islam Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/islam/ geopolitica etc Tue, 23 Feb 2021 07:34:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Racconto di Natale: linee cancellate e riemerse dal suolo d’Africa https://ogzero.org/africa-un-continente-non-un-paese-racconto-di-natale-di-eric-salerno/ Thu, 24 Dec 2020 08:21:58 +0000 http://ogzero.org/?p=2114 In questo anno difficile che si chiude con uno “strano” Natale abbiamo pensato di condividere con voi lettori un racconto che racchiude un mondo perduto: quello che un tempo scaturiva dai reportage di viaggio. Ecco, ci piacerebbe che un po’ di quello spirito passasse attraverso questo scritto di un giornalista-autore che ha accettato di accompagnarci […]

L'articolo Racconto di Natale: linee cancellate e riemerse dal suolo d’Africa proviene da OGzero.

]]>

In questo anno difficile che si chiude con uno “strano” Natale abbiamo pensato di condividere con voi lettori un racconto che racchiude un mondo perduto: quello che un tempo scaturiva dai reportage di viaggio. Ecco, ci piacerebbe che un po’ di quello spirito passasse attraverso questo scritto di un giornalista-autore che ha accettato di accompagnarci nell’impresa in cui ci siamo gettati pochi mesi fa, per festeggiare il primo Natale insieme. In attesa di poter nuovamente viaggiare davvero, leggetelo, gustatevelo, immaginate di percorrere strade ferrate in un continente in perenne fermento, e di conoscere il mondo!


Un continente, non un paese

«I problemi dellAfrica». «Quegli africani tutti uguali…». «Andiamo in vacanza in Africa». Quante volte ci si riferisce a quel luogo a sud del Mediterraneo – hic sunt leones – come un solo paese, non il terzo continente per grandezza della Terra. Gli studiosi più cauti al massimo guardano a quel pezzo di mondo come se fossero due: in alto Marocco, Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto che considerano estensione del Medio Oriente; a sud del Sahara altre quarantotto nazioni o territori dove vivono – o sopravvivono – ben oltre un miliardo di persone. Uniti, più o meno, dal colore della pelle. Divisi da duemila lingue, da una moltitudine di credenze e religioni, dalle rivalità tipiche del genere umano. Popoli con radici antiche e storie ancora in parte sconosciute, sicuramente sottovalutate. Popoli che gli insegnamenti ereditati dal passato ci fanno chiamare tribù (termine poi usato dagli stessi africani) per indurci a non capire che molti dei conflitti armati che tormentano il continente hanno radici nei confini tracciati con noncuranza dalle potenze coloniali europee in una conferenza a Berlino (1894-95) e alla fine della Prima guerra mondiale.

I confini: un tracciato incerto

Tra la fine degli anni Sessanta e nel decade successivo, con la decolonizzazione ancora in corso, sono stato tre volte nel Camerun: 475.442 chilometri quadrati, oltre 100 più dell’Italia. A guardarli sulla carta, i suoi confini sembrano opera di un bambino di due anni a cui i genitori hanno chiesto di disegnare un animale preistorico. Dal Golfo di Guinea si allungano come un serpente in movimento nel cuore del continente, a ridosso del lago Ciad: un tracciato sempre incerto. Come oggi è incerto il futuro del paese, bacino apparentemente interminabile di un flusso migratorio versa la speranza. E come per motivi simili è incerto il futuro di altre realtà del continente dove si combatte e si muore e dove forze estranee, vecchie e nuove, sono sempre più protagoniste di un grande gioco. O, meglio, di più giochi. Nel maggio 1963, gli stati africani indipendenti, in una conferenza ad Addis Abeba, fondarono l’Organizzazione per l’Unità africana. Il panafricanista Kwame Nkrumah (rivoluzionario e primo presidente del Ghana) voleva veder nascere nel suo continente quello che sognava Altiero Spinelli per l’Europa ma si dovette accontentare di uno statuto meno ambizioso e che, comunque, metteva in primo piano la necessità di non mettere in dubbio le frontiere uscite dal colonialismo. La parola d’ordine per tutti: evitiamo la balcanizzazione del continente.

Camerun

Dal “Messaggero” del 3 agosto 1969 il racconto di Eric Salerno della costruzione della Transcamerunense, le prospettive (tradite?) di ricchezza e di progresso in Africa Equatoriale

Diversi Camerun in un solo paese

Quei tre viaggi in Camerun offrivano all’osservatore dosi calcolate di ottimismo dove oggi – e anche allora – è guerra. Cominciamo questo percorso da Douala, un grande porto dove in un ristorante francese, retaggio positivo del colonialismo, assaggiai per la prima volta le cosce di rana e dove uno chef parigino di nascita preparò un incredibile soufflé di cioccolato per coronare un pasto di gran livello. Mangiai dei crostacei raffinatissimi quasi d’obbligo perché è da loro che il paese prese il suo nome. Gli esploratori portoghesi che nel XV secolo approdarono da quelle parti non avevano dubbi: il delta del Wouri, ricco di quegli animali acquatici, divenne Rio dos Camarãos (“Fiume dei gamberi”); il paese, con il passare del tempo, Camerun.

Insegne nel Camerun francofono… (foto di Eric Salerno)

Erano alcuni giorni che ero costretto a rispolverare il mio francese, lingua comune per le molte etnie di quella parte del paese, ed ebbi quasi un sussulto quando, usciti da Douala e arrivati dopo non molto quasi alla base del Monte Camerun mi accorsi che le insegne delle botteghe erano improvvisamente tutte in inglese. Avevamo attraversato una frontiera che era stata cancellata e che oggi, mezzo secolo dopo quel viaggio, segna la linea di confronto tra due mondi in contrapposizione. In un posto di ristoro a Buea, il capoluogo della regione del Sudovest, 870 metri di altitudine sulle pendici meridionali del monte più alto (4040 m) di tutta l’Africa centrale (è un vulcano attivo), mi offrirono un muffin, retaggio non proprio sofisticato della breve presenza degli inglesi.

insegna inglese

Foto di Eric Salerno

La Repubblica federale che (non)unisce del tutto

Trovai, in quella e nelle altre visite, poco o nulla degli anni in cui questo lembo d’Africa si chiamava Kamerun, i suoi padroni parlavano il tedesco, ed era ancora più grande grazie a uno scambio territorio-favori (il trattato Marocco-Congo del 1911) tra Berlino e Francia. Una mossa sulla plancia della Monopoli africana simile ad altre tra le potenze colonialiste. Londra e Parigi, dopo la sconfitta della Germania, si divisero il bottino africano della Grande Guerra. Passarono di mano anche il Tanganika, oggi Tanzania dopo una non sempre tranquilla unione con Zanzibar; il Togo dove lotta un movimento separatista nel West Togoland, quella parte dell’ex colonia tedesca che dopo la decolonizzazione divenne una provincia del Ghana. Il Kamerun fu diviso in due: Camerun inglese, accanto alla vasta colonia britannica della Nigeria, Camerun francese, appoggiato agli ex possedimenti di Parigi a nord e a est. Poi dopo varie fasi incerte nacque la Repubblica federale che avrebbe dovuto rispettare l’autonomia della popolazione anglofona rispetto alla preponderanza di quella francofona. Non fu così e la spaccatura avvenne proprio sulla questione linguistica, eredità coloniale e fattore unificante di gruppi etnici e popoli non soltanto in questo paese. Tre anni fa, la proclamazione della Repubblica federale di Ambazonia da parte degli anglofoni e la nascita di movimenti separatisti armati ha portato a un conflitto ancora in atto. E che ricorda quello che infuriava nella stessa regione cinquanta anni fa che, come scrissi allora, riguarda la competizione tra i bamiléké (nelle regioni anglofone) e gli altri, e aveva radici profonde ma anche motivazioni, diciamo, aggiornate.

Un reportage di Eric Salerno dal Camerun, apparso su “Il Messaggero”, l’8 agosto 1969: rivalità tribali vs. unità nazionale

“I bamiléké sono progrediti in questi ultimi anni a grandi sbalzi, superando quasi sempre lo sviluppo economico e sociale degli altri gruppi etnici. I sistemi feudali delle loro tribù sono stati aboliti e la società bamiléké ha sostituito le strutture dei villaggi con cooperative, associazioni comunitarie per il commercio. Oggi possiedono piantagioni, ricche e altamente produttive, stabilimenti per il trattamento del caffè, garage e magazzini, e gestiscono la quasi totalità dei servizi di trasporto terrestre del paese”

L’allora presidente Ahidjo, un foulbé (etnia minoritaria, musulmano, del Nord) sosteneva la necessità di raggiungere la non facile unità nazionale prima di impegnarsi nello sviluppo economico del paese. Oggi il paese è tra i più solidi grazie alle risorse naturali, compresi petrolio e gas, legnami pregiati e prodotti agricoli ma la ricchezza è concentrata nelle regioni meridionali. La scena politica è da anni dominata da un partito (Movimento democratico del Popolo camerunese) e dal suo presidente Paul Biya, 85 anni, al potere dal 1982 e al suo settimo mandato dopo le contestate elezioni del 2018.

L’eredità coloniale delle religioni

Credo che sia importante, qui, sottolineare un altro elemento di coesione e in molti casi di tragica lotta fratricida in questo paese come in tutto il continente: le religioni come eredità coloniale. L’islam, arrivato soprattutto nel Sahel, lungo la costa Mediterranea e quella dell’Oceano Indiano ancora prima della conquista europea del continente, è un fattore unificante ma anche di scontro spesso all’interno della sua complessa galassia. Nel suo nome vengono portate avanti crociate che sfruttano contrasti più tradizionali come quelli tra coltivatori e pastori quando, come ora, il clima ha reso più difficile la sopravvivenza delle popolazioni. Gruppi islamisti, finanziati e sostenuti da attori esterni al continente, sono attivi nelle regioni settentrionali del Camerun e in quasi tutta la fascia del Sahel dove i musulmani sono preponderanti. La realtà del Camerun – dal Golfo di Guinea al lago Ciad – deve la sua complessità anche a chi disegnò le sue frontiere. Circa il 70 per cento della sua popolazione è cristiana: la maggioranza cattolica nella parte francofona, i protestanti in quella che fu dominata dalla Gran Bretagna. La gravità della situazione è stata sottolineata a febbraio di quest’anno nella lettera di un gruppo di vescovi che sollecitavano il governo di Yaoundé a rinunciare al centralismo che impone l’identità francofona sugli anglofoni.

La violenza e le atrocità commesse da tutte le parti in conflitto hanno costretto 656.000 camerunesi di lingua inglese a lasciare le loro case, 800.000 bambini a non andare più a scuola (inclusi i 400.000 alunni delle scuole cattoliche), 50.000 persone a fuggire in Nigeria, distrutto centinaia di villaggi e ucciso almeno 2000 persone

Le risorse naturali, vera causa delle guerre civili

Purtroppo l’esempio del Camerun è soltanto uno dei meno noti dei conflitti africani. Del Sudan e del Sud Sudan, paesi indipendenti dopo guerre civili spesso manovrate dall’esterno, ma sempre con “problemi tribali” al loro interno, si parla spesso. Come si è parlato nell’ultimo mese della guerra che rischia di smembrare l’Etiopia, uno dei più antichi paesi del mondo. L’Unione africana, alcuni anni fa, aveva designato il 2020 l’anno della pace nel continente. L’obiettivo, mettere fine a tutti i conflitti. Da quelli di cui si parla sovente – Libia, Sudan, Mali – a quelli poco trattati dai media nella Repubblica democratica del Congo, nella Repubblica Centrafricana, in Somalia, Kenia e, da poco tempo, nel Nord del Mozambico ricco di idrocarburi. Le risorse naturali sono, come sempre, l’interesse principale degli attori esterni. E la causa di molte guerre civili africane. Una per tutte: la guerra del Biafra (una regione della Repubblica federale della Nigeria super-ricca di petrolio) scoppiata pochi anni dopo l’indipendenza (1967-1970). Si preferì parlare, allora, di “rivalità etniche”, che sicuramente esistevano ed esistono ancora oggi in quel vasto paese.

Il fascino del potere

E qui, seppure con cautela per non sottovalutare il passato, è d’obbligo sottolineare che oltre mezzo secolo dopo la decolonizzazione anche l’attuale dirigenza africana deve assumersi le proprie responsabilità. Tra queste, l’incapacità o la mancanza di volontà di modificare le strutture economiche e politiche di sfruttamento dei cittadini e l’attaccamento al potere di molti leader,  uomini politici inizialmente innovatori ormai dittatori attaccati al potere e a tutto ciò che rappresenta. L’impegno di mettere fine a tutte le guerre entro quest’anno era sicuramente irrealistico. Anche perché le rivalità e divergenze tra i leader dei 27 stati dell’Unione europea sono nulla rispetto a quelle che dividono i governi dei 55 paesi africani, alcuni dei quali colpevoli anche di favorire i conflitti civili e i movimenti separatisti nei loro vicini di casa.

La foto utilizzata in copertina è stata esposta alla mostra “A sud del Sahara. Fotoreporters italiani nell’Africa nera 1969/1979”, tenutasi a Palazzo Isimbardi a Milano nel maggio 1980, con opere di Paola Agosti, Romano Cagnoni, Carlo Cisventi, Augusta Conchiglia, Mario Dondero, Fausto Giaccone, Uliano Lucas… Eric Salerno. L’immagine illustra un gruppo di viaggiatori in attesa del treno alla stazione di Nanga-Boko, fine luglio 1969.

L'articolo Racconto di Natale: linee cancellate e riemerse dal suolo d’Africa proviene da OGzero.

]]>
Il jihad come instrumentum regni https://ogzero.org/il-jihad-come-instrumentum-regni/ Sat, 30 May 2020 08:27:40 +0000 http://ogzero.org/?p=182 Segmentazione e unificazione tribale periodica nel contesto magmatico dei brand jihadisti. La capacità di resistere alla centralizzazione dello stato Elisa Giunchi, novembre 2019 – maggio 2020 L’islam tribale e la sua militarizzazione Già nell’Ottocento funzionari, etnografi e viaggiatori britannici annotarono quanto sarebbe poi stato confermato dagli studi antropologici a partire dagli anni Cinquanta del Novecento: […]

L'articolo Il jihad come instrumentum regni proviene da OGzero.

]]>
Segmentazione e unificazione tribale periodica nel contesto magmatico dei brand jihadisti. La capacità di resistere alla centralizzazione dello stato

Elisa Giunchi, novembre 2019 – maggio 2020

L’islam tribale e la sua militarizzazione

Già nell’Ottocento funzionari, etnografi e viaggiatori britannici annotarono quanto sarebbe poi stato confermato dagli studi antropologici a partire dagli anni Cinquanta del Novecento: le tribù pashtun del Sudest erano caratterizzate da un codice etico, il pashtunwali, incentrato su alcuni valori che, pur presenti anche presso altre comunità, erano stati qui tradotti in norme minuziose, da una struttura acefala che rendeva necessaria la pratica del consenso attraverso assemblee consultive (jirga) e da una sostanziale indipendenza dal potere centrale, che era facilitata dalle distanze e dalla natura impervia del Sudest. Tra i pashtun dell’Ovest, per lo più Durrani, e quelli detribalizzati vi era sì una “memoria tribale”, fondata su genealogie mitiche, ma la struttura sociale era maggiormente legata allo stato e gli elementi caratterizzanti del pashtunwali risultavano meno evidenti. Non che le tribù del Sudest fossero realmente indipendenti, come immaginavano i britannici: nella seconda metà dell’Ottocento esse erano legate da tempo al centro da un sistema di sussidi, favori e privilegi, e come contropartita assicuravano al potere politico centrale il loro sostegno militare, in un rapporto di reciprocità che sostanzialmente rimarrà invariato fino agli anni Venti-Trenta del Novecento. 

In materia religiosa, la differenza tra pashtunwali e sharia, spesso rimarcata dagli studiosi, non era percepita come problematica dai pashtun: nella concezione comune i legami genealogici che collegano al profeta Muhammad l’ascendente apicale Qais bin Rashid rendevano i pashtun inerentemente musulmani: osservare il pashtunwali – “fare pashtun” – significava essere musulmani. La sostanziale assenza del potere centrale e il modello acefalo, tendenzialmente egalitario, che era prevalente tra i pashtun più “tribalizzati”, in particolare nel Sudest, provocava tensioni e faide continue tra i segmenti che componevano la comunità. In questa situazione di conflittualità endemica, la composizione delle faide e la ricomposizione del tessuto sociale dopo le violazioni del pashtunwali potevano avvenire solo grazie a figure esterne. Tra queste, le figure religiose, che erano “esterne” in un duplice senso: innanzitutto, in quanto appartenevano a rami minori della genealogia locale o provenivano da altre tribù; in secondo luogo, soprattutto se erano dotate di baraka, rappresentavano la dimensione sacrale, e si prestavano a mediare, quindi, in quanto parte non interessata, con riferimento al volere divino e non a un segmento specifico della tribù.

Questi aspetti si ritrovano attualizzati nella decentralizzazione del controllo del paese alle tribù pashtun del Sudest del paese ma con una forza minore del potere centrale delegittimato dalle compromissioni con gli americani e con potenze regionali come il Pakistan con maggiore possibilità di gestire il territorio a cavallo della Durand Line e di indirizzare il jihad. Si riscontrano similitudini con il passato e differenze, come le interferenze di altri paesi e la necessità di trovare l’accordo con le altre etnie che costituiscono il paese, in precedenza marginalizzate da Durrani, come si coglie in questa clip dell’intervento di Elisa Giunchi registrato il 28 maggio 2020 sulle frequenze di Radio Blackout:

Elisa Giunchi, 28 maggio 2020: Similitudini e differenze tra altre epoche di decentramento controllato e attuale difficoltà di Kabul a controllare il territorio
Porzione della mappa delle separazioni territoriali coloniali contenuta nel volume Sconfinate, a cura di Emanuele Giordana, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018. Al numero 1 si dipana la Durand Line; la Radcliffe Line corrisponde al numero 2; lungo la linea 9 scorre l’Hindukush; il numero 11 coincide con il Khyber Pass. A, B, C indicano le tre zone in cui è diviso il Kashmir.

Il ruolo dei religiosi in ambito tribale

Contro una presupposta laicità del sistema tribale, sulla quale hanno insistito alcuni antropologi, le figure religiose, anche quando non prendevano parte alle jirga, o lo facevano esprimendosi solo su aspetti specifici della fede, assicuravano la liceità religiosa delle decisioni comunitarie: approvavano le decisioni della jirga pur non concorrendo sempre alla loro elaborazione, potevano avviare procedimenti contro individui o clan e disponevano spesso di proprie milizie, composte dai loro deputati e seguaci e da membri della comunità locale che si attivavano ad hoc per rendere effettive le decisioni dei “religiosi carismatici”. Un ruolo di non poco conto che i religiosi ricoprirono più volte presso le tribù pashtun nel corso dell’Ottocento era quello di proclamare e guidare il jihad contro nemici esterni, con l’effetto di ricomporre temporaneamente le differenze interne. Il riferimento ai valori sacrali e, nel caso di coloro che possedevano la baraka, l’incarnazione – per così dire – di quei valori, permettevano di superare la segmentazione locale e di mobilitare più tribù, compito che risultava impossibile al malek/khan che rappresentava uno specifico segmento clanico o tribale. Non è un caso, quindi, che nelle due guerre anglo-afgane (1839-1842 e 1878-1880) i religiosi ricoprissero un ruolo importante, mobilitando la popolazione tribale in nome del jihad e, in diversi casi, soprattutto nel Sudest, guidando le milizie contro l’esercito anglo-indiano. Nelle sollevazioni che scoppiarono al Sud e Sudest sul finire del secolo in reazione alla forward policy britannica le figure carismatiche della variante marabutica riuscirono ancora una volta a unire clan e tribù, superando almeno temporaneamente divisioni e rivalità locali.

Gli stessi inglesi, paradossalmente, contribuirono alla turbolenza tribale e alla militarizzazione delle figure religiose: innanzitutto, i tentativi di occupazione perseguiti con le due guerre anglo-afgane, e le annessioni e ingerenze successive, favorirono il compattamento delle tribù pashtun sotto la guida dei religiosi carismatici, accrescendo l’influenza di questi ultimi rispetto ai capitribù, inerentemente impossibilitati a superare, come si è visto, la segmentazione locale. In secondo luogo, le necessità del jihad contro gli inglesi (e i russi, che premevano da Nord) aumentò la domanda di armi e munizioni, che verso la fine del secolo iniziarono ad affluire in grandi quantità dal Golfo. Al traffico illegale di armi provenienti dall’Europa si sommavano fucili e munizioni provenienti dagli arsenali governativi, sottratti ai sepoy in India e prodotti localmente. Sia i capitribù sia i religiosi più influenti, che si avvalevano di milizie di murid/talib, si dotarono così di armi moderne, costringendo l’Indian Army ad aggiustamenti tattici e il governo in India a incorrere in nuove spese, proprio in una fase in cui la minaccia russa tornava a turbare i sonni di politici e strateghi a Londra e Calcutta. In terzo luogo, la politica inglese di istituire tribal levies e di armare i khassadar perché proteggessero le postazioni britanniche e i passi contribuirono alla militarizzazione delle aree al confine con l’India, di cui i religiosi erano parte integrante. 

Un islam di stato

All’evoluzione dell’islam tribale sul finire dell’Ottocento contribuì, con ogni probabilità, anche l’uso strumentale che l’emiro Abdurrahman (1844-1901) fece dell’islam non solo in funzione antimperialista, ma anche con l’obiettivo di accentrare e unire il paese.

Al potere dal 1880, Abdurrahman si adoperò per trasformare una struttura politica in cui l’assenso all’emiro era contrattato ad hoc e si fondava sulla reciprocità in una monarchia assoluta. L‘emiro fino ad allora era stato una sorta di primus inter pares che poteva in qualsiasi momento, se non andava incontro alle istanze e ai valori pashtun, perdere il sostegno delle tribù e, quindi, il trono. Il potere centrale era quindi fortemente instabile, e chi deteneva le redini del potere era impossibilitato a perseguire riforme di ampio respiro, soprattutto se contraddicevano gli interessi e l’ethos pashtun. E difatti la storia afgana è puntellata da rivolte guidate da figure religiose, che esprimevano la resistenza di ampi settori della popolazione pashtun a imposizioni percepite come devianti rispetto al sistema valoriale e agli interessi delle tribù dalle quali dipendeva in ultima analisi il potere dell’emiro. Già nel 1880 a Shinwar il mullah Najm al-Din, noto nelle fonti britanniche come ‘mullah Hadda’, accusò l’emiro, che si era appena insediato al potere con l’aiuto britannico, di essere un infedele; accusa di non poco conto, visto che il mullah aveva moltissimi seguaci, soprattutto a Est del paese, ma anche nelle aree a maggioranza pashtun sottoposte al controllo del Raj britannico. 

Negli anni successivi i tentativi dell’emiro di ridurre i privilegi e l’autonomia delle figure religiose, e la delimitazione nel 1893 della Durand Line, che attribuiva alcuni territori pashtun ai britannici, costituirono l’occasione di nuove proteste in cui mullah e pir ricoprivano un ruolo fondamentale. Le proteste non dissuasero l’emiro, che anzi moltiplicò i tentativi di arginare la loro influenza e centralizzare il potere. A tal fine, oltre a mettere a morte alcuni mawlawi e a costringerne all’esilio altri, rafforzò il potere dell’esecutivo, diminuì l’indipendenza economica delle figure religiose – sottoponendo i waqf al controllo centrale, imponendo una tassa sulle proprietà religiose e riducendo i finanziamenti alle khanaqa – e integrò mawlawi e mullah nell’apparato statale, favorendone la fedeltà: i mawlawi ottennero il diritto a percepire uno stipendio previo esame da parte di una commissione nominata dall’emiro, al quale spettava il compito di controllare che la loro dottrina non si discostasse dall’islam “corretto”, vale a dire dall’interpretazione approvata dall’emiro. Muhtasib e qazi dovevano vigilare sull’applicazione dei precetti religiosi, epurati dalle loro degenerazioni popolari e di ogni carica eversiva. Agli ulama più fidati fu chiesto, infine, di propagare l’islam ufficiale nel paese, uniformando la pratica religiosa. Significativamente, se nei testi religiosi non trovavano una risposta, i qadi, che erano nominati dall’emiro, erano tenuti non a esercitare l’ijtihad (l’interpretazione di Corano e Sunna), ma a rivolgersi ad Abdurrahman. Fu sempre sotto Abdurrahman che sorse la prima scuola coranica finanziata dal governo, la Madarasa-e-shahi, i cui studenti, una volta diplomati, diventavano funzionari dello stato, secondo un processo di “statalizzazione” dei religiosi che si è verificato ovunque, nel mondo musulmano, tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del secolo successivo. 

Le dinamiche illustrate in questo brano pubblicato nella raccolta La Grande Illusione che si applicano all’analisi del rapporto tra apparati religiosi, tribali e statali nei secoli precedenti nel territorio del Khorasan trovano continuità in queste delucidazioni sull’attualità che Elisa Giunchi ha esposto intervenendo il 28 maggio 2020 durante la mattinata informativa di Radio Blackout, dove descrive il contesto magmatico instabile sui due lati della Durand Line in cui operano i jihadisti – adattandosi alle strutture tribali pashtun – con i diversi intenti che contrappongono i brand: governare uno stato come obiettivo ultimo per l’Isis, mentre al Qaeda è dedita a creare basi da cui lanciare attacchi al potere centrale. Entrambi non rappresentano comunque una novità nella storia afgana, bensì si potrebbe trattare della attualizzazione di quel «ruolo dei religiosi presso le tribù pashtun di proclamare e guidare il jihad contro nemici esterni», di cui si accennava nel testo:

Elisa Giunchi, 28 maggio 2020 (Radio Blackout): continuità delle prassi tribali di contrapposizione nei gruppi jihadisti affiliati sia a Isis che ad al Qaeda

Il jihad come instrumentum regni

Abdurrahman decise di enfatizzare, nei manuali religiosi e nei pamphlet che autorizzava e in alcuni casi scriveva di proprio pugno, la necessità di compiere il jihad contro gli infedeli, contribuendo a consolidare la tradizione militante delle aree pashtun. Il jihad, beninteso, poteva essere proclamato solo dall’emiro. Se era l’emiro a proclamarlo, era dovere di ogni afgano combattere o contribuire alla battaglia con i propri averi. Il jihad senza il suo benestare equivaleva invece a una forma di kufr, principio che permetteva di bollare come blasfema ogni forma di sedizione. Si recuperava quindi la componente quietista della dottrina sunnita classica: per giustificare l’importanza dell’obbedienza al potere costituito si sottolineava che Dio aveva delegato ai sovrani la conduzione degli affari dei fedeli; disobbedire all’emiro significava quindi contravvenire al volere di Dio. Oltre a essere un obbligo religioso, l’obbedienza al potere costituito preservava la comunità dalla fitna, l’anarchia sociale paventata dai giuristi classici. Persino un sovrano ingiusto era preferibile al caos che sarebbe risultato dalla sua deposizione. Ma se, da una parte, si sottolineava che spettava all’emiro proclamare il jihad, al contempo, delegando la difesa del territorio ai leader carismatici pashtun – gli unici in grado di coagulare e guidare i segmenti tribali –, si manteneva in vita e anzi si alimentava la turbolenza tribale e, paradossalmente, la sua capacità di resistere alla centralizzazione dello stato. 

Il jihad, oltre a costituire un utile strumento anticoloniale, si prestava a essere usato per ottenere il consenso dei religiosi proprio nel momento in cui si intaccava la loro autonomia. Tra il 1891 e il 1893 l’emiro organizzò, infatti, diverse spedizioni contro gli sciiti hazara, che furono privati dei terreni più fertili, ridotti in schiavitù e costretti a fuggire in Iran e in Baluchistan; sempre a lui si deve la conversione forzata dei kafiri nel 1895-1896, che era già iniziata sul finire del Cinquecento con una spedizione dei mughal. I mullah – incluso quel mullah Hadda che si era inizialmente opposto all’emiro – furono impiegati nel processo di conversione dei kafiri, beneficiarono dell’espropriazione dei terreni hazara e, di conseguenza, sul finire del regno di Abdurrahman erano nel complesso ben disposti nei suoi confronti.

Quando, nel contesto di una crescente ostilità popolare contro il colonialismo europeo, Habibullah (regnante tra il 1901 e il 1919) si rifiuterà di rinnegare gli accordi conclusi dal padre con i britannici, e quando Amanullah (che regnò fino al 1929) cercherà di imporre dall’alto riforme volte a trasformare in senso “moderno” l’ambito più privato – la famiglia – e a intaccare i valori prevalenti tra i pashtun, mawlawi e pir torneranno, soprattutto nel Sudest, a opporsi frontalmente al potere centrale, grazie alla loro tradizionale capacità di mobilitare e unire i segmenti tribali e alle armi affluite nella regione nei decenni precedenti. Habibullah sarà ucciso e Amanullah, prima di abdicare, si vedrà costretto a rinnegare le riforme che aveva introdotto.

Gli aspetti correlati alla frammentazione del territorio e alle pulsioni a resistere all’accentramento da parte dello stato e il richiamo al jihad come strumento anticoloniale che accentua la turbolenza tribale e l’incapacità di costituire un’“afganità” si ritrova nell’attualità descritta sempre da Elisa Giunchi nel prosieguo dell’intervento, laddove si occupa di ricondurre ai contrasti tradizionali tra le strutture verticistiche verticali della cultura turkmena-mongola con quella orizzontale acefala del sistema pashtun, che rappresentano la tensione costante tra tendenza ad accentrare/decentrare il controllo del potere: Durrani e il periodo della difesa della cintura pashtun emarginava le altre etnie, da cui le rivolte contro l’accentramento; mentre ora i gruppi sono infiltrati da potenze esterne (con i corrispondenti signori della guerra), che favoriscono la frammentazione etnica regionale volta a impedire a Kabul la possibilità di essere un centro forte in grado di impedire interferenze e mediare tra le identità di base. L’instabilità deriva forse proprio dall’eccessivo decentramento. L’unica soluzione sarebbe un programma di emancipazione sociale che esuli da apparato confessionale e etnicità, coagulando gruppi diversi su un programma socioeconomico che si concentrino attorno a figure carismatiche di varie componenti; si parla di Massoud, ma forse è troppo connotato e quindi potrebbe rinfocolare il dissidio tra pashtun e tajik.

Elisa Giunchi, 28 maggio 2020 (Radio Blackout): il superamento della frammentazione etnica regionale può passare attraverso uno sviluppo sociale che superi divisioni etniche e religiose, mancano leader e gruppi disposti a svoltare rispetto a un passato ingombrante di divisioni.

Enfatizzare l’identità religiosa rispetto ad altri fattori identitari

La nascita dei Talebani (letteralmente “studenti”) nei primi anni Novanta all’interno delle madrase affiliate al Jamiat-e Ulema-e Pakistan, il partito pakistano deobandita, trae le sue origini proprio dal legame formatosi a partire dalla fine dell’Ottocento tra madrase deobandite e “religiosi carismatici” del Sudest afgano. Anche altre influenze esterne penetrarono nel paese attraverso i suoi porosi confini meridionali, dal nazionalismo confessionale della Lega musulmana, che nel 1947 avrebbe portato alla nascita del Pakistan, al nazionalismo etnico di Ghaffar Khan, venato di istanze egalitarie e alleato al Congresso nazionale indiano. Negli anni Sessanta, grazie a una limitata apertura politica e in un clima di grande effervescenza intellettuale, si diffusero in ambito urbano movimenti islamisti che, ispirandosi al pensiero di Qutb e Maududi, criticavano la religiosità popolare a favore di un approccio più scritturalista e dogmatico; a essi si sommeranno, durante la resistenza antisovietica, militanti jihadisti, provenienti per lo più dal mondo arabo, che contribuiranno a delegittimare le autorità tribali tradizionali e introdurranno nella società pashtun una rigidità e una spietatezza nuove. Queste concezioni militanti dell’islam si sono diffuse nelle aree tribali, talora intrecciandosi con le reti religiose marabutiche, altre volte scontrandosi con la religiosità e le strutture di autorità locali. Il loro effetto è stato di enfatizzare l’identità religiosa rispetto ad altri fattori identitari, di diffondere una religiosità più normativa, di fornire ai “religiosi carismatici” un’agenda più vasta e di svalutarne parallelamente le competenze “tradizionali”, minando di conseguenza anche la loro capacità di mediare in ambito tribale; parallelamente, le jirga hanno perso la loro autorità originaria; il pashtunwali, infine, appare oggi più un’idealizzazione del passato che una realtà, e quel che è rimasto di questo codice etico si trova a competere con altri sistemi valoriali. L’opinione secondo la quale sia stato il solo jihadismo di matrice araba ad avere impresso una svolta militante all’islam tribale e determinato la nascita del fenomeno Talebano è tuttavia difficilmente condivisibile. Anche l’enfasi sul ruolo che le madrase pachistane hanno avuto nella “nascita” dei Talebani e sugli interessi geostrategici che hanno indotto Islamabad e Riad a sostenere l’estremismo in Afghanistan è eccessiva, e offusca sia le specificità pashtun degli “studenti coranici” sia i processi storici che, ben prima degli anni Ottanta del Novecento, influirono sulla loro militanza. 

Sulla natura pashtun dei Talebani – basti qui dire che negli anni Novanta, quando emersero sulla scena afgana, i loro vertici, per quanto avessero studiato per periodi più o meno lunghi nelle madrase pachistane, provenivano dall’ambiente rurale e tribale pashtun, un ambiente che, nonostante le influenze esterne, manteneva alcune peculiarità. Il mullah Omar, che guiderà i Talebani fino alla sua morte, avvenuta nel 2013, era il mullah di un villaggio vicino a Kandahar ed era sostenuto da altri mullah della sua provincia originaria, l’Uruzgan. Almeno il 60 per cento dei vertici Talebani aveva ricevuto quasi tutta la propria istruzione nelle hujra, un’istituzione tradizionale degli ambienti tribali. Molti erano intrisi della religiosità popolare – quella, in particolare, tipica del sufismo marabutico, fatta di amuleti, reliquie e visite alle tombe dei pir: lo stesso mullah Omar prendeva le proprie decisioni sulla base dei sogni, secondo modalità tipiche dei pir. Alcuni suoi stretti collaboratori erano pir o murid, e il simbolismo sufi era onnipresente nel movimento. Sarà questo, tra l’altro, un elemento di attrito tra i Talebani e al-Qaeda, che porterà quest’ultima a interrogarsi sull’ortodossia degli “studenti” coranici. I Talebani mantenevano inoltre negli anni Novanta, e mantengono tutt’ora, alcune peculiarità dell’ambiente tribale da cui provengono – continuando per esempio a seguire pratiche decisionali inclusive, tipiche delle jirga, che smussano quel potere assoluto dei singoli comandanti che caratterizza i gruppi jihadisti arabi. 

Frags tratti da L’islam: la declinazione afgana della parola del Profeta, di Elisa Giunchi, in La grande Illusione. L’Afghanistan in guerra dal 1979, a cura di Emanuele Giordana, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

L'articolo Il jihad come instrumentum regni proviene da OGzero.

]]>