Italia Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/italia/ geopolitica etc Tue, 12 Apr 2022 21:58:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 n. 18 – Tra monti e boschi alpini. La frontiera che uccide (I) https://ogzero.org/la-frontiera-che-uccide-tra-monti-e-boschi-alpini/ Wed, 16 Mar 2022 12:40:27 +0000 https://ogzero.org/?p=6761 Movimenti secondari dei flussi migratori si riscontrano, oltre che tra Francia e Inghilterra, anche in prossimità dei confini italo-francesi, più specificatamente in Alta Val di Susa e a Ventimiglia. Nella frontiera Nordovest dell’Italia con la Francia si registra un’importante corrente migratoria che ogni anno nell’ultimo triennio ha visto il transito di circa 100.000 persone e […]

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Movimenti secondari dei flussi migratori si riscontrano, oltre che tra Francia e Inghilterra, anche in prossimità dei confini italo-francesi, più specificatamente in Alta Val di Susa e a Ventimiglia. Nella frontiera Nordovest dell’Italia con la Francia si registra un’importante corrente migratoria che ogni anno nell’ultimo triennio ha visto il transito di circa 100.000 persone e che si intensifica proprio in questo periodo dell’anno quando le temperature cominciano a essere meno rigide. All’atmosfera turistica incantata di chi ama sciare si sostituisce a partire dal tardo pomeriggio e per tutta la notte, la contrapposta quotidiana sofferenza e la fatica di migliaia di migranti – soprattutto famiglie – che percorrono gli stessi luoghi a piedi, sfiancati da temperature che in inverno toccano circa i 15 gradi sotto lo zero; privi d’equipaggiamento da montagna con abiti logori e indossati da giorni se non da mesi. Fabiana Triburgo e Matthias Canapini uniscono le loro competenze e i loro materiali in questo articolo, corredato dalle testimonianze raccolte da Matthias nella sua esperienza lungo il confine italo-francese.


 The Milky Way, per pochi

È il tentativo disperato di chi prova a raggiungere la Francia attraverso le località sciistiche italiane per evitare di essere intercettato e rimandato indietro dalla polizia italiana e francese. I due stati infatti, anche in questo caso – come già visto nei precedenti articoli riguardanti le attuali rotte migratorie – nel 1997 hanno siglato un importante accordo di cooperazione bilaterale, l’accordo di Chambery, sul quale ci soffermeremo in seguito, al fine di agevolare le riammissioni dalla Francia all’Italia. I migranti che attraversano tale rotta sono prevalentemente afgani, iraniani, pachistani e in piccola percentuale migranti provenienti dall’Africa subsahariana e arrivano, nella quasi totalità dei casi, dalla rotta balcanica: questo vuol dire che prima di raggiungere l’Alta Val di Susa i migranti possono aver attraversato circa otto diverse nazioni quasi esclusivamente a piedi.


Luigi D’Alife, regista di The Milky Way, lavoro che documenta e racconta
il passaggio della rotta migrante dalla Valsusa; Luigi ha fornito preziose
informazioni per l’estensione di questo saggio.

Spesso gli stessi nuclei familiari dei profughi si sono generati durante il transito di tali paesi essendo il loro precedente viaggio durato – nella migliore dell’ipotesi – almeno quattro anni, come narrano le testimonianze e le immagini del freelance Matthias Canapini che pubblichiamo in questo articolo.

Il principale snodo della cosiddetta “rotta alpina” si individua nella città di Oulx in provincia di Torino – raggiunta dai migranti per lo più con il treno – dalla quale poi si sviluppa un ulteriore bivio di transito per raggiungere la città francese di Briançon dalla quale dista circa 30 km. I profughi, infatti, dalla città di Oulx si dirigono a piedi o verso Bardonecchia, per poi attraversare il traforo del Frejus con filobus o con il treno – soprattutto quanti possiedono documenti di riconoscimento – oppure si dirigono verso Claviere sempre in provincia di Torino, a oggi il tratto maggiormente praticato dai migranti su tale rotta – per poi attraversare il Colle del Monginevro. Se dunque la destinazione di entrambi i percorsi è la città di Briançon è altrettanto vero che anche questa non è altro che una prima tappa, pur se finalmente in territorio francese, per raggiungere principalmente Lione o Calais con l’obiettivo rispetto a quest’ultima (come già riscontrato) di raggiungere la Gran Bretagna.

La casa cantoniera occupata e sgomberata più volte dagli sbirri italiani

Chez JesOulx era la casa cantoniera occupata (e poi sgomberata) dopo che l’accoglienza del rifugio autogestito era stata scacciata dai locali della curia occupata nel comune di Oulx

Va specificato che solo una parte dei migranti che transitano per Oulx ha come fine ultimo quello di stabilirsi in Francia perché nella maggior parte dei casi la meta finale è la Germania nella quale vivono stabilmente molti dei familiari dei profughi da diversi anni.

Il Colle dell’Agnello

Non è tuttavia da ignorare un altro percorso quello del Colle dell’Agnello, poco battuto per la sua elevata impraticabilità, ma in prossimità del quale le intercettazioni da parte della polizia francese, data proprio l’ostilità del territorio, sono molto sporadiche. La rotta nasce ufficialmente nel 2017, due anni dopo quella, sempre al confine italo-francese, che interessa la città di Ventimiglia. In realtà già nel 2016 alcuni migranti erano stati intercettati in prossimità del monte Chaberton in Francia e scambiati per turisti. Se dunque la rotta si delinea nel 2017 e nel 2018 raggiunge il suo apice – quando si “apre” la rotta balcanica e anche attraverso Trieste si arriva in Italia – in essa è altrettanto importante delineare una rilevante mutazione del suo originario tratto di percorrenza che a oggi non segue più l’originario pericoloso percorso di montagna del Colle della Scala (in prossimità della città di Bardonecchia) – in quanto soggetto a slavine e interamente  in salita – ma, come già detto, quello del Colle del Monginevro.

Rifugi e marauders

Nella rotta vi sono a ogni modo due importanti centri di accoglienza per i migranti in transito: nella città di Oulx il rifugio Fraternità Massi – Talita’ Kum aperto dalle 16 alle 10 del mattino con a disposizione circa 40 posti, e a Briançon, il Refuge Solidaire, rispetto al quale più volte è stato richiesto dalla municipalità lo sgombero. Invece è chiusa la casa cantoniera abbandonata e autogestita da volontari sempre nella città di Oulx che ospitava dai 30 agli 80 profughi al giorno e che da settembre a dicembre del 2020 ha accolto 3500 persone. Interessante capire come sia nato il Refuge Solidaire essendo il presente articolo immediatamente successivo a quello relativo alla rotta della Manica. I primi interventi di accoglienza dei migranti a Briançon sono infatti stati attivati nel 2015 proprio per i migranti di Calais quando il governo francese chiese alle altre città del paese di farsi carico della accoglienza in seguito allo smantellamento della Jungle. A Briançon quindi fino al 2017 stazionavano pochi profughi provenienti da Calais ma nello stesso anno con lo strutturarsi della rotta alpina nasce il Refuge Solidaire grazie anche all’intervento di Médicins du Monde che ancora oggi opera in loco insieme ad altre associazioni tra cui Rainbow for Africa. L’attività che si affianca all’accoglienza del Refuge Solidaire e che non può essere ignorata è quella svolta dai marauders: circa 200 volontari provenienti da tutta Europa che quotidianamente si occupano di prestare soccorso ai migranti che si perdono nei sentieri in montagna o riportano ferite gravi agli arti in seguito a cadute dovute al territorio impervio e che chiaramente non consentono loro di proseguire il viaggio rimanendo intrappolati nella rotta. Spesso i marauders, agevolando il transito dei migranti e soccorrendoli, sono sottoposti a comportamenti vessatori subendo multe, accuse e convocazioni a comparire davanti alle autorità francesi.

la frontiera che uccide

Claviere, protesta per Blessing, la giovane donna scomparsa dal 7 maggio nelle acque del fiume (foto Matthias Canapini).

Occorre, inoltre segnalare il lavoro della rete del progetto Cafi “Coordination d’actions aux frontièrs intérieures”, del quale fa parte anche Amnesty International e Médecin Sans Frontieres che da diversi anni svolge attività di osservatorio quotidiano permanente sul rispetto dei diritti dei migranti alle frontiere interne all’Unione in questo caso specifico in prossimità degli snodi Oulx-Monginevro-Briançon.

Accordi Italia-Francia

Tale attività risulta particolarmente importante perché documenta i respingimenti ossia il “Refus d’entrée” che viene notificato ai profughi dalla polizia francese (Paf) alla frontiera, sotto la direzione del ministero degli Interni. Risulta necessario quindi procedere all’analisi giuridica relativa ai motivi che sottendono alla cooperazione delle forze di polizia dei due paesi alla frontiera, alla militarizzazione della frontiera francese e alla sospensione dell’applicazione di alcuni articoli del Codice frontiere Shenghen – ossia del regolamento 2016/399 da parte della Francia. Come già accennato l’Italia e la Francia il 3 ottobre del 1997 hanno concluso l’Accordo bilaterale di Chambery, al fine di intensificare la cooperazione degli uffici di polizia e di dogana nelle rispettive zone di frontiera, garantendo comunque la libertà di circolazione sancita dal Codice Shengen ma non certamente per i cittadini dei paesi terzi anche nelle ipotesi in cui siano dotati di documenti.

Tale principio invece – è bene ricordarlo – ha valenza tanto per i cittadini europei che per i cittadini di paesi terzi dell’Unione ma comunque presenti sul territorio europeo.

Conformemente a tale intento sia da parte italiana che da quella francese sono stati costituiti dei Centri comuni di Cooperazione di polizia di frontiera e di dogana che realizzano la propria attività di diretta collaborazione mediante appositi uffici dislocati in prossimità dei luoghi di frontiera tra i due paesi e all’interno dei quali può essere chiesto da ciascuno dei due stati contraenti, l’ausilio delle forze di polizia dell’altro paese sul proprio territorio. È importante fin da subito precisare che la creazione di tali Centri di Cooperazione è prevista nel testo dell’accordo in due luoghi specifici: nella città di Ventimiglia e nella città francese di Modane vicina allo snodo migratorio proveniente da Bardonecchia.

Migranti risalgono i boschi al confine tra Francia e Italia (foto Matthias Canapini)

Uno dei punti maggiormente preoccupante del presente accordo è quello “nascosto” in modo subdolo nella lettera a) dell’art. 8

ossia che nei Centri di Cooperazione gli agenti di polizia di entrambi i paesi si impegnano «al compimento degli atti precari e alla consegna delle persone in situazione irregolare nel rispetto degli accordi vigenti». È evidente infatti come in questo passaggio si possa scorgere il “fondamento giuridico” (?!) sulla base del quale i due stati realizzano le cosiddette riammissioni con respingimenti dei migranti dalla Francia all’Italia che come noto si determinano a catena fino al confinamento dei migranti in stati terzi dell’Unione. Come al solito dietro l’enunciato «situazione irregolare» si è consapevoli che si nasconda la posizione dei richiedenti asilo che sono irregolari per definizione dovendo essere messi nella condizione – in base alle Convenzioni Internazionali come quella di Ginevra – di poter fare ingresso nel paese di destinazione per formalizzare la domanda di protezione internazionale mediante la quale quindi possono eventualmente ottenere un permesso che sancirebbe la propria regolarità di soggiorno, in questo caso uno stato membro dell’Unione. Come evidente, tale accordo riproduce quello che già è stato analizzato per l’accordo di cooperazione franco-britannico di Le Touquet in relazione alla rotta della Manica: anche in questo caso infatti si sancisce che la vigenza dell’accordo debba considerarsi a tempo indeterminato.

Controllo e sicurezza (!?)

L’art. 10 dell’Accordo di Chambery inoltre specifica che per la Repubblica Italiana sono considerate zone di frontiera le province di Aosta, Cuneo, Imperia e Torino mentre per la Repubblica francese le Alpi Marittime, dell’Alta Provenza, le Alpi Alte, quella della Savoia e dell’Alta Savoia. Ciò che è altrettanto destabilizzante è il binomio continuo nel testo tra le frasi “controllo delle frontiere” da parte delle due forze di Polizia e il termine “sicurezza”, come al solito. Non solo, nell’art. 8 lettera c) dell’Accordo di Chambery si fa puntualmente riferimento al «coordinamento delle misure congiunte di sorveglianza nelle rispettive zone di frontiera»: un enunciato che inevitabilmente si pone in contrasto con il Codice delle frontiere Shengen.

la frontiera che uccide

Claviere, posto di controllo della polizia italiana (foto Matthias Canapini).

Le frontiere interne infatti sono disciplinate al Titolo III – Capitolo I del Codice Shengen che secondo l’art. 22 «possono essere attraversate in qualsiasi punto senza che sia effettuata una verifica di frontiera sulle persone indipendentemente dalla loro nazionalità». Infatti, l’esercizio dei poteri di polizia da parte delle autorità competenti degli stati membri non viene considerato equivalente all’esercizio dei controlli di frontiera, solo ad alcune condizioni in particolare per esempio se «sono concepiti ed eseguiti in modo chiaramente distinto dai controlli sistematici sulle persone alle frontiere esterne» secondo l’art. 23 (iii). Nello specifico la reintroduzione temporanea del controllo di frontiera alle frontiere interne è disciplinata dagli artt. 25-35 contenuti nel Titolo III, Capitolo II del Codice Shengen. La Francia dal 2015 si è appellata alle «gravi minacce alla sicurezza interna» – citate nell’art. 25 – che hanno consentito il ripristino temporaneo dei controlli alle frontiere interne, dopo l’attentato terroristico al Bataclan nel 2015, e in seguito nel 2017 per lo choc di quello sulla Promenade des Anglais di Nizza e da ultimo per la diffusione del virus da Covid-19. Tuttavia, il Codice Shengen sancisce chiaramente all’art. 25, paragrafi 1, 2, 3, 4 che i controlli relativi alla libertà di movimento delle persone all’interno del territorio dell’Unione, debbano essere considerati un’extrema ratio ossia aventi caratteri di eccezionalità e pertanto devono essere attuati per un periodo iniziale di trenta giorni o della durata della minaccia, rinnovabile – «tenuto conto di eventuali novità» – per periodi di ulteriori 30 giorni ma per un periodo complessivo non superiore ai 6 mesi. Solo in circostanze di eccezionale gravità caratterizzate da una procedura specifica di cui all’art. 29 del Codice Shengen il ripristino dei controlli alle frontiere può arrivare a due anni. Tuttavia, come detto, la Francia ha ripristinato il controllo alle frontiere interne in particolare per quel che ci riguarda al confine italo-francese, da oltre 6 anni! È bene ricordare inoltre che l’adozione da parte di uno stato membro del ripristino del controllo alle frontiere interne debba essere notificato ai sensi dell’art. 27 del Codice Shengen agli altri stati membri e alla Commissione UE.

Tuttavia, come noto anche per altre questioni in ambito migratorio non solo le cattive prassi adottate superano le disposizioni legislative europee (e i trattati internazionali) senza che vi sia alcun richiamo di un organo istituzionale ufficiale dell’Unione al rispetto delle medesime, ma costituiscono addirittura “fonte di ispirazione” per nuove proposte di legislazione europea da parte della Commissione che hanno come obiettivo quello di rendere legittimo ciò che oggi è ancora illegittimo in modo da potere aggirare gli ostacoli dei ricorsi giurisdizionali dinanzi alle corti competenti.

Tutto ciò purtroppo è già realtà, considerato non solo il più volte citato nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, ma anche lo stesso Codice Shengen, dato che a dicembre del 2021 la Commissione Europea ha presentato una proposta di riforma del medesimo, adeguandosi alle pratiche illegittime (e se possibile, anche peggiorandole) adottate dagli stati membri per contrastare i flussi migratori attraverso i controlli ai confini.

la frontiera che uccide

«La frontiera uccide» (foto Matthias Canapini).

L’appello per la modifica delle politiche migratorie

Dell’analisi di tale proposta di riforma ci si soffermerà nel successivo articolo sulla rotta migratoria al confine italo-francese con la città di Ventimiglia; tuttavia va precisato che il fine di tali analisi giuridiche è soprattutto quello di non dimenticare le tragiche morti riportate anche su questa rotta come quella di Ullah Rezwan Sheyzad un ragazzo afghano di 15 anni trovato morto nei pressi dei binari della ferrovia di Oulx nel giugno del 2021 e di Fathallah Balafhail  un marocchino di 31 anni trovato senza vita non lontano da Modane, entrambi mentre tentavano di raggiungere Briançon.  La speranza è che la cieca politica della Commissione e degli stati membri non sia più complice di tali accadimenti: è necessario pertanto ribadire l’appello di diverse associazioni tra le quali AsgiMédicins du MondeDiaconia Valdese e Melting Pot Europa rivolto alle autorità italiane e francesi per la modifica delle politiche relative alla gestione delle frontiere interne e alle autorità locali dei due paesi affinché rispondano alle esigenze e ai bisogni dei migranti che transitano lungo i loro confini.

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Cambi della guardia in Africa, e la Russia suona Wagner https://ogzero.org/cambi-della-guardia-in-africa-e-la-russia-suona-wagner/ Thu, 24 Feb 2022 08:45:35 +0000 https://ogzero.org/?p=6471 In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari […]

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In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari in un paese stabile, l’indigenza delle popolazioni è funzionale all’assoggettamento del tessuto sociale, basta frenare le partenze per oltremare… con le buone (accordi capestro e che calpestano i diritti umani) o con le cattive (presenza militare mercenaria ben pagata).

[fin qui… OGzero]

Qui una rielaborazione di due articoli di Angelo Ferrari pubblicati su Africa Rivista e Agi, ampliati per OGzero. Aggiungiamo un podcast realizzato con Edoardo Baldaro (ricercatore alla Scuola Sant’Anna di Pisa, esperto di Sahel) e Stefano Ruzza (professore associato in Scienze politiche all’Università di Torino, responsabile di T.wai – Torino, esperto di agenzie di sicurezza).


Spostare il confine del Mediterraneo

Il Niger è e diventerà sempre di più il bastione italiano nel Sahel. L’Italia, nel suo piccolo – sia geografico sia diplomatico – ha deciso di rilanciare la sua presenza nel continente africano proprio privilegiando il rafforzamento di quella militare in parte a scapito della cooperazione allo sviluppo, soprattutto in chiave anti-immigrazione. L’obiettivo è fermare i flussi proprio alle porte della Libia, cioè in Niger, con la presunzione e l’illusione che blindando i confini i problemi possano restare dall’altra parte. Spostare, dunque, più a Sud il confine del Mediterraneo. Ci riuscirà? Non è del tutto scontato.

In Niger la presenza militare è rilevante. Si tratta di 290 militari, 160 mezzi terrestri e 5 aerei. Mentre il rapporto tra spese militari e cooperazione allo sviluppo è di 10 a 1. Un po’ quello che è successo in Afghanistan, con le conseguenze, dopo il ritiro occidentale, che sono sotto gli occhi di tutti dal punto di vista umanitario. Tutto ciò, evidentemente, confligge con un principio che dovrebbe accompagnare le missioni militari all’estero in generale, e in particolare in Africa, è cioè quello per cui creare le condizioni di sicurezza nelle aree di crisi è indispensabile per poter realizzare anche le missioni civili e di sostegno socio-economico che aiutino i paesi interessati a costruire o ricostruire i loro apparati pubblici e a sviluppare le loro economie, a loro volta premessa indispensabile per migliorare le condizioni di vita della popolazione e stabilizzare il contesto locale e regionale.

Il Mali lasciato dagli occidentali

Il sentimento antifrancese che è montato in buona parte del Sahel deriva proprio da questo. Cioè le popolazioni hanno visto un gran numero di militari occidentali, ma nessun cambiamento sostanziale, non solo nella sicurezza, ma soprattutto nelle condizioni di vita reale. La precarietà “umanitaria” si è aggravata. La lezione del Mali dovrebbe insegnare qualcosa anche a noi italiani. Non a caso il presidente del Niger, Mohamed Bazoum, si è detto molto “preoccupato” per il ritiro dei francesi e degli occidentali in generale dal Mali.

A questo punto può risultare utile ascoltare le considerazioni sulla situazione dopo la chiusura di Barkhane e il subentro conseguente dei contractor russi, oltre al confronto tra le diverse reazioni nei paesi subsahariani, con Stefano Ruzza ed @EdoardoBaldaro

 “Il senso di Wagner per le crepe: le interconnessioni con le giunte del Sahel?”.

La “fortuna” del Niger, il paese più povero al mondo

Il Niger, tuttavia, interessa moltissimo all’Italia e non si tira indietro, lo ha dimostrato nel recente passato aprendo un’ambasciata nel 2017 e dal 2018 con la “Missione bilaterale di supporto” – militare. Il Niger, dunque, è un partner strategico e, nelle intenzioni del governo italiano, può rappresentare un’opportunità di business per l’Italia. L’Italia è tra quei paesi che guardano con interesse al crescere di questo mercato e in generale a quello di tutta l’area saheliana e la presenza dell’ambasciata italiana a Niamey ha anche il significato di voler accompagnare quanto più possibile le imprese italiane che vorranno avviare affari in questo contesto relativamente ancora incontaminato. Queste le intenzioni del governo italiano. Ma, diciamo noi, occorre arrivare per tempo. Per l’Italia, dunque, il Niger è un paese stabile – e questo aiuta – ma non si può dimenticare il passato recente. Il paese è sempre stato il crocevia di traffici illeciti, dalla droga alle armi, dal riciclaggio dei soldi sporchi alla tratta degli esseri umani.

Le fortune del Niger – se così si può dire – e dei suoi governanti, sono derivate proprio da questo. Un paese che ha fatto dell’illecito la ragione dei propri guadagni.

È il paese più povero al mondo, ma, Mohammad Issoufou, ex presidente nigerino – ha governato il paese per dieci anni fino al 2021 – ha speso milioni e milioni di dollari per acquistare armi, elicotteri e aerei da combattimento russi e francesi, tradendo la sua piattaforma elettorale di stampo socialista-progressista, che lo ha portato al vertice dello stato, impoverendo ancora di più la sua gente. Il suo successore, Bazoum, va nella stessa direzione, non a caso sul finire del 2021 ha acquistato dalla Turchia nuovi droni. L’impegno e le spese militari prevalgono su tutte, pur di mantenere i privilegi ereditati dal suo predecessore. Le cancellerie di tutto il mondo conoscono a perfezione i due burattinai nigerini, sanno perfettamente con chi hanno a che fare, ma hanno deciso che del Niger si possono fidare. Ma alcune domande, tra le tante, vengono spontanee: per quale ragione le varie milizie e fazioni che controllano il territorio dovrebbero abbandonare i lauti profitti che arrivano dai traffici illeciti che siano di esseri umani, droga, armi o denaro? Quali garanzie sono state fornite? Quali accordi stipulati?

Il governo italiano dovrebbe rispondere a queste domande con il linguaggio schietto della politica e non con quello della diplomazia. Occorre, dunque, fare attenzione. Ma le parole chiave sono “arrivare in tempo”. Non possiamo dimenticare che il paese saheliano è strategico anche per la Francia che è ormai una presenza organica, ma sul quale Parigi rivolge lo sguardo, soprattutto ora che si è ritirata dal Mali. L’intenzione francese è proprio quella di rafforzare la sua presenza in Niger e sul fronte Sud del Sahel, paesi come Costa d’Avorio, Togo e Benin. Gli interessi strategici di Parigi sono noti: l’estrazione dell’uranio è fondamentale per un paese che vive di centrali nucleari. Il Niger è il quarto produttore di uranio al mondo e il sesto per riserve.

L’Italia, dunque, deve adottare una via pragmatica e diplomatica per non andare a cozzare con gli interessi di altri paesi che hanno radici solide in quel pezzetto di deserto.

Wagner: gli strumenti “non convenzionali ” della Russia

In Africa, per esempio, la Russia suona la musica di Wagner. La presenza dei mercenari di Mosca rappresenta per Vladimir Putin la guarnigione di “sfondamento” nella sua politica di espansione in Africa. Non è un mistero che la Russia stia cercando di tornare agli antichi fasti dell’Unione Sovietica e non lo fa impegnandosi direttamente sul campo militare, quello dove si combatte, ma inviando la Wagner che per Mosca fa il lavoro sporco. Lo si vede in maniera evidente, per esempio, nella Repubblica Centrafricana, che è diventata la base operativa russa in Africa centrale. Lì i mercenari combattono a fianco delle truppe regolari e sostengono il regime. La guardia presidenziale è tutta nelle mani del Cremlino, così come i consiglieri del ministero della Difesa. Il Centrafrica è diventata una sorta di portaerei nel mezzo dell’Africa che funziona come trampolino di lancio per l’espansionismo russo. Già nel passato questo paese ha avuto questa funzione, con la presenza di numerose basi della Francia, ex potenza coloniale, almeno fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso. Ora la storia è molto diversa e, come è normale che sia, Putin nega tutto. Si limita a spiegare che l’intervento russo in Africa riguarda la fornitura di armi e l’addestramento militare. Ma ogni evidenza porta da un’altra parte. Lo si sta vedendo in maniera plastica in Mali, dove il sentimento prevalente è quello filorusso. Così come in Burkina Faso dove si sono viste manifestazioni a sostegno dei golpisti, con la gente in piazza che sventolava le bandiere di Mosca.

L’Africa, per Putin, è diventato uno degli scenari privilegiati della sua competizione con il mondo occidentale.

Lo fa, appunto, attraverso la fornitura di armi e con il sostegno dell’industria bellica, come in Sudan terzo produttore di armi nel continente africano dopo Egitto e Sudafrica. Per raggiungere i suoi obiettivi, il Cremlino utilizza non solo i normali canali diplomatici ma anche strumenti non “convenzionali”: i famigerati mercenari della Wagner e la propaganda attraverso i social network, come accade in altre parti del mondo. E funziona.

L’impegno italiano: ridurre le partenze

Il governo italiano sta mettendo in atto un cambio di paradigma nel guardare a questo paese e alla regione del Sahel nel suo insieme, cercando di colmare la sua lacuna di presenza, intercettando in maniera tempestiva il crescere dell’attenzione internazionale. Il Niger guarda ormai all’Italia come un “partner di riferimento”, soprattutto nella gestione delle migrazioni, nella lotta all’avanzamento del terrorismo jihadista, nel contenimento delle sfide ambientali e nello sviluppo. Se sul piano militare l’Italia è ben posizionata e il rinnovo delle missioni all’estero voluto dal governo Draghi va proprio in questa direzione. L’Africa si conferma il continente in cui l’Italia è maggiormente coinvolta, con 17 missioni in corso. Tra quelle più rilevanti in termini di unità impiegate e risorse economiche c’è la Task Force Takouba, per il contrasto della minaccia terroristica nel Sahel, e l’impiego di un dispositivo aeronavale nazionale nel Golfo di Guinea in funzione antipirateria.

Le forze della missione Takouba si preparano a lasciare il paese (fonte Africa Rivista).

Sul piano, invece, della cooperazione allo sviluppo fa segnare il passo. Non si può dimenticare che oltre il 40 per cento della popolazione nigerina vive sotto la soglia di povertà e il paese si colloca in fondo alla ben poco onorevole classifica dell’indice di sviluppo umano. C’è da augurarsi, dunque, che il rinnovato impegno in Niger e in tutta la regione sia teso, anche, al rafforzamento di un impegno umanitario. L’impegno italiano è concentrato – almeno così sembra – alla riduzione delle partenze dei migranti (come racconta qui Fabiana Triburgo). Rimane, tuttavia, la domanda: “È sufficiente la cooperazione militare per impedire le partenze?”. È lecito chiedersi se controllo del territorio di questi paesi e lotta al terrorismo non passino anche e soprattutto attraverso politiche di sviluppo: cioè alla creazione di un welfare state che manca totalmente in questi paesi. Non si considera infatti che la maggior parte delle persone che fuggono da quelle situazioni lo fanno perché manca totalmente la percezione della possibilità di costruirsi un futuro solido per sé e la propria famiglia. Non è solo mancanza di cibo, spesso è la mancanza di welfare state, cioè di una rete sanitaria adeguata e di una rete scolastica capace di formare.

In quei paesi dove la cooperazione militare è importante, gli apparati di governo sacrificano, già di loro, gli investimenti per il welfare a scapito di una crescente spesa militare. Tutto ciò dovrebbe far riflettere.

L’impegno russo: fornire armi e sfruttare le risorse

L’arrivo in Centrafrica, tuttavia, rappresenta, uno spartiacque per Mosca. Le armi russe fanno gola un po’ a tutti: Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania hanno lanciato appelli a Mosca perché aiuti le loro forze di sicurezza a combattere il terrorismo, appelli che hanno avuto risposte positive. Tutto ciò piace molto al Cremlino e preoccupa enormemente l’occidente che sta perdendo posizioni strategiche. L’opzione di Mosca è quella di rafforzare la presenza militare per poi passare all’incasso, anche in termini di risorse naturali. L’interesse militare si giustifica, inoltre, con il fatto che il Cremlino è consapevole della sua marginalità nei mercati africani e di non poter competere con l’espansionismo cinese. Le armi, quelle vere, per Mosca, tuttavia, funzionano ancora. Ma è del tutto evidente che l’aiuto militare è subordinato, nel futuro, ad avere un ruolo anche nello sfruttamento delle materie prime.

Non a caso il paradigma di collaborazione con l’Unione africana – emerso nel forum Russia-Africa – che Putin vuole, mira a migliorare i rapporti esistenti, rafforzare i legami diplomatici e aumentare la sua presenza economica nel continente, per avvicinarsi agli elevati livelli di scambi commerciali che già caratterizzano Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Turchia, Europa e Stati Uniti.

La presenza russa in Africa (fonte Ispi).

La retorica di Putin definisce la sua agenda per l’Africa “positiva” e si contrappone, a detta sua, ai “giochi geopolitici” degli altri, spiegando che la Russia non è interessata a depredare la ricchezza dell’Africa, ma a lavorare a favore di una cooperazione “civilizzata”. Parola, questa, già usata da coloro che hanno colonizzato il continente.

Dal punto di vista economico, non è da trascurare la presenza in Namibia dove la Russia è impegnata nell’estrazione dell’uranio e in Angola nel settore diamantifero. Da qui, dall’Africa, Putin vuole ripartire per lanciare la sua sfida e tornare a vantare il ruolo di potenza mondiale. Ma la “prudenza” sta caratterizzando la presenza russa. Putin non arriverà a schierare l’esercito regolare e per questo si avvale di mercenari della Wagner, che fa il bello e cattivo tempo un po’ ovunque, in particolare nella Repubblica Centrafricana che, di fatto, è governata proprio dai russi. Il Mali, dopo il ritiro delle truppe occidentali, rappresenta una vittoria significativa per Putin che è riuscito a ridimensionare l’impero francese.

Attività russe in Africa nel 2019 (Fonte ISW).


Gruppo Wagner: un po’ di storia

Sul Gruppo Wagner, ovviamente, sono più le supposizioni che le certezze. Ciò che si sa è che nasce intorno al 2013 con il nome di Corpi Slavi. Il loro fondatore è l’ex colonnello dei servizi segreti militari Dmitry Utkin. Insieme a un piccolo contingente di ex appartenenti alle forze speciali russe, Utkin si schiera in Siria a protezione delle infrastrutture strategiche per la Russia e per il governo siriano di Bashar al-Assad. I mercenari non ottengono grandi risultati e ben presto rientrano in patria. Qui Utkin rifonda l’organizzazione ribattezzandola Gruppo Wagner in onore del compositore tedesco (Utkin ha forti simpatie naziste). È l’incontro con Yevgeny Prigozhin, oligarca con interessi nei comparti dell’alimentazione, dell’estrazione mineraria e nel mondo della gestione dei dati informatici, che fa compiere al Gruppo Wagner il salto di qualità. Prigozhin è legato a doppio filo a Putin che lo utilizza per portare a termine “operazioni delicate”. I mercenari di Utkin vengono quindi impiegati in Ucraina e a sostegno dei separatisti della Repubblica separatista di Lugansk. Poi di nuovo in Siria, dove si affiancano alle forze di Bashar al-Assad. Il momento più tragico avviene nel febbraio 2018 a Deir ez-Zor, quando un centinaio di uomini viene ucciso in un raid americano nei pressi del villaggio di al-Isba durante gli scontri con le forze curde dell’Sdf. Le imprese compiute in tre anni di guerra, permettono a Prigozhin di passare all’incasso. Un incasso chiamato Africa, dove, nel frattempo, la Russia sta conducendo una delicata partita per recuperare spazi di influenza. Mosca cerca di stringere rapporti con numerosi paesi offrendo assistenza militare in cambio di risorse minerarie. Ma in modo informale. Un gruppo di uomini viene quindi inviato in Sudan. Vengono schierati a protezione del presidente Omar al-Bashir e come presidio sul confine con il Sud Sudan. In cambio, i mercenari russi ricevono la gestione di alcuni impianti minerari. Un’operazione molto simile avviene anche nella Repubblica Centrafricana, dove nel luglio 2018 vengono uccisi tre giornalisti russi che indagavano proprio sulle operazioni di Prigozhin. Il magnate russo farebbe affari con almeno dieci paesi, tra i quali Repubblica democratica del Congo, Madagascar, Angola, Guinea, Guinea-Bissau, Mozambico e Zimbabwe. Uomini del Gruppo Wagner sono stati incorporati nelle milizie di Khalifa Haftar in Libia. Il resto è storia recente.


Per rinfrescarvi la memoria su come operano i contractors o le milizie mercenarie e su come funzionano le regole di ingaggio e quali sono i rapporti di forza con gli stati che li “assumono” guardate questa intervista di OGzero a Stefano Ruzza, regia di Murat Cinar.


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