Pulizie etnico-religiose nella Mezzaluna sciita

Per inciso, è probabile che questo stia oggi avvenendo in Iran, nel tentativo di strumentalizzare, “dirottare” altrove, le legittime proteste popolari. Con un occhio di riguardo per i beluci, già manovrati in passato anche da qualche potenza imperialista di Oltreoceano. Come da manuale, ça va sans dire, anche i beluci ci mettono “del loro”: per esempio in Pakistan alcuni gruppi indipendentisti beluci sono ritenuti responsabili di vere e proprie stragi ai danni degli hazara, un’altra minoranza, ma di fede sciita.
Va anche detto che da parte sua la Repubblica islamica sembra far di tutto per fornire pretesti in tal senso. In una recente manifestazione (4 novembre 2022) a Khach, provincia di Zahedan, le forze di sicurezza hanno ucciso una ventina di civili beluci (16 le vittime identificate, tra cui alcuni bambini) ferendone oltre sessanta. Da segnalare – stando a quanto dichiarato da alcuni attivisti – che altri feriti erano poi deceduti non essendo stati traspostati all’ospedale dove rischiavano seriamente di essere arrestati.


Un’altra strage di 90 civili beluci era già avvenuta, sempre nella provincia di Zahedana, il 30 settembre.

Appare evidente che – analogamente a quella curda – anche la popolazione minorizzata dei beluci (“minorizzata” e non minoritaria, in quanto divisa da frontiere statali) in Sistan e Baluchistan subisce quotidiane discriminazioni ed è sottoposta a una dura repressione (come del resto altre comunità delle aree periferiche del paese) da parte di Teheran.
Sia per la loro appartenenza etnica, sia per ragioni religiose in quanto sunniti.
Il comandante di al-Nusra, Al-Hana (Abu Mansour al-Maghrebi) arrestato nel 2020 in Iraq aveva rivelato che lo sceicco Khalid Sueliman (della potente famiglia al-Thani), a capo del Jabhat al-Nusra (e pare anche delle organizzazioni derivate), veniva finanziato con qualcosa come un milione di dollari al mese. Turchia e Qatar sosterrebbero, sia finanziariamente, sia con la fornitura di armamenti, i vari gruppi combattenti emanazione dei Fratelli musulmani salafiti in quanto utile strumento per la loro politica estera. Anche in chiave panislamica.

Guerra turca ai curdi in Siria

Alcune organizzazioni hanno stabilito un’analogia, per vastità e inasprimento, tra l’attuale repressione in Iran e i massacri subiti dai beluci a Deraa (in Siria) nel 2011, denunciati dall’Onu come crimini di guerra.
Storicamente accertato che potenze regionali ostili a Damasco avevano favorito la militarizzazione (vedi appunto la formazione di Sna) e l’escalation del conflitto.
Oltre che a Sna, la Turchia non avrebbe lesinato nel fornire sostegno al fronte al-Nusra (dal 2012 nella lista del terrorismo internazionale in quanto ritenuto emanazione di al-Qaeda) e addirittura a Daesh. Formazioni entrambe notoriamente jihadiste.

Quanto al fronte al-Nusra, va ricordato che nell’ottobre 2012 attaccava i distretti autonomi di Şêxmeqsûd e Eşrefiye (regione di Aleppo) uccidendo decine di curdi. Subito dopo gli ascari jihadisti si scagliavano contro Afrin, incontrando però la ferrea resistenza delle Ypg/Ypj. Nel voler annichilire in primis le zone curde del Rojava (dove si sperimentava la rivoluzione del Confederalismo democratico) il Jabhat al -Nusra si smascherava da solo, mostrando apertamente di agire su indicazione della Turchia.

Sempre nel 2012, in novembre, veniva attaccata, partendo direttamente dalla Turchia, anche Serêkaniyê. Un’operazione congiunta tra al-Nusra e alcune milizie curde collaborazioniste legate al Pdk. Entrando in alcuni dei quartieri a maggioranza araba di Serêkaniyê, queste milizie si spacciavano per ribelli antiAssad cercando di stabilire alleanze. Solo successivamente (il 19 novembre) partiva il brutale attacco contro i quartieri a maggioranza curda. Veniva assassinato il sindaco della città e la chiesa diventava un bivacco per il loro quartiere generale.

Nel frattempo la loro già consistente presenza veniva rinforzata dall’apporto della cosiddetta Coalizione nazionale (Etilaf), che – secondo i curdi – sarebbe al Etilaf di Sna o comunque della sua derivazione, il “governo di transizione siriano”. Oltre al seggio di Istanbul, Etilaf ne controlla uno anche a Berlino (oltretutto finanziato dal governo tedesco).
Avrebbe anche una certa influenza in alcuni progetti (ugualmente finanziati dal governo tedesco) che sembrano funzionare come “specchietti per allodole”, allo scopo di creare cortine fumogene sulla realtà della situazione curda. Tra questi, il Centro europeo di studi curdi (Ezks) e il sito Kurdwatch, divulgatore di notizie farlocche intese a giustificare le operazioni militari di Erdoğan nel Nord della Siria e nel Nord dell’Iraq. Ma nonostante questo ulteriore apporto di milizie, successivamente venivano scacciati dalla popolazione insorta dei quartieri curdi, grazie anche all’intervento dei combattenti di Ypg e Ypj.

Gli scontri ripresero, durissimi, nel gennaio 2013. Praticamente una vera e propria ammucchiata di gruppi mercenari guidata da al-Nusra quella che contese per circa due settimane il controllo dei quartieri alle milizie curde. Sconfitte nuovamente, le truppe jihadiste si misero in salvo direttamente oltre il confine turco (immediatamente blindato dai soldati turchi per maggior sicurezza), ma lasciando in mano ai curdi un’ampia documentazione della loro intensa collaborazione con Ankara.
Purtroppo durante la ritirata sia al-Nusra che Daesh non mancarono di vendicarsi sulla popolazione curda con una vile rappresaglia.

Come a Til Eran (luglio 2013) e a Tal Hasil. Dichiarando pubblicamente, attraverso le moschee, che sia il bagno di sangue nei confronti della popolazione curda (circa un’ottantina le vittime accertate) che il sequestro-rapimento delle donne curde (prelevate a centinaia) era giustificato dal punto di vista religioso. Rastrellando poi casa per casa le due località sopracitate alla ricerca di “Apoisti”, ossia di seguaci di Apo Öcalan. Oltre a quelli crudelmente assassinati (alcuni bruciati vivi, con le immagini poi diffuse nei social), vanno considerati anche i desaparecidos (qualche decina) e i cadaveri (una ventina) di cui non è stata possibile l’identificazione.

Til Hasil

Da sottolineare che – per quanto entrambe aspirassero alla supremazia – Al-Nusra e Daesh (o Stato Islamico che dir si voglia) non smisero mai di collaborare proficuamente. Sia garantendo una certa “osmosi” di combattenti –praticamente intercambiabili – da una formazione all’altra (in base alle necessità del momento), sia dandosi il cambio, alternandosi nel controllo delle aree occupate. E soprattutto instaurando congiuntamente durante l’occupazione delle città, dei villaggi e dei quartieri curdi un aspro regime di ispirazione salafita. Anche a livello di tribunali islamici dove operavano in coppia.

Sempre sotto la supervisione di Ankara ovviamente. L’assalto al carcere di Sina à Hesekê (gennaio 2022) era stato pianificato dai territori occupati dalla Turchia.

Come già detto negli ultimi tempi al-Nusra aveva cercato di “riciclarsi” prendendo (almeno ufficialmente) le distanze da al-Qaeda e cambiando pelle e nome. Diventando prima, nel 2016, Liwa Fatah al-Sham e successivamente, nel 2017, appunto Hayat Tahrir al-Sham (Hts, in realtà una finta coalizione di vari gruppi, sostanzialmente sotto il controllo della vecchia al-Nusra, comunque denominata). Attualmente la casa madre sarebbe localizzata in quel di Idlib, in felice coabitazione con l’alleato turco. Allo scopo dichiarato di soffocare il risorgere e la diffusione del Confederalismo democratico in questa parte del Rojava. Esperienza pericolosa perché esemplare e contagiosa, soprattutto così in prossimità del confine turco.

Dal maggio di quest’anno (a seguito dell’incontro di Idlib-Sarmada con esponenti del regime turco) le milizie di Hts hanno ripreso a riposizionarsi e raggrupparsi su Idlib puntando quindi su Afrin. Inoltre si sarebbero acquartierati anche nelle zone di Girê Spî, Azaz, al-Bab, Cerablus e intorno alla città di Minbić (ancora gestita dall’amministrazione autonoma).
Sempre in vista di ulteriori attacchi in Rojava.

Per concludere, pur essendo presto rientrato nella lista nera dei gruppi terroristi, Hts continua a godere dei finanziamenti di Turchia, Qatar, Arabia Saudita…
Pare anche di qualche non meglio identificato “paese occidentale”…

Vai a sapere.

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n. 8 – Siria (III): il clan al-Assad e la Guerra civile https://ogzero.org/il-clan-al-assad-e-la-guerra-civile-siriana/ Wed, 26 May 2021 11:33:21 +0000 https://ogzero.org/?p=3559 Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella […]

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Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe umanitaria che ha fatto seguito allo scatenarsi del conflitto siriano dell’ultimo decennio.

L’autrice ha dapprima analizzato le attuali condizioni di siriani ormai integrati in realtà esterne al paese ai quali ora viene chiesto di rimpatriare, rischiando la vita e rinunciando alla nuova esistenza costruita faticosamente in esilio. L’analisi è proseguita valutando le condizioni economiche e umanitarie in cui si tengono le elezioni il 26 maggio, senza dimenticare la specificità della Primavera araba nelle diverse regioni siriane; prosegue qui collegando le modalità di protesta alla particolare peculiarità del regime alauita del clan al-Assad; le fasi della politica di Bashir – fino alla Primavera araba e il conflitto esploso nel 2011, che ha fatto del territorio siriano uno scenario usato dalle potenze globali e locali per imporre la propria supremazia.


n. 8, parte III

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il conflitto siriano: il clan al-Assad e la Guerra civile

I regimi degli al-Assad

Nonostante in Siria si riscontri l’esistenza di istituzioni statali come il parlamento, il consiglio dei ministri, il potere decisionale è sempre nelle mani di un solo clan ossia quello di Assad e dei suoi familiari e dai capi dei servizi di intelligence.

il clan al Assad

Come noto Bashar al-Assad è succeduto al padre Hafiz, a capo della nazione per trent’anni, in seguito alla sua morte nel 2000. Il figlio Basil che avrebbe dovuto succedergli, al momento della sua morte, è deceduto in un incidente stradale nel 1994; in sua vece quindi nel 2000 subentrò al potere il secondogenito Bashar. Tra le immediate nomine “familiari” del neoeletto presidente, all’interno del regime, citiamo quella del fratello minore Mahir al-Assad e della sorella Bushra al-Assad al comando della Quarta divisione corazzata dell’Esercito Siriano e quella del cognato Assef Shawkat designato vicecapo di stato maggiore e all’epoca già a capo del Mis – Il Dipartimento di intelligence militare siriana – in particolare nella sezione Perquisizioni (sezione 235).

La legge d’emergenza controlla la libera espressione

Il presidente della Siria, già durante il regime instaurato da Hafiz a partire dal 1970, riunì nella sua persona la carica di capo dello stato, quella di comandante delle forze armate, quella di segretario generale del Partito ba’at al potere e quella di presidente del Fronte nazionale progressista, sotto il quale vi furono tutte le forze politiche di opposizione autorizzate dal regime. In quest’ottica va citata la “legge d’emergenza” in vigore dal 1963 che garantisce il ferreo controllo di ogni manifestazione di dissenso di libera espressione politica, il divieto di assembramenti pubblici, il fermo di sospetti dissidenti e infine indica per quali accuse il fermo può trasformarsi in arresto. La legge inoltre definisce il ruolo dei tribunali speciali per i dissidenti, impone rigidi controlli sui mezzi d’informazione ma soprattutto concede ampi poteri alle quattro agenzie di sicurezza operative in tutto il paese. Rispetto al regime da lui guidato va detto però che Bashar è un primus inter pares ossia a capo di un’oligarchia composta dai membri della famiglia al-Assad, da alleati e da alcuni ufficiali legati al clan familiare, e non un capo indiscusso come lo era il padre Hafiz. La Siria, infatti ha acquisito l’indipendenza dai francesi nel 1946, tuttavia con l’indipendenza non si è raggiunta una stabilità politica ma si sono succeduti nel tempo una serie di colpi di stato e di guerre come quella dei 6 giorni nel 1967 con Israele, paese ancora oggi considerato nemico dai siriani.

A ogni modo già tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta si registrò l’ascesa della comunità alauita – minoranza sciita originaria delle montagne a est di Latakia e delle sue pianure costiere a sud – la quale si unì al Partito ba’at (Partito della resurrezione, movimento panarabo nazionalista, socialista e laico) nel quale Hafiz al-Assad entrò a far parte a soli 16 anni perseguendo al contempo la carriera militare. Nel 1963 il Partito ba’at, per effetto di un colpo di stato, conquistò il potere e da lì cominciò l’ascesa di Hafiz che nel 1964 venne nominato generale, quindi nel 1965 capo dell’Aereonautica.

Un nuovo colpo di stato

Tuttavia, la succitata guerra dei 6 giorni con Israele nella quale la Siria venne sconfitta, fece vacillare il potere di al-Assad ma, nel 1970, Hafiz portò avanti un ennesimo colpo di stato – non sanguinario come i precedenti – definito come “Rivoluzione Correttiva” mediante il quale ottenne in modo indiscusso il governo del paese che ebbe sempre un maggiore controllo del territorio siriano.

Nel 1976, inoltre, è importante ricordare che il regime di Damasco decise di fare del Libano un proprio protettorato, condizione che resterà salda fino al 2005 quando venne assassinato il premier libanese Rafiq al-Hariri, intervenendo militarmente e politicamente nella guerra civile libanese che ebbe luogo dal 1975 fino al 1990.

Ciò che risulta interessante è che la composizione alauita del regime non seguì fin da subito una logica confessionale per la sua affermazione, ma mirò piuttosto all’appoggio della borghesia urbana e delle periferie:

A sostenere il regime infatti fu non solo la destra alauita della quale faceva parte Hafiz ma anche i drusi e i cristiani che temevano la presenza della maggioranza sunnita nel paese.

Allo stesso tempo i sunniti si allearono in quegli anni con il clero islamico ortodosso, ossia la frangia estremista rappresentata quasi totalmente dalla Fratellanza Musulmana. Iniziarono cruenti attentati da parte dei sunniti e violentissime repressioni da parte del regime fino a quando nel 1982 Hafiz decise di bombardare la città di Hamah – definita da Hafiz “la testa del serpente” in quanto patria dei maggiori conservatori tra i sunniti in Siria – per reprimere la rivolta della comunità musulmana sunnita dando inizio a uno dei più cruenti conflitti civili. In quella circostanza si parlò di almeno 10.000 siriani uccisi nel conflitto. Hafiz volle affermare con tale efferata e sanguinaria repressione, fatta di esecuzioni di massa, di fosse comuni, di feriti, di donne e di bambini sepolti vivi tra le macerie, che la religione veniva dopo lo stato ba’atista e che l’uso politico di questa non sarebbe mai stato tollerato dal regime.

il clan al Assad

La distruzione della città di Hamah perpetrata da Assad nel 1982.

Le atrocità commesse nei confronti dei sunniti non furono finalizzate solo a prevalere sulla Fratellanza Musulmana ma anche come ammonizione, per i sopravvissuti e per i membri di tutte le altre organizzazioni che si opponevano al regime, di quello che sarebbe potuto accadere nell’ipotesi di ulteriori atti di disobbedienza in futuro.

La repressione sanguinaria e le promesse tradite

Dopo circa trent’anni dal massacro di Hamah nel 2011 il figlio di Hafiz, Bashar al-Assad si trovò quindi ad affrontare una nuova escalation di proteste, contro le quali decise, come il padre, di scatenare una sanguinaria repressione, nonostante queste avessero poco a che fare con l’elemento religioso – caratteristico delle rivolte della popolazione sunnita del 1982 – quanto piuttosto con un senso di tradimento avvertito dalla popolazione siriana legato al mancato riconoscimento delle libertà e dello sviluppo economico. Questi ultimi erano stati promessi infatti dal governo ba’atista di Bashar che tuttavia avrebbe accumulato nel tempo tutte le ricchezze per sé stesso. Da quanto si sta verificando fino a oggi, dopo dieci anni dall’inizio del conflitto civile, Bashar al-Assad non sembra aver riproposto la forza armata “risolutiva” del conflitto che aveva dimostrato il padre nel 1982.

il clan al Assad

Manifestazione a Homs.

Non si può tacere tuttavia che, se le proteste del 2011 sono state sicuramente meno accanite di quelle del 1982, allo stesso tempo – per il fatto di non essere strettamente legate alla questione confessionale sunnita – hanno saputo raccogliere importanti consensi in ambito nazionale e internazionale molto più ampi rispetto al passato.

Tuttavia, per capire come si sia arrivati a tali proteste e per apprendere meglio la ragioni dell’intervento di più forze internazionali nel conflitto siriano occorre fare una breve sintesi degli eventi concernenti gli anni del governo di Bashar al-Assad prima del 2011.

La politica di Bashar al Assad dal 2000 al 2011

Nel 2000 Bashar al-Assad riprese il dialogo con gli “ulama” (il clero islamico), tra cui il leader del movimento islamico Zayd – in quegli anni considerato forza religiosa prevalente a Damasco. Il regime invece non si riavvicinò ai Fratelli Musulmani ormai di base a Londra.

Quindi nel 2005, poiché come detto il regime fu sospettato dell’assassinio dell’ex premier libanese Rafiq al-Hariri, Damasco dovette ritirare, su pressione popolare libanese e internazionale dell’Onu, degli Usa e della Francia, le sue truppe dal Libano. In quell’anno i Fratelli Musulmani crearono, in opposizione al regime, il Fronte di salvezza nazionale costretto poi a dissolversi nel 2009, a causa del rinnovato vigore politico e militare di Damasco, grazie all’appoggio dato a Hamas durante in conflitto israelo-palestinese nella Striscia di Gaza.

Allo stesso modo nel 2006 una nuova generazione di islamisti in esilio creò a Londra il Movimento di giustizia e sviluppo (ispirato all’Apk turco di Erdoǧan), movimento musulmano più democratico che islamista. Tuttavia, la questione dell’opposizione islamista in esilio manifestò subito i suoi problemi strutturali, quali la sua estrema frammentarietà e la sua mancata rappresentatività all’interno della Siria, dato che i loro interessi erano divergenti rispetto a quegli degli ulama – interessati più all’indebolimento dell’apparato statale di sicurezza che al multipartitismo nella repubblica – e dato che questi non potevano svolgere alcun ruolo di rappresentanza politica di forte opposizione al regime per il timore costante della repressione.

Il legame col Libano

Dal 2008 il regime ristabilì un’influenza politica sul Libano, data la sua importanza strategica dal punto di vista geopolitico, rafforzando l’armamento di Hezbollah e, godendo di una quasi completa riabilitazione da parte dell’Occidente, rinunciò completamente alla causa di riappacificazione con gli ulama. Dal 2008 Damasco infatti iniziò una politica di affermazione di superiorità del proprio potere politico su quello religioso, cercando di escludere l’influenza del movimento islamico in diversi settori della società come nelle scuole e nelle associazioni benefiche presenti nel paese.

Quando nel marzo 2011 esplosero le proteste contro il regime, Bashar al-Assad strategicamente accolse come in passato le istanze del clero musulmano per paura che anche esso si unisse alle rivendicazioni democratiche del resto della popolazione: venne chiuso il casinò di Damasco, vennero reinserite “le insegnanti con il velo”, vennero creati un istituto islamico pubblico e un’emittente nazionale musulmana.

Tale strategia ebbe successo poiché assicurò il silenzio del clero musulmano rispetto ai movimenti di protesta che in quell’anno dominarono la scena politica del paese.

Inoltre, per le politiche messe in atto dal regime di Damasco nel Libano, Hezbollah fornì pieno appoggio a Bashar al-Assad già durante le rivolte del 2011, mentre Ankara – pur essendo passata da un autoritarismo militare laico a una democrazia conservatrice dei valori musulmani, unita a una politica iperliberista sul piano economico – nel 2011 prese inizialmente le distanze sia dai movimenti di protesta che dalle dure repressioni esercitate da Damasco.

Le tappe del conflitto dal 2011 a oggi

Nei dieci anni precedenti al conflitto la Siria era quindi già un avamposto nel quale si dispiegarono numerose questioni politiche, sociali ed economiche non solo in ragione del desiderio di acquisizione del potere centrale nella repubblica, ma anche per le trattative intessute in questi anni tra il potere centrale, le comunità locali e le forze internazionali; inoltre nel conflitto hanno avuto e continuano ad avere peso diversi fattori etnici, confessionali, politici, individuali e culturali.

Occorre sottolineare che ciascuna potenza internazionale intervenuta nel conflitto ha visto nella guerra siriana la possibilità di consolidarsi nella regione del Medioriente rispetto ad altre potenze rivali nell’area.

Il 18 marzo 2011 le milizie governative di Assad spararono contro i manifestanti a Dara’a uccidendo quattro persone: le manifestazioni e, di conseguenza anche la loro repressione, ebbero un’eco sempre maggiore, mentre ad aprile dello stesso anno nella città di Homs, una delle città più grandi del paese, migliaia di cittadini siriani organizzarono un importante “sit in” che rievocò le manifestazioni in piazza Tahrir contro il regime di Mubarak. Gli scontri continuarono per tutto il 2011 e portarono come detto alla formazione dell’Esercito siriano libero – oggi forza militare marginale sostituita da jihadistimotivo per cui il regime mise in campo forze militari di artiglieria e di aviazione. Il 18 luglio 2012 dalla rivolta si raggiunse l’apice della guerra civile: i manifestanti bombardarono il Palazzo di sicurezza nazionale, durante una riunione di crisi, provocando l’uccisione di quattro funzionari del regime tra cui il succitato cognato di Assad e l’allora ministro della Difesa. Le forze militari del governo di Assad assediarono il quartiere di Baba Amir sempre a Homs. In quella circostanza all’Esercito siriano libero si affiancarono i combattenti di al-Nusra, gruppo jihadista nato da al-Qaeda e composto da fondamentalisti sunniti che miravano alla destituzione del regime per poter instaurare uno Stato Islamico nel paese.

Arrivano le forze internazionali

Il 2013 invece segnò l’inizio della presenza di forze internazionali nel conflitto siriano: la condizione nasce dal fatto che gli Stati Uniti, nella persona dell’allora presidente Barack Obama, dichiararono che l’utilizzo di armi chimiche avrebbe condizionato il coinvolgimento degli Usa nel conflitto. Nel 2013 iniziò l’indagine delle Nazioni Unite relativamente alla morte di 26 persone civili e soldati nella città di Khan Shaykhun e, rispetto al quale, tanto il regime quanto le forze di opposizione rinnegarono ogni responsabilità. L’Onu, anche se non riuscirà mai a conoscere la verità sulla responsabilità dell’attacco, dichiarerà in seguito che si trattò di un attentato compiuto mediante l’utilizzo di gas nervino. Inoltre, sempre nel 2013, un attacco chimico nella periferia della capitale Damasco uccise centinaia di persone. Gli Stati Uniti a quel punto attribuirono la responsabilità della strage al regime decidendo in un primo momento di intervenire nel conflitto, ma successivamente ritirarono le loro dichiarazioni. Tuttavia il Consiglio di Sicurezza dell’Onu impose al regime la distruzione di tutte le proprie armi chimiche come conseguenza di un surreale accordo tra Stati Uniti e Russia, per cui Bashar al-Assad fu costretto a firmare il 14 ottobre 2013 la Convenzione sulle armi chimiche che ne vieta la produzione, lo stoccaggio e l’utilizzo.

Le ultime armi chimiche a disposizione del regime siriano verranno dichiarate rimosse l’anno successivo dall’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, nonostante l’opposizione sostenesse che l’esecutivo continuava a disporne di ulteriori.

L’osservazione internazionale sull’elemento chimico della guerra nel 2013 determinò così il decisivo intervento diplomatico della Russia nel conflitto siriano che conferì a Bashar al-Assad un possibile ruolo di “attore-interlocutore” per il processo di pace nel paese.

Nel maggio del 2013, inoltre, anche il gruppo militante libanese Hezbollah si inserisce nel conflitto siriano accanto ad Assad, in questo caso a livello militare, attaccando e riconquistando la città di Qusair al confine tra i due paesi. Anche il sostegno fornito dal gruppo sciita libanese, quindi, ha finito per internazionalizzare il conflitto siriano in quanto – in conseguenza della presenza di Hezbollah in Siria – decisero di intervenire da un lato l’Arabia Saudita, il Qatar e gli Emirati Arabi e la Turchia a favore delle forze di opposizione e dall’altro l’Iran e l’Iraq, i quali appoggiarono il regime di Assad. Intanto gli insorti appartenenti all’opposizione si frammentarono nel corso degli anni in gruppi militari laici e islamisti per cui la coalizione tra l’Esercito siriano libero e al-Nusra si ruppe definitivamente nel 2014.

La fuga della popolazione dallo Stato Islamico

Il 2014 rappresentò tuttavia uno degli anni più rilevanti del conflitto siriano anche per altre ragioni: nel giugno dello stesso anno si tennero nel paese le elezioni presidenziali, il cui verdetto vide riconfermato capo di stato, con l’88 per cento dei voti a favore, Bashar al-Assad  ma il 30 giugno 2014 il sedicente Stato Islamico dichiarò il Califfato nelle aree che ormai erano poste sotto il suo controllo, non solo in Iraq, ma anche in Siria, provocando la fuga di migliaia di cittadini siriani dal paese. Nel settembre del 2014 gli Usa cominciarono a sferrare attacchi aerei contro gli avamposti del sedicente Stato Islamico in Siria.

Nel 2015 il regime siriano raccolse una serie di sconfitte militari in conseguenza dei continui attacchi sia dei ribelli che dell’IS e inoltre il 28 marzo del 2015 la città nordoccidentale di Idlib cadde nelle mani dei militanti islamici guidati da al-Nusra. Proprio in quest’anno si ricorda il ritrovamento del corpo del bambino siriano Alan Kurdi di tre anni su una spiaggia turca: quest’immagine che forse sarà ancora presente negli occhi di molti lettori portò l’opinione pubblica internazionale a non voltare più lo sguardo rispetto alla condizione dei profughi fuggiti in conseguenza del conflitto siriano e speriamo che non occorrano ancora immagini come quella per scegliere l’opzione dei canali umanitari e non quella assurda della prassi delle esternalizzazioni delle frontiere.

Le potenze regionali intervengono

Nell’autunno del 2015, quindi, poiché il regime siriano rischiava ormai di collassare, la Russia decise di intervenire militarmente nella Siria occidentale lanciando i primi raid aerei e attrezzando di nuovo militarmente le basi militari di Tartus e Latakia e successivamente il Consiglio di Sicurezza approvò all’unanimità la Risoluzione Onu n. 2254 finalizzata alla costituzione di un processo di pace nel paese.

Nel 2016 si registrò la vittoria del Partito ba’at di Assad nelle consultazioni parlamentari ma il conflitto proseguì duramente, in particolare nella città di Aleppo, portato avanti però più che dalle forze militari del regime da parte di quelle internazionali, nello specifico da quelle russe.

Il 2016 tuttavia segnò per la prima volta l’intervento della Turchia, proprio a nord di Aleppo, mentre i quartieri a est della città rientrarono, dopo mesi di assedio, sotto il controllo delle milizie lealiste in particolare di quelle iraniane e russe. Allo stesso tempo la coalizione curdo-araba – ossia le Forze democratiche siriane anti-Isis, guidata dagli Stati Uniti nel Nordest del paese – riconquistarono la città di Raqqa, storica roccaforte dello Stato Islamico, con una campagna che si concluse nell’anno seguente.

Gli attacchi chimici

Nell’aprile del 2017 vi fu un attacco di gas nervino nuovamente nella città settentrionale di Kahna Sheikhoun, in quel periodo in mano ai ribelli, la responsabilità del quale venne negata da Mosca e Damasco. Tuttavia, gli Usa, in risposta a tale attacco chimico, spararono missili crociera direttamente contro il territorio dominato dal regime di Damasco, mentre i ribelli si ritirarono a Homs. Anche Israele in conseguenza del presunto attacco chimico per opera del regime è intervenuto nel 2017 con bombardamenti contro una base aerea militare siriana. Sempre nel 2017 venne ripreso il controllo anche di altre città in tale area del paese e Putin a dicembre dello stesso anno dichiarò la definitiva sconfitta dello Stato Islamico in Siria.

il clan al Assad

Le rovine della città di Homs (foto gsafarek).

Nel 2018 la novità fu quella di sostenere che al-Assad ormai avesse vinto la guerra.

Ma, nonostante le forze governative riconquistassero in quest’anno anche il Sudovest del paese e la regione agricola orientale di Ghouta a ridosso della città Damasco – regione dal 2012 sottratta al controllo del regime – le milizie turche consolidarono la loro posizione nel Nordovest della Siria in particolare nella città di Idlib. Quest’ultima prende il nome dalla stressa provincia, intorno alla quale, la Russia e la Turchia volevano creare una zona “cuscinetto” di circa venti chilometri, mediante la stipula dell’Accordo di Sochi siglato nell’autunno del 2018 dalle due potenze e aggiornato con la recente intesa del marzo del 2020 principalmente per evitare che i futuri sfollati siriani si dirigessero nuovamente verso la Turchia come in passato. L’area a Nordovest infatti nel 2018 era considerata l’ultima roccaforte delle forze di opposizione jihadiste. Rispetto a Israele, paese sempre maggiormente preoccupato della continua espansione iraniana nel conflitto siriano, la Russia è corsa ai ripari negoziando proprio con l’Iran l’allontanamento dalle frontiere di Israele per circa 80 chilometri dalle alture del Golan, garantendo il monitoraggio dell’area attraverso le proprie truppe militari.

Truppe israeliane al confine con la Siria (foto Alexeys).

Le diverse violazioni dell’Accordo di Sochi

Ciò non fu sufficiente a evitare più volte la violazione dell’Accordo di Sochi, soprattutto nel 2019, quando le truppe russe cercarono di invadere la provincia di Idlib al confine con la Turchia – stante la permanenza delle forze di opposizione in particolare di quelle jihadiste dell’Hts (Hay’et Tahrir al-Sham) – sostenute proprio dalla Turchia che a sua volta cercò di contrastare le milizie curde dell’Ypg/Ypj (ramo siriano del Pkk turco) che combattono per uno stato indipendente nel Nord del paese.

Le violazioni degli accordi di Sochi: i russi intervengono in Siria invadendo la provincia di Idlib.

Inoltre, la promessa Usa del 2018 del ritiro definitivo delle proprie truppe americane dall’area a Nordest del paese – che si ponevano a guida della coalizione arabo-curda delle Forze democratiche siriane – venne mantenuta verso la fine del 2019, motivo per cui le Forze democratiche siriane dopo l’abbandono Usa dal Nordest si spostarono principalmente sul versante Nordovest del paese per resistere all’avanzata turca.

L’offensiva anticurda della Turchia

Dopo il ritiro degli Usa, infatti, il 10 ottobre del 2019 la Turchia portò avanti un’offensiva contro i combattenti curdi. Il succitato accordo del marzo del 2020 tra Putin ed Erdoğan per un cessate il fuoco nel Nordovest della Siria è riuscito a scongiurare un confronto diretto delle forze armate filogovernative russe contro quelle turche e ha bloccato un’importante offensiva del regime verso la città di Idlib. Tali condizioni sono state accettate da Damasco perché certa non era la possibilità di riuscita contro le forze di opposizione a Idlib, senza l’aiuto di Ankara.

Come si evince dalla sintesi del conflitto siriano dopo 10 anni si può giungere alla conclusione che le scelte politiche, e di conseguenza quelle militari, che caratterizzano le dinamiche e le interazioni nella repubblica siriana vengono assunte prevalentemente dalle potenze straniere, mentre un ruolo del tutto marginale rivestono ormai le scelte e le azioni poste in essere dalle rappresentanze politiche interne al paese compreso lo stesso regime. È solo partendo da questo presupposto che potremo cercare di comprendere successivamente i recenti accadimenti che stanno interessando il paese, consapevoli che interazioni, interessi, negoziazioni oggi sono prevalentemente tra le potenze esterne: sono tali azioni che possono essere oggetto di una valutazione prognostica autentica rispetto alla concreta realizzabilità del tanto auspicato processo di pace nel paese ormai devastato dal conflitto civile. Analizzeremo dunque ogni attore estero e il ruolo che attualmente possiede nella determinazione della condizione della Siria, rivelando ciò che oggi è già chiaro:

la Siria e il “suo” conflitto stanno divenendo la cartina al tornasole di tutte le questioni di conflittualità esistenti tra i paesi dell’area mediorientale, i movimenti jihadisti in esso presenti, e tra le grandi potenze straniere, fuori dall’area, che avvertono “la responsabilità” di intervenire nel conflitto.

Analizzando le azioni di queste forze sembra che poco si stia compiendo nell’interesse della popolazione civile siriana: infatti le decisioni di ciascuna potenza estera appaiono maggiormente volte all’affermazione di sé legata o a un’idea di espansionismo geopolitico, o agli interessi economici, o alla volontà di riscatto personale contro un paese rivale nella medesima area. “Ai posteri l’ardua sentenza”, se questo si può definire un passaggio necessario per la definizione del conflitto o se possa essere a questo punto gestito in modo alternativo, valutando il bilancio delle vittime, la distruzione dei territori e l’immutabilità dell’impianto politico esistente dopo un decennio di guerra.

L'articolo n. 8 – Siria (III): il clan al-Assad e la Guerra civile proviene da OGzero.

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n. 7 – Libano: dove tutto cambia perché nulla cambi https://ogzero.org/libano-dove-tutto-cambia-perche-nulla-cambi/ Sun, 02 May 2021 09:51:01 +0000 https://ogzero.org/?p=3278 Questo contributo di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria analizza le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medio Oriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose […]

L'articolo n. 7 – Libano: dove tutto cambia perché nulla cambi proviene da OGzero.

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Questo contributo di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria analizza le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medio Oriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui l’attenzione è focalizzata sul Libano: dove tutto cambia perché nulla cambi.


n. 7

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

«Non vogliamo finire come il Libano»

A un passo dalla guerra civile

Tra i richiedenti la protezione internazionale che negli ultimi dieci anni ho avuto la possibilità di ascoltare, collaborando con colleghi esperti in materia e lavorando per delle associazioni – alcune delle quali presenti al “Tavolo Nazionale Asilo” – sia per la ricostruzione della loro storia personale – finalizzata all’audizione dinanzi alla Commissione Territoriale competente – sia per la redazione dei ricorsi, in opposizione alle decisioni assunte dalle Commissioni, non ho mai incontrato un cittadino libanese. Non intendo con questo dire che in altre realtà lavorative sia necessariamente avvenuta la medesima circostanza, ma si può affermare che la nazionalità libanese non è di certo tra quelle maggiormente rappresentative del fenomeno migratorio verso l’Europa o quantomeno verso l’Italia. Tuttavia, si può dichiarare con sicurezza che tale situazione sia destinata a rimanere immutata nel tempo?

Da alcune stime infatti risulta che nel 2020 siano stati circa 45.000 i libanesi fuggiti dal paese prevalentemente in direzione di Cipro per poi ripartire, per via aerea, verso la Grecia o il Nord Europa.

Lo stallo politico e la crisi economica e sanitaria

Dall’analisi del contesto geopolitico in cui si inserisce il Libano e per alcune sue peculiarità come l’aumento, negli anni più recenti, di un già elevato numero di profughi di altre nazionalità che lo stesso paese accoglie e, soprattutto, data la condizione di forte instabilità – a un passo dal conflitto civile – nella quale oggi esso si trova, lo scenario potrebbe evolversi in altro modo. Infatti, a mio avviso, tra i paesi del Medio Oriente che nel lungo periodo potrebbero essere maggiormente interessati dal fenomeno dell’emigrazione verso l’Europa vi è anche il Libano, trovandosi attualmente in una situazione politica di stallo ma con questioni altamente difficili da superare quali quella di un’importante crisi economica finanziaria – la peggiore dalla guerra civile che ha interessato il paese dal 1975 al 1990 – con una conseguente svalutazione della lira libanese e la mancanza di possibilità di accesso ai beni di prima necessità nonché al carburante, risorsa  essenziale ai fini dell’erogazione dell’energia elettrica.

Non solo, il paese deve anche affrontare la diffusione esponenziale del virus pandemico del Covid-19 tra la popolazione, in una situazione sanitaria che può definirsi drammatica e precaria, peggiorata dall’esplosione del 4 agosto 2020 e che ha comportato un ingente numero di morti e di feriti, la carenza di strutture sanitarie preposte per il contenimento e la cura del virus – così come quelle di  altre patologie – nonché la distruzione  di edifici scolastici e di formazione, di esercizi commerciali e soprattutto di abitazioni, provocando un numero elevato di libanesi senza fissa dimora nonché il peggioramento della condizione di vita dei numerosi rifugiati che, come detto precedentemente, da anni il paese accoglie.

Il valore politico della demografia e le influenze esterne

Tra questi vi sono non solo i rifugiati palestinesi ma anche un milione e mezzo di siriani, numeri assai rilevanti a livello demografico considerato che la popolazione libanese si compone di circa 4.000.000 di abitanti. Rispetto ad altri paesi, il Libano però non ha vissuto nel 2011 una “vera Primavera araba”. Le mobilitazioni di allora, come detto, essenzialmente legate alla situazione economica disastrata – sofferta principalmente dalla popolazione – così come alla richiesta dell’applicazione di criteri democratici, nell’esercizio del potere da parte dei governi centrali, non aveva dieci anni fa ragion di esservi in Libano che, rispetto ai paesi coinvolti nei tumulti del 2011, godeva di un sistema economico e politico migliore dal punto di vista democratico, anche se comunque bisognoso di riforme urgenti e necessarie sulla ripartizione del potere politico-confessionale. Il Libano è infatti un paese eterogeneo che ha subito per molti anni e ancora oggi subisce le tensioni tra le varie comunità in esso presenti e possiede una posizione geopolitica rilevante nell’area del Medio Oriente. Questo spiega in gran parte perché alle rivendicazioni di ciascuna comunità, nel corso della storia, si siano sempre inserite le agende politiche di attori esteri come l’Iran, l’Arabia Saudita e chiaramente Israele che hanno spesso contribuito ad alimentare le tensioni già preesistenti nelle comunità libanesi.

Inoltre, tra gli attori esteri va menzionata la Francia, potenza coloniale del Libano con la quale buona parte della popolazione ha legami storici e culturali e che oggi il presidente Macron vorrebbe avesse un ruolo più importante nel paese. Negli ultimi anni il Libano ha avvertito il contraccolpo di quanto stava avvenendo in Siria e soprattutto in Iraq, anche se in modo minore. Nel 2011 il paese infatti sembrava avesse un’economia fiorente ma in realtà il suo debito pubblico equivaleva al 40 per cento del proprio Pil (esattamente il Libano oggi detiene circa 53 miliardi di debito pubblico).

Le banche libanesi, a distanza di un decennio, sono crollate e sono stati bloccati da parte del governo tutti i conti corrente con il risultato che la popolazione civile, in tale grave situazione economica, non ha la possibilità di prelevare i propri risparmi.

La situazione in Libano ha cominciato a esacerbarsi nel marzo del 2019 quando il primo ministro libanese Hassan Diab ha dichiarato che non avrebbe pagato il debito derivante da un eurobond da 1,2 miliardi di dollari in scadenza nello stesso mese di marzo a causa della disastrata condizione-economico finanziaria che ha portato il paese al default.

Le proteste per le riforme e il potere delle banche

Dal 17 ottobre del 2019 di conseguenza la popolazione civile dinanzi a una situazione di instabilità politica ed economica senza precedenti ha cominciato a manifestare nelle strade delle città libanesi contro il sistema politico settario al governo nonché contro i banchieri ritenuti responsabili, a fronte di un sistema fortemente corrotto, di aver dominato malamente il paese per decenni. Durante le proteste i manifestanti hanno chiesto l’elaborazione di riforme economico-sociali e del sistema politico poiché la classe politica al potere è rimasta pressoché invariata, per cui oggi a governare vi sono i figli o nipoti di coloro i quali hanno governato il paese nei primi decenni dalla dichiarazione di indipendenza nel 1943.

Beirut 26 febbraio 2021: i manifestanti gettano pietre contro la Banca centrale del Libano (foto di Karim Naamani).

Da metà novembre del 2019 le banche inoltre hanno imposto un controllo dei capitali limitando l’accesso alle valute straniere, prime tra tutte il dollaro e l’euro, con una conseguente svalutazione della lira libanese che ha causato anche il graduale impoverimento dei ceti medio-bassi. Quando però, all’inizio del 2020, il paese – grazie ai moti di contestazione portati avanti dalla popolazione civile – stava operando un iniziale processo di cambiamento, è intervenuto il virus, concedendo un’inaspettata “salvezza” per l’oligarchia che fino allora era stata al potere e che stava rischiando una disfatta definitiva.

Il governo tecnico di unità nazionale

Infatti, proprio a causa di tale situazione, a gennaio del 2020 in Libano è stato formato un governo tecnico di unità nazionale guidato da Hassan Diab, una rottura rispetto al modello di governo di rappresentanza di tutte le forze politiche settarie presenti nel paese che lo aveva caratterizzato per 15 anni.

L’intento della formazione di un governo tecnico sebbene la sua creazione sia stata sostenuta da Hezbollah, non è stato altro che un banale escamotage da parte della precedente classe dirigente per evitare di assumersi la responsabilità di un sistema che ormai stava correndo senza sosta verso il baratro, ma che la popolazione civile stava denunciando ad alta voce durante i tumulti già nel 2019.

Il governo tecnico è nato quindi proprio con questa logica: assumersi la responsabilità e gli oneri di decisioni economiche altamente impopolari, data la situazione economica, lasciando immuni da tale difficile governance le rappresentanze settarie precedentemente al governo che ne erano state la causa, in modo che nel mentre avrebbero potuto meglio riorganizzarsi al fine di avere una chance di riscatto della propria posizione politica dinanzi all’opinione pubblica, concretizzata paradossalmente attraverso proprio la diffusione della pandemia.

La diffusione del virus infatti ha concesso ai poteri settari la possibilità di riscattarsi, mediante un aiuto diretto alle comunità delle quali sono espressione e che il governo tecnico, così impegnato a risolvere la questione economica generalizzata, non avrebbe certamente potuto compiere mediante un intervento capillare sanitario e di sostegno a favore delle singole realtà locali. In tale situazione il primo ministro del governo tecnico Diab si è trovato così in una posizione molto difficile che implicava, da una parte la gestione di una pandemia con tutte le misure restrittive che questa comporta e, dall’altra le forti ondate di proteste popolari.

Le proteste hanno coinvolto soprattutto le zone abitate da sunniti come le città di Tripoli e Sidone ma si sono registrati anche tumulti a nord della città di Beirut dove vi è un’alta percentuale di maroniti ossia membri della comunità civile cattolica presente nel paese. Proteste sporadiche invece vi sono state a sud, nelle quali Hezbollah ha un ruolo rilevante e nel centro-sud caratterizzato da frange organizzate rappresentanti del partito comunista libanese.

Il governo ombra di Diab

Va precisato, tuttavia che il governo di Diab è pur sempre un governo ombra manovrato in un modo non molto celato da parte della precedente élite politica. L’esecutivo è comunque controllato dai partiti della coalizione ossia dalla compresenza di Hezbollah e “Corrente patriottica libera” partito formato dall’attuale capo di stato Michel Aoun e da suo genero Gibran Bassil, dal “Partito delle Forze libanesi” e quello delle Falangi che si contendono insieme al partito di Aoun il consenso dei cristiani in prevalenza maroniti.

Il leader dell’allora opposizione Saad Hariri, oggi premier, è sostenuto dall’Arabia Saudita e dai francesi a guida delle comunità sunnite. Nella gestione dell’epidemia questo rinnovato potere settario appare come detto consolidarsi: basti pensare quanto sia stata difficile la cancellazione dei voli verso l’Iran e l’Italia proprio perché fortemente osteggiata da Hezbollah, sostenuto a sua volta da Amal movimento sciita vicino a Damasco – dopo aver dichiarato il 15 marzo 2020 lo stato di “mobilitazione generale” con le conseguenti chiusure e restrizioni necessarie al contenimento del virus.

Mobilitazione e non emergenza: il freno di Hezbollah

Si deve fare attenzione proprio a tale dichiarazione:  in Libano nel 2020 è stato dichiarato lo stato di “mobilitazione nazionale” ma non quello di “emergenza”  proprio a causa delle pressioni esercitate sul primo ministro da Hezbollah ostile a una concessione di maggiori poteri alle forze armate del governo libanese (LAF) in quanto rappresentano l’unica organizzazione istituzionale che mantiene un gradimento da parte della popolazione civile soprattutto di quella cristiana e a capo delle quali vi è un cristiano maronita, secondo il sistema di ripartizione delle quote al governo.

Tra le varie rappresentanze politiche va rilevato infatti che Hezbollah, probabilmente confidando sugli aiuti da parte dell’Iran, ha dichiarato sin da subito che si sarebbe occupato di gestire in prima linea l’emergenza Covid. Effettivamente il cosiddetto “Partito di Dio”, mettendo in campo decine di migliaia di medici e di paramedici per far fronte alla pandemia ha subito offerto la propria capacità di organizzazione e i propri avamposti logistici. Ciò non è estraneo alla sua natura: Hezbollah da anni fonda il suo potere su una vicinanza molto forte alle comunità locali e ha svolto la funzione di uno stato parallelo alle istituzioni spesso non presenti nelle aree rurali o in quelle più periferiche, dotando le comunità anche in passato, di scuole, ospedali, o organizzazioni a sostegno dell’edilizia e delle microimprese locali. Chiaramente il movimento sciita è anche una formazione totalitaria dotata di un proprio apparato di sicurezza e considerato dai tedeschi come un gruppo terrorista, non distinguendo più l’ala armata da quella politica del movimento. Se quindi il governo tecnico è stato costretto ad adottare, per la questione economica e per quella pandemica, decisioni totalmente impopolari, le vecchie élite al potere suddivise su base comunitaria, in modo spesso opportunistico, si sono avvicinate alle necessità concrete della popolazione civile, per esempio distribuendo cibo e test anti-Covid gratuiti e sanificando i quartieri appartenenti alla propria comunità di riferimento.

«Tutti ma proprio tutti!»

Tuttavia, i movimenti di protesta non guardano a nessuna appartenenza politica e si oppongono con il proprio slogan contro la corruzione nel paese al grido di «tutti e quando diciamo tutti intendiamo tutti!», mostrando in tale modo il malessere generalizzato sofferto per anni e ora quasi impossibile da reprimere, data la situazione di forte indigenza in cui si trova il Libano.

Alcuni tra i politici hanno ascoltato la voce dei manifestanti per cui il governo nel 2019 ha approvato all’unanimità un piano di riforme economiche. L’approvazione del piano è stata particolarmente rilevante in quanto ha consentito l’intervento del Fondo monetario internazionale. Tuttavia, nel 2020 il governo e il fondo monetario internazionale hanno sospeso i negoziati per la concessione dei finanziamenti al Libano: i negoziati sono in una fase di stallo in ragione del fatto che il governo, l’Associazione delle Banche e la Banca centrale non convergono in una posizione comune riguardo il calcolo delle perdite economiche registrate negli ultimi anni. Prima di erogare qualsiasi somma l’FMI pretende che vengano forniti dati certi e trasparenti dal punto di vista finanziario e che il governo libanese attui le riforme che sono già state approvate.

Dall’inizio della crisi economica nel 2019 sono decine i libanesi e gli stranieri presenti nel paese che si sono tolti la vita a causa della situazione economica. La sede dell’associazione delle banche è divenuta una sorta di base militare attaccata dai manifestanti che ne hanno chiesto la caduta. La società elettrica, come previsto all’inizio degli scontri, non avendo più carburante, ha cominciato a ridurre l’erogazione dell’energia elettrica in tutto il paese.

Le stime della Banca mondiale a fronte del Covid, in particolare quelle riferite allo stato di disoccupazione in Libano, sono destinate a peggiorare con il tempo. Il Libano, infatti, all’inizio della diffusione della pandemia ha cominciato a rallentare le attività fino alla decisione della totale chiusura il 15 marzo 2020 – anche se possiamo dire che questa non è stata mai rispettata dai libanesi in modo ferreo – insieme all’invito da parte del primo ministro rivolto alla popolazione di non uscire dalle proprie abitazioni salvo casi eccezionali e imponendo il coprifuoco notturno.

Le disparità sociali e l’assenza dello stato

La pandemia ha messo in risalto le disparità sociali già presenti nel paese dal punto di vista socio-economico e l’assenza dello stato centrale nelle aree periferiche lontane dalla capitale. Tale mancanza del potere istituzionale nelle zone rurali e periferiche hanno condotto all’acquisizione di un ruolo di maggiore importanza appunto da parte delle municipalità legate alle diverse comunità locali con l’effetto che queste spesso, ritenendosi una sorta di entità a sé stanti, hanno finito per discostarsi parzialmente o totalmente – mediante una diversa applicazione o non attuazione – dalle leggi o dalle direttive emanate del governo centrale.

Inoltre, deve essere anche valutata la condizione dei profughi in Libano che si si stimano circa in due milioni. Tuttavia, va precisato che il paese non è firmatario della Convenzione di Ginevra, motivo per il quale tali profughi non godono dello status di rifugiato imposto dalla stessa Convenzione. A partire dal 2014 il governo libanese ha ordinato all’Unhcr di interrompere la registrazione dei profughi siriani dei quali solo 900.000 sono stati registrati dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite. Su una popolazione di circa 4 milioni di abitanti i profughi presenti in Libano costituiscono un terzo della popolazione civile. In questa fase in cui gli stessi libanesi si trovano in una condizione di povertà e di vulnerabilità l’ingente accoglienza dei profughi nel paese ha costituito la causa di ulteriori scontri e tensioni.

Distruzione di un campo palestinese nel Nord del Libano (foto trentinness@hotmail.com)

Le infiltrazioni dei terroristi islamici

Per capire meglio il perché di tali condizioni di alta tensione tra la popolazione e i profughi occorre riflettere sul fatto che, a partire dal 2013, tra di loro spesso si sono infiltrati miliziani del sedicente Stato Islamico e del gruppo terrorista Jabhat al-Nusra, rendendosi responsabili di un numero rilevante di attentati di stampo terroristico sia nella capitale che in altre aree del Libano, operando attivamente fino al 2017. A titolo esemplificativo occorre citare la situazione della cittadina libanese di Arsal, a venti chilometri dal confine con la Siria, ossia una delle destinazioni principali dei profughi siriani (la cittadina è arrivata nel 2013 ad avere da 30.000 a 100.000 abitanti) e nell’agosto del 2014 ha subito un forte attacco da parte di un gruppo di miliziani siriani mossi dal duplice fine di aumentare la propria capacità di azione, approdando nel territorio libanese, e di contrastare Hezbollah sostenitore del regime di Bashar al-Assad. Tale attacco ha determinato l’inizio di un conflitto durato circa tre anni che ha finito con il consolidare, aumentare o diminuire il rilievo nello scenario geopolitico di alcuni attori internazionali coinvolti in esso anche solo indirettamente. Va precisato però che il successo iniziale dell’attacco armato con un numero elevato di ostaggi è stato conseguito grazie alla segreta alleanza tra l’allora sindaco di Arsal, Ali Hojairi e le milizie islamiste che, in questo modo, hanno avuto una maggiore conoscenza degli avamposti delle forze militari libanesi. Nonostante Hezbollah sia stato ampiamente criticato in quanto ritenuto responsabile dell’ingresso dei miliziani, dato il suo sostegno al regime siriano, sono state proprio le sue truppe a sferrare l’offensiva finale contro i miliziani nel 2017 nella stessa periferia della cittadina di Arsal con la conseguente decretazione della vittoria da parte di Hassan Nasrallah, leader del gruppo sciita che indubbiamente, dopo il conflitto, ha visto aumentare la propria capacità politica nel paese.

I negoziati con Israele

Questo ruolo di difensore dei confini territoriali libanesi era già stato svolto da Hezbollah in passato nelle operazioni militari nel 2000 e nel 2006 contro Israele ritenuto nemico storico del paese e che di recente è tornato alla ribalta nello scenario libanese proprio in relazione alla questione della delimitazione di confini. Il ministro uscente dei Lavori pubblici libanese di recente ha chiesto con l’emendamento al decreto n. 6433 proposto il 12 aprile 2021 di estendere l’area, ricca di idrocarburi, contesa da anni con Israele da 860 a 1432 chilometri quadrati. L’emendamento si pone all’interno delle dinamiche dei negoziati inaugurati il 14 ottobre del 2020 tra Libano e Israele – mediati dagli Sati Uniti e sotto l’egida delle Nazioni Unite – per la delimitazione dei propri territori in particolare della fascia a sud del paese definita blue line che ha visto in passato concentrarsi gli scontri più violenti tra i due stati in quanto entrambi sostengono che tale area rientri nella propria zona economica esclusiva (Zee) e dove da anni è presente il contingente italiano dell’Onu con la missione UNIFIL.

Pattugliamenti della Missione Unifil nella “blue line”

Tuttavia, il presidente Aoun ad aprile si è rifiutato di approvare tale emendamento. Alcuni hanno precisato che non vi è stato un rifiuto ma solo la richiesta di rinviare la questione alla trattazione nel corso di una riunione a livello governativo, viste le delicate conseguenze che potrebbero derivare dall’approvazione dell’emendamento in questo momento. Inoltre, anche se i negoziati riguardano solo i confini marittimi, c’è da dire che il Libano da anni rivendica anche le cosiddette fattorie di Sheeba, circa un chilometro quadrato da dove gli israeliani non si sono ritirati dal 2000 dopo l’occupazione del Sud del paese iniziata nel 1978 e dove Israele attualmente sta costruendo un muro.

La discriminazione nei confronti dei profughi siriani

Come dicevamo le misure restrittive anti-Covid-19 adottate come necessarie per il contrasto della diffusione della pandemia hanno finito per essere strumentalizzate dal governo centrale, così come dalle singole comunità locali presenti in Libano, con fini discriminatori contro i profughi. Basti pensare che all’inizio del 2020, quando ancora non erano state attivate per la popolazione civile le misure per il contrasto del virus, per il 40 per cento dei siriani veniva già imposto il regime di coprifuoco, per loro i test sono stati eseguiti solamente nel maggio dello scorso anno grazie all’intervento delle Nazioni Unite così come dalle ong già presenti da diversi anni come figure di riferimento nei campi dove questi risiedono. I profughi nel contesto pandemico non sono stati destinatari, diversamente dal resto della popolazione civile, di misure di informazione e di prevenzione necessarie per evitare i contagi. Non solo, in Libano si può essere curati gratuitamente solo in un ospedale a Beirut che difficilmente viene raggiunto dai profughi tanta è la contestazione generalizzata della loro presenza nel paese e dati gli atteggiamenti discriminatori spesso rivolti nei loro confronti. Vi è da dire che anche per molti libanesi provenienti dalle aree rurali è molto complesso raggiungere tale presidio ospedaliero gratuito nella capitale, stante la quasi totale assenza di mezzi di trasporto pubblico, determinata dalla crisi economica.

È chiaro che tutta questa situazione è diventata ancora più drammatica in seguito all’esplosione del 4 agosto 2020, della quale tratteremo in seguito in modo più approfondito, e in esito alla quale oltre a essere andate distrutte scuole e abitazioni sono stati gravemente danneggiati proprio gli stessi ospedali per cui i pazienti ricoverati a Beirut sono stati fatti evacuare in altri ospedali sul territorio nazionale.

Le violazioni della Convenzione di Ginevra

Sia le Nazioni Unite che le ong operano in Libano all’interno del contesto di un piano approvato dal governo insieme all’Onu nel 2015 per il miglioramento delle condizioni di vita tanto dei profughi siriani quanto della popolazione libanese in condizione di vulnerabilità. Il piano esplica i suoi effetti essenzialmente su due fronti: quello umanitario, attraverso l’applicazione di strumenti che possano fronteggiare l’emergenza e quello dello sviluppo, finalizzato all’integrazione dei profughi con la popolazione civile libanese che viene attuato mediante una progressiva inclusione dei profughi siriani nel mercato del lavoro in Libano potenziando anche a loro favore i servizi presenti a livello locale come scuole, ospedali e alloggi. Se però le misure sul fronte umanitario vengono effettivamente poste in essere, quelle volte all’integrazione dei profughi nel paese incontrano maggiori ostacoli nella loro attuazione, vista anche la posizione del presidente siriano Bashar al-Assad che negli ultimi anni sta premendo per il rimpatrio dei propri cittadini fuggiti all’estero in particolare proprio verso i territori libanesi. Al riguardo va sicuramente segnalato il Rapporto di Amnesty International del 23 marzo del 2021 I wish I would die che ha documentato presunte violazioni perpetrate dai servizi segreti militari libanesi contro i rifugiati siriani detenuti preventivamente con l’accusa di terrorismo e che hanno subito non solo la violazione del loro diritto a un equo processo ma anche atti qualificabili come torture, violenze sessuali e trattamenti disumani e degradanti.

Le ricerche sulle quali si basa il report sono state portate avanti dalla nota organizzazione internazionale tra giugno del 2020 e febbraio del 2021 e riguardano fatti avvenuti tra il 2014 e la fine del 2019: sono state intervistate 26 persone aventi una fascia di età compresa tra i 22 e i 55 anni e tra i quali vi sono anche due ragazzi che al momento dell’arresto avevano 15 e 16 anni e alcuni degli intervistati sono ancora in carcere.

Amnesty in esito alle indagini ha scritto due volte al ministero dell’Interno, della Difesa e della Giustizia chiedendo chiarezza. Occorre sottolineare che il Libano oltre a non aver ratificato la Convenzione di Ginevra ha approvato la legge contro la tortura solo nel 2017 ma anche durante la sua vigenza è stata più volte segnalata la sua mancata attuazione.

Fonte: Amnesty International

L’opportunismo dei partiti

È necessario tuttavia precisare che molte ong presenti in Libano possono operare oggi soltanto grazie all’appoggio di alcuni partiti politici e di confessioni religiose, presenti nelle comunità locali, riproponendo così quell’atteggiamento opportunistico che chiede come contropartita degli aiuti offerti ai profughi quella della realizzazione dei propri fini ed interessi personali in un’ottica di rafforzamento del proprio potere all’interno della vita politica in Libano.

Inoltre, c’è da dire che da ormai dieci anni la posizione comune delle fazioni politiche libanesi si è del tutto uniformata sulla posizione di un ritorno dei profughi siriani, nonostante l’intervento esemplare di alcune municipalità come quella di Bsharre, nel Nord del Libano. Tale elemento è fortemente allarmante, data la presenza al potere in Siria del regime contestato ma ancora guidato da Bashar al-Assad.

L’esplosione al porto: e Beirut diventa periferica

A ogni modo, come accennato sopra, la situazione nel paese è peggiorata in modo catastrofico per tutti i residenti in Libano a causa della duplice esplosione del 4 agosto del 2020 considerata la più potente deflagrazione non nucleare della storia e che ha avuto come epicentro proprio il porto di Beirut che, con la seconda esplosione, ha visto la distruzione di tutti i quartieri posizionati sul versante settentrionale della capitale e sulla costa. Fortunatamente una parte dell’esplosione si è riversata in mare ma circa 200 sono state le vittime e migliaia di persone, più di 6000, quelle gravemente ferite e al momento non è chiaro ancora se si tratti di un incidente o di un attentato.

Dopo l’esplosione del 4 agosto 2020 al porto di Beirut (foto Anna_Om).

L’esplosione per intenderci è stata pari a un decimo di quella di Hiroshima. Dalle immagini trasmesse dai media quest’estate a livello internazionale si nota che l’esplosione sia avvenuta in due tempi distinti: la prima con un impatto minore e di un colore tendente al grigiastro, l’altra, immediatamente dopo, di immensa portata e di colore prevalentemente rossastro con un’onda d’urto che ha provocato danni a sette chilometri di distanza dall’epicentro. Come dicevamo, con la deflagrazione, è stato colpito in primo luogo il porto della capitale storico luogo strategico economico commerciale del Medio Oriente e simbolo dell’economia imprenditoriale della città di Beirut che in una situazione già al limite dal punto di vista economico-finanziario, in esito a tale accadimento, ha subito un durissimo contraccolpo. Sono state invece colpite meno le zone centrali e a sud della città e sono stati del tutto risparmiati i quartieri occidentali e sud-occidentali.

Beirut in questo modo ha smesso, almeno per il momento di essere il centro di buona parte degli affari nell’area mediorientale. Inoltre, nonostante le dichiarazioni all’indomani dell’evento, dell’attuale leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, questa volta, il movimento politico religioso non ha messo in atto, come in seguito allo scoppio della pandemia, la mobilitazione di aiuti e di sostegno nei propri quartieri di riferimento.

In ogni caso dal 4 agosto 2020 Beirut non è più il centro ma una area periferica del Libano. Tuttavia, il fatto che non sia ancora chiaro se la deflagrazione sia la conseguenza di un incidente o invece di un atto volontario non implica l’impossibilità di formulare delle ipotesi in merito all’accaduto.

Le indagini e i dubbi

La prima ipotesi è sicuramente quella di un “errore umano” o meglio quella di una deflagrazione spontanea in conseguenza del degrado del materiale, costituito da circa 2750 tonnellate di nitrato di ammonio, ossia di un fertilizzante ma con proprietà esplosive, contenuto nell’hangar n. 12 al porto. La comunicazione dell’esistenza di tale materiale era stata più volte notificata alle autorità istituzionali, ossia al presidente Aoun, ai vari premier e ai ministri che si sono succeduti nel tempo.

La seconda ipotesi invece si basa sull’idea di un presunto attacco israeliano (Israele nega qualsiasi coinvolgimento) che avrebbe avuto come mira la mole di missili di Hezbollah presenti in quell’area ma che non ha tenuto conto della presenza di altro materiale suscettibile alla deflagrazione.

La terza ipotesi è riconducibile al fatto che l’evento tragico si è concretizzato in due momenti. Questo può voler dire che la prima esplosione sia derivata da un fatto volontario internazionale, connesso con il processo penale che in quella parte della capitale si stava svolgendo in conseguenza della morte per attentato nel 2005  del premier Rafiq al-Hariri, padre dell’attuale primo ministro, sostenuto dall’Arabia Saudita e non gradito per questo né da parte sciita ossia da Hezbollah – movimento a favore dell’ingerenza iraniana nel Paese – né dai siriani che rivendicano un’influenza estera prevalente nel paese. Secondo sempre tale teoria la seconda esplosione invece sarebbe stata del tutto involontaria.

Infine, la quarta ipotesi, è quella di un attentato premeditato di cui al momento l’autore è sconosciuto finalizzato proprio a far precipitare nel baratro il paese.

Inoltre il giudice Sawan – che inizialmente aveva intrapreso le prime indagini sull’accaduto e in particolare sui ministri che erano stati informati in passato della presenza del materiale esplosivo in prossimità del luogo della  deflagrazione – è stato destituito dalla Corte di Cassazione libanese e al suo posto è stato nominato un nuovo giudice che, sebbene sia considerato uomo valido a capo della Corte del Tribunale di Beirut, ha dato adito a dubbi circa l’imparzialità del potere giurisdizionale in merito alla vicenda.

Gli aiuti non proprio disinteressati

Le prime necessità dopo l’esplosione sono state quelle del rifornimento di medicinali, di alimenti e di materassi per dormire in strada, mentre dal punto di vista delle infrastrutture, è stata data priorità alla ricostruzione delle abitazioni, alcune delle quali patrimonio dell’Unesco. La popolazione, questa volta però, ha chiesto che i fondi derivanti dagli aiuti internazionali siano gestiti direttamente dalle ong e non dai governi locali e il presidente Macron ha dichiarato la necessità della tracciabilità dei medesimi. Infatti, il presidente francese ha visitato tempestivamente il paese esattamente due giorni dopo l’esplosione mentre a seguire immediatamente vi sono stati Russia, Iran, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Turchia e Stati Uniti che hanno inviato prevalentemente aiuti medici per la popolazione libanese. Tuttavia, tali aiuti non possono definirsi in tutti i casi “disinteressati” ma rivelano spesso piuttosto la volontà di taluni attori internazionali a sostituirsi al governo del paese in un momento in cui il rapporto di fiducia tra esecutivo e popolazione è totalmente logorato. Simile processo in Libano già si era determinato al momento della diffusione del virus del Covid-19 per cui il Libano è di nuovo oggi il campo su cui si muovono le tattiche geopolitiche di alcuni stati esteri. In questa logica Turchia e Qatar sono alleate tra loro e al loro intervento si oppongono Emirati Arabi Uniti e Russia. La Francia per i motivi succitati ha un ruolo prima facie prevalente mentre Israele ha dimostrato difficoltà a inserirsi in tali dinamiche.

Il divisivo intervento francese in rapporto allo scacchiere internazionale

Secondo l’analisi di questa spinta internazionale alla solidarietà prevale, per taluni, l’ipotesi che l’esplosione del 4 agosto non sia stata uno scoppio accidentale ma organizzato da chi avrebbe un interesse a detenere il potere in Libano; ardua risulta l’individuazione dei possibili mandanti, dati i molteplici attori della politica libanese e, al contempo, le numerose potenze estere che si fronteggiano in quest’area del Medio Oriente. L’immediata partecipazione francese dall’altra parte ha fermato almeno in una prima fase qualsiasi intervento di aiuto da parte dell’Unione Europea. L’Italia nelle vesti dell’allora premier al governo si è recata simbolicamente in Libano l’8 settembre dello scorso anno per dare il suo contributo in questa corsa agli aiuti portata avanti dalle grandi potenze internazionali e mantenendo come spesso avviene un ruolo più marginale. Dall’altra parte infatti il presidente francese in esito all’esplosione ha promesso di organizzare una raccolta fondi per gli aiuti umanitari e ha fissato l’agenda per la formazione di un nuovo esecutivo vantando in questo luogo una posizione maggiormente strategica rispetto a quella che detiene in Libia in cui, negli ultimi anni, hanno dominato Russia e Turchia nell’affermazione di un potere politico straniero da affiancare alle forze politiche locali. La presenza francese in Libano tuttavia divide fortemente e ciò si evince dalle dichiarazioni, in chiave polemica, della parte filosiriana, presente nel paese, la quale nell’agosto del 2020 – dopo le numerose proteste della popolazione civile che hanno portato alle dimissioni del primo ministro Diab – ha affermato che il nuovo premier incaricato dal Parlamento libanese di formare un governo, ossia Mustapha Adib, fosse particolarmente sostenuto da Macron.

Inoltre, la Francia ha affermato in più occasioni che l’ala militare di Hezbollah non debba essere considerata una diversa espressione di un gruppo politico al potere oggi in Libano, quanto piuttosto un gruppo terroristico come sostenuto in modo più drastico già dalla Germania ma completamente in disaccordo con l’opinione del Cremlino che considera il gruppo un rilevante partner politico e non un gruppo terrorista. D’altronde i rapporti tra Russia e Libano hanno radici profonde: Mosca ha aiutato fortemente Hezbollah nella guerra del 2006 in Libano al fine di rafforzare la propria posizione rispetto a Teheran. Infine, il presidente francese, fortemente contestato in Francia per la volontà di applicare misure di austerità economica, in Libano è stato destinatario di molteplici istanze di cambiamento da parte della popolazione civile libanese che ha chiesto di essere aiutata direttamente aggirando la classe politica libanese, ritenuta fortemente corrotta.

Il turnover ai vertici libanesi

Tuttavia, il 27 settembre 2020 il premier incaricato dal parlamento libanese Mustapha Adib si è dimesso e ha deciso di ritornare a svolgere il ruolo di ambasciatore in Germania.  A quel punto il presidente Emmanuel Macron ha contestato tutti i leader politici libanesi incluso il capo di stato Michel Aoun e ha attaccato duramente Hezbollah e Amal sostenendo che il suo principale interesse fosse quello di volere il superamento di un sistema politico confessionale, ma ciò che sembra emergere è piuttosto la volontà di mantenere protetti a ogni costo i propri interessi nell’area.

Nell’ottobre del 2020, il Parlamento ha deciso così di assegnare un nuovo mandato a Saad Hariri, leader del partito politico a carattere sunnita Movimento per il Futuro, già primo ministro del Libano dal 18 dicembre del 2016 al 19 dicembre del 2019, e precedentemente dal 14 febbraio 2005 dopo l’assassinio del padre Rafiq Hariri e, in seguito, da giugno 2009 a gennaio del 2011.

Attualmente il paese si trova comunque ancora in una situazione di stallo politico. Dal 22 ottobre del 2020 Saad Hariri si è impegnato a risanare la situazione politica del paese dopo aver ottenuto 65 voti su 120 da parte del Parlamento. Uscito di scena proprio dall’ottobre del 2019 per via delle proteste popolari, è stato chiamato nuovamente a guidare il Libano in conseguenza della tragica deflagrazione e delle dimissioni conseguenti a questa da parte dei suoi predecessori nell’arco di pochi mesi. A creare questa condizione di stallo sono le divergenze tra il capo di stato Aoun e lo stesso presidente Hariri per cui non si riesce a convergere in una posizione comune rispetto a una riforma della Costituzione.

«Il popolo non perdonerà»

Nel 2021 le proteste della popolazione civile contro la classe politica al potere sono di nuovo scoppiate la sera del 25 gennaio, nonostante le restrizioni e il coprifuoco imposti per via del Covid, a Beirut, a Tripoli nel Nord del Libano e nella città meridionale di Sidone.

Ciò in conseguenza del fatto che il governo, il 21 gennaio 2021, ha annunciato un’estensione delle suddette misure Covid fino all’8 febbraio del 2021 che hanno implicato la chiusura di numerose attività commerciali e uffici istituzionali in un paese al momento nel baratro per la crisi economico-finanziaria, resa nota nel marzo del 2019. Ciò è avvenuto a causa del sensibile aumento della curva dei contagi dopo che il governo libanese, prima delle festività natalizie, aveva concesso un allentamento delle misure per favorire la ripresa della disastrata economia libanese. Inoltre in Libano il 27, il 28 e il 31 gennaio 2021 gli scontri tra la popolazione e i militari hanno causato un secondo morto e si registrano circa 400 feriti dall’inizio delle manifestazioni popolari. A gennaio 2021 vi è stato anche l’attacco da parte dei manifestanti degli uffici del Comune a Beirut ma diversi violenti tumulti si sono verificati anche a Tripoli , definiti dal presidente Hariri crimini organizzati e premeditati. I principali rappresentanti delle comunità cristiane e musulmane libanesi hanno contestato nuovamente l’élite al potere, questa volta al grido “Il popolo non perdonerà. La storia non dimenticherà” chiedendo un governo di “salvezza nazionale”.

Proteste antigovernative in Libano (foto Anna_Om).

Niente aiuti senza un nuovo governo

Per tale ragione a febbraio del 2021 il premier Hariri e il presidente Macron si sono confrontati sulla situazione in un incontro privato all’Eliseo in particolare sugli ostacoli che si stanno determinando tra il leader e il presidente Aoun in merito alla formazione di un nuovo governo libanese, fondamentale per la concessione e l’elargizione delle donazioni delle varie potenze internazionali incluso il Fondo monetario internazionale, vista la perdurante situazione di corruzione. A tale situazione si aggiunge che nel marzo del 2021 la lira libanese ha raggiunto il suo minimo storico toccando quota 10.000 rispetto al dollaro Usa e la crescente svalutazione della moneta nazionale ha comportato un aumento del livello dei prezzi al 144 per cento per i beni di prima necessità. Dal mese di ottobre 2020 la valuta libanese ha infatti subito un calo pari al 70 per cento.

In un discorso in diretta televisiva il 17 marzo 2021 il presidente Aoun ha esortato il premier Hariri a formare un governo o a dimettersi, ma in realtà il premier ha già proposto al capo di stato una squadra il 9 dicembre 2020, composta da 18 ministri apartitici, che non ha ottenuto l’approvazione di Michel Aoun.

Il ministro dell’Interno libanese a fine marzo ha dichiarato che nell’ultimo periodo «c’è maggiore possibilità di violazioni di attentati e omicidi vari nel paese».

Il 22 marzo 2021 quindi si è tenuto un incontro tra il presidente del Libano Aoun e il premier designato Saad Hariri che, tuttavia, anche in questa circostanza non si è concluso con l’approvazione di un governo di salvezza nazionale. Hariri sostiene che l’incontro non ha avuto successo in quanto il capo di stato mette in atto comportamenti ostruzionistici derivanti dalla pretesa che nella squadra di governo vi sia a tutti i costi la maggioranza dei suoi alleati politici. Non solo, Aoun ha consegnato al premier una lista completa con già 18, 20, o 22 ministri con ancora solo alcuni posti vacanti. Hariri – che recentemente ha invitato pubblicamente anche Papa Francesco a far visita al paese come è avvenuto in Iraq – ha considerato tale gesto inaccettabile in quanto il comportamento è qualificabile come anticostituzionale, non essendo di competenza del capo dello stato formare il governo libanese.

Il fallimento delle politiche di sviluppo nel Mediterraneo orientale

La situazione che oggi si coglie in Libano, simile a quanto avvenuto recentemente in Iraq, in  Algeria e Tunisia negli ultimi anni, ha quindi qualcosa in comune con le primavere arabe del 2011; in questo caso specifico però non si tratta solo di destituire la testa di un regime quanto costruire qualcosa di soddisfacente per la popolazione civile che soffre della presenza degli stessi attori regionali del passato ma che mostra oggi, in modo evidente, la forte volontà di trovare soluzioni interne nonostante la vecchia élite politica che, come visto, non è ancora disposta a farsi da parte.

In conclusione, questa crisi può avere un impatto su una nuova ondata migratoria determinando un incremento esponenziale dei movimenti in fuga dal Libano in particolare dalla città di Tripoli: l’Italia ben presto si accorgerà del fallimento delle politiche di sviluppo nell’area del Mediterraneo orientale. A dimostrazione di ciò ci sono già i primi avvertimenti provenienti dalla Bosnia che, con riferimento a quanto sta avvenendo lungo la rotta balcanica, ha dichiarato: «Non vogliamo finire come il Libano».

L'articolo n. 7 – Libano: dove tutto cambia perché nulla cambi proviene da OGzero.

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