Iran Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/iran/ geopolitica etc Sun, 15 Dec 2024 14:51:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 L’equilibrista di Ankara sul filo del conflitto mediorientale https://ogzero.org/lequilibrista-di-ankara-sul-filo-del-conflitto-mediorientale/ Thu, 25 Apr 2024 20:18:45 +0000 https://ogzero.org/?p=12587 Le mosse strategiche nella regione Mena sono diventate più frenetiche dagli Accordi di Abramo in poi, fino alla reazione di Hamas del 7 ottobre, apparentemente avventata ma mirata a legittimarsi come movimento e contrastare l’accelerazione del governo Netanyahu volta a cancellare la presenza palestinese nella regione. I sei mesi di pantano genocida non sono stati […]

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Le mosse strategiche nella regione Mena sono diventate più frenetiche dagli Accordi di Abramo in poi, fino alla reazione di Hamas del 7 ottobre, apparentemente avventata ma mirata a legittimarsi come movimento e contrastare l’accelerazione del governo Netanyahu volta a cancellare la presenza palestinese nella regione. I sei mesi di pantano genocida non sono stati risolutivi per lo Stato ebraico e così si assiste al particolare dinamismo da parte di molti attori locali, in particolare di Erdoğan.
La diplomazia turca e il presidente stesso hanno intrapreso un tourbillon di incontri presso i vertici degli stati che compongono la regione mediorientale, proponendosi come mediatore, cercando di raccogliere il testimone lasciato cadere dal Qatar, logorato dal boicottaggio israeliano. Ma soprattutto Erdoğan ha individuato nel conflitto che si vuole estendere dal confronto tra Stato ebraico e Repubblica islamica la nuova centralità dell’Iraq, controllato da Teheran attraverso una ragnatela di accordi con la complessità delle formazioni e delle comunità che abitano il territorio iracheno; insinuandosi nei contrasti interni, il presidente turco mira al petrolio di Erbil e a cacciare il Pkk dai monti del Kurdistan iracheno… Murat Cinar dispiega la sottile tela che si va tessendo, in particolare ricostruendo il ruolo turco e l’avvicinamento di Hamas (evidentemente più rassicurato dall’abbraccio di Ankara – contemporaneamente paese Nato e rivale di Israele – che non dalle petrocrazie arabe) sia nella complessa carneficina della guerra ormai esportata nel resto dei paesi all’interno dei quali le presenze filoiraniane dettano la politica, sia nella strategia per inserirsi nel controllo del territorio e dell’energia irachena, comprandosi Baghdad ed Erbil. E di nuovo, come spesso ci ha raccontato Cinar, spuntano gli oleodotti di Barzani [a proposito: l’immagine in copertina è la fortezza di Erbil pavesata a festa per l’arrivo del presidente turco]  e le dighe su Tigri ed Eufrate, le acque del Medioriente…


Erdoğan è vicino a tutti

 

“Da oltre cento anni, le acque nel Medioriente non trovano pace”, questo è un dato certo. Tuttavia, proprio nelle ultime settimane, siamo testimoni di un fenomeno straordinario. Un fenomeno che coinvolge diversi attori, ma tra essi uno spicca particolarmente: la Turchia.

Dal 7 ottobre fino a oggi, le relazioni tra il partito al governo in Turchia, l’Akp, e l’organizzazione armata Hamas, sono diventate una questione internazionale, chiara e trasparente. L’esponente più autorevole dello stato turco e del partito al potere da oltre vent’anni, ovvero il presidente della Repubblica, dopo alcune settimane di silenzio dal 7 ottobre, ha deciso di comunicare la sua posizione: «Hamas è un’organizzazione di patrioti, non un’organizzazione terroristica». Così, dopo l’Iran, la Turchia è diventata il secondo paese al mondo a esprimere un avvicinamento così netto a Hamas.


Una posizione che entra in contraddizione con i partner europei, con gli alleati Nato, nonché con la Lega Araba e l’Organizzazione della Cooperazione Islamica. In fondo, non si tratta di una novità assoluta. La linea politica ed economica rappresentata dall’Akp è sempre stata vicina ai movimenti fondamentalisti come i Fratelli Musulmani e a una serie di formazioni armate religiose nel Medio Oriente. Inoltre Hamas ha sempre trovato accoglienza, sostegno e riconoscimento presso l’Akp e sotto l’ala protettiva del presidente della Repubblica di Turchia. Tuttavia, questa esposizione così netta, in pieno conflitto, non ha provocato reazioni, sanzioni o embarghi da parte dell’UE e/o della Nato. Poche settimane dopo, nel mese di dicembre, il mondo ha appreso, grazie alle inchieste giornalistiche di Metin Cihan, che persino per Israele non costituiva un grande problema, poiché Tel Aviv continuava a fare acquisti presso aziende turche, incluse quelle statali.

Affannosamente al centro di ogni possibile accordo

Nel mentre Ankara ha tentato diverse volte di assumere il ruolo di “mediatore”, anche se finora senza successo; tuttavia, oggi sembra che questi sforzi stiano finalmente portando dei risultati. Il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ha incontrato in Qatar il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, proprio quando Doha stava per abbandonare il suo ruolo di mediatore. Infatti il primo ministro del Qatar, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani, il 16 aprile aveva comunicato a Fidan che il suo governo stava per rinunciare. Tuttavia il tentativo del Ministro turco sembra poter ottenere dei risultati positivi. Le dichiarazioni di Fidan ci offrono spunti di riflessione su una serie di scenari:

«Come ho costantemente riferito ai nostri alleati occidentali, Hamas è a favore di uno stato palestinese basato sui confini del 1967 e, una volta creato, è disposto a rinunciare alle armi e a intraprendere la via della politica parlamentare», ha affermato Fidan. Tale dichiarazione prevede anche il riconoscimento di Israele da parte di Hamas, la possibilità di porre fine al conflitto armato, il rilascio degli ostaggi e lo scambio di detenuti politici. Si tratterebbe dell’inizio di una nuova era: «Questo segna il cammino verso la creazione di uno stato palestinese», ha concluso Fidan.

Quando e perché viene fuori una dichiarazione del genere?

Potrà una comunità fondarsi su un altro genocidio come quello di Gaza senza essere una caserma come lo Stato ebraico… o la Repubblica turca?

Senza dubbio il massacro a Gaza ha esaurito innanzitutto i principali protagonisti. Ci troviamo di fronte a un governo sionista, rappresentato da Benjamin Netanyahu, che sta perdendo sempre più il sostegno interno. Da mesi ormai, le strade di Israele sono attraversate da manifestazioni che chiedono le dimissioni di Bibi. In realtà, non è una novità, considerando che nel 2023 Israele aveva già vissuto un lungo periodo di proteste contro il governo per le sue proposte di cambiamento radicale del sistema giudiziario. Oggi Netanyahu è impegnato in una guerra che non sta producendo risultati. Gli ostaggi sono ancora in mano a Hamas, molti sono morti (anche a causa dell’esercito israeliano), e il governo israeliano continua a perdere sostegno a livello internazionale. Le critiche severe che giungono da Washington non sono sporadiche, soprattutto attraverso il più importante esponente politico degli Stati Uniti, ovvero Biden, che tra pochi mesi dovrà affrontare delle elezioni cruciali, dove la situazione israeliana avrà sicuramente un ruolo di rilievo.

Sintonie politico-militari tra leader nazionalisti-identitari

Quindi l’avvicinamento di Ankara a Hamas e il tentativo di portarla eventualmente al tavolo dei negoziati, ottenendo il riconoscimento dello Stato di Israele, la creazione di uno stato palestinese indipendente e il rilascio degli ostaggi, sicuramente portano all’Akp un notevole vantaggio politico. Biden si libera dalla pressione politica e mediatica avvicinandosi alle elezioni, mentre Ankara appare come un mediatore con un canale privilegiato verso un gruppo armato che ha legami diretti solo con l’Iran, attualmente molto isolato.
Infatti, proprio in questi giorni il presidente della Repubblica di Turchia ha paragonato Hamas alla formazione armata che ha fondato la Turchia, la Kuva-i Milliye (anche se con profili ideologici decisamente diversi). Lo stesso parallelo era stato tracciato dallo stesso presidente per l’Esercito Libero Siriano nel 2018, un gruppo di jihadisti che aveva supportato le forze armate turche nelle loro operazioni in Siria. Oggi Erdoğan sembra cercare di presentarsi nuovamente come l’unico intermediario per le organizzazioni terroristiche, a servizio della Nato, dell’Europa e persino di Israele. Non va dimenticato il tentativo di costruire un rapporto diretto con i Talebani nel 2021, quando Erdoğan disse:

«Abbiamo un pensiero ideologico molto simile».

Questo avvenne proprio mentre il mondo era sconvolto dalla fuga degli americani dall’Afghanistan e il ritorno dei Talebani al potere.

Tattiche e affari turchi; accoglienza senza schierarsi

Quindi Hamas rappresenta una nuova opportunità per Ankara, forse anche per garantire un certo sostegno a Bibi. Nonostante gli attriti e le dichiarazioni aspre, Erdoğan e Netanyahu hanno sempre mantenuto un rapporto commerciale molto proficuo, in costante crescita. Anche durante il conflitto, secondo il report dell’Istituto di Statistica turco, Tuik, il volume degli scambi commerciali tra Ankara e Tel Aviv è aumentato del 20%. Tra i prodotti venduti troviamo tutto il necessario per sostenere l’occupazione e l’invasione. Chi altro potrebbe offrire un aiuto così significativo a Netanyahu, in difficoltà al punto da tentare di coinvolgere persino l’Iran in una guerra?

Sì, l’accoglienza diretta e il sostegno a Hamas da parte di Ankara avvengono proprio mentre nel mondo crescono le preoccupazioni riguardo a una possibile guerra tra Iran e Israele.

Tattiche e affari iraniani, intrecci speculari con quelli israeliani

In questo momento di difficoltà interna e internazionale il governo israeliano decide di colpire le postazioni diplomatiche iraniane presenti in Siria, il 1° aprile. Ovviamente sarebbe stato assurdo pensare che l’Iran non avrebbe reagito. Ma in che modo e con quali tempi?

Teheran ha atteso ben due settimane prima di reagire. In Israele l’ansia era palpabile: si sono verificate lunghe code nei supermercati, la popolazione era pronta per la guerra e le critiche nei confronti di Netanyahu si erano intensificate. Tuttavia Teheran, considerando la propria situazione economica e l’instabilità politica interna da anni, non poteva permettersi una vera guerra. Alla fine sono stati lanciati più di 300 razzi/droni verso Israele, ma nessun bersaglio civile è stato colpito e solo una persona è rimasta ferita. Era prevedibile che Tel Aviv avrebbe neutralizzato questo attacco con il suo avanzato sistema di sicurezza? Forse sì. Allora, a cosa è servito tutto ciò?
Innanzitutto Teheran non è rimasto in silenzio dopo l’attacco subito, ha dimostrato al mondo che in qualche modo avrebbe potuto tentare di colpire Israele. Dopo il 7 ottobre, e per la prima volta dopo anni, uno stato ha cercato di colpire Israele mentre tutti i paesi del Golfo osservavano ciò che accadeva a Gaza. Israele ha fermato l’attacco grazie ai suoi alleati, non da solo. In primo luogo la Giordania, poi le forze americane e inglesi hanno dato una mano a Tel Aviv. Quindi, per il governo israeliano, questa non è una vittoria ottenuta da solo.

Inoltre per Israele potrebbe essere stato un tentativo, forse, di spostare l’attenzione da Gaza a Teheran. Forse cercava di coinvolgere gli Stati Uniti in questa guerra, o di ottenere nuovi alleati in un eventuale conflitto futuro. Alla fine della giornata, chi non ha qualche problema con l’Iran? Tuttavia, secondo fonti dell’agenzia di stampa Axios, Bibi non ha ottenuto il sostegno che si aspettava da Biden. «You got a win. Take the win» sarebbe stato il riassunto della posizione del presidente statunitense. In altre parole: “mo’ basta, non ti sostengo più”. Ora Israele molto probabilmente si sta preparando a colpire l’Iran. Non sappiamo ancora in che modo, ma Tel Aviv non è l’unico a cercare di mettere in discussione la presenza dell’Iran in quella zona in questi giorni. Anche Ankara sta cercando di eliminare Teheran dall’Iraq.

Affari e opportunità, rimestando nel caos iracheno

Lorenzo Forlani ci aiuta a inquadrare la mezzaluna sciita: “No “Mena” Land: lo strame di 30 anni di proxy war in MO”.

Erdoğan e l’ossessione anticurda

Pochi giorni prima delle elezioni amministrative tenutesi in Turchia il 31 marzo, una significativa delegazione turca si era recata a Baghdad, ottenendo un risultato di rilievo grazie alla firma di un accordo storico. Con questo accordo, il governo iracheno esprimeva la sua solidarietà ad Ankara nella “lotta contro il Pkk” e prometteva di impegnarsi anche militarmente in questa missione. Oggi è giunto il momento di valutarne i risultati.

Dodici anni dopo il presidente della Repubblica di Turchia si è recato in Iraq il 22 aprile per incontrare il governo centrale a Baghdad e successivamente gli esponenti dell’Amministrazione autonoma del Kurdistan a Erbil. Quali sono gli elementi in gioco e qual è il coinvolgimento dell’Iran?
Uno dei principali problemi che Baghdad fatica ad affrontare è quello economico. Infatti, nel mese di marzo di quest’anno, l’Iraq ha avviato il progetto della “Strada dello Sviluppo”, che prevede il coinvolgimento diretto della Turchia per una serie di prodotti, sfruttando anche la sua posizione geografica strategica. La “Development Road” sarebbe importante anche per diventare un’alternativa per una serie di paesi e aziende occidentali che negli ultimi tempi hanno incontrato difficoltà nel Mar Rosso, una zona controllata da Ansar Allah (Houthi), cioè dall’Iran. Quella formazione armata che spesso impedisce alle navi commerciali di attraversare la zona. Quindi si tratta di un progetto che avrebbe l’ambizione, almeno in parte, di minare il potere politico ed economico di Teheran. Naturalmente l’attuazione del progetto renderà la Turchia un attore importante, che sembra voler approfittare di questa occasione per introdurre ulteriori elementi nel gioco.

E l’ambigua ossessione antiraniana per conto dell’energivoro Occidente

Infatti tra i temi discussi da Erdoğan durante la visita in Iraq c’è anche il consolidamento dell’alleanza diretta per combattere il Pkk, una formazione armata definita “terroristica” dalla Turchia, con alcune sue basi e numerosi vertici situati proprio in Iraq. In questo contesto è importante ricordare che da circa tre anni, durante gli incontri tra Ankara e Baghdad, si discute anche di una possibile collaborazione per eliminare la formazione armata Hashdi Shabi dal territorio iracheno. Questo rappresenterebbe un nuovo gesto contro l’Iran, dato che l’organizzazione in questione è stata costantemente sostenuta e armata da Teheran ed è stata sempre considerata una “minaccia per la sicurezza nazionale” da parte di Baghdad. Pertanto unire la lotta contro il Pkk a quella contro l’Hashdi Shabi potrebbe diventare una missione comune per questi due paesi confinanti.

Quindi, per Ankara, l’attuazione del progetto “Development Road” rappresenta anche un’opportunità per trasformare Baghdad in un vero alleato nella sua missione di contrastare e forse distruggere il Pkk. Dopo che Baghdad ha definito il Pkk “un’organizzazione terroristica” nel mese di marzo, ora non ci sarebbero più ostacoli per avviare le operazioni militari. È importante considerare che un Iraq sicuro, non soggetto a bombardamenti da parte di nessuno, libero dal conflitto armato tra Pkk e Ankara e infine libero dalla presenza iraniana, consentirebbe a tutte le aziende europee e statunitensi di operare “in pace”. Pertanto l’operazione economica e militare proposta da Ankara non gioverebbe solo ai suoi interessi. Infatti, proprio il giorno dell’arrivo di Erdoğan in Iraq, il portavoce dell’Association of the Petroleum Industry of Kurdistan, Myles Caggins, ha dichiarato ai microfoni del canale televisivo iracheno Rûdaw TV:

«Mi aspetto che Erdoğan convinca i dirigenti iracheni a far giungere il petrolio del Kurdistan al mondo attraverso la Turchia».

Dalla padella della mezzaluna sciita filoiraniana alla brace della fratellanza filoturca?

È indubbiamente importante considerare una serie di dinamiche. In Iraq nel 2025 si terranno le elezioni e nel paese non c’è un consenso politico e/o popolare sulla posizione nei confronti del Pkk e sull’avvicinamento con la Turchia. Per esempio, Bafel Jalal Talabani, leader dell’importante partito politico curdo Puk, spesso dichiara che il Pkk non è il suo nemico. Inoltre, è ancora fresca la condanna subita da Ankara per il commercio petrolifero, definito “scorretto”, con l’amministrazione curda. Nel 2023, Ankara è stata multata di 1,4 miliardi di dollari dalla Icc, la Corte Internazionale di Arbitrato.

Ma evidentemente il presidente turco è stato convincente (forniture militari, sicurezza, risorse idriche, promesse varie…), tanto che il portavoce del governo iracheno, Basim el-Avvadi ha rilasciato una dichiarazione il 25 aprile: «Ai membri del Pkk sarà riconosciuto il titolo da rifugiato politico. L’organizzazione invece sarà definita illegale», un’altra diaspora attende i resistenti curdi; contemporaneamente Hamas può trovare ricovero proprio presso il persecutore del Pkk.

Dighe contro le popolazioni mesopotamiche: preludio a un nuovo focolaio di guerra

Oltre a questa questione ancora aperta c’è anche il problema dell’acqua, che rappresenta un tema cruciale. Secondo l’accordo del 1980 la Turchia è tenuta a gestire correttamente il regime dei fiumi che attraversano i suoi confini e scorrono verso l’Iraq. A causa del riscaldamento globale Baghdad cerca da anni di rinegoziare questo accordo, ma Ankara continua a rimandare la questione. Tuttavia, soprattutto durante l’estate, ciò causa un enorme disagio per l’intera nazione, e l’opinione pubblica è convinta che la Turchia stia usando l’acqua come un’arma contro l’Iraq.

La portata del Tigri e dell’Eufrate nel progressivo inaridimento fino alla foce, grafico tratto da Curdi, di Antonella De Biasi, Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

Dopo l’incontro del 22 aprile è molto probabile che Erdoğan abbia ottenuto risultati significativi non solo dal punto di vista economico, ma anche in vista di un’operazione militare imminente. La sua prossima visita, fissata per il 9 maggio a Washington direttamente con Biden, probabilmente includerà anche l’ottenimento di una sorta di “lasciapassare” in Iraq. Non sarebbe fuori luogo aspettarsi un inizio di guerra entro fine maggio.

Perpetuazione del mondo caoticamente multipolare

Il governo turco è apparentemente molto determinato nel lavoro volto a portare Hamas al tavolo dei negoziati, per ottenere una serie di risultati a breve e lungo termine, sia politici che economici, diretti e indiretti. La fine della guerra probabilmente porterà benefici anche a Benjamin Netanyahu, permettendogli di restare al potere senza doversi dimettere. Quindi in Israele potrebbe rimanere un uomo che, tutto sommato, non ha creato grossi problemi a Erdoğan. Anzi, durante la sua carriera politica, il presidente turco ha beneficiato di un notevole benessere economico, sia per le aziende vicine al suo governo che per quelle della sua famiglia.

In quest’ottica, uno Stato ebraico stabile e una repubblica islamica che non esce dai suoi “confini” e rimane al di fuori del gioco in Iraq permetteranno ad Ankara e ai suoi alleati di continuare a giocare la stessa partita anche nei prossimi anni.

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Il crogiolo caucasico tra i confini fittizi dei vincitori https://ogzero.org/il-crogiolo-caucasico-tra-i-confini-fittizi-dei-vincitori/ Mon, 09 Oct 2023 23:43:29 +0000 https://ogzero.org/?p=11677 Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – […]

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Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – soprattutto dall’esterno – si sono fatti prevalere contrasti etnici a condivisione di territorio tradizionalmente abitato da famiglie eterogenee, condizionate da invasioni e dominazioni variabili e costanti. E quando soffiano i venti nazionalisti si scompaginano le comunità per creare stati usati per soffocarle, ognuno secondo la propria tradizione verso il vicino; in questo caso è sintomatico come i paesi islamici più lontani come l’Algeria definiscano gli armeni cristiani colonizzatori, mentre l’Iran sciita come il popolo azero appoggi Erevan per mere questioni di metri di confine da salvaguardare, mentre il miglior alleato dei “fratelli altaici” azeri è il vicino sunnita Erdoğan, interessato alla creazione di un unico territorio ottomano senza interruzioni di confini.
Ciò che rende ancora più impellente l’abbandono della terra avita da parte della ex maggioranza armena fuggita dall’Artsakh è la ferocia autoritaria del regime dinastico ex sovietico… mentre perdurano i bombardamenti turchi sui curdi e i sionisti passano per vittime, pur essendo Nethanyauh dalla parte dei carnefici, come gli Aliyev o il despota Erdoğan; tutti in qualche modo collegati e con interessi intrecciati, tra le vittime dei contenziosi decennali mancano solo i saharawi. 


La secolare replica del genocidio armeno

L’attuale violenza (massacri, deportazioni…) subita dagli armeni rievoca fatalmente il genocidio del 1915.
C’ è ancora spazio per una qualsivoglia “soluzione politica” che garantisca minimamente i diritti della popolazione armena del Nagorno-Karabach?
Meglio non raccontarsi balle. Ormai – a meno di imprevedibili eventi di portata planetaria – la questione è chiusa definitivamente. Anzi, potrebbe anche andare peggio.
Non si può infatti escludere che dopo l’Artsakh venga invasa anche la stessa Armenia, in particolare il corridoio per congiungere l’esclave azera di Karki al confine con l’Iran (e la Turchia).

Vediamo intanto di riepilogare la tragica catena degli ultimi tre anni.
I bombardamenti azeri del 19 settembre avevano riportato nella cronaca un conflitto forzatamente dimenticato, tuttavia l’attacco di Baku contro il Nagorno-Karabach e quanto poi avvenuto ai danni del popolo armeno non calava inspiegabilmente dal cielo. Come già si era ipotizzato in agosto.
Era perlomeno probabile.
Il Nagorno Karabakh era una repubblica autoproclamata (ribattezzata con l’antico nome di Artsaj) abitata in prevalenza da armeni, ma posta forzatamente all’interno dei confini dell’Azerbaijan. E che già prima del 1991 si batteva per la propria indipendenza.

Pulizia etnica alternata

Nel conflitto del 1988-1994 la vittoria era andata agli armeni con la conseguente espulsione di migliaia di azeri.

Nella Seconda guerra del Nagorno-Karabach (autunno 2020) le parti si invertirono e per oltre 40 giorni l’esercito azero si scatenò sulla popolazione civile compiendo ogni genere di efferatezze. Qualificabili come una brutale pulizia etnica.
Al punto che molti armeni in fuga riesumarono i loro cari dalle tombe e fuggirono con le bare fissate al portapacchi delle auto dopo aver incendiato la propria casa.

L’evanescente interposizione russa

In realtà solo un terzo della provincia indipendentista era passato sotto il controllo di Baku, ma erano chiare le intenzioni di completare l’opera quanto prima. Nonostante la poco convinta opera di interposizione dei soldati di Mosca, soprattutto dopo che l’Armenia aveva accettato di partecipare a esercitazioni congiunte con truppe Nato (direi un autogol di Erevan).
Ovviamente anche all’odierna (definitiva?) sconfitta degli Armeni (anche per essere stati isolati e privati di mezzi di sussistenza da circa nove mesi) di fronte alle preponderanti forze azere, date le premesse, era fatalmente scontata.

Neottomanesimo via Baku

Smantellata l’amministrazione armena della enclave ribelle, Baku ha dichiarato di volere «integrarla totalmente nella società e nello Stato azeri».

Quanto alle voci di una possibile concessione di “autonomia”, la cosa appare piuttosto fantasiosa. Se nell’Azerbaigian non gode di alcun riconoscimento la consistente “minoranza” Talish (una popolazione di lingua iraniana che supera il milione di persone) cosa potrebbe toccare ai circa 120.000 armeni del Nagorno-Karabach? Peraltro ormai fuggiti nella quasi totalità e poco propensi a rientrare nonostante le rassicurazioni del governo di Baku.

La coltre di gas

Dal canto suo l’Unione Europea si guarda bene dall’intervenire pensando ai consistenti accordi con l’Azerbaijan in materia di gas.

Solidarietà al popolo armeno è stata espressa vigorosamente dal Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (Knk).

Nel comunicato ha denunciato «la tragedia umana che avviene sotto gli occhi del mondo nell’Artsakh (Alto Karabach) dove un centinaio di migliaia di Armeni sono costretti all’esilio». E il Knk ricordava anche le immagini terribili del 2020 con «i soldati azeri che tagliavano nasi e orecchie ai civili e vandalizzavano i monasteri».

Ovvio il parallelismo con quanto avviene “nelle zone curde occupate dalla Turchia” (il principale alleato dell’Azerbaigian).
Ma esiste anche un altro timore, ossia che “se cade l’Artsaj, cade anche l’Armenia”.

Una lingua di terra turca a unire Caspio e Mediterraneo

Già nel 2020 l’Azerbaijan aveva occupato territori ufficialmente dell’Armenia nella regione di Syunik. Una lingua di terra che si frappone alla dichiarata intenzione di Turchia e Azerbaijan di unire il Mediterraneo con il Caspio via terra. Ricordo che Turchia e Azerbaigian sono già confinanti grazie all’enclave azera di Najicheván che – toh, coincidenza! – Erdogan ha appena visitato per la prima volta.

Forse paradossalmente (visto che gli azeri sono in maggioranza sciiti come gli iraniani) l’unico paese con cui l’Armenia mantiene stabili e diretti rapporti commerciali (nel 2020 forse s’aspettava anche sostegno militare, ma invano) è l’Iran. La perdita della regione di Syunik le sarebbe quindi fatale.

L’analogo trattamento turco destinato ai curdi

Per il Knk comunque non ci sono dubbi «Si tratta di pulizia etnica orchestrata dall’Azerbaigian e dalla Turchia., motivata dall’ambizione geopolitica pan-turca che intende riunire queste due nazioni (…). Dopo 108 anni il popolo armeno si ritrova di nuovo vittima di massacri e deportazioni orchestrati dalle forze statali animate da odio razzista verso la cultura e il popolo armeno. Di conseguenza la pulizia etnica attualmente in corso nell’Artsakh deve essere considerata come la continuazione del genocidio armeno del 1915 perpetrato dai Giovani Turchi».
E conclude paragonando le attuali sofferenze degli armeni a quelle analogamente patite dai curdi a Shengal, Afrin e Serêkaniyê: «Nomi e vittime di questi massacri possono cambiare, ma le motivazioni rimangono identiche».

Diretto interventismo turco nell’area curdo-armena

Risalendo all’ottobre 2020 già allora appariva evidente come il conflitto tra Armenia e Azerbaijan fosse propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia.
Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si andava sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti (sunniti) provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri (sciiti) contro gli armeni cristiani.
Un destino, quello della cittadina al confine turco-armeno di Kars, analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanli nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste.

Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe stato quindi di che stupirsi se «da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars».

D’altra parte era quasi scontato che Erdogan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto, mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.

Niente di nuovo

2009

Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione.
Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale “Hurriyet” ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993. Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdoğan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.
Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Anche per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista, quasi un progressista, comunque non un seguace di Erdoğan) si trattava nientemeno che di una «abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne» esprimendo «inquietudine per l’avvenire del paese» (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).

Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan, chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.

1988

Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica Repubblica d’Armenia.
E il 20 febbraio 1988 – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno/azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Agdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armeni. Nei disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. È il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.

Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.
Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno-Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 lo statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.

1991

In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera – la proposta di uno stato indipendente sarà approvata con il 99% dei voti.
A questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).
Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.
A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.
Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e – discretamente e solo a livello logistico – la Grecia.
Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex Urss (russi e ucraini).

Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.
Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti. Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14% del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (cessate il fuoco del 12 maggio) prendevano il via sotto la supervisione di Mosca.

Il fallimento del Gruppo di Minsk

1994

Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato Osce) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.
Tuttavia – almeno col senno di poi – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.

Qualche considerazione in merito alle efficaci operazioni propagandistiche (soprattutto da parte di Baku e Ankara) rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato. Forse perché – tutto sommato – già allora conveniva schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale, Armenia.
Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il Nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974. Per non parlare della continua evocazione di una – non documentata – partecipazione di militanti del Pkk ai combattimenti (a fianco degli armeni ovviamente).

Nel frattempo (gli affari sono affari) la Francia non smetteva di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non era e non è l’unico paese a farlo naturalmente (vedi l’Italia che dovrebbe fornire anche minisommergibili). Ma la cosa appariva stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Per esempio, all’epoca, nella querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.
Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku colpivano direttamente la popolazione di Stepanakert.

E già allora in qualche modo il conflitto tra Armenia e Azerbaijan appariva propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne era addirittura la “vetrina”). Intravedendo una prosecuzione (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.

Due parole poi sul ruolo assunto da Teheran

Anche se poteva apparire incongrua, da più parti si formulava l’ipotesi di un Iran deciso a schierarsi con l’Armenia nel conflitto con l’Azerbaijan.
Incongrua soprattutto pensando che in entrambi i paesi, Iran e Azerbaijan, è prevalente la fede sciita.

Ma poi (come forse era lecito aspettarsi) alcuni autorevoli esponenti politici iraniani erano intervenuti dichiarando che «l’Iran non sceglie l’Armenia a sfavore dell’Azerbaijan».

Il giornalista Raman Ghavami si diceva convinto che «sia probabile che dovremo assistere a una significativa collaborazione tra l’Iran, la Turchia, l’Azerbaijan (e presumibilmente anche la Russia a questo punto, N.d.A.) sia sull’Armenia, sia su altre questioni che interessano la regione».

Si sarebbe andato infatti configurando un nuovo livello di sostanziale collaborazione nelle relazioni tra Azerbaijan e Iran. Addirittura Teheran avrebbe (notizia non confermata) richiesto all’Armenia di “restituire” (nientemeno ?!?) il Nagorno-Karabakh a Baku.

Per Raman Ghavami in realtà l’Iran «da sempre preferisce rapportarsi con gli azeri sciiti piuttosto che con gli Armeni». Come avveniva già molto prima dell’insediarsi del regime degli ayatollah.

Nuovo intreccio dei destini armeni e curdi

A tale riguardo riporta l’esempio della provincia dell’Azerbaijan occidentale (posta entro i confini iraniani) che in passato era abitata prevalentemente da curdi e armeni.
Ma tale demografia venne scientificamente modificata, nel corso del Ventesimo secolo, dai vari governi persiani che vi trasferirono popolazioni azere. Sia per allontanarvi i curdi, sia per arginare gli effetti collaterali del contenzioso turco-armeno entro i confini persiani.
Molti armeni e curdi vennero – di fatto – costretti a lasciare le loro case.
Inoltre, in tale maniera, si creava una artificiosa separazione tra le popolazioni curde di Iraq, Turchia e Siria e quelle in Iran. Cambiando anche la denominazione geografica. Da Aturpatakan a quella di Azerbaijan occidentale.

Altro elemento di tensione tra Erevan e Teheran – sempre secondo Raman Ghavami – deriverebbe dal ruolo della chiesa armena nell’incremento di conversioni al cristianesimo da parte di una fetta di popolazione iraniana.

Legami finanziari Teheran-Baku

Da sottolineare poi l’importanza vitale, per un paese come l’Iran sottoposto a sanzioni, dei legami finanziari con l’Azerbaijan. Ricordava sempre Raman Ghavami come, non a caso, la succursale della Melli Bank a Baku è seconda per dimensioni soltanto a quella della sede centrale di Teheran.
Un altro elemento rivelatore sarebbe il modo in cui, rispettivamente, Baku ed Erevan hanno reagito alla cosiddetta “Campagna di massima pressione” sull’Iran in materia di sanzioni: mentre gli scambi commerciali tra Armenia e Iran si riducevano del 30%, quelli con l’Azerbaijan si intensificavano.
Ad alimentare la tensione poi, il riconoscimento da parte dell’Armenia di Gerusalemme come capitale di Israele. Una avventata presa di posizione di cui Erevan potrebbe in seguito essersi pentita. Vedi il successivo contenzioso (e ritiro dell’ambasciatore) a causa della vendita da parte di Israele di droni kamikaze IAI HAROP all’Azerbaijan.

Ulteriore complicazione (ma anche questa era forse prevedibile) la notizia che erano già in atto scontri armati tra i mercenari di Ankara inviati in Azerbaijan (presumibilmente jihadisti, sicuramente sunniti) e gli azeri sciiti.

Insomma, il solito groviglio mediorientale.

La spartizione di Astana: Russia e Turchia e gli oleodotti dell’Artzakh

Nel novembre 2020 si concretizzava poi un vero capolavoro di cinico realismo: gli accordi con cui Russia e Turchia si spartivano il Nagorno-Karabakh garantendosi il controllo della vasta rete di oleodotti che attraversano (o attraverseranno) il territorio storicamente conteso tra Armenia e Azerbaijan. Paese, quest’ultimo che fornisce alla Turchia un quinto delle sue importazioni di gas naturale (oltre a ingenti quantità di barili di petrolio dal Mar Caspio) direttamente all’hub di Ceyhan.
E qualche briciola non di poco conto andava anche al Belpaese (se abbiamo interpretato correttamente le dichiarazioni di Di Maio).
Ricapitoliamo. Il 10 novembre 2020 l’Armenia (il paese sconfitto) e l’Azerbaijan (il vincitore) firmavano un “accordo di pace” sotto la tutela ufficiale di Mosca e ufficiosa di Ankara.

Mentre le colonne dei profughi dal Nagorno-Karabakh) si allungavano per abbandonare il paese invaso dagli “alleati” (ascari?) di Ankara (l’esercito azero e le milizie mercenarie jihadiste qui inviate dai territori già invasi della Siria), iniziava il dispiegamento lungo la linea di contatto dei duemila – inizialmente – soldati russi (presumibilmente integrati con truppe turche, sul modello delle “pattuglie-miste” nel Nord della Siria). Durata prevista della loro presenza, cinque anni rinnovabili.

Un risultato niente male per Erdogan che vedeva ratificata la sua alleanza strategica con Baku. Così come venivano confermate le conquiste azere (almeno trecento insediamenti tra cui Susi, strategicamente rilevante). Non meno rilevante, l’acquisizione da parte dell’Azerbaijan di un collegamento diretto con Nachichevan (la sua enclave) e quindi con la Turchia.

Ovviamente gli armeni non l’avevano presa bene. A farne le spese il primo ministro Nikol Pashinyan (un leader “di plastica” secondo alcuni commentatori, messo su dall’Occidente un paio di anni prima per allontanare l’Armenia dal suo alleato tradizionale russo) di cui la piazza ha richiesto le immediate dimissioni.
Gli eventi sono noti: il palazzo del governo letteralmente preso d’assalto, il parlamento occupato e il presidente Ararat Mirzanyan che quasi rischiava di essere linciato dalla folla inferocita. I manifestanti erano anche andati a cercare direttamente a casa sua il primo ministro (presumibilmente non per una pacata conversazione), ma senza trovarlo (buon per lui, naturalmente).

L’interesse italico

a sei zampe…

Si diceva delle vaghe (o svagate?) dichiarazioni di Di Maio («Monitoreremo con attenzione gli sviluppi nelle aree dove si registra un particolare attivismo turco, vigilando affinché siano tutelati il rispetto del diritto internazionale, gli interessi italiani anche economici e con l’obiettivo di scongiurare qualsiasi escalation»). E chi vuol intendere...intenda.

Del resto, con buona pace della piccola Armenia, la cooperazione con l’Azerbaijan è da tempo consolidata. L’Italia – oltre che il maggior destinatario delle esportazioni petrolifere – risulta essere uno dei principali partner commerciali di Baku con un interscambio annuale – si calcola – di sei miliardi di euro. Sarebbero almeno tremila le imprese italiane che hanno investito nella repubblica caucasica. Risaltano in particolare Eni e Unicredit con interessi stimati in seicento milioni di dollari.

… e Leonardo-Finmeccanica

Cooperazione quindi ben consolidata, si diceva. Ma non solo in campo energetico. Magari indirettamente, anche militare. Risale, per dirne una, al 2012 la vendita di una decina di elicotteri Augusta Westland (società controllata da Leonardo-Finmeccanica), ufficialmente per uso civile (ma vengono in mente gli elicotteri venduti alla Turchia negli anni Novanta, su cui poi venivano applicate le mitragliere vendute separatamente). Nel 2017 l’amministratore delegato di Leonardo firmava a Baku – sotto lo sguardo del ministro Calenda – un accordo con la Socar (società statale petrolifera azera) per incrementare la sicurezza e l’efficienza delle infrastrutture energetiche grazie appunto alle tecnologie italiche.

Con un diretto riferimento al gasdotto di 4000 chilometri che la Socar stava realizzando per far giungere in Puglia e quindi in Europa (vedi la questione del Tap), dopo aver attraversato la Georgia, la Turchia, la Grecia e l’Albania, i previsti 20 miliardi di metri cubi (annuali) di gas di provenienza dall’Azerbaijan. Particolarmente rilevante e significativo il ruolo assunto da alcune aziende italiane (Snam S.p.A. di San Donato Milanese, Saipem, Eni, Maire Tecnimont…). Appare evidente come in tale contesto l’Armenia sia ormai fuori gioco, estromessa, marginalizzata (nonostante – a titolo di parziale consolazione – qualche ipocrita piagnisteo sul genocidio subito da parte della Turchia).

L’onnipresente invasività israeliana

Tornando alla breve, ma comunque devastante, guerra intercorsa nel 2020 tra Erevan e Baku, andrebbe poi approfondito il ruolo assuntovi da Israele.
Se la Turchia sembra aver fornito a Baku – oltre ai mercenari jihadisti – aerei e droni, cosa avrà fornito Israele? In qualche modo deve aver comunque contribuito visto che durante i festeggiamenti per la schiacciante vittoria, i manifestanti azeri inalberavano e sventolavano, oltre al vessillo nazionale e alle bandiere turche, numerosi drappi con la Stella di David.

Risalgono invece ai primi di ottobre (2023) le rivelazioni dell’intelligence francese sul fatto che i comandi militari azeri avrebbero ringraziato sentitamente Israele per il sostegno nel recente attacco al Nagorno-Karabach. Sia a livello espressamente militare (armamenti vari, soprattutto droni della Israel Aerospace Industries, della Rafael Advanced Defense Systems e della Israel Militari Industries), sia di intelligence (Mossad e Aman’s Unit 8200).
Sempre da fonti dell’Esagono risulta che nel corso del conflitto di settembre una quindicina di aerei cargo azeri sono atterrati nell’area militare di Ouda (Negev). Circa un centinaio di altri aerei cargo azeri erano ugualmente qui atterrati nel corso degli ultimi sei-sette anni. Presumibilmente non per rifornirsi di pompelmi. Inoltre Israele avrebbe fornito anche sostegno nel campo della Cyber Warfare (tramite l’Nso Group).
A ulteriore conferma dello stretto rapporto con Baku, il ministro israeliano della difesa si è recato recentemente nella capitale azera per verificare di persona l’efficacia del sostegno israeliano all’Azerbaijan.

Un bel caos geopolitico comunque

Proxy war disequilibrata

E arriviamo al febbraio di quest’anno, quando mentre a Erevan si ricordavano le vittime del pogrom del 1988, in Iran gli armeni manifestavano a sostegno della repubblica dell’Artsakh. Niente di strano.
Anche all’epoca dell’attacco dell’Azerbaijan ai territori armeni della Repubblica dell’Artsakh (con il sostegno di Ankara) nel 2020, c’era chi si aspettava un maggiore sostegno all’Armenia da parte dell’Iran, in linea con una certa tradizione. Dal canto suo Israele non mancava di mostrare sostegno (fornendo droni presumibilmente) alle richieste azere, ovviamente in chiave antiraniana. Misteri della geopolitica. Anche se poi sappiamo che le cose andarono diversamente, resta il fatto che comunque in Iran gli armeni costituiscono una minoranza tutto sommato tutelata, garantita (sicuramente più di altre, vedi curdi obeluci) e anche la causa dell’Artsakh gode ancora di qualche simpatia.

Commemorazioni dei massacri passati, in preparazione di quelli presenti

O almeno così sembrava leggendo la notizia del raduno di solidarietà con la popolazione armena della Repubblica dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) che si era tenuto presso il monastero di Sourp Amenaprguitch (Santo Salvatore) di Ispahan nella mattinata del 24 febbraio 2023 (nonostante, ci dicono, le condizioni atmosferiche inclementi). Oltre alle comunità armene di Nor Jugha (Nuova Djulfa, un quartiere di Ispahan fondato dagli armeni di Djulfa nel Diciassettesimo secolo) e di Shahinshahr, erano presenti molti armeni provenienti da ogni parte dell’Iran.
Numerosi gli interventi e i messaggi arrivati a sostegno alla causa della popolazione armena della Repubblica (de facto, anche se non riconosciuta in ambito onusiano) dell’Artsakh.

Quasi contemporaneamente, due giorni dopo, in Armenia venivano commemorate le vittime del massacro di Sumgaït (quartiere industriale a nord di Baku). Il presidente armeno Vahagn Khatchatourian con il primo ministro Nikol Pašinyan, il presidente del parlamento Alen Simonyan e altre figure istituzionali si sono recati al memoriale di Tsitsernakaberd a Erevan deponendo una corona e mazzi di fiori.
Il memoriale ricorda le persone uccise nei pogrom avvenuti (con la probabile complicità delle autorità azere) nel febbraio 1988 a Sumgaït, Kirovabad e Baku. Il massacro (in qualche modo un preludio alla guerra del 1992 in quanto legato alla questione del Nagorno Karabakh) sarebbe stato innescato da rifugiati azeri provenienti dalle città armene. Almeno ufficialmente. In realtà i responsabili andrebbero identificati tra i circa duemila limitčiki (operai immigrati delle fabbriche chimiche) a cui le autorità avevano distribuito alcolici in sovrabbondanza.
Se le fonti ufficiali azere parlarono soltanto di trentadue vittime, per gli armeni queste furono centinaia. Addirittura millecinquecento secondo il partito armeno Dashnak (oltre a centinaia di stupri).
Inoltre i militari inviati per fermare i disordini impiegarono ben due giorni per percorrere i circa trenta chilometri che separano Baku da Sumgaït. Vennero arrestate centinaia di persone, ma i processi si conclusero senza sostanziali condanne.

Guerra annunciata, forza di pace distratta

Tutti defilati… tranne i curdi

Nel marzo 2023, pressata da più parti affinché intervenisse, finalmente Mosca aveva parlato tramite il ministero della Difesa, accusando Baku di aver violato gli accordi sul Nagorno-Karabakh del 2020. Meglio tardi che mai, anche se la Federazione Russa appariva sempre più incerta (o disinteressata?) al destino dell’Armenia, praticamente abbandonata a se stessa (quasi da tutti sia chiaro, non solo dalla Russia; con la nobile eccezione dei curdi).
Eppure i segnali della possibilità di un ennesimo conflitto (guerra a relativamente “bassa intensità”) non erano mancati. Il 5 marzo si era registrato un altro scontro armato nel corridoio di Lachin (per gli azeri, di Zangezur) tra Stepanakert e Goris, bloccato ormai da tre mesi da presunti “manifestanti ecologisti” azeri. La sparatoria era avvenuta tra la polizia armena e i militari azeri che avevano arbitrariamente fermato un veicolo e – nonostante fosse costata la vita di cinque persone – era passata quasi inosservata.
Invano Nikol Pašinyan, primo ministro di Erevan, aveva richiesto, rivolto anche al tribunale internazionale dell’Onu, l’istituzione di una missione internazionale di indagine sulla situazione in cui veniva a trovarsi l’unica via di collegamento tra l’Armenia e la repubblica del Nagorno-Karabakh, ormai ridotta alla condizione di enclave sotto assedio, con oltre 120.000 persone di etnia armena sprovviste di cibo e medicinali. In base all’accordo trilaterale del 9 novembre 2020 (e riconfermato per ben due volte nel 2021 e ancora nell’ottobre 2022), alla Russia spettava il compito di controllare e assicurare i trasporti nel “corridoio” con una sua forza di pace.

Estrattivismo abusivo e pretestuoso ecologismo

Il pretesto avanzato dai sedicenti “ecologisti” azeri che da mesi bloccavano il passaggio sarebbe quello di poter controllare le miniere (private, non statali) di Gyzylbulag (oro) e di Demirl (rame e molibdeno) dove gli armeni avrebbero compiuto “estrazioni illegali”.
Dopo le ripetute accuse di “mancata osservanza dell’impegno di controllo”, fino a quel momento da parte di Mosca erano giunte soltanto rassicurazioni verbali (dicembre 2022). Ma anche la dichiarazione che «le forze di pace possono agire soltanto quando entrambe le parti sono d’accordo».

«Gli azeri continuano ad avanzare pretese massimaliste, senza concedere alcuna forma di compromesso», aveva denunciato Vagram Balayan, presidente della commissione affari esteri dell’assemblea nazionale del Nagorno-Karabakh. Sostanzialmente in quanto Baku “non intende riconoscere l’esistenza del Nagorno-Karabakh e del popolo dell’Artsakh”. Ossia, detta fuori dai denti, “vogliono soltanto farci scomparire dalla storia” (come sembra confermato dagli ultimi eventi). Costringendo gli armeni a scegliere tra un’evacuazione “volontaria” e la deportazione.

Fine annunciata

E intanto con il mese di agosto il tragico epilogo si profilava all’orizzonte.
Con gli Armeni del Nagorno-Karabakh ormai presi per fame, in un articolo di quei giorni mi ero chiesto se «si può già parlare di genocidio o dobbiamo aspettare qualche migliaio di morti per inedia?».
Domanda retorica ovviamente.

A un certo punto l’evidente, colpevole, latitanza della Russia (storicamente “protettrice “ della piccola Armenia) sulla questione del Nagorno-Karabakh sembrava aver lasciato campo aperto all’intervento pacificatore – o perlomeno a un tentativo di mediazione – di Unione Europea e Stati Uniti.
Ma l’irrisolta questione del Corridoio di Lachin (unico corridoio tra Armenia e Nagorno-Karabakh) conduceva fatalmente al nulla di fatto. E intanto per gli armeni del Nagorno-Karabakh la situazione continuava a peggiorare.
Chi in quei giorni aveva avuto la possibilità di percorrere le strade di Stepanakert parlava di lunghe file di persone che – dopo ore di attesa – ottenevano letteralmente un tozzo di pane. Per non parlare di quanti crollavano – sempre letteralmente – a terra a causa della fame. Almeno 120.000 persone colpite dall’isolamento totale e dalla conseguente crisi umanitaria (sia a livello sanitario che alimentare).
Senza dimenticare che – ovviamente – l’Azerbaigian da tempo aveva provveduto a interrompere il rifornimento di gas. Difficoltoso, in netto calo, anche quelli di energia elettrica e di acqua. A rischio le riserve idriche con tutte le prevedibili conseguenze.
Quanto all’alimentazione ormai si era ridotti alle ultime scorte di pane e angurie. Il peggioramento si era andato accentuando da quando veniva impedito (con posti di blocco installati illegalmente dall’Azerbaigian) l’accesso anche alla Croce Rossa e alle truppe russe di interposizione che comunque finora avevano rifornito di cibo – oltre che di medicinali – la popolazione armena.

Silenzio tombale e pennivendoli distratti

Bloccato da mesi alla frontiera anche un convoglio di aiuti umanitari (oltre una ventina di camion) inviato da Erevan.
In pratica, un grande campo di concentramento.
Al punto che un cittadino armeno gravemente ammalato, mentre veniva trasportato dalla Croce Rossa in un ospedale dell’Armenia (e quindi sotto protezione umanitaria internazionale), veniva sequestrato, privato del passaporto, sottoposto a interrogatorio e spedito a Baku dove – pare – sarebbe stato anche processato per eventi risalenti al primo conflitto scoppiato in Nagorno-Karabakh negli anni Novanta.

E ogni appello rivolto alle autorità e organizzazioni internazionali (Unione Europea, Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Russia, Gruppo di Minsk…) era destinato a restare inascoltato.
Con un preciso riferimento al blocco del Corridoio di Lachin operato dall’Azerbaijan, un ex esponente della Corte Penale Internazionale, l’avvocato argentino Luis Moreno Ocampo, aveva espressamente evocato un possibile genocidio.
Ma la sua appariva la classica “voce che grida nel deserto”. Quello dell’informazione almeno.

Poi la conferma dei peggiori timori con il tragico epilogo avviato il 19 di settembre.


Il giorno dopo la Guerra lampo dei fratelli turcofoni avevamo sentito Simone Zoppellaro, la cui analisi consentiva di comprendere nei dettagli cause e conseguenze delal dissoluzione dell’indipendenza dell’Artzakh

“Cala un sipario plumbeo sull’Artsakh”.

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G7 – G8 – G20 – G77+1… G8miliardi https://ogzero.org/g7-g8-g20-g771-g8miliardi/ Mon, 18 Sep 2023 20:48:14 +0000 https://ogzero.org/?p=11622 Le famose bande di ragazzini. C’è quello grande e grosso che si tira dietro i suoi e botte da orbi a chi li contrasta. In questa strada non ci dovete mettere piede! Una banda vicina invece l’attraversa, anche se di corsa. Il capo è meno corpulento, ma sa il fatto suo. Altri gruppetti sono incerti, […]

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Le famose bande di ragazzini. C’è quello grande e grosso che si tira dietro i suoi e botte da orbi a chi li contrasta. In questa strada non ci dovete mettere piede! Una banda vicina invece l’attraversa, anche se di corsa. Il capo è meno corpulento, ma sa il fatto suo. Altri gruppetti sono incerti, con chi stare? Un po’ con l’uno un po’ con l’altro. All’aria aperta la situazione è abbastanza caotica. Diversa da prima dove c’era la banda più forte e non ce n’era per nessuno. In più adesso succede che un giorno il sole è rovente e nessuno ha voglia di venir fuori dall’ombra. Un altro diluvia che appena ti affacci in strada quasi anneghi. Un disastro. Non si capisce più niente. Bisogna solo aspettare che i ragazzini, ragazzine incluse, crescano. Ma cresceranno?


Quando sarai grande…

Sì, diventeranno grandi. Anzi G(randi)20. Una specie di super banda che cerca di spartirsi le zone di influenza. Assenti XI Jinping e Putin. Presente! però Giorgia M. e questo ci rincuora.
Il padrone di casa, Modi si è indaffarato moltissimo, senza fare i pignoli su come per l’occasione ha ripulito le periferie di Nuova Delhi. Vuole che l’India sia chiamata Bharat, e su questo niente da dire. Sta già scritto nella Costituzione. Per noi di una certa età va anche meglio perché nel nostro immaginario gli indiani continuano a essere i nativi americani (stavo per scrivere i peller…).
Poi ha ufficialmente siglato la Global Biofuel Alliance a cui aderiscono Brasile, Stati Uniti, Bangladesh, Argentina, Sudafrica, Mauritius, Emirati Arabi e Italia, oltre a Bharat. Mi propongo a Giorgia come servitore della patria ai prossimi incontri nelle Mauritius. Ci tengo ai biocarburanti.

Non è passata inosservata la dichiarazione fatta da Stati Uniti e IBSA – India, Brasile, Sudafrica – sul potenziamento degli aiuti finanziari al Sud Globale.
La geografia sta slittando verso il meridione del mondo. Da un punto di vista delle aspirazioni geopolitiche, delle prese di parola, non può non piacere. Dirà l’avvenire se sarà un guadagno per la Terra e l’Umanità.

 

Nel quartiere c’è sempre qualcuno dei ben piantati che invece di farsi vivo in piazza con lo sguardo strafottente se ne sta non si sa dove. Perfino quelli della sua banda sono sconcertati. Cosa starà macchinando?


… saprai perché…

Xi Jinping perché non è venuto? Se ne fotte? Il suo ruolo se lo gioca nei Brics? Cioè Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica e prossimi Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Emirati arabi uniti e Arabia saudita. Augurandosi che non si trasformino in Bricsaeeieauas.  L’erede di Mao lascia intenzionalmente il G20 all’India? Sembrerebbe di sì.

Modi ha così organizzato gli accordi, fossero anche solo pacche sulle spalle, senza la Cina. Tutta questa sua agitazione sta in piedi? Amico di tutti e di nessuno? Putin ha fatto bene a starsene dov’è, deve salvare l’eterna anima russa con i carrarmati e questo disturba le calorose strette di mano.

Sta finalmente cambiando la faccia geopolitica del Mondo, detta anche multipolarismo, oppure sono solo geometrie variabili destinate ad essere ormai perennemente variabili? In altre parole, la novità è il movimento continuo e non la configurazione che assume?

… è un gioco strano: devi imparare…

L’IMEC è una prima risposta. Un baccanale di acronimi da imparare a memoria. India-Middle East-Europe Economic Corridor. Lo promuovono il principe saudita Mohammed bin Salman Al Saud, il presidente degli Emirati Arabi Uniti Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, la presidente dell’Unione Europea Ursula von der Leyen, la primo ministro italiana Giorgia Meloni, il capo della Banca Mondiale Ajay Banga e, ovviamente, Joe Biden e Narendra Modi. Treni, porti, fibre ottiche, pipeline, autostrade, ponti, hub.

Applausi a scena aperta.

Uno per tutti, quello di U.v.der Leyen: «È un ponte verde e digitale tra i continenti e le civiltà».

All’esterno del G20 un encomio altissimo.

Viene da Netanyahu: «Israele è al centro di un inedito progetto internazionale che unirà infrastrutture dall’Asia all’Europa, realizzerà una antica visione e cambierà il Medio Oriente, Israele, e influenzerà il mondo intero».

Coro stellare per un mondo a più facce? Risposta robusta, dieci anni dopo, alla Via della Seta cinese? Entusiasmo a buon mercato? Trionfalismo fuori posto?

… è un gioco strano: devi imparare…

Calma, dice la Cina: «Il tempo mostrerà la differenza tra un’iniziativa che abbraccia tutti con cuore aperto [la Belt and Road Initiative cinese] e una di idee ristrette che divide le nazioni. Noi speriamo che l’IMEC non diventi così».

Risposta secca e stizzita.

I giochi sono aperti e soprattutto il quadrante del mondo si è messo in moto. Una cosa è sicura, il Medio Oriente torna ad essere uno snodo delle politiche mondiali.

Se qualcuno poi, sprovveduto di finezze geopolitiche, osserva un po’ più da vicino i Grandi 20, presenti e assenti, il modo con cui governano i loro paesi e come fanno e disfanno le loro società, qualche brivido giù per la schiena gli corre. Allora il sempliciotto inesperto sceglie di chinarsi sulla minuteria storica e scopre, per esempio, che un treno merci con 36 vagoni container è partito dal sud della Russia, ha attraversato l’Iran, già nemico numero uno dell’Arabia Saudita, e poi dallo Stretto di Hormuz è stato travasato via mare a Gedda, in… Arabia Saudita. A fine agosto.

Oppure viene informato che a Ryad, capitale dell’Arabia Saudita, lo scorso 11 settembre grazie all’Unesco  era in visita ufficiale una delegazione del governo israeliano, anteprima di una possibile normalizzazione tra i due stati mediorientali. Il candido osservatore inoltre si stupirà vieppiù nel vedere che Erdoğan, il sultano turco, si sia subito scagliato contro il corridoio in questione proponendone uno di gamma superiore. Provvisoriamente definito – che strano! – corridoio turco.

… è tutto scritto, catalogato: ogni segreto, ogni peccato…

Non stanno mai fermi i Grandi, anche i Meno Grandi. Saltabeccano da un summit, da un vertice all’altro un po’ qua un po’ là. Finito uno, di corsa all’altro [Brics, 21/24 agosto, G20, 9/10 settembre, G77+Cina a Cuba, dal 15 settembre]. Gli farà bene tutto questo sbattimento? E se prendono aria? E se fanno indigestione? E se perdono l’orientamento? E il jet lag? Cos’è, fregola di contrasto alla depressione?
C’è un moto ondulatorio o sussultorio nella geopolitica? Preludio ad eventi tettonici più duri e consistenti?

Se scendo dai vertici e lo chiedo a una immigrata filippina a Ryad, a un palestinese di Nablus, a una giornalista kurdo-turca in carcere, mi guardano con un certo disincanto. Eppure.

… quando sarai grande, saprai perché

Qualcuno si perde, altri mettono su famiglia, qualcuno ricorda con nostalgia e parla male dei nuovi ragazzini di strada, certi fanno carriera.

Tutto il GMondo è paese.

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Il sovranismo è l’altro colonialismo. Raisi l’Africano https://ogzero.org/il-sovranismo-e-laltro-colonialismo-raisi-lafricano/ Fri, 21 Jul 2023 09:49:29 +0000 https://ogzero.org/?p=11316 Razzisti e colonialisti di radice fascista e reazionaria di ogni latitudine stanno annusando l’aria di affari in un continente in bilico, dove i riferimenti coloniali classici (coperti finora dalla foglia di fico dell’appartenenza ideologica alle democrazie liberali) sono messi in crisi e quindi si propongono con i loro modelli ipocriti di cooperazione stracciona, senza orpelli […]

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Razzisti e colonialisti di radice fascista e reazionaria di ogni latitudine stanno annusando l’aria di affari in un continente in bilico, dove i riferimenti coloniali classici (coperti finora dalla foglia di fico dell’appartenenza ideologica alle democrazie liberali) sono messi in crisi e quindi si propongono con i loro modelli ipocriti di cooperazione stracciona, senza orpelli di richiamo retorica a un presunto riguardo all’umanitarismo. Meloni con Saied, due razzisti a pianificare lo sterminio di africani, Raisi con Museveni, due omofobi in sintonia… tutti, al di là degli accordi sbandierati, trovano terreni comuni in transazioni economiche, inventando fittizie posizioni di cooperazione alla pari.
Proprio quello è il vero interesse: concentrarsi sul continente terreno di scontro e spartizione globale. Ora persino il regime persiano dei turbanti, quasi mai interessato  all’Africa, organizza un viaggio ufficiale in tre stati non casualmente scelti, cercando di piazzare prodotti che non sono petroliferi – in primis i droni… ma per l’agricoltura, ovviamente –, ma soprattutto esportando un modello dittatoriale, come spiega con precisione Angelo Ferrari.


Visite all’Africa bazaar: offerte speciali di aree di influenza

ll presidente iraniano, Ebrahim Raisi, è sbarcato in Africa per un tour storico di tre giorni dove ha visitato il Kenya, poi l’Uganda e, infine, lo Zimbabwe. Il continente africano – e anche questa visita lo dimostra – è diventato il terreno “ideale” per le diplomazie dell’Est del Mondo per contrastare l’Occidente e ridisegnare la geopolitica mondiale. Dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia si è avuta un’accelerazione diplomatica sul continente senza precedenti. Lo scontro tra Occidente e Oriente si è trasferito, anche ma non solo, in Africa e tutti cercano di portare i paesi africani dalla propria parte. Condendo il tutto con la retorica anticoloniale: «Alcuni paesi hanno una visione colonialista dell’Africa, ma la nostra visione verso questo continente si basa sulla dignità umana e sulla sinergia», ha detto Raisi prima di lasciare Teheran.
L’obiettivo che vuole raggiungere Raisi è quello di aprire nuovi canali commerciali, da un lato, e dall’altro aprire vie diplomatiche che gli consentano di sviluppare le esportazioni non petrolifere verso il continente africano. Questo tour riflette il desiderio dichiarato di Teheran di moltiplicare i partner politici ed economici, anche per cercare di aggirare le sanzioni occidentali che le sono state imposte a causa del suo programma nucleare.

Lo spirito di Astana trasferito in Africa: le nuove “guerre siriane” da regolare

Dopo undici anni, dunque, torna sul suolo africano un presidente iraniano così da avviare “un nuovo inizio”, ha spiegato il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Nasser Kanani, con paesi che sono “molto ansiosi” – a detta sua – «di sviluppare le loro relazioni con l’Iran». Ma non solo. Secondo Teheran questo riavvicinamento – che si concretizza dopo il rafforzamento delle relazioni con Cina e Russia nell’ambito di una strategia rivolta a Est – sta avvenendo anche sulla base di “una visione comune”. Non è un caso, inoltre, che l’Iran sia entrato a fare parte della Shanghai Cooperation Organization (Sco), una struttura regionale creata nel 2001 di cui Cina e Russia sono membri fondatori.

Relazioni iraniane globalmente “antimperialiste”

Per cercare di capire questa nuova e quasi inedita offensiva diplomatica non si può non considerare la grave crisi economica che sta attraversando l’Iran e quindi, quel viaggio, si inserisce nella ricerca di nuove vie d’uscita alle numerose sfide che Teheran deve affrontare. La visita, poi, incornicia un quadro che il presidente iraniano Raisi ha spiegato ricevendo il ministro degli Esteri algerino, Ahmed Attaf: sviluppare relazioni politiche ed economiche con Algeri come con le tre capitali africane che ha visitato. E il tour africano si inserisce, inoltre, nel quadro delle visite che Raisi ha effettuato in Indonesia e con i tre “paesi amici” in America Latina, cioè Venezuela, Nicaragua e Cuba. Viaggi che gli hanno dato l’occasione di ribadire l’avversione di Teheran alle “potenze imperialiste”, avendo nel mirino, in particolare, gli Stati Uniti. Ma, durante questi viaggi, ha colto l’occasione per ribadire il suo appello a spezzare l’egemonia del dollaro sull’economia mondiale. Fattore che sta molto a cuore anche ai paesi africani e a quelli del Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – che nel vertice che si svolgerà il prossimo agosto in Sudafrica discuteranno anche di questo e delle richieste di numerosi paesi africani, che vogliono entrare a far parte di questo consesso internazionale.

La prima tappa: il Kenya di Ruto

Raisi, in Kenya ha incontrato, a Nairobi, il suo omologo William Ruto. Dopo un colloquio “cordiale” ha incontrato i giornalisti spiegando la sua visita in Kenya come «un punto di svolta nelle relazioni tra i due paesi», aggiungendo che queste discussioni hanno rispecchiato “la determinazione” dei due paesi a «estendere la loro cooperazione economica, commerciale, politica e culturale». Dal canto suo, Ruto ha descritto l’Iran come «un partner strategico essenziale per il Kenya» e ha annunciato la firma bilaterale di cinque memorandum d’intesa in vari settori tra cui quello tecnologico, la promozione degli investimenti e la pesca. «Questi protocolli», ha spiegato il presidente keniano, «svilupperanno e approfondiranno ulteriormente le nostre relazioni per consentire una crescita e uno sviluppo più sostenuti tra i nostri due paesi». L’Iran, inoltre, ha annunciato la volontà di creare una fabbrica nella città portuale di Mombasa per «produrre un veicolo di fabbricazione iraniana chiamato Kifaru, che in lingua kiswalili significa rinoceronte». I simboli hanno sempre un loro valore e fanno, a volte, più della diplomazia.

Il cuore del viaggio: 21 accordi commerciali

Il tour africano ha consentito di annunciare che la compagnia di navigazione Islamic repubblic of Iran Shipping Lines intende aprire un ufficio regionale nel continente per garantire la continuità delle proprie linee marittime dirette in Africa. Attualmente sono già operative linee di navigazione dirette tra l’Iran e l’Africa settentrionale e orientale, ma la compagnia iraniana prevede di espandere i propri servizi anche in altre regioni del continente.
Gli accordi commerciali sono fondamentali per l’Iran – ne sono stati firmati 21 con i tre paesi che ha visitato – ma Raisi si trova molto a suo agio con omologhi del suo stesso rango. A parte il Kenya, paese che sta cercando, non senza fatica, di far crescere la propria democrazia, consolidandola e riaffermandosi in un ruolo centrale per l’Africa orientale, gli altri paesi visitati – Uganda e Zimbabwe – assomigliano di più a vere e proprie dittature. Raisi, proprio in questi paesi, ha dato il meglio di sé in termini di propaganda e di sostegno ai due dittatori.

Museveni folgorato dal modello iraniano alternativo all’Occidente

Ma il vero affondo nella retorica antioccidentale, Raisi lo ha lanciato in Uganda. «L’imperialismo e l’occidente preferiscono che i paesi esportino petrolio e materie prime, consentendo loro di convertire queste risorse in prodotti a valore aggiunto, i nostri sforzi in Iran si concentrano sulla prevenzione delle esportazione delle materie prime», e ha sottolineato l’importanza di evitare le esportazioni verso l’occidente, «come auspicato dai paesi imperialisti». Museveni, dal canto suo, ha espresso la necessità di imparare dalle preziose «esperienze dell’Iran nel contrastare l’egemonia occidentale».

La seconda tappa: l’Uganda di Museveni

Cominciamo dall’Uganda. Senza troppo girarci intorno, Raisi, incontrando il suo omologo Yoweri Museveni – in quanto a longevità al potere non ha eguali – ha elogiato la legge “antiomosessualità” dell’Uganda, una delle più repressive al mondo che prevede sanzioni che possono arrivare fino alla pena di morte e vieta la “promozione dell’omosessualità”. «L’occidente, – ha detto Raisi, – sta cercando oggi di promuovere l’idea dell’omosessualità e, promuovendola, sta cercando di porre fine alla specie umana». Diversi paesi, tra cui gli Stati Uniti, hanno promesso sanzioni economiche contro l’Uganda. Ma l’Uganda tira dritto: «L’occidente non verrà a governare il nostro paese», parole del presidente del parlamento ugandese. Museveni, accogliendo le parole di Raisi ha spiegato che «i paesi occidentali stanno agendo contro il patrimonio delle culture e delle nazioni». Si può capire quale sia la “visione politica comune” che il presidente iraniano ha evocato prima di lasciare Teheran per recarsi in Africa. E di sicuro Museveni ringrazia.

Mnangagwa, il patriota senza critiche per legge

Poi c’è lo Zimbabwe, che non è secondo a nessuno in termini di repressione di tutto ciò che non è allineato al potere. Rober Mugabe, padre della patria e dittatore insegna. Non solo, prima di lasciare questo mondo aveva giurato che il suo fantasma avrebbe perseguito per sempre il paese.

La terza tappa: lo Zimbabwe di Mnangagwa

Fantasma che si è reincarnato perfettamente nell’attuale dittatore, Emmerson Mnangagwa, salito al potere con un golpe nel 2017 rovesciando proprio Mugabe. Nel paese ogni voce dissenziente è messa a tacere. Ma il presidente iraniano Raisi è arrivato ad Harare in un momento cruciale per il paese: cioè le elezioni per la presidenza che si dovrebbero tenere il 23 agosto e Mnangagwa è candidato. Tra dittatori ci si spalleggia. Ma arrivano in un momento ben preciso: il presidente ha appena firmato una legge “patriottica” che vieta ogni critica al paese. Raisi, c’è da crederci, avrà dato qualche suggerimento, sul tema, al suo amico zimbabwano. Ora, in Zimbabwe, è considerato un crimine “danneggiare deliberatamente la sovranità e l’interesse nazionale” del paese e sarà punito chiunque partecipi a riunioni o incontri con persone che promuovono sanzioni contro lo Zimbabwe. Una legge molto “vaga” che lascia una grande libertà di manovra a chi governa e che può decidere a suo piacimento cosa è male e cosa è bene per il paese. Insomma, una legge “patriottica” che consentirebbe di condannare a morte persone percepite – solo percepite – come critiche nei confronti del governo. Il ministro dell’Informazione, Monica Mutsvangwa, ha spiegato che il «ruolo di questa legge è garantire che i cittadini amino il proprio paese. Bisogna essere patriottici». Più che amare il paese, i sudditi devono amare incondizionatamente il dittatore. Un bel capolavoro.
Questo testo conferma che lo Zimbabwe è una dittatura a tutti gli effetti con un regime peggiore di quello di Robert Mugabe, ha assicurato l’avvocato Fadzayi Mahere, portavoce della Citizens Coalition for Change, un partito fondato nel 2022 e guidato da Nelson Chamisa, avversario numero uno di Mnangagwa nella corsa alle presidenziali. I sodali di questo partito di opposizione hanno già subito ondate di arresti e numerosi procedimenti giudiziari.

Davvero un “nuovo inizio” nelle relazioni tra Iran e continente africano.

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L’eterogenea unità dell’opposizione iraniana https://ogzero.org/leterogenea-unita-dellopposizione-iraniana/ Tue, 21 Mar 2023 23:43:39 +0000 https://ogzero.org/?p=10543 Un bell’ossimoro quello del titolo, ma se si facessero paragoni con il passato e le modalità con cui si andò agglomerando l’enorme insurrezione contro il regime dello shah nel 1978, portando alla sua caduta l’anno successivo, potrebbe assomigliare molto a un corso e ricorso storico: infatti anche allora ci fu un coacervo di opposte fazioni […]

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Un bell’ossimoro quello del titolo, ma se si facessero paragoni con il passato e le modalità con cui si andò agglomerando l’enorme insurrezione contro il regime dello shah nel 1978, portando alla sua caduta l’anno successivo, potrebbe assomigliare molto a un corso e ricorso storico: infatti anche allora ci fu un coacervo di opposte fazioni e ideologie politiche che portarono al potere Khomeini, il quale per prima cosa fece stragi dei comunisti e dei più progressisti, che furono i più impegnati nello sforzo di cacciare Pahlavi (al punto che il quotidiano “Lotta continua” esaltava la lotta che avrebbe condotto alla repubblica islamica). Quell’ossimoro discende da una situazione che vede la diaspora diversificata (e che si permette di dire che il Savak non si sarebbe dovuto sciogliere!) ringalluzzita dalle lotte che i giovani stanno portando nelle piazze iraniane e pronta ad approfittarne, magari sognando di mettere il cappello sull’onda degli insorti e dei morti costati alla spontanea rivolta… proprio come gli ayatollah 44 anni fa.

Giulia Della Michelina è riuscita a raccogliere informazioni e dati sulle manovre dei fuorusciti più eminenti che stanno preparandosi a rientrare in scena nel caso le rivolte dovessero aprire varchi nel regime, in cui potrebbero intrufolarsi, cavalcando il malcontento… e la restaurazione. 


Diaspora al vertice con dinastia

Mentre la Repubblica islamica si preparava a festeggiare il suo 44esimo anniversario con manifestazioni pubbliche e decine di migliaia di partecipanti, a 10.000 chilometri di distanza, a Washington, si teneva un incontro tra 8 figure della diaspora iraniana. Il tema del vertice era il futuro di quelle proteste che il presidente Ebrahim Raisi ha dichiarato di aver sconfitto durante le celebrazioni della Rivoluzione. Gli attivisti si sono riuniti al Georgetown Institute for Women, Peace and Security per costruire una piattaforma comune atta a preparare la transizione democratica del paese. È il primo tentativo di consolidamento dell’opposizione all’estero dall’inizio delle rivolte, innescate lo scorso settembre dall’omicidio della ventiduenne curda Mahsa Jina Amini in custodia della polizia morale. Eppure, sono molti i dubbi che aleggiano su questo progetto, capeggiato da Reza Pahlavi, figlio dell’ultimo shah deposto con la rivoluzione del 1979.

Ritorno alla monarchia… certo: “liberale”

Pahlavi invoca da anni il cambio di regime e la costruzione di uno stato secolare e liberale, sostenuto da alcuni iraniani residenti all’estero che lo ritengono un interlocutore affidabile per dialogare con la comunità internazionale. A gennaio l’attore Ehsan Karami aveva lanciato una petizione sottoscritta da 456.000 persone per sostenere il suo progetto di transizione, basato su tre principi: integrità territoriale, democrazia laica e rispettosa dei diritti umani e diritto del popolo a scegliere la nuova forma di governo attraverso il voto. In diverse occasioni il figlio dello shah ha precisato che il gruppo riunito a Washington non intende proporsi come nuova leadership, ma che il suo intento è creare le condizioni per trovare una nuova guida per il paese. Tuttavia Pahlavi, che non disdegna di farsi chiamare “principe” dai suoi sostenitori, ha espresso anche la sua apertura alla possibilità di instaurare una “monarchia elettiva”. Tra i suoi sostenitori ci sarebbero infatti diversi nostalgici della monarchia, come il prigioniero politico Manouchehr Bakhtiari, ma anche persone comuni che a colpi di tweet e di hashtag l’hanno investito del potere di rappresentanza in attesa della caduta della repubblica islamica. Al contempo Pahlavi è stato duramente criticato per non aver mai preso sufficientemente le distanze dal regime di Mohammad Reza, una dittatura non meno sanguinaria di quella degli ayatollah. L’accusa è di aver approfittato del patrimonio familiare costruito sulle sofferenze degli iraniani per la propria ascesa personale.

La coa(li)zione a ripetere

Kamelia Entekhabifard, caporedattrice dell’“Independent Persian” ha sollevato il dubbio che affidare a Pahlavi il mandato di transizione possa impedire la candidatura di persone più qualificate, con un passato più chiaro e richieste ben definite. Per esempio tra le migliaia di prigionieri rinchiusi nelle carceri come quello di Evin, tristemente ribattezzato “l’università Evin” per il grande numero di studenti e intellettuali presenti. In molti hanno sottolineato come affidare la responsabilità della transizione a una sola figura sia già di per sé lontano dalla democrazia auspicata. C’è poi chi vede nell’investitura di Pahlavi il ripetersi di una storia che l’Iran ha già vissuto affidandosi all’ayatollah Ruollah Khomeini per sbarazzarsi del padre dell’odierno candidato a rappresentare la volontà popolare.

Secondo lo scrittore e traduttore Khashayar Dayhimi se ci fosse un referendum «Pahlavi vincerebbe solo perché gli iraniani non conoscono un’altra alternativa».

La coalizione sta cercando di consolidarsi: si è dotata di un nome ufficiale e di un manifesto, intitolato Mahsa Charter. Sul loro sito si legge che l’obiettivo dell’Adfi (Alleanza per la democrazia e la libertà in Iran) è rovesciare il regime in maniera non violenta e costruire le fondamenta di una democrazia laica che possa servire la volontà del popolo iraniano. Oltre a Reza Pahlavi i primi firmatari del manifesto sono l’attivista e giornalista Masih Alinejad, l’attrice Nazanin Boniadi, l’avvocata premio Nobel Shirin Ebadi, Hamed Esmaeilion (ex portavoce dei familiari delle vittime del volo ucraino PS752) e il segretario del partito curdo Komala Abdulla Mohtadi.

Un supporto esterno alle lotte… neutrale, da Occidente

Secondo l’Adfi l’attivismo al di fuori del paese deve essere uno strumento per facilitare l’azione degli iraniani in patria. Un altro punto fondamentale è l’isolamento della Repubblica islamica, per cui è richiesta la collaborazione della comunità internazionale. Un sostegno che la coalizione sta cercando di guadagnarsi in diversi modi, partecipando a eventi internazionali e proclamando la propria adesione ai valori e agli obiettivi dei paesi occidentali. Tra i punti del manifesto compaiono l’adesione alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura, la Convenzione Internazionale sulla Sicurezza nucleare. Quest’ultimo punto risulta particolarmente sensibile dopo che i funzionari dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) hanno riportato che l’Iran ha arricchito l’uranio all’83,7%, un livello prossimo a quello necessario per la bomba atomica. Si cita inoltre la volontà di stabilire politiche di pacificazione nella regione. Pahlavi ha già dichiarato che un nuovo governo «non sarà belligerante e non manderà droni». Il figlio dello shah ha anche menzionato la volontà di cooperare con l’Europa sulla questione migratoria.

Quale legittimazione fuori dai confini iraniani?

Alcuni membri della coalizione hanno preso parte alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, che si è svolta dal 17 al 19 febbraio e dalla quale è stato escluso il governo di Teheran. Per i dissidenti è stata un’importante opportunità per dimostrarsi all’altezza di dialogare con i paesi occidentali e guadagnarsi la loro approvazione. La loro presenza non è stata sostenuta all’unanimità. Un gruppo di attivisti ha scritto una lettera aperta per denunciare la contraddizione di questa partecipazione con i valori della rivoluzione e la «completa mancanza di legittimazione democratica» della coalizione. Reza Pahlavi ha affermato di essere in contatto con i dissidenti in Iran, ma il reale supporto per la sua coalizione all’interno del paese rimane difficile da sondare.
Il 21 febbraio Alinejad e Esmaeilion hanno partecipato a un incontro al Senato italiano, dove solo un paio di mesi prima era stata invitata anche Maryam Rajavi, leader del Consiglio Nazionale della Resistenza dell’Iran, evoluzione dei Mojahedin-e-Khalq. Odiata dalla maggioranza degli iraniani in patria per la sua attività terroristica e per aver appoggiato Saddam Hussein durante la guerra tra Iran e Iraq, l’organizzazione gode di appoggio e finanziamenti di diversi paesi occidentali. Se la presenza di Rajavi ha suscitato lo sdegno della comunità iraniana in Italia, quella di Alinejad è stata accolta molto più calorosamente, sia dai suoi connazionali che dai media italiani.

Il volto conservatore non incorniciato dall’hijab

La conduttrice di Voice of America vive da anni in esilio negli Stati Uniti e si è sempre battuta per i diritti delle donne, in particolare per il diritto di scegliere di non indossare il velo. Il suo attivismo le è costato prima il suo lavoro di giornalista in Iran e poi diverse minacce di morte. Allo stesso tempo è stata bersagliata dalle critiche per la sua vicinanza a personaggi conservatori e antifemministi come Mike Pompeo e John Bolton. Secondo alcuni, Alinejad sarebbe la portavoce di quel femminismo “accettabile” agli occhi degli occidentali ossessionati dall’hijab e da una visione pietistica delle donne dei paesi musulmani.

“La diaspora iraniana e la realtà del paese dopo 40 anni”.

 

Manovre strategiche globali

I rapporti tra questa nuova coalizione e gli Stati Uniti rimangono un nodo importante da chiarire, oltre che una fonte di preoccupazione per il futuro delle proteste in Iran. Washington potrebbe trarre numerosi benefici da un nuovo “governo amico” allineato alle sue politiche. Inoltre, la mediazione cinese nell’accordo tra Iran e Arabia Saudita potrebbe portare gli Stati Uniti a un’ulteriore accelerazione nel sostegno all’opposizione al regime di Ali Khamenei, già avallata formalmente da diverse risoluzioni del Congresso.
Nel frattempo però anche all’interno del paese non mancano i tentativi di organizzazione e di confronto in vista di uno scenario postrivoluzionario. Mir Hossein Mousavi, ex primo ministro e leader delle proteste dell’Onda Verde del 2009 ha invocato un libero referendum per scrivere una nuova costituzione. Mousavi, agli arresti domiciliari dal 2011, si è sempre collocato nell’area riformista dell’establishment della repubblica islamica, pur facendosi portavoce di uno dei movimenti di contestazione più importanti degli ultimi anni. Questa presa di posizione rende ancora più evidente la fine dell’ambizione di trasformare il regime dall’interno e la necessità di un cambiamento radicale per il futuro dell’Iran.

Richieste dell’opposizione vera: cittadini che rischiano e lottano

Il 16 febbraio una ventina di sindacati, associazioni studentesche e gruppi femministi hanno pubblicato un documento contenente le richieste minime per «costruire una nuova, moderna e più umana società». Tra queste ci sono il rilascio incondizionato dei prigionieri politici, la separazione della religione dalla sfera pubblica, la libertà d’opinione e di espressione, la parità tra uomini e donne, il rispetto dei diritti della comunità Lgbtqia + e delle minoranze etniche e religiose.
Secondo l’antropologa Chowra Makaremi l’orizzontalità dell’organizzazione politica che si sta sviluppando nell’opposizione iraniana è un valore, coerente con le istanze portate avanti dalle proteste.


Per quella che si proclama una rivoluzione partita dalle donne e che porta avanti le rivendicazioni delle minoranze e della classe lavoratrice sarebbe un punto di forza mantenere in dialogo una pluralità di voci e di visioni.

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Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi https://ogzero.org/guerre-di-religione-continuazione-del-colonialismo-con-altri-mezzi/ Sat, 12 Nov 2022 08:48:30 +0000 https://ogzero.org/?p=9436 Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che […]

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Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che si fonde e intreccia con le altre che muovono masse di disperati, distruggono il clima, depredano territori, spacciano armi, innescano conflitti per controllare risorse. Si può interpretare questo uso della divisione religiosa come un nodo delle diverse emergenze del Finanzkapitalismus nella sua fase iperliberista, un nodo a cui arrivare dagli altri orrori geopolitici, o da cui partire per inserirlo nella rete che mette insieme l’uso politico-aggressivo della religione, il pastone mediatico, la scorciatoia militarista, l’espansionismo imperialista… ma partiamo dallo storico conflitto irlandese tra cattolici separatisti e unionisti protestanti e poi ci espandiamo nelle più complesse – ma riconducibili agli stessi modelli di potere – contrapposizioni mediorientali.


Solo un’ipotesi, la mia. Da “proletario autoalfabetizzato” senza pretese accademiche. A naso diciamo.
Se in passato le “guerre di religione” potevano, forse, esprimere (“fotografare”) in qualche modo i conflitti etnici e/o sociali del tempo (vedi alcune “eresie” e certe “riforme” diretta conseguenza dei conflitti di classe), direi che in seguito, perlomeno dal secolo scorso, il più delle volte sono state la copertura, la “vetrina” di interessate strumentalizzazioni.

Partiamo dall’Irlanda…

A titolo di esempio, il conflitto irlandese, soprattutto dopo la divisione dell’Isola di smeraldo. Se già nel Settecento cattolici e protestanti (discendenti i primi dagli indigeni irlandesi colonizzati, gli altri dai coloni scozzesi presbiteriani) avevano fatto fronte comune per l’indipendenza dell’Irlanda, anche in seguito (vedi gli scioperi di lavoratori salariati cattolici e protestanti a Belfast) non mancarono lotte comuni. A porvi fine intervennero le ricche borghesie filobritanniche (si veda La Casa d’Orange) elargendo piccoli privilegi e organizzando milizie settarie “lealiste” (v. Uvf). Non potendo utilizzare – che so – un diverso colore della pelle o diversità etniche rilevanti (in quanto entrambe le comunità erano di origine celtica, diversamente dagli inglesi anglosassoni – di origine germanica – e anglicani) si accontentarono di ampliare il modesto solco di natura religiosa.


Poi è andata come sappiamo. Esperimento sostanzialmente riuscito, un modello per future strumentalizzazioni a “geometria variabile”.

… e giungiamo tra le comunità beluci, curde e hazara

Quindi ritengo che anche le sanguinose faide mediorientali tra sunniti e sciiti (con ricadute particolarmente gravi per le minoranze qui presenti: yazidi, alaviti, assiro-cristiani, zoroastriani…) siano state perlomeno “pompate”, gonfiate, esasperate ad arte.
Quanto è avvenuto nelle aree curde, occupate militarmente dalla Turchia, di Afrin e di Sere Kaniyê (Nord della Siria) appare emblematico. Non essendo in grado di controllare adeguatamente le proprie milizie mercenarie (vedi l’Esercito Nazionale Siriano, Sna), Ankara si starebbe affidando direttamente al gruppo terrorista Hayat Tahrir al-Sham (Hts, successore di al-Nusra), con tutta probabilità l’emanazione locale di al-Qaeda.

Il ruolo della Turchia

Anche perché tra le fila di alcune formazioni sul libro paga di Ankara ultimamente serpeggiava, oltre al malcontento, anche una certa preoccupazione.

Le voci su un possibile riavvicinamento tra Ankara e Damasco (patrocinato da Mosca) lasciava intravedere la possibilità di venir scaricati, se non addirittura consegnati, per diversi membri delle milizie mercenarie. In quanto ricercati da Damasco potrebbero venire estradati e questo suggerisce una possibile spiegazione su alcuni episodi di insubordinazione. Come per gli scontri a mano armata intercorsi tra membri di Jabhat al-Shamiya e di Jaish al-Islam.
Tali dispute ricorrenti (oltre al rischio concreto di insubordinazione e defezione) tra le diverse fazioni di Sna (forse non adeguatamente attrezzate, oltre che sul piano politico, anche in quello religioso?) avrebbero suggerito a Erdoğan di far leva sul maggiore entusiasmo, fervore religioso (eufemismo per fanatismo) di Hts. Un fanatismo indispensabile per annichilire le minoranze “eretiche” e non omologate (tutti apostati, dissidenti, “pagani”… addirittura comunisti o anarchici talvolta) del nord della Siria. Nella prospettiva di ulteriori invasioni.
Già all’epoca delle prime manifestazioni contro il regime siriano si assisteva a una proliferazione di gruppi armati, in genere appoggiati, oltre che dalla Turchia, da alcuni stati del Golfo come il Qatar.

Negli Usa è ancora in corso il processo contro “Qatar Charity” e contro Qatar Bank per aver finanziato con 800.000 dollari il leader dell’Esercito Islamico Fadhel al-Salim.

Pulizie etnico-religiose nella Mezzaluna sciita

Per inciso, è probabile che questo stia oggi avvenendo in Iran, nel tentativo di strumentalizzare, “dirottare” altrove, le legittime proteste popolari. Con un occhio di riguardo per i beluci, già manovrati in passato anche da qualche potenza imperialista di Oltreoceano. Come da manuale, ça va sans dire, anche i beluci ci mettono “del loro”: per esempio in Pakistan alcuni gruppi indipendentisti beluci sono ritenuti responsabili di vere e proprie stragi ai danni degli hazara, un’altra minoranza, ma di fede sciita.
Va anche detto che da parte sua la Repubblica islamica sembra far di tutto per fornire pretesti in tal senso. In una recente manifestazione (4 novembre 2022) a Khach, provincia di Zahedan, le forze di sicurezza hanno ucciso una ventina di civili beluci (16 le vittime identificate, tra cui alcuni bambini) ferendone oltre sessanta. Da segnalare – stando a quanto dichiarato da alcuni attivisti – che altri feriti erano poi deceduti non essendo stati traspostati all’ospedale dove rischiavano seriamente di essere arrestati.


Un’altra strage di 90 civili beluci era già avvenuta, sempre nella provincia di Zahedana, il 30 settembre.

Appare evidente che – analogamente a quella curda – anche la popolazione minorizzata dei beluci (“minorizzata” e non minoritaria, in quanto divisa da frontiere statali) in Sistan e Baluchistan subisce quotidiane discriminazioni ed è sottoposta a una dura repressione (come del resto altre comunità delle aree periferiche del paese) da parte di Teheran.
Sia per la loro appartenenza etnica, sia per ragioni religiose in quanto sunniti.
Il comandante di al-Nusra, Al-Hana (Abu Mansour al-Maghrebi) arrestato nel 2020 in Iraq aveva rivelato che lo sceicco Khalid Sueliman (della potente famiglia al-Thani), a capo del Jabhat al-Nusra (e pare anche delle organizzazioni derivate), veniva finanziato con qualcosa come un milione di dollari al mese. Turchia e Qatar sosterrebbero, sia finanziariamente, sia con la fornitura di armamenti, i vari gruppi combattenti emanazione dei Fratelli musulmani salafiti in quanto utile strumento per la loro politica estera. Anche in chiave panislamica.

Guerra turca ai curdi in Siria

Alcune organizzazioni hanno stabilito un’analogia, per vastità e inasprimento, tra l’attuale repressione in Iran e i massacri subiti dai beluci a Deraa (in Siria) nel 2011, denunciati dall’Onu come crimini di guerra.
Storicamente accertato che potenze regionali ostili a Damasco avevano favorito la militarizzazione (vedi appunto la formazione di Sna) e l’escalation del conflitto.
Oltre che a Sna, la Turchia non avrebbe lesinato nel fornire sostegno al fronte al-Nusra (dal 2012 nella lista del terrorismo internazionale in quanto ritenuto emanazione di al-Qaeda) e addirittura a Daesh. Formazioni entrambe notoriamente jihadiste.

Quanto al fronte al-Nusra, va ricordato che nell’ottobre 2012 attaccava i distretti autonomi di Şêxmeqsûd e Eşrefiye (regione di Aleppo) uccidendo decine di curdi. Subito dopo gli ascari jihadisti si scagliavano contro Afrin, incontrando però la ferrea resistenza delle Ypg/Ypj. Nel voler annichilire in primis le zone curde del Rojava (dove si sperimentava la rivoluzione del Confederalismo democratico) il Jabhat al -Nusra si smascherava da solo, mostrando apertamente di agire su indicazione della Turchia.

Sempre nel 2012, in novembre, veniva attaccata, partendo direttamente dalla Turchia, anche Serêkaniyê. Un’operazione congiunta tra al-Nusra e alcune milizie curde collaborazioniste legate al Pdk. Entrando in alcuni dei quartieri a maggioranza araba di Serêkaniyê, queste milizie si spacciavano per ribelli antiAssad cercando di stabilire alleanze. Solo successivamente (il 19 novembre) partiva il brutale attacco contro i quartieri a maggioranza curda. Veniva assassinato il sindaco della città e la chiesa diventava un bivacco per il loro quartiere generale.

Nel frattempo la loro già consistente presenza veniva rinforzata dall’apporto della cosiddetta Coalizione nazionale (Etilaf), che – secondo i curdi – sarebbe al Etilaf di Sna o comunque della sua derivazione, il “governo di transizione siriano”. Oltre al seggio di Istanbul, Etilaf ne controlla uno anche a Berlino (oltretutto finanziato dal governo tedesco).
Avrebbe anche una certa influenza in alcuni progetti (ugualmente finanziati dal governo tedesco) che sembrano funzionare come “specchietti per allodole”, allo scopo di creare cortine fumogene sulla realtà della situazione curda. Tra questi, il Centro europeo di studi curdi (Ezks) e il sito Kurdwatch, divulgatore di notizie farlocche intese a giustificare le operazioni militari di Erdoğan nel Nord della Siria e nel Nord dell’Iraq. Ma nonostante questo ulteriore apporto di milizie, successivamente venivano scacciati dalla popolazione insorta dei quartieri curdi, grazie anche all’intervento dei combattenti di Ypg e Ypj.

Gli scontri ripresero, durissimi, nel gennaio 2013. Praticamente una vera e propria ammucchiata di gruppi mercenari guidata da al-Nusra quella che contese per circa due settimane il controllo dei quartieri alle milizie curde. Sconfitte nuovamente, le truppe jihadiste si misero in salvo direttamente oltre il confine turco (immediatamente blindato dai soldati turchi per maggior sicurezza), ma lasciando in mano ai curdi un’ampia documentazione della loro intensa collaborazione con Ankara.
Purtroppo durante la ritirata sia al-Nusra che Daesh non mancarono di vendicarsi sulla popolazione curda con una vile rappresaglia.

Come a Til Eran (luglio 2013) e a Tal Hasil. Dichiarando pubblicamente, attraverso le moschee, che sia il bagno di sangue nei confronti della popolazione curda (circa un’ottantina le vittime accertate) che il sequestro-rapimento delle donne curde (prelevate a centinaia) era giustificato dal punto di vista religioso. Rastrellando poi casa per casa le due località sopracitate alla ricerca di “Apoisti”, ossia di seguaci di Apo Öcalan. Oltre a quelli crudelmente assassinati (alcuni bruciati vivi, con le immagini poi diffuse nei social), vanno considerati anche i desaparecidos (qualche decina) e i cadaveri (una ventina) di cui non è stata possibile l’identificazione.

Til Hasil

Da sottolineare che – per quanto entrambe aspirassero alla supremazia – Al-Nusra e Daesh (o Stato Islamico che dir si voglia) non smisero mai di collaborare proficuamente. Sia garantendo una certa “osmosi” di combattenti –praticamente intercambiabili – da una formazione all’altra (in base alle necessità del momento), sia dandosi il cambio, alternandosi nel controllo delle aree occupate. E soprattutto instaurando congiuntamente durante l’occupazione delle città, dei villaggi e dei quartieri curdi un aspro regime di ispirazione salafita. Anche a livello di tribunali islamici dove operavano in coppia.

Sempre sotto la supervisione di Ankara ovviamente. L’assalto al carcere di Sina à Hesekê (gennaio 2022) era stato pianificato dai territori occupati dalla Turchia.

Come già detto negli ultimi tempi al-Nusra aveva cercato di “riciclarsi” prendendo (almeno ufficialmente) le distanze da al-Qaeda e cambiando pelle e nome. Diventando prima, nel 2016, Liwa Fatah al-Sham e successivamente, nel 2017, appunto Hayat Tahrir al-Sham (Hts, in realtà una finta coalizione di vari gruppi, sostanzialmente sotto il controllo della vecchia al-Nusra, comunque denominata). Attualmente la casa madre sarebbe localizzata in quel di Idlib, in felice coabitazione con l’alleato turco. Allo scopo dichiarato di soffocare il risorgere e la diffusione del Confederalismo democratico in questa parte del Rojava. Esperienza pericolosa perché esemplare e contagiosa, soprattutto così in prossimità del confine turco.

Dal maggio di quest’anno (a seguito dell’incontro di Idlib-Sarmada con esponenti del regime turco) le milizie di Hts hanno ripreso a riposizionarsi e raggrupparsi su Idlib puntando quindi su Afrin. Inoltre si sarebbero acquartierati anche nelle zone di Girê Spî, Azaz, al-Bab, Cerablus e intorno alla città di Minbić (ancora gestita dall’amministrazione autonoma).
Sempre in vista di ulteriori attacchi in Rojava.

Per concludere, pur essendo presto rientrato nella lista nera dei gruppi terroristi, Hts continua a godere dei finanziamenti di Turchia, Qatar, Arabia Saudita…
Pare anche di qualche non meglio identificato “paese occidentale”…

Vai a sapere.

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Vecchie corone e turbanti consunti, curdi e beluci sudditi dell’impero persiano https://ogzero.org/vecchie-corone-e-turbanti-consunti-curdi-e-beluci-sudditi-dellimpero-persiano/ Tue, 18 Oct 2022 20:20:44 +0000 https://ogzero.org/?p=9151 Ospitando queste considerazioni di Gianni Sartori comparse su “Osservatorio repressione” proseguiamo l’interesse per un movimento che non accenna ad arrendersi al brutale massacro di forze di una brutale polizia che fin dai tempi della Savak della famiglia Pahlevi è famigerata per le sue efferatezze; ma la storia fa ben sperare, perché quando il popolo iraniano […]

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Ospitando queste considerazioni di Gianni Sartori comparse su “Osservatorio repressione” proseguiamo l’interesse per un movimento che non accenna ad arrendersi al brutale massacro di forze di una brutale polizia che fin dai tempi della Savak della famiglia Pahlevi è famigerata per le sue efferatezze; ma la storia fa ben sperare, perché quando il popolo iraniano è esausto non recede fino al rovesciamento del potere. Non sappiamo quale sarà l’epilogo ma la determinazione meriterebbe migliori analisi da parte dell’Occidente. Sartori ha il merito di usare occhiali che pescano nell’immaginario ipocrita che attraverso gli organi di stampa mainstream evidenziano episodi, a tratti beatificano, ma poi non considerano il patriarcato e si focalizzano esclusivamente sulla questione del velo senza considerare le istanze sociali e politiche che alimentano il movimento e senza accorgersi del tentativo di organizzazioni nostalgiche dello sha’ intente a scippare le lotte, cercando di replicare la manovra degli ayatollah che sterminarono i rivoltosi progressisti che avevano cacciato i Pahlevi. 


L’antifascismo nelle piazze iraniane

Affrontando i nostalgici del passato e gli oscurantisti del presente

Qualche considerazione, mi auguro non “allineata”, su quanto sta avvenendo in Iran. Già in precedenza avevo sottolineato come l’autodeterminazione dei popoli in generale e l’indipendentismo in particolare, siano divenuti una variabile “USA e getta” a seconda degli interessi geostrategici in gioco. Quella che uno studioso catalano aveva definito “indipendenza a geometria variabile”, di cui si è esaustivamente parlato in un articolo precedente. Gli esempi dei “due pesi e due misure” si sprecano, come avevo segnalato qualche anno fa (in epoca non sospetta) nella “postfazione” a un mio libro sui curdi.
E i curdi, da questo punto di vista, non fanno certo eccezione, se pur loro malgrado.
Beatificati qualche anno fa quando si facevano massacrare per sconfiggere l’Isis, erano stati poi – di fatto – dimenticati. Abbandonati in balia delle milizie islamiste filoturche in Rojava, sotto i bombardamenti turchi (anche con armi proibite dalla convenzione di Ginevra) in Bashur e sepolti vivi nelle carceri di sterminio in Turchia.
Quanto al Rojhilat (il Kurdistan sotto amministrazione iraniana), se si esclude in passato qualche tentativo di strumentalizzazione da parte del Mossad, parevano completamente scomparsi dal radar. Nuovamente alla ribalta in quanto tra i principali protagonisti della rivolta in corso (innescata dall’assassinio di una donna curda, Jina Amini) tornano a godere di qualche attenzione – interessata – da parte dei media occidentali.
Women Life Freedom
Talvolta in maniera paradossale. In un recente articolo apparso su un noto quotidiano italico si celebra “l’arte di resistere” di questo popolo indomito, ma – a mio avviso – in modo alquanto parziale. Ben due paginoni per ricordare, oltre alla lotta contro l’Isis e Daesh, perfino il “rapporto turbolento” dei curdi dell’Iraq con Bagdad e dilungarsi – addirittura – sulle antiche battaglie dei Carduchi (probabili progenitori dei curdi) celebrate da Senofonte in Anabasi.
Ma nessun accenno al Bakur (il Kurdistan sotto occupazione turca) o al “Mandela curdo” Ocalan.

L’analisi deve considerare molti aspetti

Riproponendo comunque una visione riduttiva – sempre a mio modesto avviso – dell’attuale crisi iraniana interpretata come legata essenzialmente alla questione dell’hejjab. In realtà ritengo che il problema, in particolare per le donne curde, sia leggermente più complesso. Andarsi a rivedere le percentuali di donne impiccate per essersi ribellate al patriarcato (con le minorenni – in genere vittime di matrimoni combinati – che se accusate di aver ammazzato il marito o un cognato, rimangono in cella in attesa della maggiore età e dell’esecuzione).

La rivolta in carcere dei fomentatori curdi

Del resto anche la rivolta nel famigerato carcere di Evin (a Teheran) sembrerebbe essere stata innescata (nella serata del 15 ottobre) dai prigionieri politici curdi.
Non i soli qui rinchiusi, ovviamente (ci sarebbero anche personaggi noti, in quanto stranieri, come la franco-iraniana Fariba Adelkhah e almeno fino alla fine di settembre lo statunitense di origine iraniana Siamak Namazi).
Per completezza va riportata anche un’altra inquietante ipotesi. Ossia che potrebbero essere state le stesse autorità carcerarie ad appiccare l’incendio come pretesto per eliminare dei pericolosi dissidenti.
Evin Prison

L’egemonia imperiale persiana

I seguaci dello sha’ cercano di scippare le lotte

In ogni caso, oltre a strumentalizzare le lotte dei curdi, stavolta si è fatto avanti anche chi vorrebbe ora emarginarli, ridimensionare il ruolo fondamentale che questa “minoranza” ha avuto, insieme ai beluci, nella rivolta in atto ormai da oltre un mese.
Il 15 ottobre a Londra, a una manifestazione di sostegno ai manifestanti e rivoltosi iraniani, i nostalgici dell’artificiosa monarchia decaduta nel 1979 hanno cercato di allontanare coloro che inalberavano bandiere del Kurdistan e del Belucistan, in quanto, secondo i seguaci della buonanima di Mohammad Reza Pahlavī, “non graditi”.
E rivendicando il fatto che nel 1936 Reżā Shāh Pahlavī (il padre di Mohammad Reza) aveva proibito per decreto l’uso di hijab e chador. Ma sorvolando, al solito, sulle concessioni fatte tre anni prima alla Anglo-Persian Oil Company, operazione a cui tenterà di porre termine nel 1951 Mossadeq (poi destituito con un colpo di stato imbastito da Usa e G.B.) riuscendo anche per un breve periodo ad allontanare lo sha’ dal Paese.
E così i tardi epigoni di quel regime crudele (ricordate le brutalità, le torture commesse tra il 1957 e il 1979 dalla polizia segreta, la Savak?), mentre con grande faccia tosta pubblicamente invocano l’unità del popolo iraniano contro l’attuale regime, negano a priori i diritti dei popoli minoritari (ma sarebbe più corretto definirli “minorizzati” in quanto sia i curdi che i beluci vivono separati in vari stati, divisi dalle artificiose frontiere).
Popoli sottoposti all’egemonia persiana e a cui viene tuttora negato il diritto alla propria lingua e cultura. Per non parlare di quello all’autodeterminazione.
Oggi con gli ayatollah così come ieri con lo sha’.
Fatti del genere, oltre che a Londra, erano già avvenuti a Parigi davanti all’Hôtel de Ville il 6 ottobre.
Durante – si badi bene – l’omaggio reso dalla sindaca di Parigi Anne Hidalgo a Jina Amini, la giovane curda uccisa dalla polizia.
Appare evidente come questi reazionari monarchici (potremmo, credo, definirli tranquillamente dei “fascisti”) vorrebbero impadronirsi della rivolta popolare, strumentalizzarla ai loro fini. Quanto al fatto che possano riuscirci è tutto un altro paio di maniche. Anche se …

La Realpolitik del diritto all’autodeterminazione

… coltivo qualche perplessità sugli sbocchi assunti da alcune lotte di liberazione in tempi recenti (talvolta strumentalizzate dal sistema industriale-militare – l’imperialismo – o da qualche potenza regionale), ma non per questo rinuncio a schierarmi a fianco degli oppressi e contro l’oppressione.

Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e al-Da’wa, notoriamente filoiraniani e responsabili di violazioni dei diritti umani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente Washington starebbe utilizzando in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad al-Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?

Indipendenze a geometria variabile

Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale, come di quelli autonomistici o identitari, non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Manuel Castells ha parlato di “indipendenze a geometria variabile”, denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese «a seconda di chi, del come e del quando».

«Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione –, sostiene il sociologo catalano, – sono frutto di un cinismo tattico e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente»

Pensiamo al trattamento riservato ai curdi in Iraq, praticamente autonomi e quasi alleati degli Usa, mentre quelli in territorio turco continuavano a essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, storicamente alleato strategico degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. E intanto i curdi dell’Iran (“Partito per una vita libera in Kurdistan”, Pjak, considerato il ramo iraniano del Pkk attivo in Turchia), dopo una serie di impiccagioni che l’opinione pubblica mondiale ha ignorato, nel 2010 si sarebbero rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva documentato “Le Monde”, ma poi le cose sarebbero cambiate).

 

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«Kurdistan, Kurdistan: occhi e luce dell’Iran!» https://ogzero.org/kurdistan-kurdistan-occhi-e-luce-delliran/ Sat, 24 Sep 2022 11:58:16 +0000 https://ogzero.org/?p=9006 Un punto di vista attento alle origini curde di Jîna Mahsa Amini per raccontare ulteriori aspetti (rispetto a quelli rilevati da Marina Forti) della vicenda che ha scatenato un movimento determinato a ottenere almeno un allentamento dell’oppressione religiosa… e che forse può avviare un più ampio processo di emancipazione dal sistema oscurantista legato ai turbanti […]

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Un punto di vista attento alle origini curde di Jîna Mahsa Amini per raccontare ulteriori aspetti (rispetto a quelli rilevati da Marina Forti) della vicenda che ha scatenato un movimento determinato a ottenere almeno un allentamento dell’oppressione religiosa… e che forse può avviare un più ampio processo di emancipazione dal sistema oscurantista legato ai turbanti di Tehran, estendendo le proteste al desiderio di liberazione dal manto plumbeo degli ayatollah, con un gesto come i tanti dal hejjab. Gianni Sartori in questo pezzo comparso su “Osservatorio repressione” ricostruisce gli eventi di questi giorni con lo sguardo dei curdi del Khorasan, in particolare del Rojhilat (le province del Nordovest), esteso al resto delle speranze soprattutto dei giovani in piazza in questi giorni, rischiando anche di venire giustiziati, come da richieste degli oscurantisti chiamati in una contromanifestazione dal governo conservatore di Raisi, che si rende conto del pericolo di insurrezione.  


In Iran non si placano le proteste per l’assassinio di Jîna Mahsa Amini

Sappiamo che la popolazione curda del Rojhilat (il Kurdistan orientale, sotto amministrazione iraniana) detiene il record non invidiabile del maggior numero (in percentuale) di giustiziati e giustiziate del pianeta. Altri – e altre – invece sono vittime della tortura.
L’ultimo caso, quello della ventiduenne curda Jîna Mahsa Amini, ha scatenato la rivolta prima nella regione, poi nell’intero paese.
Nei primi cinque giorni (e cinque notti, come a Parma nel 1922) manifestazioni e scontri erano avvenuti a Sine, Dehgulan, Diwandara, Mahabad, Urmia, Piranshahr, Saqqez…
Mentre ancora il 22 settembre i telegiornali parlavano “soltanto” di una decina di manifestanti uccisi dalla polizia iraniana nel Rojhilat, alcune agenzie ne calcolavano già una trentina.

È probabile che ormai le vittime siano più di cinquanta e destinate, purtroppo, ad aumentare. Per non parlare della sorte di centinaia di feriti e di migliaia di persone arrestate.

Immediatamente veniva indetto dal Pjak (Partito per una vita libera nel Kurdistan) e da Kodar (Società democratica e libera del Kurdistan orientale) lo sciopero generale. Sciopero a cui avevano aderito i partiti affiliati al Centro di cooperazione dei partiti del Kurdistan iraniano, il Partito comunista iraniano-Kurdistan, altri partiti del Kurdistan orientale, numerose organizzazioni della società civile e vari esponenti politici. E così il 19 settembre scuole e negozi sono rimasti chiusi in gran parte della regione.
Il giorno dopo, 20 settembre, nel corso di una manifestazione, a Kermanshah moriva un’altra donna curda, Minoo Majidi, madre di tre bambini. Colpita dalle pallottole (dal “fuego real”) delle unità speciali antisommossa, prontamente mobilitate dal regime.

Nel frattempo le proteste per l’uccisione di Jîna Mahsa Amini (22 anni, deceduta per emorragia cerebrale a seguito delle torture subite) si estendevano all’intero paese.

In almeno una quindicina di città uomini e donne (la gran parte delle quali aveva gettato via il velo) sono scesi in strada. Non solo aTeheran, ma anche a Mashhad (nel nord-est), Tabriz (nord-ovest), Rasht (nord), Ispahan (centro) e Kish (sud). Bloccando la circolazione, incendiando i veicoli della polizia, lanciando pietre sulle forze di sicurezza e distruggendo i ritratti degli ayatollah (così come era accaduto a Saqqez, città natale della giovane curda). Oltre naturalmente a scandire slogan contro il regime. Sia quello diffuso tra le donne curde del Bakur e del Rojava: “Jin jiyan azadi“ (La Donna, la Vita, la Libertà), sia uno di nuovo conio:

“Kurdistan, Kurdistan: occhi e luce dell’Iran”.

Identificata dai media come Mahsa Amini, in realtà si chiamava Jîna (o anche Zhina) che significa “donna” (Jin) in curdo. Ma al momento di registrarla all’anagrafe, il funzionario del regime, come in tanti altri casi, si era rifiutato e aveva imposto la sostituzione del nome curdo con quello di Masha. Un evidente caso di colonialismo culturale che costringe milioni di curdi, espropriati del loro stesso nome, a portarne altri turchizzati (in Bakur), arabizzati o persianizzati (in Rojhilat).

Arrestata dalla polizia per un velo portato in maniera “scorretta”, o qualcosa del genere, mentre si trovava nell’auto del fratello da cui si era recata in visita, è morta all’ospedale di Kasra a Teheran, dove era giunta già in stato di morte cerebrale.

Mentre le autorità iraniane si giustificavano evocando improbabili “preesistenti problemi di salute” –  parlando prima di una presunta epilessia, poi di problemi cardiovascolari – dalle lastre e altri esami al cranio della giovane curda emergeva la conferma di quanto già si sospettava: Jina è morta a causa delle torture, delle percosse subite appena dopo l’arresto. In particolare quella che sembra una tomografia assiale computerizzata, ha evidenziato fratture ossee, un’emorragia e un edema cerebrale.
Una fonte ospedaliera ha parlato di “tessuto cerebrale schiacciato, danneggiato da numerosi colpi”. Inoltre i polmoni erano “pieni di sangue e non poteva più essere rianimata”. In alcune delle foto di lei sul letto dell’ospedale si vede chiaramente che le orecchie sanguinano, e ciò sarebbe un segno inequivocabile che il coma era la conseguenza di un trauma cranico.

Indignate manifestazioni di protesta si sono immediatamente svolte soprattutto nel Rojhilat dove scuole e negozi sono rimasti chiusi per lo sciopero generale.

Secondo il giornalista Ammar Goli (Erdelan) le forze di sicurezza del regime iraniano utilizzerebbero anche le ambulanze per reprimere i manifestanti, in violazione del diritto internazionale. Infatti «molte delle persone arrestate vengono portate nei centri di detenzione a bordo delle ambulanze in quanto le forze di sicurezza sanno che non verranno assalite dai manifestanti. E ovviamente molti manifestanti feriti si rifiutano di recarsi negli ospedali per paura di essere arrestati».

Dalla giornalista Behrouz Boochani un appello alla comunità internazionale per intendere la voce delle donne iraniane insorte contro la dittatura islamista: «Le donne dell’Iran sono fonte di ispirazione: stanno costruendo la Storia nelle strade ribellandosi alla dittatura. Non ignoratele; se siete femministe, siate la loro voce, amplificate il loro appello! Questa è una rivoluzione femminista storica».

 

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Sollevato il velo di Mahsa. La società iraniana sfida la “morale” repressiva https://ogzero.org/mahsa-amini-la-societa-iraniana-sfida-la-morale-repressiva/ Fri, 23 Sep 2022 23:57:45 +0000 https://ogzero.org/?p=8988 La sensibilità della vivace società iraniana è avvezza alla protesta di piazza senza paura della feroce repressione del sistema ispirato da una dottrina morale ormai scollata dal comune sentire. Abbiamo dato conto in altre occasioni al malcontento sfociato in rivolta: individualmente, quando donne ai semafori platealmente liberavano le chiome, sfidando le basi del paternalismo; oppure […]

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La sensibilità della vivace società iraniana è avvezza alla protesta di piazza senza paura della feroce repressione del sistema ispirato da una dottrina morale ormai scollata dal comune sentire. Abbiamo dato conto in altre occasioni al malcontento sfociato in rivolta: individualmente, quando donne ai semafori platealmente liberavano le chiome, sfidando le basi del paternalismo; oppure nei momenti in cui la siccità minava i precari equilibri della sopravvivenza nelle aree rurali; oppure quando l’autarchia imposta dalle sanzioni erodeva l’economia popolare. Questa volta però in piazza, in occasione della morte di Mahsa Amini, scendono uomini e donne per un’enormità intollerabile, che però mina le fondamenta del sistema… e questo sentire comune si va espandendo incontenibile in tutto il paese a difesa dei diritti delle donne. Dopo il rientro di Raisi dall’intervento all’Onu la repressione si è moltiplicata con il conteggio dei morti, ma sembra non riuscire ancora a soffocare le proteste che in una settimana sempre più hanno posto nel mirino i vertici di un sistema che si sta esprimendo con esagerati giri di vite conservatori che hanno esacerbato il rapporto con la società civile. E stavolta la rivolta è fuori controllo. Ne abbiamo parlato con Marina Forti – e potete trovare nel podcast inserito nel suo articolo la sua voce che approfondisce alcuni aspetti accennati nell’articolo, dove vengono illustrati tutti i singoli elementi che compongono questo snodo epocale – per collocare nella storia dell’Iran e nella comunità che attualmente abita il paese questa incontenibile indignazione che può fare paura al sistema che da 43 anni governa e impone la morale con una polizia anacronistica.
Si è poi aggiunto un nuovo contributo propostoci da Gianni Sartori sulle lotte che in questi giorni fanno scricchiolare il consenso degli ayatollah nelle strade iraniane.


La spontanea protesta contro morali anacronistiche

Una folla di giovani circonda un falò, in una piazza: gridano “azadi”, libertà. Una ragazza si avvicina volteggiando, si toglie dalla testa il foulard e lo agita prima di gettarlo tra le fiamme, poi si si riunisce alla folla danzando. Altre la seguono, altre sciarpe finiscono bruciate tra gli applausi. È una delle numerose scene di protesta venute dall’Iran negli ultimi giorni, catturate da miriadi di telefonini e circolate sui social media in tutto il mondo.

Sono proteste spontanee, proseguono da una settimana nonostante la repressione. E se è già avvenuto in anni recenti che proteste spontanee infiammino il paese, è la prima volta che questo avviene in nome della libertà delle donne.
Ad accendere le proteste infatti è la morte di una giovane donna, Mahsa Amini, 22 anni. Era stata fermata il 13 settembre a Tehran dalla “polizia morale”, quella incaricata di far rispettare le norme di abbigliamento islamico: a quanto pare portava pantaloni attillati e il foulard lasciava scoperti i capelli. Qualche ora dopo il fermo Mahsa era in coma; trasferita all’ospedale Kasra di Tehran, è morta il 16 settembre.

La sorte di questa giovane donna di Saqqez, nella provincia del Kurdistan iraniano, in visita a Tehran insieme al fratello, ha suscitato grande emozione: fin da quando è circolata la foto di lei incosciente sul lettino, con flebo e respiratore e segni di ematomi sul volto. Davanti all’ospedale si sono riunite molte persone in attesa di notizie, e l’annuncio della morte ha suscitato profonda indignazione. Al funerale, avvenuto il giorno dopo nella cittadina del Kurdistan dove vive la famiglia Amini, la tensione era palpabile; le foto circolate mostrano una famiglia distrutta dal dolore.

Le proteste sono cominciate all’indomani: le prime e più intense proprio in Kurdistan, poi a Tehran e altrove. Al 23 settembre c’era notizia di dimostrazioni in almeno 18 città, da Rasht sul mar Caspio a Isfahan e Shiraz; da Kermanshah a ovest a Mashhad a est, fino a Kerman nel sud.

Le sfide

Migliaia di brevi video caricati sui social media mostrano folle di donne e uomini, per lo più giovani ma non solo, che esprimono grande rabbia. Molti video mostrano ragazze che bruciano il foulard; una si taglia pubblicamente i capelli in segno di lutto e protesta (a Kerman, 20 settembre). A Mashhad, sede di un famoso mausoleo shiita e luogo di pellegrinaggio, una ragazza senza foulard arringa la folla dal tetto di un’automobile: le nipoti della rivoluzione si rivoltano contro i nonni, commenta chi ha messo in rete il video.

 


A morte il dittatore

Le forze di sicurezza reagiscono. Altre immagini mostrano agenti in motocicletta che salgono sul marciapiede per intimidire i cittadini mentre un agente in borghese manganella alcune donne. La polizia che spara lacrimogeni contro i manifestanti in una nota piazza di Tehran. Agenti con manganelli che inseguono dimostranti; un agente circondato da giovani infuriati che lo gettano a terra e prendono a calci (a Rasht, 20 settembre). Si sentono ragazze urlare “vergogna, vergogna” agli agenti dei Basij (la milizia civile inquadrata nelle Guardie della Rivoluzione spesso usata per reprimere le proteste).

Manifestazioni particolarmente numerose sono avvenute nelle università di Tehran, sia nel campus centrale che al Politecnico. All’Università Azad è stato udito lo slogan “Uccideremo chi ha ucciso nostra sorella”. Anche negli atenei di altre città si segnalano proteste. Ovunque si sente gridare “la nostra pazienza è finita”, “libertà”, e spesso anche “a morte il dittatore”: lo slogan urlato a suo tempo contro lo shah Reza Pahlavi. A Tehran si sentiva “giustizia, libertà, hejjab facoltativo”, e “Mahsa è il nostro simbolo”.

La vicenda di Mahsa Amini: riformare la polizia morale?

La sorte di Mahsa Amini ha suscitato reazioni anche oltre le proteste di piazza. Il giorno del suo funerale, la foto della giovane sorridente e gli interrogativi sulla sua morte erano sulle prime pagine di numerosi quotidiani in Iran, di ispirazione riformista e non solo. Dure critiche alla “polizia morale” sono venute da esponenti riformisti e perfino vicine alla maggioranza conservatrice al governo. La morte di una donna in custodia di polizia non è giustificabile con nessun codice, e ha messo in imbarazzo il governo, a pochi giorni dall’intervento del presidente Ebrahim Raisì all’Assemblea generale dell’Onu.

Così il presidente Raisi in persona ha telefonato al signor Amini, per esprimere il suo cordoglio: «Come fosse mia figlia», gli ha detto, promettendo una indagine per chiarire fatti e responsabilità.

In effetti il ministero dell’interno ha ordinato un’inchiesta; così la magistratura e pure il Majles (il parlamento). Il capo della polizia morale, colonnello Mirzai, è stato sospeso in attesa di accertare i fatti, si leggeva il 19 settembre sul quotidiano “Hamshari (“Il cittadino”, di proprietà della municipalità di Tehran e considerato vicino a correnti riformiste). Perfino l’ayatollah Ali Khamenei, Leader supremo della Repubblica islamica, ha mandato un suo stretto collaboratore dalla famiglia Amini per esprimere “il suo grande dolore”: secondo l’agenzia stampa Tasnim (affiliata alle Guardie della Rivoluzione), l’inviato del leader ha detto che «tutte le istituzioni prenderanno misure per difendere i diritti che sono stati violati».

Per il momento però la polizia si attiene alla sua prima versione: Mahsa Amini avrebbe avuto un infarto mentre si trovava nella sala del commissariato, una morte dovuta a condizioni pregresse. Ha anche distribuito un video in cui si vede la ragazza che discute con una poliziotta, nella sala del commissariato, poi si accascia su sé stessa. Ma il video è chiaramente manipolato.

 

Sentito al telefono giovedì 22 settembre dalla Bbc, il signor Amini ha smentito che sua figlia avesse problemi di cuore. «Sono tutte bugie», ha detto, i referti medici sono pieni di menzogne, non ha potuto vedere il corpo della figlia né i filmati integrali di quelle ore; si è sentito rispondere che le body-cam degli agenti erano fuori uso perché scariche.

Le giovani donne fermate con Mahsa Amini – o Jina, il nome curdo noto agli amici – hanno raccontato invece che la giovane è stata colpita da violente manganellate nel cellulare che le trasferiva nello speciale commissariato dove alle donne fermate per “abbigliamento improprio” viene di solito impartita una lezione sulla moralità dei costumi islamici. Chi è passato attraverso quell’esperienza parla di umiliazioni verbali e spesso fisiche. Questa volta è andata molto peggio.

Prima di ripartire da New York, a margine del suo intervento ufficiale (in cui non ha fatto parola delle proteste in corso), il presidente iraniano Raisì ha tenuto una conferenza stampa per esprimere cordoglio e confermare di aver ordinato una indagine sulla morte della giovane Mahsa Amini.

Le promesse di indagini, le telefonate e le visite altolocate alla famiglia Amini non hanno certo calmato le proteste. Né hanno impedito che fossero represse con violenza.

Il bilancio è pesante. In diverse occasioni la polizia ha usato proiettili di metallo ad altezza d’uomo, secondo notizie raccolte da Amnesty International. Al 24 settembre la polizia ammette 35 morti ma circolano stime molto più alte, forse più di cinquanta, tra cui alcuni poliziotti. Dirigenti di polizia e magistrati ora parlano di “provocatori esterni”, nemici infiltrati. Martedì il capo della polizia del Kurdistan, brigadiere-generale Ali Azadi, ha attribuito la morte di tre dimostranti a imprecisati “gruppi ostili” perché, ha detto all’agenzia di stampa Tasnim, le armi usate non sono quelle di ordinanza delle forze di sicurezza. A Kermanshah, il procuratore capo ha dichiarato che due manifestanti morti il 21 settembre sono stati uccisi da “controrivoluzionari”.

Il governatore della provincia di Tehran, Mohsen Mansouri, ha detto che secondo notizie di intelligence, circa 1800 tra i dimostranti visti nella capitale «hanno preso parte a disordini in passato» e molti hanno «pesanti precedenti giudiziari». In un post su Twitter se la prende con l’attivo intervento di «servizi di intelligence e ambasciate stranieri».

Elementi ostili, infiltrati, facinorosi: ogni volta che l’Iran ha visto proteste di massa, la narrativa ufficiale ha additato “nemici esterni”. Al sesto giorno di proteste, i media ufficiali hanno cominciato a usare il termine “disordini”. Da mercoledì 21 settembre il servizio internet è soggetto a interruzioni; i social media sono stati bloccati “per motivi di sicurezza”. Da giovedì 22 è bloccato Instagram, ultimo social media ancora disponibile, e così anche WhatsApp. Nelle strade ormai si respira tensione: provocazioni da un lato, rabbia dall’altro.

Tutto questo sembra preludere a un intervento d’ordine più violento per mettere fine davvero alla protesta, ora che il presidente Raisi non è più sotto i riflettori a New York.

Mahsa Amini: una insofferenza collettiva

“La protesta avvolta nel velo di morte di Mahsa Amini”.

Restano però i veli bruciati nelle strade: come un gesto di insofferenza collettiva verso una delle prescrizioni simboliche fondamentali della Repubblica Islamica.

L’insofferenza in effetti è profonda. Nei cortei si vedevano giovani donne in chador e altre con i semplici soprabiti e foulard ormai più comuni, accomunate dalla protesta. Molti ormai in Iran considerano assurde e datate le prescrizioni sull’abbigliamento femminile, e ancor di più la “polizia morale”. Assurde le proibizioni sulla musica, sui colori, sui comportamenti personali. Solo pochi oltranzisti considerano normale che lo stato si permetta di dire alle famiglie come devono coprire le proprie figlie. Alcuni autorevoli ayatollah ripetono da tempo che l’obbligo del velo è insostenibile e datato.

Hassan Rohani, pragmatico e fautore di aperture politiche ma pur sempre un clerico ed esponente della nomenklatura rivoluzionaria, quando era presidente ironizzava sulla polizia morale che «vuole mandare tutti per forza in paradiso».

Il fatto è che l’abbigliamento femminile, come del resto ogni ambito della vita pubblica e della cultura, sono un terreno di battaglia politica in Iran. E l’avvento dell’ultraconservatore Raisi ha segnato un giro di vite. È stato il suo governo a proclamare il 12 luglio “giorno del hejjab e della castità”. Il presidente si è detto addolorato dalla morte di Mahsa Amini: ma è stato proprio lui a firmare, il 15 agosto, un decreto per ripristinare le corrette norme di abbigliamento islamico e prescrivere punizioni severe per chi viola il codice, sia in pubblico che online (è diventato comune mettere sui social media proprie foto a testa scoperta, video di persone che ballano, in aperta sfida alle prescrizioni ufficiali).

Sarà costretto a fare qualche marcia indietro? Ora diverse voci tornano a chiedere di abolire la cosiddetta “polizia morale”, che dipende dal ministero della “cultura e della guida islamica”, noto come Ershad.

Tanto che il ministro della cultura Mohammad Mehdi Esmaili, sulla difensiva, ha dichiarato che stava considerando di riformare la polizia morale già prima della morte di Amini: «Siamo consapevoli di molte critiche e problemi», ha detto.

Il vertice della repubblica islamica però dovrebbe ormai sapere che nella società iraniana la rabbia e la frustrazione sono profonde. Ed è già successo che proteste nate da un preciso episodio poi si allargano. L’Iran sta attraversando una crisi economica che ha impoverito anche le classi medie. Ogni rincaro dei generi alimentari o della benzina colpisce gli strati più modesti della società, e quindi il sistema di consenso che regge da quattro decenni le basi della Repubblica islamica. Soprattutto, i giovani iraniani non vedono un futuro. Si sentono soffocare. La rabbia è pronta a esplodere a ogni occasione. Non che sia una minaccia immediata, per il vertice politico: sono proteste spontanee, non ci sono forze organizzate che possano abbattere il sistema. Ma lo scollamento sociale cresce. Un sistema che tiene alla sua sopravvivenza dovrà tenerne conto.

 

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Biden in Medio Oriente: le insidie che declinano la centralità Usa https://ogzero.org/biden-in-medio-oriente-le-insidie-che-declinano-la-centralita-usa/ Tue, 19 Jul 2022 14:48:13 +0000 https://ogzero.org/?p=8226 La disposizione delle pedine sulla scacchiera conduce a frenetiche consultazioni, vertici, summit, visite di rappresentanza e di scambi più o meno confessabili; la preparazione del confronto sull’egemonia o sulla oppositiva concezione tra multilateralismo e bipolarismo.  Inauguriamo con questa analisi di Eric Salerno sulle visite di Biden in Medio Oriente alcuni interventi estemporanei, di cui cercheremo […]

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La disposizione delle pedine sulla scacchiera conduce a frenetiche consultazioni, vertici, summit, visite di rappresentanza e di scambi più o meno confessabili; la preparazione del confronto sull’egemonia o sulla oppositiva concezione tra multilateralismo e bipolarismo. 
Inauguriamo con questa analisi di Eric Salerno sulle visite di Biden in Medio Oriente alcuni interventi estemporanei, di cui cercheremo di fare tesoro per arrivare a comprendere le strategie e gli schieramenti in alcune tappe. Cominciamo a proporre interventi o editoriali proprio oggi, quando si sta svolgendo l’incontro a Tehran tra i vecchi protagonisti degli incontri iniziati ad Astana con l’idea di comporre il conflitto siriano e poi proseguiti spartendosi ruoli e aree di influenza nel bacino mediterraneo, nella regione caucasica e nella penisola araba, come descritto da Antonella De Biasi in Astana e i 7 mari. Un percorso che passa anche attraverso il rifiuto del “paria” MbS alla richiesta di incrementare  la produzione al di là degli accordi Opec, che avrebbe segnato una precisa scelta di campo contro la Russia, con la quale i sauditi hanno sempre stabilito il prezzo del petrolio accordandosi sulla produzione.

Fin da subito in questo articolo viene evidenziato da Eric il punto principale: l’irreversibile declino degli Usa come unica potenza di riferimento, motivo del confronto globale che scuote il mondo.

Fin qui la presentazione di OGzero, la parola passa ora a Eric Salerno


Biden in Medio Oriente: «Ne valeva la pena?»

«Was it worth it?»

È la domanda che si pone il “Washington Post”, analizzando la visita del presidente Biden in Medio Oriente. Una domanda lecita da molti punti di vista, e non soltanto da chi guarda agli interessi Usa. La toccata – pugno contro pugno – tra il presidente americano e il principe della corona saudita Mohammed bin Salman – immagine scandalosa, per tanti, che ha fatto il giro del mondo – non è soltanto imbarazzante ma indicativo di un cambiamento profondo in corso nel mondo che sempre di più non considera gli Usa il punto di riferimento di ogni forma di sviluppo. E di gestione del futuro, sempre incerto, della Terra.

«Saudi Arabia can’t raise oil output more in the medium term»

È la risposta del “paria” Mbs.
Jamal Khashoggi, saudita critico del regime che governa il suo paese, era un collaboratore del quotidiano della capitale americana. I servizi segreti americani ritengono che la sua uccisione, avvenuta in Turchia, era stata autorizzata, o meglio commissionata da Mohammed bin Salman per eliminare uno dei personaggi più critici della monarchia. Biden aveva fatto della sua presunta-certa colpevolezza nella vicenda Khashoggi uno dei suoi cavalli di battaglia durante la campagna elettorale. Aveva giurato di osteggiare, punire Mbs (come è noto ormai a tutti, l’erede al trono dei Saud). Il pragmatismo, ci dicono i diplomatici, è un elemento fondamentale nelle scelte strategiche e in questo momento, con Russia e Cina e una parte considerevole del mondo su posizioni ben lontane da quelle Usa-Europa, il capo della Casa Bianca non aveva altra scelta per cercare di convincere i sauditi ad aumentare la produzione di petrolio (continuano a dire di no) e per cercare di riportarli sotto il controllo Usa mentre si fanno corteggiare con un certo successo da Pechino.
Con la guerra che infuria in Europa, le alleanze da guerra fredda che riaffiorano, l’economia mondiale in caduta libera,  e l’unica industria che tira come mai quella degli armamenti, c’è chi afferma che Biden non aveva altra scelta. E che comunque, tutto sommato, Bin Salman non è il primo tiranno-assassino con cui gli Usa o l’Europa fanno affari.

Visita elettorale a Tel Aviv

Se quel ragionamento tattico-strategico in Arabia Saudita può essere condiviso, diversamente non ci sono giustificazioni per il comportamento di Biden in Israele, la tappa precedente della sua visita regionale, se non quella di non turbare difficili equilibri interni americani a pochi mesi dalle elezioni parlamentari di mezzo termine. Le azioni del presidente sono in caduta libera e il leader democratico non può – e non vuole – rischiare di perdere il voto di chi sostiene da sempre e in maniera totalmente acritica lo stato d’Israele. Biden arrivando a Tel Aviv ha ripetuto il suo storico sostegno alla soluzione “due stati per due popoli” per poi mettere le mani avanti con un «ma i tempi non sono maturi per la ripresa dei negoziati».  Si è poi vantato di aver stanziato un miliardo di dollari per aiutare ad affrontare la fame in alcune parti del Medio Oriente e del Nordafrica. Soldi promessi, ricorda il quotidiano Usa, anche ai palestinesi per i quali il perpetuarsi dello status quo rafforza l’occupazione israeliana delle loro terre, ossia della Cisgiordania e della parte orientale di Gerusalemme.

«The only way to stop them is to put a credible military threat on the table»

È la pretesa di Yair Lapid rivolta a Biden dopo avergli chiesto soldi per l’Iron Beam, il sistema missilistico di difesa antiraniano.

Ci sono state, dopo questa visita di Biden, poche analisi e commenti. Si è accennato al contenzioso con l’Iran con cui continuano i negoziati per cercare di mettere insieme un altro accordo Jcpoa sul nucleare mentre Israele ribadisce che agirà militarmente (oltre agli attentati e assassini mirati di scienziati e militari di Tehran) se lo dovesse ritenere necessario per restare l’unico paese armato di ordigni nucleari in tutta la regi0ne. E qui, da osservatore impegnato da troppi anni a seguire il conflitto israelo-palestinese, appare doveroso chiedersi: «Ma è mai possibile che gli Usa e l’Europa non abbiano capito che Israele – governanti, politici, opinione pubblica – concorda e si è fissata su una valutazione assurda: “Uno stato palestinese indipendente sarebbe un pericolo esistenziale per lo ‘stato ebraico’”».

Armi di distruzione di etnie: curdi palestinesi saharawi

Israele è all’avanguardia nelle tecnologie militari del futuro; vende know-how a tutti (quasi); potrebbe “appiattire” una Palestina indipendente se fosse ostile in pochi minuti con gli stessi strumenti che minaccia di usare per distruggere il Libano se dalla frontiera settentrionale Hezbollah o altri alleati di Tehran dovessero attaccare. E allora? Forse è venuto il momento di capire che, salvo stravolgimenti difficili da prevedere oggi, della sofferenza dei palestinesi – tra Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est, campi profughi in Siria e Libano e Giordania, e una diaspora mondiale – si sentirà parlare a lungo, così come si parla del popolo curdo, se vogliamo restare nella stessa regione.

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n. 19 – L’Afghanistan e i corridoi umanitari fantasma https://ogzero.org/corridoi-umanitari-dall-afghanistan-abbandono-e-false-promesse/ Sat, 28 May 2022 20:34:17 +0000 https://ogzero.org/?p=7731 Procede il lavoro accurato di Fabiana di ricostruzione dei “percorsi migranti” e delle loro cause in un’ottica giurisprudenziale, che evidenzia sempre più le contraddizioni razziste e colonialiste dell’Occidente persino in quell’ambito che dovrebbe distinguerlo dalla barbarie autocratica, dimostrando quanto tutto sia infingimento e gioco delle parti. Questa volta Fabiana si occupa dei corridoi umanitari per […]

L'articolo n. 19 – L’Afghanistan e i corridoi umanitari fantasma proviene da OGzero.

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Procede il lavoro accurato di Fabiana di ricostruzione dei “percorsi migranti” e delle loro cause in un’ottica giurisprudenziale, che evidenzia sempre più le contraddizioni razziste e colonialiste dell’Occidente persino in quell’ambito che dovrebbe distinguerlo dalla barbarie autocratica, dimostrando quanto tutto sia infingimento e gioco delle parti.

Questa volta Fabiana si occupa dei corridoi umanitari per gli afgani tanto sbandierati quando già in agosto ci occupavamo della terrificante situazione afgana poi scomparsa dai radar geopolitici e creatasi in seguito all’assurdo accordo tra Trump e i Talebani – messo in atto da Biden. Un abbandono repentino che ha causato le attuali condizioni in cui versano le persone rimaste intrappolate nel regime talebano, una responsabilità ormai sancita anche dall’ispettorato per l’Afghanistan istituito dal Congresso. Il capo del Sigar, Sopko ha scritto: «La limitazione dei raid aerei (contro le forze avversarie) dopo la firma dell’accordo Usa-Talebani, ha lasciato l’Andsf senza un vantaggio chiave. Molti afgani – ha aggiunto – pensavano che l’accordo Usa-Talebani fosse un atto di malafede e un segnale che gli Stati Uniti stavano consegnando l’Afghanistan al nemico e che si precipitavano a lasciare il paese».
Anche molti afgani hanno lasciato il paese o vorrebbero farlo, ma si trovano di fronte a un nuovo abbandono con false promesse di corridoi umanitari; Fabiana incrocia nuovamente il loro percorso, già altre volte descritto – per esempio sulla rotta balcanica o al confine bielorusso.


Quando nell’agosto del 2021 i talebani hanno preso possesso della città di Kabul, assicurandosi il controllo della totalità del territorio afghano, l’opinione pubblica internazionale e i governi dei paesi Nato – prima tra tutti l’amministrazione americana guidata da Joe Biden – sono rimasti attoniti dinanzi a una tale rapidità dell’ascesa al potere da parte del gruppo estremista islamico. A ciò è seguito oltretutto un improvviso cambiamento dello scenario politico, militare e sociale: l’esercito afgano è stato costretto ad arrendersi, si è resa necessaria l’evacuazione immediata – oltre che dei cittadini afghani – degli esponenti dei membri del precedente esecutivo guidato da Ashraf Ghani e dei cittadini stranieri presenti in Afghanistan a qualsiasi titolo in quel momento, mentre le forze internazionali militari – stanziate nel territorio da oltre venti anni – convergevano verso una repentina ritirata. Una disfatta totale per l’intero versante occidentale dell’emisfero che tuttavia non si è determinata certamente nell’arco di dieci giorni ma più precisamente nel corso di diciotto mesi, ossia dalla stipula del famigerato accordo di Doha – siglato nel febbraio del 2020 – che ha visto sedere al tavolo dei negoziati, accanto all’amministrazione Trump, i “rappresentanti diplomatici” dei talebani, primo tra tutti Abdul Ghani Baradar che Islamabad per anni si è rifiutata di consegnare agli Stati Uniti.

Nel corso dei negoziati gli Stati Uniti – accecati dalla volontà di riconquistare consensi da parte dell’opinione pubblica interna americana e di occuparsi principalmente di limitare l’espansionismo di Cina e Russia – si sono accontentati di vaghe promesse da parte talebana, acconsentendo anche alla liberazione di molti prigionieri appartenenti al gruppo. Inoltre, accanto a una rinnovata veste diplomatica del movimento dei taliban (c.d. corrente degli studenti pashtun) al tavolo internazionale, si è affiancata – nei mesi immediatamente precedenti la proclamazione del nuovo Emirato islamico – da parte del gruppo estremista un’opera di persuasione e di captazione dei consensi di alcuni dei più rilevanti esponenti delle comunità locali afgane – situate soprattutto nel Nord e nell’Ovest del paese – di alcuni miliziani, nonché di dissidenti dell’esercito nazionale che ha accelerato la conquista del territorio. I paesi Nato che avevano seguito immediatamente gli Usa venti anni prima nella “guerra al terrorismo” – senza che per essa fosse stato previsto alcun exit plan – ad agosto del 2021 hanno scelto non solo dunque di chinare il capo e concludere il proprio impegno militare, ma anche di voltare le spalle ai civili lì intrappolati e che a oggi – a parte un primo piano di evacuazione – sono stati lasciati completamente a loro stessi. C’è da dire che vista l’attuale regressione del paese in meno di un anno dal punto di vista del rispetto dei diritti fondamentali nei confronti della popolazione civile (oltre che da quello economico-finanziario) avvenuta con la proclamazione dell’Emirato islamico, facili appaiono le conclusioni in merito all’effettiva utilità del conflitto, considerate la totale incapacità della creazione, da parte delle forze occidentali, di un effettivo sistema di state building come risultato, il numero ingente dei costi che questo ha comportato, nonché il numero di vite perse. Pertanto l’effettiva accoglienza dei profughi afgani sarebbe oggi l’unico passo di civiltà che potrebbe consentire a tutti gli stati che hanno partecipato al conflitto di acquisire una qualche credibilità rispetto all’opinione pubblica di un popolo che già in passato ha mostrato sconcerto e rabbia a causa dell’abbandono da parte del mondo occidentalenello specifico da parte degli Stati Uniti che misero in atto dinamiche limitate alla sola militarizzazione e all’addestramento della popolazione civile e con la medesima preoccupazione di oggi ossia il contenimento della Russia – l’allora Unione Sovietica – alla quale ora però, come detto, si affianca nell’alveo dei timori egemonici statunitensi, la Cina.

Per quanto riguarda l’Italia l’idea dell’accoglienza immediata dei profughi afgani è stata prontamente sollevata dalle associazioni comprese quelle religiose del terzo settore e dalle organizzazioni internazionali con la richiesta dell’attivazione dei cosiddetti corridoi umanitari.

È un’espressione questa che nell’ultimo periodo con la “crisi afgana” si è quasi svuotata del suo significato: un classico di quando si ripete all’infinito lo stesso insieme di parole senza specificarne però il significato in concreto. I corridoi umanitari vengono infatti menzionati attraverso i consueti canali mediatici ogni qual volta si verificano flussi migratori rilevanti ma spesso senza che vengano approfonditi e analizzati gli aspetti strutturali di tale “rimedio” e senza chiedersi se questi possano costituire soluzioni effettivamente attuabili nel lungo periodo per affrontare in modo sistemico il “problema” della mobilità umana. Si cerca pertanto in questa sede di dare, preliminarmente all’analisi del fallimento del loro impiego rispetto ai profughi afgani almeno fino a oggi, alcune nozioni fondamentali dell’istituto in oggetto.

Va in primo luogo specificato che i corridoi umanitari non sono previsti da alcuna legge, né dal nostro ordinamento giuridico, né da quello dell’Unione europea, né tanto meno dall’insieme di norme che costituiscono il diritto internazionale.

I corridoi umanitari infatti altro non sono che progetti che consentono – mediante l’intervento delle associazioni del terzo settore e delle organizzazioni internazionalia determinate categorie di individui, in condizioni di vulnerabilità e presenti in paesi diversi da quello di origine, di giungere nel territorio dell’Unione – in questo caso l’Italia – attraverso vie legali e sicure come i voli di linea, evitando i cosiddetti “viaggi della morte” per poter poi presentare domanda di protezione internazionale. L’Italia ha fatto da apripista nella conduzione di tali iniziative mediante l’attività di impulso – iniziata nel 2015 – dalla Comunità di Sant’Egidio in collaborazione con la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e la Tavola Valdese.

Monaco di Baviera, 2015, rifugiati da Siria, Afghanistan e Balcani.

I primi profughi arrivati nel nostro paese attraverso tale prassi sono stati prevalentemente nuclei familiari di cittadini siriani provenienti dal Libano, nel 2016. Dal 2015 a oggi i progetti sono stati tuttavia rinnovati più volte e sono aumentate anche le associazioni e le organizzazioni che hanno aderito a tali iniziative come Caritas Italiana, e altre non aventi carattere ecumenico come l’Arci. Si è implementato altresì il novero dei paesi di transito che hanno consentito la partenza attraverso tali vie legali e sicure (Etiopia e Grecia – in particolare dall’isola di Lesbo – Giordania, Turchia, Kenya) per cui dal 2016 sono arrivati mediante i corridoi umanitari circa 3000 profughi. Anche se apparentemente questo può sembrare un numero esiguo – considerando i milioni di profughi attualmente presenti nel mondo che fuggono da conflitti armati o da situazioni di violenza generalizzata – se si considerano gli aspetti peculiari di tali progetti, il risultato è sicuramente rilevante e apprezzabile tanto da essere definiti dal parlamento europeo una “best practice” italiana da replicare in tutti gli altri paesi dell’Unione. Oltretutto il fatto che siano stati portati avanti dei progetti di tale tipo, in assenza di un impianto giuridico che li regolamenti, ha del sorprendente e lo ha ancor di più se si pensa che

non solo l’attività di impulso, ma anche la gestione di tutti i costi dei corridoi umanitari sono a carico esclusivamente delle associazioni proponenti e delle realtà ecumeniche senza che per lo stato italiano vi sia alcun costo diretto.

Tuttavia, se l’iniziativa e la gestione dei corridoi umanitari dipende da tali soggetti giuridici è pur vero che questi progetti per poter essere attuati necessitano dell’approvazione da parte del Ministero degli Esteri e degli Interni. Proprio però la concertazione in sede di attuazione con i due ministeri talvolta ha costituito un “intoppo” alla loro effettiva realizzazione, come nel caso dei corridoi umanitari – ancora mai partiti – a favore dei cittadini afgani in seguito alla proclamazione dell’Emirato islamico da parte dei talebani. Altro aspetto che occorre sottolineare è, come annunciato in precedenza, il fatto che tali corridoi siano attivabili soltanto per specifiche categorie di soggetti che fuggono da conflitti armati, da situazioni di violenza generalizzata o di violazione prolungata dei diritti umani e da persecuzioni, in comprovate condizioni di vulnerabilità per le quali si fa riferimento prevalentemente al Capo IV, art. 21 della Direttiva 2013/33/UE che individua tra i soggetti vulnerabili i minori stranieri – accompagnati o meno – i disabili, gli anziani, le donne in stato di gravidanza, le vittime di tratta, di stupri e torture e le persone affette da malattie o da gravi disturbi mentali.

Il meccanismo per l’attivazione dei corridoi umanitari si struttura in tale modo: chiese, associazioni, ong e organizzazioni internazionali, attraverso contatti diretti in loco – ossia nei paesi di transito in cui si trovano i profughi – predispongono liste dei potenziali beneficiari, trasmesse alle autorità consolari italiane dei paesi interessati per consentire i dovuti controlli da parte del Ministero degli Interni. Solo a questo punto i consolati dei paesi europei – come quello italiano – rilasciano visti con validità territoriale limitata a quegli stati membri dell’Unione nelle quali normalmente hanno sede le associazioni che hanno predisposto le liste.

Va infatti sottolineato che l’unico vero appiglio normativo ai quali i corridoi umanitari si ancorano è l’art. 25 al Capo IV del Codice comunitario dei visti (Regolamento CE N. 810/2009) che al punto 1 lett. a) prevede che uno stato membro possa eccezionalmente rilasciare un visto di ingresso a un cittadino di un paese terzo se lo ritiene necessario per motivi umanitari, di interesse nazionale o derivante da obblighi internazionali.

Occorre tuttavia rilevare che – nonostante la legittima applicabilità del riferimento normativo di cui sopra alla prassi dei corridoi umanitari – tutti i progetti attivati dal 2015 a oggi hanno visto l’ingresso dei profughi prevalentemente con visti per turismo! Una volta giunti in Italia i profughi vengono accolti nelle strutture dei soggetti promotori dei corridoi umanitari, prevalentemente secondo il modello dell’accoglienza diffusa e facilitano il processo di integrazione dei profughi nel territorio attraverso l’assistenza legale – per la presentazione delle domande di protezione internazionale – l’apprendimento della lingua italiana e la scolarizzazione per i minorenni. È il caso a questo punto di specificare la differenza tra corridoi umanitari e reinsediamenti – i cosiddetti resettlementmenzionati spesso dai media e più volte citati negli articoli riguardanti le attuali rotte migratorie – in particolare rispetto alla rotta del Mediterraneo centrale – con riferimento a quelli attuati in Niger, con il supporto dell’Unhcr. I due istituti spesso infatti vengono confusi tra loro – nonostante abbiano aspetti differenti – a ragione del carattere di emergenzialità che contraddistingue entrambi, motivo per cui non possono rappresentare strumenti idonei per affrontare la questione migratoria in modo strutturato.

I resettlement consistono in programmi che prevedono il trasferimento di individui fuggiti dal proprio paese d’origine – già riconosciuti rifugiati dall’Unhcr – per i quali nel paese di primo arrivo non vi è possibilità di integrazione e la protezione accordata loro potrebbe essere a rischio (per esempio perché il paese di primo arrivo non ha ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951).

Per tale ragione si chiede il reinsediamento del rifugiato in un paese terzo – chiaramente diverso da quello di primo arrivo – nel quale al rifugiato potrà invece essere assicurata una protezione effettiva e permanente. Va precisato che i programmi di reinsediamento – per i quali gli afgani sono ai primi posti tra i soggetti potenzialmente beneficiari – hanno come presupposto fondamentale la volontà del paese terzo – nel quale i rifugiati si dovranno stabilire definitivamente – di aderire al trasferimento dei medesimi nel proprio territorio e di “selezionarli” basandosi o sui dossier dell’Unhcr, o su un’intervista individuale o ancora su entrambi i metodi, al momento l’opzione maggiormente impiegata.

In questa analisi – mediante la quale comunque si coglie l’occasione per ribadire una sentita preoccupazione per i cittadini e le cittadine afgane rimasti intrappolati in Afghanistan e per quanti sono tutt’ora bloccati e respinti lungo la rotta balcanica – già prima dell’agosto del 2021 – occorre soffermarsi sulle ragioni del fallimento dell’impiego dei corridoi umanitari rispetto ai profughi afgani bloccati al momento in Iran e in Pakistan ancora in attesa che vengano attivati i progetti.

Già, perché dopo ripetuti appelli al Ministero degli Esteri da parte delle organizzazioni della società civile, prima fra tutte Asgi, il 4 novembre del 2021 Sant’Egidio, Arci, Caritas Italiana, Fcei, Oim e Unhcr hanno firmato un protocollo di intesa con il Ministero degli Interni e degli Esteri per l’attivazione di corridoi umanitari destinati a 1200 beneficiari afgani, ma a oggi questo non è stato ancora attuato nonostante le associazioni proponenti continuino a ribadire di essere pronte per l’accoglienza e disposte a pagare ogni costo del progetto, compresi quelli aggiuntivi legati ai voli di linea richiesti dai due ministeri nell’addendum al protocollo.

Ciò che a ogni modo risulta ancora più assurdo è la ragione per la quale, a detta dei ministeri, il protocollo non sarebbe partito: ossia la mancanza nei due consolati italiani – rispettivamente in Iran e in Pakistan – della macchinetta rodata per le impronte digitali che serve al ministero degli Interni per fare i controlli sull’identità dei profughi per ragioni di sicurezza.

Tuttavia, la maggior parte dei profughi inseriti nelle liste sono già dotati di passaporto internazionale che dovrebbe essere sufficiente alla loro identificazione in quanto viene rilasciato mediante rilevazione dei dati biometrici. Non solo, le associazioni di cui sopra si sono proposte di acquistare loro stesse le macchinette per le impronte nonostante ciascuna abbia un costo di circa 10.000 euro. Si rifletta quanto sia paradossale che degli individui rischino la propria vita per ragioni di questa natura: buona parte dei profughi in attesa dei visti per fare ingresso in Italia infatti hanno dei visti in scadenza o scaduti in Iran e in Pakistan – nell’attesa delle macchinette per le impronte. Al riguardo va sottolineato che nei suddetti paesi è previsto che se non si è regolari sul territorio – come appunto nell’ipotesi di visto scaduto – non si può beneficiare di un exit permit per recarsi in un altro stato, in questo caso l’Italia, e si deve disporre il rimpatrio immediato dei migranti nel paese d’origine, in questo caso l’Afghanistan!! E va precisato altresì che la questione produrrà dei danni gravi, se non verrà risolta rapidamente, in quanto in questi paesi il secondo rinnovo del visto non è garantito e dopo il terzo non si ha la possibilità di concederne un altro quindi il rimpatrio nel paese d’origine è quasi automatico. Sempre con specifico riferimento ai corridoi umanitari per i cittadini afgani, è opportuno inoltre fare riferimento alla pronuncia del Tribunale di Roma intervenuta il 21 dicembre del 2021 nei confronti di due giornalisti afgani che fuggiti dal paese in mano ai talebani hanno presentato ricorso d’urgenza ex art. 700 del codice di procedura civile, reso necessario a causa della mancata risposta del ministero degli Esteri rispetto a una segnalazione a questo inviata, nella quale era stato evidenziato il pericolo al quale erano esposti i due giornalisti.

Il Tribunale di Roma si è pronunciato affermando che «nel caso di specie ricorrono condizioni idonee al rilascio del visto per motivi umanitari, specificando che se per l’autorità statale questo è una mera facoltà, per il giudice dei diritti fondamentali è un’attività doverosa poiché il nostro ordinamento attribuisce al giudice il compito di adottare i provvedimenti d’urgenza necessari».

Tuttavia, ciò non è stato sufficiente per il ministero degli Esteri che ha presentato reclamo sostenendo che i due giornalisti debbano beneficiare dei corridoi umanitari e non della concessione di un visto ai sensi dell’art 25 del Codice comunitario dei visti: peccato che i corridoi umanitari – almeno in via di principio – si basino, come detto, proprio sull’art. 25!! La contestazione appare dunque evidentemente contraddittoria e pretestuosa.

Mentre si perde tempo prezioso tra macchinette delle impronte e reclami in Tribunale, in Afghanistan la situazione è drammatica: metà della popolazione soffre a causa della siccità e i minori oltre a non avere più accesso all’istruzione – come d’altronde le donne, costrette definitivamente al burqa in pubblico – sono in gran parte in una condizione di malnutrizione mentre le sanzioni internazionali e il congelamento dei fondi della Banca Centrale peggiorano la situazione economica generale nella quale il prezzo dei beni essenziali è salito in maniera vertiginosa.

Prima di addentrarci quindi nel successivo articolo in merito alla vicenda dello scorso novembre riguardo al mancato accesso al diritto d’asilo per migliaia di profughi – tra cui gli stessi afgani – al confine polacco-bielorusso e delle modifiche apportate ad hoc nelle legislazioni nazionali in materia di immigrazione da parte di Polonia, Lituania e Lettonia – in contrasto con il diritto europeo e internazionale – è necessario trarre conclusioni importanti circa i rimedi emergenziali finora analizzati, ossia i corridoi umanitari.

Tuttavia, si segnalano caratteri di precarietà anche rispetto ai reinsediamenti, alle evacuazioni e da ultimo alla protezione temporanea, riconosciuta applicabile dal Consiglio europeo ai cittadini ucraini ma non a quelli afgani e che analizzeremo nell’articolo giuridico dedicato alla crisi migratoria Ucraina.

I corridoi umanitari infatti pur essendo un lodevole e importante rimedio per l’accesso in modo sicuro al territorio dell’Unione, in particolare a quello italiano – replicati con numeri inferiori da altri paesi europei come Germania e Francia – sono pur sempre uno strumento che non può fronteggiare, anche se implementato, la gestione dei flussi migratori che invece richiede decisioni politiche più coraggiose o più semplicemente che non siano volte a ostacolare l’applicazione del diritto europeo e internazionale vigente, come avvenuto negli ultimi anni con la proposta della Commissione del nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo del settembre del 2020 e con quella di modifica del Codice Frontiere Schengen del dicembre del 2021.

I corridoi umanitari infatti hanno alcuni elementi di criticità che non permettono un pieno rispetto del diritto alla mobilità dei migranti.

In primo luogo, è molto forte il carattere discrezionale dell’istituto in quanto la lista dei migranti potenzialmente beneficiari dei corridoi viene predisposta sulla base di una scelta del tutto imponderabile delle associazioni promotrici; inoltre, poiché il procedimento non è disciplinato da alcuna disposizione di legge, non è totalmente trasparente in tutte le sue fasi per i migranti anche nell’ipotesi in cui venissero riconosciuti beneficiari del progetto; infine, nell’ipotesi di esclusione, non è previsto alcun tipo di rimedio giurisdizionale con il quale il migrante possa impugnare la decisione di esclusione dalla lista predisposta dalle associazioni. Anche se quindi l’impegno negli ultimi anni dell’associazionismo ecumenico e laico in ambito migratorio ha un’importanza straordinaria, esso non può sostituirsi alla politica che è e rimane l’unica vera responsabile sia a livello nazionale che internazionale, non solo per le prassi negative e le leggi poste in essere in spregio ai basilari diritti dei migranti, ma anche per quello che non ha avuto il coraggio di fare o di smettere di fare, come con gli accordi Italia-Libia che non sono stati fermati in cinque anni da nessun partito al governo in Italia. A questo punto quindi finché la politica agirà o non agirà in questo modo è doveroso, non solo per rispetto dei cittadini afgani ma per tutti gli individui che fuggono da conflitti, come quello in Yemen o in Corno d’Africa, che la società civile continui a dare visibilità e a denunciare quello che da anni si vuole nascondere inutilmente.

L'articolo n. 19 – L’Afghanistan e i corridoi umanitari fantasma proviene da OGzero.

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Il “nuovo” ordine mondiale e il gioco delle parti da Astana a Kyiv https://ogzero.org/il-gioco-delle-parti-e-il-nuovo-ordine-mondiale/ Sun, 27 Mar 2022 21:52:07 +0000 https://ogzero.org/?p=6901 Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 […]

L'articolo Il “nuovo” ordine mondiale e il gioco delle parti da Astana a Kyiv proviene da OGzero.

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Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 spunti offerti da Eric Salerno e Sabrina Moles, che ci hanno rievocato le intuizioni messe in gioco in Astana e i 7 mari di Antonella De Biasi. Così “OGzero” nel momento dell’annuncio di un tavolo di pace imbandito a Istanbul comincia a credere che lo spirito di Astana non è sfumato del tutto e su questo dubbio ha cercato di ricostruire i cocci prodotti dall’esplosione del multilateralismo nei rapporti tra stati, dallo scardinamento di alleanze esili, dalla individuazione del momento in cui il Cremlino ha pensato che fosse più opportuno far saltare gli equilibri. Un istante che Antonella nel suo scritto, steso a ottobre, preconizzava individuando nella ignominiosa ritirata americana dall’Afghanistan il segnale della debolezza per cui era possibile azzardare il morso del serpente.

Salvo poi accorgerci che ciascuno ha tratto vantaggio o imponendo spese militari, o annettendosi nuovi territori rivieraschi, o soffiando su un nazionalismo sovranista, cancellando piani ecologisti e ridistribuendo energia con un maggior profitto per i produttori. Distribuito sciovinismo e testosterone in tutti i paesi del primo mondo.

Perciò a partire dalla chiosa del libro, proviamo con questo editoriale a mettere in fila gli eventi di queste ultime 5 settimane sulla scorta di quello che il volume di Antonella De Biasi aveva già individuati come potenziali snodi critici; andremo a trovare nel libro verifiche delle analisi prodotte a posteriori dagli equilibri scaturiti dalla “spezial operazy” di Putin, così da inserirla nell’annoso flusso geopolitico senza gli isterismi cavalcati dal profitto guerrafondaio. Infatti il volume si chiude con una frase emblematica: «Il gioco di Astana, seppur precario, in fondo è anche un gioco delle parti» e le dichiarazioni e le mosse diplomatiche di fine marzo seguono il canovaccio.


Il conflitto in corso è figlio della interpretazione data da una nazione come la Russia al periodo governato da una sorta di multilateralismo: se ne riconoscono i metodi inseguendo i gangli della dottrina Gerasimov (mai realmente scritta o teorizzata, ma resa evidente dalla prassi bellica russa), il cui scopo principale era quello di spezzare l’unilateralismo derivato dalla fine della Prima guerra fredda, in particolare: la soluzione cecena, da cui deriva la carriera del generale; Georgia e Crimea, rimaste senza risposta da parte delle altre potenze… ancora più palese l’uso strumentale del Donbass oggi, come 8 anni fa a suffragio della considerazione dei territori a est del Dnepr come giardino di casa.

Nel caso del conflitto in Nagorno-Karabakh gli armeni hanno pensato erroneamente che Mosca li avrebbe difesi “contro una minaccia turca e musulmana”, come sostiene il professore francese esperto di islam Olivier Roy. Così non è stato perché in fondo l’immagine di una Russia cristiana, ultimo argine all’islam di cui l’Armenia si sente avamposto, serve solo a intermittenza e sempre più raramente come topic/pedina intercambiabile per la personale partita a scacchi di Putin, per ristabilire la grandezza della Russia agli occhi degli occidentali e dei paesi rappresentati dalle economie emergenti. Alcune reazioni caute e sottotono lasciano pensare che Putin non solo fosse al corrente dell’offensiva azera ma che ne abbia addirittura discusso i limiti con il regime di Aliyev così da riprendere solo i territori che, secondo il diritto internazionale, sono azeri. L’estrema destra occidentale ha sempre visto la Russia di Putin, costruita a sua immagine e somiglianza negli ultimi vent’anni, come il baluardo dei valori cristiani minacciati dall’islam. Il Cremlino sfrutta quando servono queste simpatie da sempliciotti. L’obiettivo di Putin è riprendersi e controllare his back-yard.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 49)

Ma anche e soprattutto andava preso nella giusta considerazione l’interventismo in Siria. E in Libia: non si dimentichi il voto del 3 marzo all’Onu che ha visto la metà di paesi africani compromessi per armi, sicurezza e traffici con la Russia compattamente astenuti, in particolare allarmanti le astensioni dei paesi maghrebini fornitori di gas e con interessi – anche militari – intrecciati con il Sud dell’Europa; tutto questo dinamismo del Volga sullo scacchiere internazionale è un prodotto degli accordi di Astana, che è l’altro snodo diplomatico-pragmatico attraverso cui passa la strategia russa di questo periodo e che ha finora imposto i dossier al mondo.

Ma la preparazione alla guerra classica, dotandosi di armi sofisticate, da parte dell’Ucraina attraverso gli stessi meccanismi di alleanze e accordi ibridi con ciascuna potenza locale (e talvolta globale, ma cambiando ogni volta campo contrapposto) ha scombinato il disegno di Shoigu, Gerasimov e Putin. Questa si può considerare una conseguenza del fatto che la Nato si è risvegliata dal coma (indotto da Trump, sodale della deriva reazionaria putiniana mondiale) di cui parlava Macron, ma lo ha fatto predisponendosi a rispondere alla guerra che Bruxelles (e soprattutto Arlington e Langley) sapeva sarebbe stata scatenata: in che modo si preparava? armando gli ucraini con ogni ordigno convenzionale o meno, sia attraverso le armi in dotazione agli alleati europei (baltici in primis), sia con i droni turchi, che con alcune armi di fabbricazione israeliana – ma non tutte, come vedremo – e producendo una propaganda nazionalista identitaria per sollevare lo spirito bellico dell’Europa. Addirittura gli S-400 che furono motivo di sanzioni americane contro la Turchia potrebbero diventare paradossalmente strumenti di difesa per gli ucraini se Ankara si farà convincere a passarle a Zelensky, o le porrà sulla bilancia della trattativa: la tecnologia di cui sono dotate sicuramente è efficace contro le macchine belliche del cui impianto sono parte.

L’amministrazione Biden è ben consapevole che deve tenere la Turchia dentro l’asse Nato per impedire che passi nell’orbita russo-cinese. Così Erdoğan userà questo punto per ottenere vantaggi almeno nelle relazioni bilaterali. La questione critica più importante per gli Usa è il sistema missilistico S-400 che Erdoğan ha acquistato da Putin, non compatibile con quello Nato

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 84).

Si può dunque parlare di una proxy war combattuta in territorio europeo e con obiettivi gli interessi europei, che vede gli Usa defilati e non interventisti, ma guerrafondai e impegnati a far esporre l’UE, tagliando così tutti i ponti (e gli oleodotti) euro-russi che in particolare la Germania merkeliana (e di Schroeder) avevano costruito: doppio risultato per gli americani che vendono all’altra sponda atlantica il loro gas poco ambientalista, piazzando (o affittando a caro prezzo) anche le navi che trasportano i rigasificatori.

Ora che gli altri protagonisti in commedia hanno appreso come prendere le misure al sistema bellico ordito da Mosca dalla Cecenia in avanti, accettando una vera e propria guerra con migliaia di morti e smaltimento di magazzini di armi novecentesche; ora che si è dimostrata la marginalità della UE e la sua riduzione a mera potenza locale succube della Nato, mentre la Russia – pur non sfondando e rimettendoci in immagine guerresca e di efficienza militare, piangendo molti più morti e dissanguandosi in spese  – si prende tutte le coste del Mar Nero settentrionale e del mar d’Azov; ora rimane in piedi il modello di rapporti e accordi spartitori; scambi e traffici multilaterali che han funzionato per spartirsi territori di confine, operazioni militari e aree di riferimento tra potenze locali: quel sistema di accordi, che Antonella De Biasi ha correttamente descritto nel suo testo dedicato agli Accordi di Astana, e dove si possono rintracciare in nuce le dinamiche e gli equilibri che ora dopo la guerra spiccano nella narrazione della resistenza ucraina, trova una riproposizione nella fornitura di armi e nelle candidature alla composizione del conflitto da parte di potenze “locali”. Insomma: gli Accordi di Astana vedono trasformati gradualmente i ruoli dei singoli attori e la chiave che ne promana vede protagonisti Turchia (che ospita sia gli yacht degli oligarchi – magari sfuggiti al Novichok dell’Fsb –, sia le denunce dei dissidenti) e Israele (che accoglie ebrei russi e ebrei ucraini), nella totale assenza di strategia Usa/EU.

In fondo la prospettiva di incontri bilaterali russo-ucraini riferita da David Arakhamia, leader parlamentare ucraino e partecipante ai negoziati, previsti per il 28-30 marzo a Istanbul (e/o successivamente a Gerusalemme, probabilmente) con padrini gli equidistanti Turchia e Israele che stanno facendo avance l’un l’altro per ritessere reciproci rapporti diplomatici dopo l’incidente della Mavi Marmara evocato da Murat Cinar nel suo articolo, appare come i memoranda d’intesa stipulati durante il vuoto trumpiano riempito ad Astana, evocati da Antonella De Biasi:

Erdoğan e Putin per primi, e a seguire l’appena eletto Raisi, cercheranno di mantenere l’influenza guadagnata negli ultimi quattro anni della presidenza Trump facendo buon viso a cattivo gioco. Si sa che le alleanze non sono per sempre – anche e soprattutto tra leader autoritari e populisti –, ma ogni volta che ci sarà una crisi, e quindi anche un’occasione per aumentare l’influenza nello scacchiere internazionale, si farà sempre in tempo a scrivere inediti memorandum d’intesa e scegliere una nuova suggestiva località per sottoscriverli.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85)

 

E il terzo protagonista degli Accordi di Astana, l’Iran, che vi ha partecipato da potenza locale impegnata a mantenere la preminenza sulla mezzaluna sciita e con l’intento di contribuire alla marginalizzazione delle potenze europee, non ha avuto reazioni dopo la crisi afgana e non prende posizione in quella attuale: è apparso chiaro che la repubblica islamica viene tenuta in sospeso per il fatto proprio che a Putin serve l’appoggio di Bennett e quindi potrebbe far pesare un veto alla ripresa degli accordi Jcpoa, nel momento in cui pare che l’amministrazione Biden sarebbe invece disponibile a riprendere i negoziati sul nucleare iraniano, per focalizzarsi sull’indo-pacifico. Come per gli altri teatri delle guerre scatenate e composte ad Astana, il ruolo iraniano è stato in genere di supporto non attivo agli accordi: una sorta di notaio che assicura il proprio assenso in cambio della non intromissione nei propri affari.

Gilles Kepel su “Le Grand Continent” anticipando stralci del suo ultimo libro: «L’amministrazione Biden, il cui primo impulso diplomatico è consistito nel relativizzare il peso del Medio Oriente nella sua agenda politica estera a favore delle questioni cinesi e russe, e nel far prevalere nella regione la riattivazione del Jcpoa sull’antagonismo israelo-palestinese, le cui asperità si pensava fossero state cancellate dagli Accordi di Abramo, si trova così costretta a giocare dietro le quinte durante la guerra del maggio 2021», chiamata dal professore francese “la guerra degli undici giorni”. In questo nuovo caos con gli smottamenti nei paesi dell’area mediorientale, caucasica e mediterranea la Libia e quel che accadrà a cavallo del nuovo anno, determineranno i confini geopolitici degli attori di Astana, nello specifico la Turchia e la Russia.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85).

Applicazione di un modello

Qui infatti ritroviamo attivo come sempre il compare di Putin di tanti incontri ad Astana: Erdoğan ha mantenuto lo stesso atteggiamento ambiguo che lo ha contraddistinto in Siria, in Libia, in Nagorno-Karabakh – non a caso di nuovo gli azeri stanno sfruttando l’occasione che impedisce a Mosca di difendere l’alleato armeno – quando ha sostenuto in genere la parte avversa al fantoccio locale di Putin, salvo poi comporre ogni questione attraverso una spartizione de facto di territori, interessi, occupazioni. Anche in questo caso Erdoğan ha fornito a Zelensky armi e sostegno da appartenente alla Nato, ha mantenuto un ruolo ambiguo sui Dardanelli e sull’accesso al Mar Nero in relazione alla Convenzione di Montreux – e anche in questo caso la sottolineatura di Antonella De Biasi di p. 48 di Astana e i 7 mari, relativa all’appoggio russo ad abkhazi e agiari che solleva questioni ataviche in contrapposizione russi e turchi, sostenitori dell’etnia tatara, poneva già il problema di schieramenti – ma poi non aderisce a sanzioni ed embarghi… e questo consente ad Ankara di proseguire la diplomazia di Astana verso Mosca e di proporsi come mediatore, forse per la sua esperienza di occupazione del Rojava e strage di curdi. Ruolo che è in grado di svolgere l’altro campione di democrazia: Israele che da 55 anni occupa territorio palestinese e applica l’apartheid. Anche Israele compare 49 volte nel libro di Antonella De Biasi, pur non essendo tra gli ospiti di Astana, se non in veste di Convitato di Pietra: infatti Tel Aviv ha mantenuto un profilo basso, senza contrariare il Cremlino, sia per i milioni di russi e ucraini immigrati in Israele, sia per gli innumerevoli interessi che legano i due paesi; peraltro ha fornito qualche ordigno a Kyiv, senza consentire l’uso di Pegasus o di Blue Wolf, e tantomeno Iron Dome, sistema di difesa antiaerea richiesto dall’Ucraina fin dal 2019 (per dire da quanto si stavano preparando alla “sorprendente” aggressione russa). E soprattutto, come dice Eric Salerno: «Israele ha bisogno di alleati» e questo è reso ancora più evidente dall’accoglienza per gli Accordi di Abramo che ha stipulato prontamente con alcuni paesi arabi.

Israele e Turchia evidenziano il proseguimento sotto altre forme del multilateralismo sotto il cappello della crisi russo-ucraina: come ci ha detto Eric Salerno nella puntata di Transatlantica24 per quanto riguarda Tel Aviv – ma vale anche per Ankara, nonostante il disastro economico: se va in porto l’occupazione coloniale di tutte le zone in cui la Turchia è impegnata, il colonialismo predatorio può rimpinguare le casse. A entrambe il ruolo di potenze locali va stretto e sia nell’area interessata dalle operazioni belliche, sia nel resto dei 7 mari presi in considerazione nel volume dedicato da OGzero ad Astana, si propongono come interlocutori privilegiati, spesso in sostituzione degli interessi delle potenze coloniali europee classiche, assurgendo a un ruolo di potenze più ampia di quella locale mediterranea.

Il ridimensionamento del ruolo dell’Occidente nel panorama internazionale è determinato soprattutto dalla radicale contestazione del suo modello politico, economico e culturale attuata dalla Cina e in secondo luogo dalla Russia. Non è un caso che Cina e Russia siano tra i principali sostenitori di due organizzazioni multilaterali come i Brics e la Shangai Cooperation Organization (Sco). Di recente i due paesi hanno iniziato a collaborare per ridurre la loro dipendenza dal dollaro.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Dunque di nuovo le potenze asiatiche evidenziano la inadeguatezza della prosopopea dell’UE, che preferisce riarmarsi, dissanguandosi e riducendo a nulla il sistema welfare liberal-democratico, pur di rincorrere sul piano militare le altre potenze guerrafondaie e venditrici di tecnologie militari per sostenere le industrie belliche anche europee, ringalluzzite dalla guerra per procura al confine eurasiatico, evocativo di altre invasioni, ma che sembra preludere a un ridimensionamento tanto dell’Europa, quanto della Russia stessa, ridotti a belligeranti locali di una guerra a cui stanno alla finestra le due vere potenze globali, che preparano il confronto in ambito indo-pacifico. Gli Usa ottengono – dopo che da due amministrazioni lo richiedono – che tutti gli europei destinino il 2% del pil alla “sicurezza”, sgravando gli americani di parte della spesa militare; la Cina – come ci spiegava Sabrina Moles nell’incontro di Transatlantica24 – senza schierarsi, ma lanciando segnali di propensione per l’invasore, pur facendo attenzione a non confondersi con una potenza sull’orlo del fallimento come la Russia che ha il pil di una provincia cinese (il Guandong), può trarre vantaggi, se non si prolunga troppo la crisi e se non si propone come mediatrice, perché rischierebbe di venire degradata al rango di potenza intermedia come appunto Turchia e Israele. I mediatori nel gioco delle parti.

Dopo la normalizzazione delle relazioni sino-russe alla fine della Guerra Fredda, la Russia è emersa come un importante fornitore di armi e tecnologia per la Cina. Quella relazione era un’ancora di salvezza finanziaria per l’industria della difesa russa in un momento in cui gli ordini di approvvigionamento nazionali si erano prosciugati. Ma da allora le vendite russe alla Cina sono diminuite man mano che l’industria della difesa cinese è maturata «in misura significativa grazie al trasferimento di tecnologia e al furto dalla Russia», commentano Eugene Rumer e Richard Sokolski sul sito di Carnegie Endowment for international peace. La Cina ora compete con la Russia nei mercati delle armi. Attualmente le vendite di armi dalla Russia alla Cina rappresentano solo il 3% del commercio totale annuo dei due paesi, che supera i 100 miliardi di dollari. Con l’accesso alla tecnologia occidentale tagliato a causa delle sanzioni, l’industria della difesa russa ha guardato alla Cina come una fonte alternativa di innovazione che non ha la capacità di sviluppare a livello locale.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Può essere che il prossimo teatro di questo “Risiko per procura” torni in zona balcanico-caucasica (Nagorno Karabakh ed enclave etniche della Repubblika Srpska, oppure le tensioni panslavistein Bosnia); può darsi si inaspriscano le dispute che in Africa vedono impegnati militari turchi e miliziani della Wagner in contrasto – soprattutto in Françafrique – con gli eserciti coloniali classici; sicuramente Russia e Cina stanno collaborando assiduamente per spartirsi il Sudamerica, grazie alla distrazione di Biden che prosegue il disimpegno del suo predecessore.

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Gli iraniani cercano casa, in Turchia https://ogzero.org/gli-iraniani-cercano-casa-in-turchia/ Thu, 10 Feb 2022 20:00:43 +0000 https://ogzero.org/?p=6255 Il governo Raisi fronteggia una forte emigrazione di cittadini iraniani (soprattutto in Turchia, dove la lira si è indebolita) e la crisi interna ha bisogno dell’eliminazione delle sanzioni. Molto dipende dall’esito dei colloqui in corso a Vienna per salvare l’accordo sul nucleare, intanto la Cina aggira i blocchi Usa e acquista il petrolio iraniano. In […]

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Il governo Raisi fronteggia una forte emigrazione di cittadini iraniani (soprattutto in Turchia, dove la lira si è indebolita) e la crisi interna ha bisogno dell’eliminazione delle sanzioni. Molto dipende dall’esito dei colloqui in corso a Vienna per salvare l’accordo sul nucleare, intanto la Cina aggira i blocchi Usa e acquista il petrolio iraniano. In questo articolo Marina Forti fornisce un quadro economico e sociale della realtà iraniana.


Sono sempre di più gli iraniani che cercano di comprare casa. Non stupisce: l’immobiliare sembra tra i pochi investimenti sicuri in tempi incerti. Gli iraniani però comprano casa all’estero, e soprattutto in Turchia. Non solo gli iraniani più abbienti, e non solo ville o proprietà di alto standard: gli acquirenti di case sono spesso professionisti, universitari, insegnanti, piccoli negozianti, infermieri. Media o piccola borghesia, persone che cercano di mettere in salvo i risparmi. Magari puntano a comprare casa per prendere la cittadinanza e poi spostarsi ancora più lontano – Regno Unito, Canada, Australia, Usa.

A Tehran, si sente spesso di persone che vendono la seconda casa, o magari l’appartamento dei nonni defunti, o perfino quello in cui vivono, per raggranellare il possibile e tentare il grande passo. Non ci sono dati precisi sull’emigrazione degli iraniani, ma alcuni indizi sono chiari.

In parte vengono proprio dalla Turchia, uno dei pochi paesi dove gli iraniani possano andare senza visto, e dove sono un po’ meno penalizzati in termini di potere d’acquisto. Infatti la moneta iraniana, il rial, ha dimezzato il suo valore negli ultimi tre anni. Ma anche la lira turca ha perso almeno il 20 per cento del suo valore nel corso dell’anno passato, cosa che ha contribuito a impoverire milioni di cittadini turchi ma ha favorito l’arrivo di acquirenti stranieri sul mercato immobiliare, a Istanbul e altrove. Ebbene, nel 2021 al primo posto tra gli stranieri c’erano gli iraniani, seguiti da iracheni e russi; nel periodo tra gennaio e novembre gli iraniani hanno comprato 8594 case (ma il trend era già visibile negli anni precedenti; nello stesso periodo del 2020 ne avevano comprate 6425).

Secondo dati raccolti dal “Financial Times”, inoltre, più di 42.000 iraniani sono emigrati (hanno preso la residenza) in Turchia nel 2019; nello stesso anno circa 18.000 iraniani hanno lasciato la Turchia, ma non è chiaro se per tornare in Iran o emigrare altrove.

Altri segnali si possono raccogliere dalla stampa iraniana, o dai dibattiti parlamentari. L’ex ministro della Scienza, Mansour Gholami, ha dichiarato mesi fa in parlamento che 900 professori universitari hanno lasciato l’Iran nel solo 2019. Il Consiglio medico (l’organismo che rilascia la licenza all’esercizio della professione medica) fa sapere che ogni anno se ne vanno circa 3000 dottori. L’emigrazione, in particolare di persone istruite e con buone qualifiche professionali, non è una novità nella storia della Repubblica islamica dell’Iran: ora però sembra accelerare. In parlamento, sui giornali, si parla di “fuga dei cervelli”. Il leader supremo, ayatollah Ali Khamenei, di recente ha accusato chi semina “illusioni” nell’animo di tanti giovani spinti a cercare chissà cosa all’estero.

E poi non solo giovani. Si racconta di persone che vendono tutto e si affidano a intermediari per trovare la casa da acquistare e poi trasferire il denaro per vie traverse, dato che i normali trasferimenti bancari sono bloccati e portare grosse somme in contanti è rischioso e illegale. L’intermediazione è un mercato a sé, ovviamente sommerso; si racconta di speculatori e di truffe.

Ma cosa spinge tante persone a mettere i propri risparmi in mano a intermediari e speculatori nella speranza di comprare un appartamento in una periferia turca? Le risposte sono verosimilmente molte, ma si possono riassumere nelle parole “incertezza” e “sfiducia”.

Incertezza economica, in primo luogo, dopo due anni di recessione profonda. Riassumiamo. Sull’Iran gravano le sanzioni, le più drastiche mai viste nei 42 anni di vita della Repubblica islamica, quelle decretate dall’amministrazione di Donald Trump dopo che nel maggio 2018 ha stracciato l’accordo sul nucleare (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa, firmato dall’Iran e da cinque potenze mondiali). Sono centinaia di sanzioni mirate ai principali settori dell’industria, a cominciare da quella petrolifera; colpiscono enti, imprese, banche, individui, perfino aerei, navi e petroliere. Gli Usa sono riusciti a imporle a tutto il mondo grazie alle sanzioni secondarie (contro le imprese di paesi terzi che commerciano con l’Iran). Non solo: nel 2020 le banche iraniane sono state espulse dalla Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication (Swift), che garantisce le comunicazioni interbancarie (è un meccanismo internazionale, ma ha sede a Washington ed è sotto il controllo Usa). Senza un codice Swift nessuna transazione internazionale è possibile. Poi la Financial Action Task Force (Fatf), che ha sede a Parigi e veglia su norme antiriciclaggio, ha messo l’Iran sulla lista dei paesi sospetti.

Così l’isolamento è pressoché totale, nessun settore dell’economia è risparmiato. E queste sanzioni restano in vigore con il presidente Joe Biden, in attesa dell’esito dei colloqui in corso a Vienna per rilanciare l’accordo sul nucleare.

Questo dovrebbe far riflettere sul potere ma anche i limiti delle sanzioni. Non c’è dubbio, la “massima pressione” imposta da Trump ha fatto precipitare l’Iran nella recessione. L’inflazione, che il governo dell’ex presidente Hassan Rohani era riuscito a tenere sotto controllo, è riesplosa – oggi è ufficialmente del 42%, aveva raggiunto il 48% nel febbraio 2021, e nell’esperienza reale è molto più alta. Le imprese pubbliche e private stentano; a volte pagano in ritardo i salari o non li pagano affatto. La disoccupazione cresce: ufficialmente al 9% della forza lavoro, ma molto più alta per i giovani. Il crollo del rial rende tutto più costoso, anche mandare un figlio a studiare all’estero. È quasi impossibile importare farmaci e attrezzature mediche, benché non siano sotto sanzioni, per il semplice motivo che non si riesce a trasferire i pagamenti – perfino in tempi di pandemia sono state fatte solo rare eccezioni.

Il paese, e ogni singolo cittadino, pagano tutto questo in modo pesante. E però l’economia iraniana non è collassata. La “economia di resistenza”, ovvero la strategia di sviluppare capacità industriali interne, promuovere l’export di prodotti diversi dal petrolio, rafforzare legami commerciali con i paesi della regione oltre che con la Cina e la Russia, ha permesso all’Iran di sopravvivere.

Il lavoro minorile in Iran, una delle conseguenze della crisi economica (fonte Asianews).

Anzi, i dati parlano di ripresa. Nell’anno 2020-2021 (l’anno fiscale comincia il 21 marzo, secondo il calendario persiano) il Prodotto interno lordo è cresciuto del 3,4 per cento, stima la Banca mondiale, grazie al settore manifatturiero e a una timida ripresa dell’industria petrolifera. Nell’anno che sta per concludersi la crescita è stimata tra il due e il tre per cento. Quanto al petrolio, nel novembre 2021 la produzione si aggirava su 2,4 milioni di barili al giorno (barrel-per-day, bpd): ancora lontano dai 3,8 milioni bpd del 2017 prima delle sanzioni Trump, ma in lenta ripresa. Quanto all’export di prodotti petroliferi, nei primi mesi del 2018 l’Iran esportava 2,5 milioni bpd, nel 2020 era crollato a circa 400.000; oggi si parla di un milione di barili al giorno (sono stime: è un’attività sotto embargo e non ci sono dati ufficiali).

Dunque l’economia cresce: ma non bisogna ingannarsi, cresce da una base molto bassa dopo il crollo precedente.

La Banca Mondiale osserva che in termini reali, il Pil iraniano si trova più o meno al livello di un decennio fa: nel frattempo però una generazione di giovani per lo più istruiti si è affacciata sul mercato del lavoro e non ha trovato occupazione. Per loro è stato un decennio perso.

E poi, i segnali di ripresa contrastano con l’esperienza quotidiana di prezzi sempre più alti, disoccupazione, ristrettezze. Tutto aggravato dalla lunga pandemia di Covid-19 e dalla siccità. L’Iran resta un paese impoverito e disilluso. Si capisce che molti sognino di emigrare.

In questo quadro vanno visti i conflitti sociali che han segnato gli ultimi mesi. E anche le prime mosse del presidente Ebrahim Raisi, insediato lo scorso agosto.

Le piazze si riempiono

Il 13 gennaio centinaia di migliaia di insegnanti hanno riempito strade e piazze nelle maggiori città dell’Iran. Era la quarta giornata di mobilitazione da settembre, proclamata dal Consiglio nazionale dei sindacati degli insegnanti. A Tehran una folla massiccia ha manifestato davanti al parlamento, con slogan come “la penna è più forte del fucile”, “gli insegnanti contro la discriminazione”. Chiedono aumenti salariali e miglioramenti normativi. Chiedono anche il rilascio dei sindacalisti e insegnanti arrestati dopo i primi scioperi: in effetti ogni giornata di protesta è stata seguita da arresti, che però non hanno impedito alla mobilitazione di crescere.

Il caso degli insegnanti è indicativo. Come tutti i dipendenti pubblici, e come i pensionati, hanno visto crollare i salari reali almeno del 40 per cento tra il marzo 2018 e il marzo 2021, causa l’inflazione. Il governo Rohani aveva aumentato gli stanziamenti per l’istruzione e la previdenza sociale, nella finanziaria del 2020-2021 (portati al 55 per cento della spesa pubblica, contro il 45% dell’anno precedente), nel tentativo di proteggere dalla crisi la piccolissima borghesia per lo più urbana. Ma la perdita di potere d’acquisto reale è stata comunque più forte. Ora, quando gli insegnanti hanno visto che i promessi aumenti erano stati cancellati nella finanziaria di quest’anno, sono scesi in piazza.

Proteste in piazza per la crisi economica (foto CC – Fars Media Corporation).

Gli insegnanti non sono soli. Nei primi mesi dell’anno numerose proteste hanno coinvolto i pensionati. Tra giugno e agosto ci sono stati scioperi a singhiozzo e mobilitazioni dei lavoratori petroliferi, in particolare quelli precari (anche a loro l’amministrazione uscente ha concesso aumenti di salario). Le agitazioni si sono intensificate in settembre, il primo mese di effettivo lavoro della nuova amministrazione: decine di proteste, alcune locali, altre di portata più ampia. Tra novembre e dicembre sono riesplose anche le proteste per l’acqua a Isfahan, che rimandano a un complicato scontro di interessi tra regioni rurali e urbane per la suddivisione delle scarse risorse idriche.

Come ha risposto l’amministrazione di Ebrahim Raisi, il presidente eletto con il voto meno partecipato della storia dell’Iran repubblicano?

Favorito dall’establishment (al punto che ogni serio concorrente era stato escluso dalla competizione elettorale), Raisì è arrivato con la promessa di portare benessere “sulla tavola di tutti gli iraniani”. Nei primi cento giorni del suo mandato ha girato il paese in lungo e in largo, con visite nelle province che ricordano un po’ quelle del presidente Mahmoud Ahmadi Nejad. Anche Raisi è andato in ospedali, farmacie, quartieri popolari. Ma andare “vicino al popolo” e promettere giustizia non basta. Servivano segnali concreti: e il primo è stato ordinare massicce importazioni di vaccini contro il Covid-19.

Nel solo mese di settembre in Iran sono arrivate 30 milioni di dosi di vaccino, contro 19 milioni in tutti i 7 mesi precedenti. D’improvviso, pratiche di importazione che prima richiedevano settimane si sono sbloccate. I vaccini sono importati dalla Mezzaluna Rossa Iraniana, per lo più attraverso accordi bilaterali e tramite la Croce Rossa Cinese; vaccini cinesi, russi, o il Covishield di Astra Zeneca (fabbricato in India) grazie al programma delle Nazioni unite Covax. Anche vaccini di produzione nazionale sono ora disponibili. Fatto sta che alla vigilia dell’insediamento di Raisì erano state somministrate circa 10 milioni di dosi a una popolazione di 80 milioni di iraniani; oggi 60 milioni di persone hanno ricevuto la prima dose e 53 milioni la seconda, secondo l’Organizzazione mondiale per la sanità.

Questo però è l’unico successo concreto da esibire, per ora. Il fatto è che importare vaccini in fondo è più semplice che rilanciare l’economia.

Per questo bisogna guardare al parlamento, che in queste settimane sta discutendo la legge finanziaria: presentata in dicembre, va approvata in tempo per entrare in vigore con l’anno nuovo, il 21 marzo. La prima finanziaria del presidente Raisi afferma obiettivi ambiziosi, parla di crescita dell’8 per cento. Afferma che le linee guida saranno “aumentare la produzione e l’occupazione” nel quadro della “economia di resistenza”. Il governo prevede di aumentare del 10% le entrate nel bilancio generale dello stato, e del 25% il bilancio delle imprese statali (attraverso cui è gestita una buona parte dell’economia). Spera di contenere l’inflazione sotto il 40 per cento, e di aumentare le entrate fiscali del sessanta per cento anche con la lotta all’evasione. L’amministrazione Raisi basa le sue previsioni sull’ipotesi di esportare 1,2 milioni di barili al giorno di prodotti petroliferi, messi in bilancio al prezzo medio di 60 dollari a barile.

Se questo basterà a contenere la perdita di potere d’acquisto degli iraniani, resta da vedere. Il parlamento ha ripristinato gli aumenti per gli insegnanti e sta discutendo di aumentare il salario degli impiegati pubblici tra il 5 e il 28 per cento: considerata l’inflazione però resta una diminuzione di reddito netta. Moshen Rezai, ex comandante delle Guardie della Rivoluzione e oggi uno dei massimi consiglieri economici del presidente Raisi, ha annunciato che il governo raddoppierà i sussidi in contanti distribuiti agli iraniani sotto una certa soglia di povertà. Istituito da Ahmadi Nejad, si tratta di un assegno di 455.000 rials: solo che nel 2010 equivaleva a 40 dollari, oggi al cambio libero equivale a meno di 2 dollari.

Già, il cambio. Il parlamento sta discutendo anche la proposta di abolire il cambio ufficiale imposto nel 2018, che aveva “congelato” la parità a 42.000 rial per un dollaro – mentre sul mercato libero oggi per un dollaro servono 275.000 rial. Il cambio di stato serve a finanziare le importazioni di beni essenziali e strategici e calmierare i costi, ma ha dato luogo ad arbitri e corruzione; lasciare tutto al mercato libero però potrebbe aumentare ancor più l’inflazione.

Il presidente Raisi riuscirà a mantenere la sua promessa di benessere? Secondo un osservatore informato come Bijan Khajehpour, molto dipenderà dalle sanzioni. L’Iran ha dimostrato di avere una economia diversificata (non solo petrolio: esporta automobili, prodotti meccanici, agroalimentare e altro), e di riuscire a vivere nonostante l’isolamento internazionale. Un effetto delle sanzioni è stato ridirigere le relazioni commerciali iraniane verso i paesi vicini, l’Asia centrale, la Cina e la Russia.

Tehran ha firmato accordi di cooperazione economica con Pechino e ne sta negoziando con Mosca – anche se non è ancora chiaro quale sarà l’impatto concreto.

Ma finché restano le sanzioni sul sistema bancario il costo di ogni transazione renderà molto più costose sia le importazioni che le esportazioni. Per sostenere la crescita inoltre servono investimenti in infrastrutture, e anche questi sono frenati dalle sanzioni.

Certo, il probabile aumento dei prezzi petroliferi potrebbe aiutare l’Iran. Anche qui però pesano le sanzioni: la Cina è divenuta il principale acquirente di petrolio iraniano, ma finora è stato tutto in via ufficiosa; solo a metà gennaio, per la prima volta dal dicembre 2020, Pechino ha annunciato una importazione di greggio iraniano sfidando le sanzioni Usa.

In definitiva il governo Raisi ha bisogno di veder togliere le sanzioni, se vuole davvero riportare “il benessere a tutti gli iraniani”. Così molto dipende dall’esito dei colloqui in corso a Vienna per salvare l’accordo sul nucleare: anche i salari e le pensioni degli iraniani, e le prospettive di una generazione che sogna di emigrare.

 

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Raisi, il Giudice senza grazia https://ogzero.org/l-iran-e-in-ebollizione-raisi-le-sanzioni-e-le-sfide-internazionali/ Wed, 25 Aug 2021 11:03:15 +0000 https://ogzero.org/?p=4708 Non c’è luna di miele per Ebrahim Raisi, insediato il 5 agosto nella carica di presidente della repubblica iraniana. Nessun “periodo di grazia”, né all’interno di un paese attraversato da proteste sociali e stremata da una nuova ondata di Covid-19, e neppure sul piano internazionale. Durante il suo discorso inaugurale il presidente Raisi si è […]

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Non c’è luna di miele per Ebrahim Raisi, insediato il 5 agosto nella carica di presidente della repubblica iraniana. Nessun “periodo di grazia”, né all’interno di un paese attraversato da proteste sociali e stremata da una nuova ondata di Covid-19, e neppure sul piano internazionale.

Durante il suo discorso inaugurale il presidente Raisi si è dichiarato un «servitore del popolo», e ha detto che la sua priorità sarà risollevare l’economia e portare il benessere «sul tavolo da pranzo di tutti gli iraniani». Ha anche detto che perseguirà una «diplomazia intelligente» per veder togliere le «crudeli sanzioni che opprimono» l’Iran, riferimento ai negoziati in corso a Vienna per riesumare l’accordo sul nucleare iraniano (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa) firmato nel 2015, e vanificato nel maggio 2018 quando l’allora presidente degli Stati uniti Donald Trump ha deciso di uscirne, decretando nuove sanzioni all’Iran.

Il sessantenne Raisi, un religioso di medio rango, è molto vicino al leader supremo Ali Khamenei, di cui era stato allievo. Ha svolto tutta la sua carriera nella magistratura, roccaforte delle correnti più ortodosse della Repubblica Islamica. Negli anni Ottanta è stato nel comitato di giudici incaricati di epurare le carceri iraniane mettendo a morte migliaia di detenuti politici, una delle pagine più inquietanti dell’Iran rivoluzionario. Negli ultimi due anni, come Procuratore capo della repubblica si è fatto paladino della lotta alla corruzione, suo tema di battaglia elettorale. È stato alla testa di una delle più potenti fondazioni islamiche, la Astan Qods Razavi di Mashhad, che controlla un impero commerciale e una rete di beneficenza e opere sociali: un pilastro del consenso al sistema.

Oggi ripete che la sua sarà un’amministrazione «popolare».

Eppure Ebrahim Raisi è stato eletto con il voto meno partecipato nella storia dell’Iran repubblicano: meno di metà degli aventi diritto è andata alle urne. È stato un voto senza concorrenti, poiché gli avversari di qualche peso erano stati esclusi: quella del 18 giugno scorso è stata l’elezione presidenziale meno libera da sempre perfino per gli standard della Repubblica Islamica dell’Iran, dove un organismo che risponde solo al leader supremo ha potere di veto sulle candidature. Insomma, la legittimità popolare del nuovo presidente è molto debole. Lo stesso Raisi riconosce che bisogna «ripristinare la fiducia» degli elettori.

Sta di fatto che, con Raisi alla presidenza, gli oltranzisti del sistema (quelli che alcuni chiamano il deep state, lo stato profondo) controllano tutti i centri di potere della Repubblica Islamica: eletti (il parlamento, la presidenza) e non. La lista dei suoi ministri, sottoposta al parlamento il 12 agosto è significativa: comprende uomini delle Guardie della rivoluzione, ex militari, ex dirigenti dei servizi di intelligence e della Tv di stato (altra roccaforte del sistema). Ci sono anche i dirigenti di due potenti fondazioni islamiche, la Astan Qods Razavi, già citata, e quella intitolata all’Imam Khomeini (rispettivamente ministri dell’istruzione e del lavoro e welfare).

Dunque legge, ordine, forze armate, e welfare. Eppure il neopresidente non avrà periodo di grazia.

La sfida di Vienna

Sul piano internazionale, la prima sfida è proprio quella che si gioca a Vienna. L’amministrazione di Joe Biden ha dichiarato di voler rientrare nell’accordo sul nucleare stracciato da Trump, ma sei round di colloqui tra i partner residui (Iran, Francia, Germania, Regno Unito, Cina e Russia), e indirettamente con gli Usa, non hanno ancora dato esito positivo.

Fare previsioni è inutile; meglio ricapitolare ciò che sappiamo. Il nuovo presidente iraniano ha dichiarato di volere il negoziato, «nei termini indicati dal Leader Supremo» (in effetti è stato Khamenei sei mesi fa ad avallare i colloqui di Vienna). Ebrahim Raisi non ha competenze specifiche in politica internazionale. Come ministro degli Esteri ha scelto un diplomatico di carriera: Hossein Amir-Abdollahian, già viceministro degli Esteri nel primo governo Rohani, poi consigliere di politica internazionale dell’ex presidente del parlamento Ali Larijani. Un uomo di regime con solidi legami con le Guardie della rivoluzione, ma non uno degli oltranzisti che avevano avversato l’accordo sul nucleare (di cui pure erano circolati i nomi). Amir-Abdollahian conosce il dossier nucleare e ha esperienza di colloqui con le controparti occidentali, inclusi gli Usa. Presenterà un volto più duro dei predecessori. Però si può aspettare che nel futuro negoziato l’amministrazione Raisi avrà meno opposizioni interne del suo predecessore Hassan Rohani, il quale è stato boicottato in tutti i modi (interessante il suo ultimo discorso al governo uscente: l’accordo era quasi fatto e le principali sanzioni statunitensi sarebbero cadute già da tempo, ha detto, non fosse stato per l’attivo boicottaggio del parlamento dominato dagli oltranzisti).

Non sarà un negoziato facile neppure per la nuova amministrazione. Non sono di buon auspicio gli “incidenti” navali di fine luglio, che riaccendono i riflettori sulla guerra-ombra in corso tra Israele e Iran (e forse su un nuovo “consenso” anglo-americano contro l’Iran). Ma ci sono anche segnali positivi per la diplomazia: l’inviato dell’Unione Europea ai negoziati sul nucleare, Enrique Mora, era a Tehran per l’inaugurazione del presidente Raisi, con cui si è intrattenuto (anche se il suo gesto è stato criticato da molti difensori per i diritti umani, tra cui l’avvocata Narges Mohammadi).

Un paese impoverito e disilluso

Ma lasciamo per un istante lo scenario internazionale. L’altra sfida per il neopresidente Raisi è all’interno del paese, ed è perfino più urgente. È la crisi dell’economia, appesantita dalle sanzioni internazionali: l’inflazione supera il 44 per cento, le imprese sono in difficoltà, la disoccupazione galoppa, mentre le grandi ricchezze sono sempre più grandi: pochi miliardari e una classe media impoverita. Tutto aggravato dalla lunga pandemia di Covid-19, dalla siccità, i conflitti per l’acqua, la penuria di energia elettrica. Un paese impoverito, disilluso, e senza fiducia nel futuro.

«La tensione nel paese è molto forte e Raisi deve prendere decisioni molto in fretta», dice l’economista e analista politico Saeed Leylaz (riprendo questo commento dal “Financial Times”). Per esempio il contrasto all’inflazione o la conduzione della campagna di vaccinazioni, spiega il presidente:

«ha bisogno di presentare qualche carta vincente, che gli permetta di prendere tempo fino a quando ci saranno decisioni definitive sull’accordo nucleare e sulle sanzioni».

L’urgenza è evidente. L’insediamento di Ebrahim Raisi è stato preceduto da settimane di proteste per la mancanza d’acqua che attanaglia le province occidentali, e per i blackout di corrente elettrica divenuti frequenti in tutto il paese nella stagione estiva.

La rivolta dell’acqua

La rivolta dell’acqua è scoppiata la sera del 15 luglio ad Ahwaz, capoluogo del Khuzestan, provincia occidentale affacciata sul golfo Persico e confinante con l’Iraq.

 

I quattro fiumi della provincia sono ridotti ai minimi storici, l’acqua è razionata, esce dai rubinetti solo un’ora al giorno. La folla gridava «il fiume ha sete», «noi abbiamo sete».  E poi

«abbiamo dato il sangue e la vita per il Karun»,

il fiume che attraversa Ahwaz. I manifestanti chiedevano forniture urgenti d’acqua. Molti chiedevano le dimissioni delle autorità locali accusate di incompetenza, o di corruzione, o entrambe le cose.

La crisi è tutt’altro che inaspettata. In maggio il ministero dell’Energia aveva avvertito che l’Iran andava verso l’estate più secca da 50 anni, con temperature che potevano sfiorare i 50 gradi, e l’allarme era stato ripreso da tutti i giornali. Poi è successo, e le conseguenze sono devastanti: per chi deve sopportare un’estate torrida e umida senza acqua, ma anche per l’agricoltura e l’intera economia.

Il paradosso è che il Khuzestan è tra le province più povere dell’Iran, in termini di sviluppo sociale: la disoccupazione e il tasso di povertà assoluta sono i più alti del paese (secondo Iran Open Data, che analizza statistiche ufficiali), ma è tra le più ricche in termini di risorse: racchiude circa l’80 percento delle riserve di petrolio e il 60 per cento di quelle di gas naturale per paese, e produce una parte importante del prodotto interno lordo iraniano (il 15 per cento nel 2019). Inoltre il Khuzestan era una terra fertile e ricca d’acqua, anche se oggi pare incredibile: ha quattro fiumi tra cui il Karun; due importanti zone umide (incluse le paludi condivise con l’Iraq), e aveva un’importante economia agro-industriale – ora in crisi.

Il sito storico del sistema idrico di Shushtar, patrimonio Unesco.

Il giorno dopo le prime manifestazioni, il governatore provinciale ha mandato camion cisterna a portare acqua in oltre 700 villaggi e cittadine del Khuzestan, cosa che non ha placato gli animi. La penuria d’acqua è da attribuire in parte al cambiamento globale del clima: dall’inizio del secolo il regime delle piogge è sempre più scarso, le temperature sempre più alte, e la siccità è ormai cronica nell’Iran occidentale insieme a ampie zone dei vicini Iraq e Siria.

Le tempeste di sabbia che avvolgono periodicamente città come Ahvaz ne sono una conseguenza tangibile.

È in causa però anche la gestione dell’acqua disponibile. Negli ultimi decenni sono state costruite numerose dighe sui fiumi dell’Iran occidentale, sia per produrre elettricità, sia per sostenere ambiziosi progetti di espansione agricola, o per trasferire acqua verso la provincia centrale di Isfahan.

Il ponte di Allahverdi Khan sul fiume ormai secco, Isfahan (foto Wanchana Phuangwan).

Negli ultimi anni inoltre le autorità hanno autorizzato lo scavo di migliaia di pozzi. Dunque sempre più acqua è estratta dal sottosuolo, ma le piogge non bastano a “ricaricare” le riserve. Il livello delle falde idriche così è crollato; l’acqua salmastra del Golfo penetra sempre più all’interno. La salinità dei terreni causa ulteriori problemi per l’agricoltura; a nord di Ahwaz le famose palme da datteri cominciano a morire. Nelle zone petrolifere inoltre l’acqua disponibile è spesso inquinata da sversamenti di greggio.

Ad aumentare la rabbia poi ci sono ragioni storiche. Le proteste per l’acqua hanno coinvolto città come Abadan, Khorramshahr, e altre: sono nomi che richiamano la Guerra Iran-Iraq. Su Abadan e le sue raffinerie puntava l’esercito di Saddam Hussein quando invase l’Iran nel settembre 1980; nella “città martire” di Khorramshahr si combatté casa per casa. Tutto l’ovest dell’Iran fu il fronte di quella guerra sanguinosa, durata otto anni. In Khuzestan però la ricostruzione è stata solo parziale, le attività economiche non sono mai tornate al benessere precedente. Perché? I dirigenti iraniani adducono la mancanza di mezzi e risorse da investire, o la cronica instabilità nel vicino Iraq. La provincia è abitata da una forte minoranza arabo-iraniana (c’è anche un movimento indipendentista, minuscolo ma foraggiato dai potenti vicini arabi del Golfo). A precedere le proteste generali, il 6 luglio una delegazione di agricoltori e anziani delle tribù arabe era andata a Ahwaz per fare rimostranze alle autorità locali per la penuria d’acqua.

La rivolta “legittima” e la polizia che spara

Insomma: la provincia si sente negletta. L’agricoltura e le fabbriche che ne dipendono sono sempre più in crisi. I giovani non trovano lavoro. Aumenta l’emigrazione verso le grandi città; a Tehran o Isfahan sorgono nuove borgate di migranti arrivati dalle zone rurali del Sudovest.

Cambiamento climatico, dighe, inquinamento, cattiva gestione delle risorse, disoccupazione, discriminazione delle minoranze: tutto spiega la rabbia esplosa in luglio.

«Per otto anni [durante la guerra con l’Iraq] questa provincia è stata devastata, e ora i nostri soldati sparano contro di noi», diceva un manifestante di 24 anni di Dezful al corrispondente di “Middle East Eye”.

Di fronte alla protesta infatti lo stato ha risposto come al solito: con la forza. Anche perché le proteste si sono estese; c’è notizia di manifestazioni a Kermanshah, capoluogo della provincia omonima nell’Iran occidentale, nel Lorestan, a Isfahan, fino a Tehran. Organizzazioni di avvocati, attivisti sociali, l’associazione degli scrittori, hanno manifestato solidarietà. Sui social media sono circolate foto di blindati e veicoli antisommossa scaricati dagli aerei cargo nell’aeroporto di Ahwaz. Le proteste si sono prolungate per giorni. Le autorità hanno sospeso internet in gran parte del Khuzestan, senza riuscire a bloccare del tutto le informazioni.

È cominciata la guerra di notizie: il 20 luglio, dopo la quinta notte consecutiva di proteste, il governatore del Khuzestan ha parlato di un morto, una persona che accompagnava le forze di polizia e sarebbe stato ucciso dai dimostranti (i media di stato hanno addirittura accusato “terroristi armati”). Pochi giorni dopo Amnesty International ha parlato di almeno otto morti, tutti manifestanti.

Le proteste bloccano la strada tra Ahvaz e Andimeshk.

Eppure perfino il Leader supremo l’ayatollah Ali Khamenei ha ammesso che la protesta è legittima. È intervenuto tardi, ben una settimana dopo l’inizio delle manifestazioni e degli scontri, ma infine lo ha riconosciuto:

«Se i problemi dell’acqua e delle fogne in Khuzestan fossero stati risolti, non vedremmo oggi questi problemi». E poi: «Le persone esprimono il loro malcontento perché sono esasperate. (…) Le autorità devono risolvere al più presto i problemi della leale popolazione di questa provincia».

Il fatto è che mentre il leader parlava così, la polizia sparava sui manifestanti. Risolvere il problema dell’acqua è di sicuro una sfida per la nuova amministrazione, come lo è stato per le precedenti: ma richiede strategie a lungo termine, rivedere le scelte di sviluppo, combattere sprechi e malversazioni, rilanciare il dialogo con le minoranze e con gli enti locali. Nell’immediato, reprimere le proteste è più facile.

Le proteste per l’acqua, o quelle segnalate a Tehran alla fine di luglio per i continui blackout di corrente, non alludono a un’opposizione politica organizzata – anche se in alcuni casi sono stati sentiti slogan come «abbasso la Repubblica islamica», o «a morte il dittatore», «a morte Khamenei». Proprio come era successo nel dicembre del 2019 nelle proteste suscitate dall’aumento del prezzo dei carburanti, e due anni prima per il carovita.

Proteste senza una direzione politica riconoscibile, “solo” manifestazioni spontanee di esasperazione.

Ma questo non dovrebbe preoccupare di meno i dirigenti iraniani: al contrario.

Si aggiungano croniche proteste di lavoratori in tutto il paese, e un’ondata di scioperi tra gli addetti dell’industria petrolifera. Mentre la “variante delta” del virus fa strage, i medici lanciano appelli disperati, e solo il 3 per cento degli iraniani è completamente vaccinato: anche nelle code alle farmacie si sente imprecare contro il leader supremo, che mesi fa ha vietato di importare vaccini prodotti in Usa e Regno Unito.

L’Iran dunque è in ebollizione. Il neopresidente Raisi dovrà mostrare qualcosa di concreto, in fretta, che non siano solo i blindati antisommossa. Ma per questo ha anche bisogno di veder togliere le sanzioni che soffocano l’economia del paese: come al solito, le sfide internazionali e quelle interne sono strettamente legate.

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Stabilizzare Eurasia passando da Erevan https://ogzero.org/tenere-fuori-dal-gioco-washington-e-stabilizzare-l-eurasia/ Sun, 27 Jun 2021 10:00:23 +0000 https://ogzero.org/?p=4050 Sembra che ci sia ancora qualche sparuto paese al mondo in cui la dittatura delle società che realizzano i sondaggi elettorali non spadroneggi: tra questi c’è sicuramente l’Armenia. Nelle settimane precedenti alle elezioni legislative anticipate del 20 giugno, resesi non più procrastinabili dopo la disfatta nella guerra nel Nagorno Karabakh, il premier Nikol Pashinyan era […]

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Sembra che ci sia ancora qualche sparuto paese al mondo in cui la dittatura delle società che realizzano i sondaggi elettorali non spadroneggi: tra questi c’è sicuramente l’Armenia.

Nelle settimane precedenti alle elezioni legislative anticipate del 20 giugno, resesi non più procrastinabili dopo la disfatta nella guerra nel Nagorno Karabakh, il premier Nikol Pashinyan era infatti dato perdente da tutte le rilevazioni delle principali società demoscopiche. Il partner della prestigiosa Gallup International in Armenia – la società Mpg – prevedeva una corsa sul filo di lana di Pashinyan con il suo avversario, l’ex presidente del paese e capo del Blocco Armeno, Robert Kocharian è l’agenzia Ria Novosti, che aveva condotto una rilevazione solo 6 giorni prima del voto, aveva perfino stimato per Kocharyan il 32% delle preferenze contro il 24% di Pashinyan. Inaspettatamente invece il Contratto Civile guidato proprio dal primo ministro Nikol Pashinyan ha fatto saltare il banco ed è decollato al 53,92% dei voti espressi, detronizzando il suo rivale che pur chiamando alla rivalsa contro il disprezzato nemico azero, si è fermato al 21,04%. La terza forza a entrare in parlamento è stata quella guidata dall’ex capo del servizio di sicurezza nazionale del paese Artur Vanetsyan che pur non avendo superato lo sbarramento del 7% (come altri 22 partiti che avevano partecipato alla campagna elettorale) dato che per legge il numero di partiti rappresentati non può essere meno di tre, con il suo 5,2% farà parte lo stesso del consesso legislativo.

Robert Kocharian, lo sconfitto leader del Blocco armeno

Il Blocco armeno ha denunciato brogli ma non è stato preso sul serio neppure dai suoi sostenitori e nessuno è sceso in piazza a protestare a Erevan come invece era successo massicciamente dopo la cocente sconfitta militare dello scorso autunno.

Sviluppi internazionali dopo la sorpresa elettorale

Cosa dunque è successo nelle settimane precedenti al voto da rendere inefficaci le interviste delle società di sondaggio?

Ipotesi sull’incidenza dell’armistizio sul voto

Le elezioni erano in primo luogo un plebiscito sull’armistizio che ha fatto perdere all’Armenia tre quarti del territorio conteso con l’Azerbaijan. La maggioranza degli elettori da questo punto di vista non ha probabilmente cambiato opinione e continua a considerare ancora oggi una “capitolazione” l’accordo di pace firmato sotto l’egida di Mosca, tuttavia è cambiata con il raffreddarsi delle emozioni del momento, la sua percezione della dinamica politica in corso.

«Le elezioni si sono concluse inaspettatamente per molti in Russia, ma questa sorpresa è stata dovuta a sondaggi dubbi o alle valutazioni di alcuni esperti che si sono schierati piuttosto con una delle forze politiche e non hanno fornito un’analisi obiettiva della situazione», ha affermato il ricercatore presso l’Istituto di studi postsovietici e interregionali (Riac) Alexander Gushchin. «Le elezioni hanno dimostrato che la vecchia élite e i suoi leader non sono stati in grado di consolidare attorno a sé la quota principale dell’opinione pubblica armena nemmeno sull’onda dell’insoddisfazione per la sconfitta militare nella seconda guerra del Karabakh. La scia di pubblica negatività verso l’“ex” si è rivelata troppo grande, mentre l’elettorato di Pashinyan è stato mobilitato al massimo» ha osservato ancora Gushchin.

«Le elezioni in Armenia hanno confermato il sostegno alla formula per la futura pace nella regione, elaborata con la mediazione di Mosca lo scorso novembre», sostiene inoltre Andrej Fedorov, direttore del Centro russo per la ricerca politica, su “Kommersant” del 22 giugno 2021. «Se il corso verso la normalizzazione continuerà, per la Russia significherà la possibilità di neutralizzare ai suoi confini meridionali un focolaio di instabilità a lungo termine potenzialmente pericoloso. Allo stesso tempo, il percorso per ridurre il confronto tra Armenia e Azerbaijan dovrebbe facilitare il compito di coinvolgere Baku nei processi di integrazione in Eurasia». Pertanto secondo Fedorov «dopo le elezioni in Armenia, nella nuova fase, la crescente influenza della Russia può essere determinata sia dal mantenimento della pace sia da un ruolo più attivo nella costruzione di nuove relazioni tra le parti coinvolte nel conflitto del Karabakh».

L’emotività dei sondaggi seppellita dalla Realpolitik nelle urne

Ciò che non è risultato credibile – soprattutto ai cittadini armeni che vivono nelle campagne e proverbialmente più saggi e moderati di quelli urbani – è che si possa rimettere in discussione l’accordo raggiunto con il cessate il fuoco o persino riprendere la guerra. Il fatto che Pashinyan, nato e divenuto celebre come attivista dei diritti umani filoccidentale e sostenitore delle esigenze degli strati del lavoro intellettuale, abbia potuto attecchire nell’Armenia profonda e perfino trasformarsi in un politico che guarda a Mosca come ciambella di salvataggio anche nel futuro, è interessante per capire come opinione pubblica e leader possano cambiare pelle rapidamente nel mondo attuale, ma ciò ancora non spiega lo iato tra i polls virtuali che lo davano al 20% e il più del 50% di voti veri ottenuti nei seggi. In realtà – come ha sottolineato Gevorg Mirzayan, professore di Scienze politiche all’Università di Mosca – la maggior parte degli oppositori di Pashinyan è rimasta a casa, e sarebbero loro in maggioranza a formare l’esercito costituito da 1,2 milioni di elettori armeni che non si sono presentati al voto, a cui di fatto va aggiunto quel 17% che ha votato per liste che non avevano alcuna possibilità di entrare in parlamento: due modi di protestare contro la scarsa concretezza di Kocharian piuttosto che un sostegno al premier uscente.

Strategia russa di stabilizzazione e controllo

Questo quadro darebbe qualche chance a Putin di giocare il ruolo di facilitatore del coinvolgimento di Baku nei processi di integrazione in Eurasia e in misura minore di stabilizzazione dei difficili rapporti con la Turchia.

Il fattore più importante del voto, è che la “sacralizzazione” del problema del Karabakh e l’idea di vendetta nazionale non sono già più in cima ai pensieri di ampi strati della società armena, che hanno già altre priorità, in primo luogo la ripresa economica.

Tenere fuori dal gioco Washington

Ad aprile era stata annunciata la costruzione congiunta di una centrale nucleare russo-armena, ulteriore segnale dell’abbraccio economico-energetico russo

Inoltre, la maggioranza degli armeni si è dimostrata più realista del re, comprendendo che nelle condizioni attuali nel Caucaso meridionale e intorno al Artsakh, i partiti “bellicisti” armeni, anche se avessero vinto le elezioni, difficilmente sarebbero stati in grado di capovolgere la situazione a loro favore.

Mosca ha effettivamente tirato un sospiro di sollievo dal voto a Erevan perché garantisce la road-map tripartita definita in autunno e soprattutto la presenza di proprie truppe nella regione per anni. Non è un caso che il giorno dopo il voto senza attendere la conferenza stampa dell’opposizione, il Cremlino ha annunciato il suo «sostegno alla scelta del popolo armeno». Del resto Mosca non solo ha visto quanto Pashinyan nei suoi confronti abbia abbandonato i modi del bizzoso destriero e ora vada al passo come un ubbidiente pony, ma si sia dimostrato negli ultimi mesi un politico accorto. Infatti mentre la diaspora di Parigi e New York si batteva il petto per il Karabakh perduto e l’orgoglio nazionale infranto ma restava a osservare da lontano le vicende patrie, il popolo armeno dimostrava nell’urna più voglia di “normalità” e “pace”, se non proprio con gli invisi azeri almeno con gli altri popoli della regione, russi compresi.

Pashinyan allineato e coperto con il Cremlino

È interessante notare che nel suo primo discorso alla nazione dopo le elezioni, Nikol Pashinyan, da parte sua ha fatto un bel po’ più che un gesto dimostrativo nei confronti della leadership russa. «Esprimo la mia gratitudine alla Federazione Russa, al presidente russo Vladimir Putin e al primo ministro Mikhail Mishustin per il sostegno che hanno fornito all’Armenia e al popolo armeno in questa situazione», ha affermato Pashinyan in Tv. «L’Armenia dovrà approfondire seriamente la cooperazione militare e strategica con la Russia – ha aggiunto il leader armeno – a fronte della politica aggressiva dell’Azerbaijan», ha perfino aggiunto.

Su scala regionale il ruolo di Erevan del resto visto lo stato in cui versa la sua economia e il suo esercito, si riduce a cercare di contrastare l’alleanza sempre più stretta tra Ankara e Baku brandendo come può l’arma del genocidio turco.

Strategia turca di stabilizzazione e controllo

Le cose dalla parte della barricata turcofona si stanno muovendo rapidissimamente. Mentre in Armenia si chiudeva la campagna elettorale, il 15 giugno, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan giungeva a Şuşa, città simbolo della vittoria militare azera di qualche mese fa, dove con Ilham Aliyev, ha firmato una dichiarazione di Alleanza che d’ora in poi per i contraenti si chiamerà “Storica Dichiarazione di Şuşa”. Dietro ai titoli pomposi, a Şuşa si sono fatti comunque dei concreti passi avanti per quanto riguarda la cooperazione bilaterale nel campo della sicurezza, accordandosi perché l’Azerbaijan crei un «modello ridotto dell’esercito turco». Ankara e Baku conducono regolarmente e già da tempo esercitazioni militari congiunte e operazioni antiterrorismo ma per ora Baku non ha dato alcun segno di voler aderire alla Nato, segno che Ankara potrebbe desiderare avere nelle proprie disponibilità un arsenale e delle truppe autonome e fuori dal controllo Usa.

Allargamento di Astana?

In questa occasione il leader turco ha voluto anche mostrare la sua versione dialogante, diventata la sua postura dominante dell’ultimo periodo: ha chiesto ad Aliyev la normalizzazione delle relazioni con Erevan e ha proposto un format di cooperazione a sei nel Caucaso meridionale, che veda la partecipazione di Turchia, Russia, Azerbaijan, Armenia, Georgia e Iran. L’aver aggiunto nel menù anche l’Iran è un gesto di non poco conto che al Cremlino hanno preso in seria considerazione non solo in vista dei nuovi passi americani di apertura nei confronti del paese islamico ma soprattutto del realismo e del gradualismo con cui la Turchia voglia sviluppare la sua politica egemonica nella regione.

Qualche ora prima, del resto, Erdoğan aveva incontrato il presidente Usa Biden e si era dimostrato anche in questo caso assai disponibile e quasi remissivo malgrado lo “sgambettino stellestrisce” del riconoscimento ufficiale dell’“Olocausto armeno”. Il presidente turco ha promesso a Biden di restare “alleato sincero della Nato” ma non ha ceduto di un palmo né sulla questione del suo ruolo in Siria e Libia né sull’acquisto di sistemi missilistici antiaerei russi S-400.

Biden era venuto in Europa anche per verificare lo stato delle relazioni con Georgia e Ucraina in vista di una loro futura adesione alla Nato ma anche su questo terreno, dovrà tenere conto delle mosse bilaterali degli attori regionali.

Fatale attrazione caucasica per Erdoğan

Recentemente il primo ministro di Tblisi, Irakli Garibashvili, ha visitato Ankara proponendosi ai turchi come potenziale secondo alleato regionale, malgrado la Georgia sia un paese cristiano: una eventualità che sembra piacere ad Erdoğan proprio in vista dell’ingresso del paese ex sovietico nella Alleanza atlantica.

Tenere fuori dal gioco Washington

Ma la Georgia è attiva anche in direzione di un altro paese chiave della zona e cioè l’Ucraina anch’essa predestinata a diventare membro della Nato nonché dell’Unione europea. Tblisi è più avanti nel processo di adesione ma grazie al “fattore Donbass” che potrebbe tornare a essere dirimente in Europa in qualsiasi momento, Kiev potrebbe superarla al fotofinish, malgrado la Georgia abbia anch’essa in Abkhazia e Ossezia del Sud dei contenziosi aperti con la Russia e proprio la comune avversione a essa è il mastice che tiene insieme i due paesi ex sovietici.

Siamo a un passaggio fondamentale. L’ascendente di Ankara cerca di emarginare la declinante Mosca nella regione senza però per il momento farsela nemica come invece è nelle corde di Ucraina e Georgia: tenere fuori dal gioco Washington è nel loro comune interesse.

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Il trailer del kolossal hollywoodiano “America is back” https://ogzero.org/america-is-back-la-regia-del-road-movie-di-biden/ Sun, 20 Jun 2021 01:34:58 +0000 https://ogzero.org/?p=3925 «America is back» in Europe, but… Biden torna a proporre la politica multipolare americana, che mira a presentare gli Stati Uniti come riferimento di un’ampia alleanza in cui si distribuiscono patenti di democrazia a tutti, tollerando in parte anche il regime putiniano (o comunque mostrando di voler aprire un dialogo), purché si adotti un profilo […]

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«America is back» in Europe, but… Biden torna a proporre la politica multipolare americana, che mira a presentare gli Stati Uniti come riferimento di un’ampia alleanza in cui si distribuiscono patenti di democrazia a tutti, tollerando in parte anche il regime putiniano (o comunque mostrando di voler aprire un dialogo), purché si adotti un profilo intransigente verso Pechino o si rendano meno stretti legami e partnership con l’unico rivale riconosciuto. Infatti la regia raffinata ha dapprima restituito una riunione di famiglia nella verde Cornovaglia, dove il vecchio patriarca è venuto in Europa a cercare location adatte per una ridistribuzione dei ruoli all’interno del consesso europeo, lanciando segnali distensivi di collaborazione che superassero l’isolazionismo dell’amministrazione precedente – di cui si sono frettolosamente cancellati gli sgarbi –, ma sancendo la globalizzazione e lo spostamento dal marcato eurocentrismo, già abbandonato da Obama, all’asse indopacifico.

America is back

Ripulitura preventiva delle deiezioni trumpiane

E di nuovo la trama del film lascia trasparire il messaggio anticinese dell’intreccio.

Il Convitato di Pietra

E allora scomponendo il film del viaggio di formazione della presidenza Biden nei suoi duetti, cominceremmo con quello non ancora avvenuto tra Xi Jinping e Biden – ma di cui c’è già stata una prolessi nei titoli di coda, immaginandolo nella cornice del G20 italiano, in scena esattamente vent’anni dopo quello tragico genovese. Ci pare che cominciare l’analisi dei fotogrammi del road-movie europeo di Biden dal fuoricampo in cui è rimasto collocato per tutto il tempo il co-protagonista principale sia l’ottica attraverso cui assistere almeno a una sequenza della pellicola. Quella che consideriamo centrale e che ci sforziamo di inquadrare come nel film Dark Passage con Humphrey Bogart (regia di Delmer Davies per un titolo perfetto nel 1947 come per sottotitolare l’attuale film di Biden), in cui Vincent non viene inquadrato se non con particolari degli occhi e invece la cinecamera coincide con il suo sguardo, cercando di restituire l’ottica della soggettiva fuori scena di Xi Jinping, il controcampo del Convitato.

Don Giovanni 1979, di Joseph Losey

Per quanto sommessa, accennata e rimasta impigliata nel resto della trama, fatta invece di spettacolari palcoscenici e forti illuminazioni (quasi a voler spostare l’attenzione su episodi collaterali, come avviene spesso nei road-movie); la mano tesa del Convitato di pietra ha preso il fuoriscena come nel finale del Don Giovanni, relegando l’annuncio di un percorso delle merci alternativo a quello promosso dalla Bri, la nuova Via della seta, al rango del catalogo di Leporello: una smargiassata fin dall’allitterazione del nome Build Back Better World.

Il messaggio principale del film, sempre sottotraccia, è che vanno ridimensionati innanzitutto i rapporti commerciali con i cinesi, ma fingendo che si tratti di una guerra morale alle violazioni dei diritti civili.

E parlando di questa sequenza con Sabrina Moles (@moles_sabrina), il film si è trasformato in un viaggio interstellare, con al centro la nuova piattaforma spaziale cinese, che ha costretto Biden a un aggiornamento dell’articolo 5 dell’accordo Nato, estendendolo al dominio spaziale:

“La pantomima globalizzata della Guerra morale alla Cina”.

Il servo di due padroni

Di tutta la pantomima messa in scena nel viaggio di formazione del mondo di Biden infatti, riconsiderando il tourbillon dei messaggi mediatici, una volta conclusa la kermesse e lasciate decantare le dichiarazioni, spenti i riflettori, a posteriori nel consuntivo non si annoverano risultati apparentemente tangibili, ma è stata come una proiezione di slide della sceneggiatura da recitare nei prossimi anni della serie-tv che potrebbe intitolarsi The Great Game. The Revenge, la cui regia è affidata a Biden, con Blinken aiutoregista nelle sequenze del ritiro da Kabul, quindi al di là di ogni simulacro simbolico – che non avrà mai lo stesso impatto dell’ultimo elicottero che il 1° maggio 1975 lasciava l’ambasciata americana in Vietnam, anche se si tratta proprio di quel remake – offerto in pasto alle telecamere i nodi del film vero ruotano ancora attorno a Donbass e Crimea – come ci racconterà Yurii Colombo alla fine di questo articolo – e di conseguenza alle ex repubbliche sovietiche, che ritroviamo nel discorso di Baku, pronunciato da Erdoğan guarda caso proprio il giorno dopo il ritorno nell’alveo della Nato, con il compito speciale di andarsi a immolare in Afghanistan, come già avvenne quando la Turchia dovette pagare l’ingresso nella Nato dissanguandosi nella Guerra di Corea.

M.A.S.H., 1970, regia di Robert Altman

Stavolta il presidente turco di buon grado allunga i suoi tentacoli anche verso il Khorasan con la benevolenza degli Usa, che gli delegano così controllo militare, sfruttamento e ricostruzione di un’area fondamentale per il passaggio di merci tra XInjiang uyguro, Karakum turkmeno, Pamir tajiko, HinduKush multitribale, Karakorum e pianure indo-pakistane… monti e pianure persiane. Nomi evocativi di pellicole in costumi di mercanti: l’autentica antica Via della seta – il copyright – da contrapporre alla Belt Road Initiative per conto americano.

D’altronde nel duetto realmente interpretato con Putin si è giunti a una comunità di intenti («un dialogo bilaterale sulla “stabilità strategica”») su quel territorio che ha visto i due imperialismi rimanere impantanati nella Campagna d’Afghanistan.  Come riporta l’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della Luiss: «Nella conferenza stampa tenuta da Biden, a seguito dell’incontro che è durato circa 3 ore, il presidente ha affermato di aver discusso dell’interesse condiviso di Stati Uniti e Russia nel prevenire «una recrudescenza del terrorismo in Afghanistan»; [anche se ci sono prove del “Times” di aiuti economici e in armi elargiti da Mosca ai Talebani, ai quali erano anche state promesse taglie dal Cremlino per ogni soldato statunitense ucciso]. Un giornalista gli ha quindi chiesto se avesse fatto qualche domanda a Putin al riguardo. «No, è stato lui a chiedere dell’Afghanistan. Ha detto che spera che saremo in grado di mantenere un po’ di pace e sicurezza, e io ho detto: “questo dipende molto da voi”».

Dunque si direbbe che entrambe le potenze appaltino a Erdoğan il vuoto lasciato dal ritiro, ma poi gli affari azeri hanno inebriato il presidente turco spingendolo a parlare di imminente unità d’intenti tra 6 nazioni, tra queste le tre che hanno animato i protocolli di Astana e che si inserivano nella assenza trumpiana per spartirsi l’area (Russia, Turchia, Iran). Il colpo di scena turco di Baku allarga il novero a Georgia, Azerbaijan e… Armenia (!), dichiarando nella composizione dell’accordo quanto sia centrale proprio l’area caucasica, un’area che Putin non si può permettere sia sotto il controllo occidentale. E in questo caso l’ottica adottata nelle proiezioni della trama del film imbastita a Bruxelles, a cui hanno assistito Biden e Erdoğan alterna quello del documentario in stile Settimana Incom, con la promozione delle prodezze dei droni Bayraktar in Caucaso; mentre l’altro stile retorico utile per inquadrare lo sforzo richiesto alla Turchia in territorio libico non è più quello del materiale mediatico per l’arruolamento nelle Private military and security companies, quanto la brochure patinata delle imprese edili per la ricostruzione con l’imprimatur di Biden.

Illuminante risulta cercare di adottare lo sguardo di Ankara sull’incontro di Bruxelles, il primo tra Biden e Erdoğan, usando la lucida ironia di Murat Cinar (@muratcinar):
“Finto multilateralismo al servizio di reali democrature affaristiche”.

Il Terzo Uomo

Dunque in qualche modo Erdoğan dimostra ambiguità anche genuflettendosi a Bruxelles il giorno prima da Biden e quello successivo intraprendendo anche lui un road-movie interno all’Azerbaijan per controllare appalti e rilanciare l’alleanza di Astana allargata a un’area limitrofa e complementare a quella che coinvolge l’Afghanistan… e che è fondamentale per la politica di Putin, di cui il presidente turco rimane alleato. 

Proprio del terzo incontro del Gran Tour bideniano rimane da parlare, dopo la presenza inquietante del Convitato ingombrante Xi e l’infido Erdoğan, la scena madre e l’epilogo del viaggio di formazione vedeva la compresenza nell’inquadratura del “Killer dagli occhi di ghiaccio e senz’anima”, come lo stesso Biden aveva definito Putin

America is back

L’occhio che uccide, 1960, di Powell e Pressburger

Il consumato stratega aveva organizzato la sfida non tanto come nel torneo di The Quick and the Dead (Sam Raimi, 1995), piuttosto spingendo sull’atmosfera da spy story, per evocare i giornalisti uccisi e i dissidenti avvelenati, senza con questo appendere il Cremlino al cappio dei diritti umani e quindi cambiando registro narrativo l’incontro non ha risolto i veri nodi che rappresentano il dissidio tra Russia e Stati Uniti, ma si è trasformato in una partita a scacchi in stallo… riguardo al possibile  scacco di uno dei due contendenti possiamo seguire lo sguardo moscovita di Yurii Colombo (@matrioska2021):

“Le relazioni insolubili”.

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Elezioni iraniane: l’astensionismo è social https://ogzero.org/astensionismo-e-social-prospettive-iraniane/ Thu, 17 Jun 2021 10:55:32 +0000 https://ogzero.org/?p=3899 Il 18 giugno in Iran eleggeranno il successore di Hasan Rohani, il dibattito politico ferve tra affollate assemblee e serate pubbliche, ma il boicottaggio al voto viaggia sui social, su quelli che resistono alla censura, nelle stanze virtuali in cui cresce il “partito” dell’astensionismo derivante dalla disillusione degli iraniani: un paradosso per un regime che […]

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Il 18 giugno in Iran eleggeranno il successore di Hasan Rohani, il dibattito politico ferve tra affollate assemblee e serate pubbliche, ma il boicottaggio al voto viaggia sui social, su quelli che resistono alla censura, nelle stanze virtuali in cui cresce il “partito” dell’astensionismo derivante dalla disillusione degli iraniani: un paradosso per un regime che ha sempre indicato la partecipazione popolare come la prova della sua legittimità.


Figure molto in vista del governo iraniano hanno partecipato ad affollate assemblee per rispondere alle domande di cittadini e giornalisti. I candidati alle prossime elezioni presidenziali si sono presentati in serate pubbliche di dialogo, mentre una nota esponente riformista ha lanciato dure critiche alla selezione dei candidati. Un’attivista per i diritti umani ha spiegato perché lei non voterà. Si moltiplicano gli appelli a boicottare il voto. Anche le correnti conservatrici hanno organizzato eventi soprattutto per criticare il governo sulla gestione dell’economia, tema sempre molto popolare. E tutto questo avviene in eventi in diretta sui social media.

Il 18 giugno gli iraniani eleggeranno un successore al presidente Hasan Rohani, giunto al termine del suo secondo mandato, e il dibattito politico ferve.

Ma non sono stati i confronti in diretta Tv tra i sette candidati a mobilitare gli ascolti, quanto i social media: e tra questi soprattutto Clubhouse, ultimo grido in fatto di spazi virtuali.

Perché? Nel recente passato i dibattiti televisivi tra i candidati, inaugurati dalla Tv di stato nel primo decennio del Duemila, avevano avuto risonanza. Davano un’idea di apertura. Per la prima volta i candidati erano messi a confronto in diretta in ore di grande ascolto, con un contraddittorio che metteva alla prova la capacità di comunicare e rispondere a domande scomode.

Senza concorrenti

Non questa volta. Ma non è solo questione di format televisivi. Il fatto è che mai come questa volta il processo di selezione dei candidati è stato restrittivo: il Consiglio dei Guardiani, consesso di giuristi islamici che ha il compito di vagliare le credenziali di ogni candidato alle cariche pubbliche, ha squalificato molti nomi noti. In particolare, ha escluso l’attuale vicepresidente Eshaq Jehangiri, rappresentante di spicco dello schieramento riformista, e perfino l’ex presidente del parlamento Ali Larijani, e questo è stato davvero inatteso: in fondo Larijani è un esponente della nomenklatura della Repubblica Islamica, un conservatore, già caponegoziatore sul nucleare; non è mai stato neppure lontanamente vicino ai riformisti, anche se è un moderato e nelle ultime due legislature si è avvicinato al presidente uscente Rohani. Eppure è fuori. Escluso anche l’ex vicepresidente Mahmoud Ahmadi Nejad.

In altre parole, l’organismo di controllo ha escluso dalla competizione elettorale ogni reale concorrente all’unico candidato favorito dal sistema, e cioè Ebrahim Raisi, attuale capo della potentissima magistratura (che nel sistema istituzionale iraniano risponde solo al Leader supremo), esponente della corrente più oltranzista del sistema politico iraniano.

Il favorito del Leader

Il nome di Ebrahim Raisi emerge in alcune delle pagine più inquietanti della Repubblica islamica dell’Iran. Originario di un villaggio vicino a Mashhad, seconda città iraniana e sede di uno dei più importanti mausolei sciiti, Raisi ha studiato teologia a Qom, dove è stato discepolo di Ali Khamenei (oggi Leader supremo del paese). La sua carriera giudiziaria è cominciata nel 1981, subito dopo la Rivoluzione. Nel 1985 era viceprocuratore di Tehran e nel 1988, sul finire della sanguinosa guerra Iran-Iraq, fece parte di uno speciale gruppo di quattro magistrati che per incarico speciale dell’ayatollah Khomeini (l’allora Leader supremo) doveva epurare i detenuti politici di cui straboccavano le carceri: fu un massacro, l’esecuzione sommaria di migliaia di persone (circa cinquemila, secondo Amnesty International).

Durante la campagna per le presidenziali del 2017, quando Raisi si era candidato contro il presidente Rohani, questi ha rinfacciato a Raisi il suo ruolo nel “comitato della morte”: lui si è difeso minimizzando,  distinguendo tra gli accusatori e chi emette la sentenza.

L’astensionismo è social

Sta di fatto che da allora Raisi ha fatto una carriera sfolgorante, ricoprendo numerose alte cariche nella magistratura. Nel 2009 ha confermato la condanna a morte di numerose persone per aver partecipato alle proteste dopo la rielezione di Ahmadi Nejad. Nel 2016 Khamenei lo ha nominato “custode” della danarosa fondazione Astan Quds Razavi, che gestisce il mausoleo dell’Imam Reza a Mashad e soprattutto gestisce un cospicuo patrimonio e controlla una fitta rete di industrie e aziende commerciali. Nel 2019 Khamenei lo ha nominato Procuratore generale della Repubblica islamica.

È da allora che Raisi sta lavorando alla sua rivincita elettorale. Da capo della magistratura ha lanciato una “guerra alla corruzione”. In un paese dove alcuni sono riusciti ad ammassare grandi fortune in modo poco chiaro mentre le classi medie sono impoverite da crisi e sanzioni, il tema è di sicuro appeal popolare. Qualcuno sostiene che nella sua crociata anticorruzione il Procuratore generale Raisi si sia rivolto solo ai circoli più vicini alla famiglia Rafsanjani e alla sua corrente politica (che include parte del governo uscente), sorvolando sulle malefatte di altre parti politiche.

Certo è che da un paio d’anni Ebrahim Raisi gira per il paese tuonando contro i figli dell’élite “occidentalizzata” e corrotta, tiene incontri pubblici, visita moschee e fondazioni caritatevoli, arringa fedeli, accusa i riformisti di essere elitari e il governo di aver perso contatto con “i poveri”: come una lunga campagna elettorale, di cui ora spera di raccogliere i frutti. Raisi dispone con ogni evidenza dell’appoggio del deep state, i poteri forti della Repubblica islamica, con tutti gli apparati di consenso popolare (tra cui le fondazioni caritatevoli rivoluzionarie come quella di Mashhad che lui presiede).

Ciò che invece manca a Ebrahim Raisi è un carisma personale.

Nei dibattiti elettorali (in Tv: non sono noti suoi interventi su Clubhouse o altri social media) Raisi ha promesso di combattere «la povertà e la corruzione, l’umiliazione e la discriminazione», ed è tutto ciò che ha ripetuto durante uno dei rari comizi “in presenza” di questa campagna elettorale, pochi giorni fa in uno stadio della città sudoccidentale di Ahwaz (nonostante il paese stia ancora facendo i conti con la pandemia di Covid-19).

“Non è un’elezione, è una nomina”

«Questa non è più un’elezione, è una nomina», ha commentato Faezeh Hashemi, ex deputata ed esponente riformista, durante un incontro pubblico la cui registrazione è circolata online. Figlia dell’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, un grande vecchio della politica iraniana, Faezeh Hashemi è nota per prese di posizione molto schiette. «Non capisco perché abbiano pensato che Larijani fosse un pericolo per Raissi», osserva, visto che il capo della magistratura è di fatto in campagna da due anni. «È molto più grave che in passato», sostiene: lasciare in lizza Larijani almeno «avrebbe dato il senso di un confronto, anche se in effetti era offrire una scelta tra il male e il peggio». Ora non c’è davvero più nessun motivo per votare, conclude Hashemi.

Il veto sui candidati non è una novità in Iran. Nonostante tutto però in passato abbiamo visto una certa competizione politica, e il risultato delle urne non era scontato. Nel 1997 fu una sorpresa l’elezione di Mohammad Khatami, il primo fautore di aperture e riforme interne al sistema, che sconfisse il favorito dall’establishment. Nel 2013, quando i Guardiani hanno messo il veto sulla candidatura dell’ex presidente Rafsanjani, i voti di riformisti, moderati, e di tutti coloro che volevano mettere fine ai tempi bui di Ahmadi Nejad si sono riversati sul pragmatico e moderato Hasan Rohani – che in effetti ha riportato qualche apertura nella politica iraniana sia interna, sia internazionale.

Questa volta però non resta alternativa. Nell’ultima settimana di maggio il portavoce del Fronte riformista ha dichiarato che i riformisti non hanno alcun candidato in campo, ovvero che non ritengono di poter riversare i propri voti su nessuno.

Al contrario, si moltiplicano gli appelli a boicottare il voto.

Così, non sorprende che i dibattiti televisivi tra i sette candidati superstiti, andati in onda il 4, l’8 e il 12 di giugno, abbiano suscitato scarso interesse (anche se bisogna riconoscere che non ha aiutato la coincidenza con importanti partite della nazionale di calcio iraniana). I resoconti sono unanimi: dibattiti farciti di veementi accuse e sarcasmi reciproci, ma pochi discorsi concreti sui programmi, solo vaghe promesse.

L’astensionismo è social

L’unico candidato che mostra di crescere in popolarità, almeno secondo i sondaggi, è Abdolnaser Hemmati, già governatore della banca centrale iraniana da cui ha dovuto dimettersi quando ha registrato la sua candidatura in aprile. Hemmati per esempio ha criticato la decisione del governo Rohani di aumentare il prezzo della benzina nel novembre 2019. Si ricorderà che quell’aumento di prezzi aveva scatenato proteste popolari in molte città iraniane, poi represse con violenza dalla polizia e dalle Guardie della Rivoluzione, lasciando un trauma ancora aperto nella società iraniana. Ora Hemmati dice che lui era contrario al rincaro; che se sarà eletto chiederà che sia fatta luce sugli eventi di quei giorni e su quante persone sono state uccise dalle forze di sicurezza, e si accerterà che le famiglie delle vittime ricevano i risarcimenti a cui hanno diritto.

La “stanze” virtuali

Non è chiaro se simili dichiarazioni di simpatia per le vittime del novembre 2019 bastino a ridare qualche entusiasmo agli elettori. La cosa interessante però è che Hemmati ha fatto le dichiarazioni più veementi su Clubhouse.

Nata poco più di un anno fa negli Stati Uniti, Clubhouse è una video-chat che permette agli utilizzatori di aprire una “stanza” virtuale dove invitare fino a ottomila partecipanti per ogni sessione. In Iran ha avuto un immediato successo perché offre uno spazio pubblico, sebbene virtuale, dove si parla di un po’ tutto – cinema, eventi culturali, la pandemia, o anche se boicottare le elezioni.

Bisogna considerare che la diffusione di internet è molto alta in Iran fin dai primi anni Duemila, e ha avuto un’accelerazione nell’ultimo decennio. Un paese di 85 milioni di persone oggi ha quasi 95 milioni di allacciamenti alla banda larga. Negli otto anni di amministrazione Rohani, le sim card in uso sono passate da quasi 60 milioni a 131 milioni. L’uso di internet è pervasivo ormai anche nelle piccole città di provincia, e sono diffusissimi i social media: nel 2018 il ministero della Cultura annunciava che circa 40 milioni di iraniani avevano installato Instagram sui loro smartphone. Telegram è un altro social molto usato: permette di aprire “canali” dedicati che sono diventati veri e propri organi di informazione. Con Clubhouse si aggiunge la possibilità di incontri in diretta.

Come già Telegram e Instagram, molto popolari in Iran, o altri social media, anche Clubhouse è ampiamente usato sia da riformisti che conservatori, voci esterne al sistema politico e insider del regime. In una serata su Clubhouse ad esempio il comandante delle Guardia della Rivoluzione Rostam Qasemi, ha risposto alle domande del pubblico. Il ministro delle telecomunicazioni Mohammad Javad Azari Jahromi ha già animato diverse serate. È qui che opinionisti dei diversi schieramenti politici presentano candidati e lanciano discussioni – erodendo ancora un po’ il monopolio televisivo di stato (già minacciato dalle Tv satellitari straniere che il regime cerca invano di oscurare, o dalle piattaforme di cinema e serie Tv on demand).

È in una “stanza” di Clubhouse che, il 31 marzo, il ministro degli Esteri Zarif aveva discusso dell’accordo di cooperazione tra l’Iran e la Cina e di vari altri temi, in una affollatissima serata in cui ha accettato anche domande da giornalisti iraniani all’estero, come la reporter del “New York Times” Farnaz Fassihi o la free lance Negar Mortazavi che vive negli Usa, e perfino Masoud Behnoud, notissimo commentatore che collabora con Bbc Persian (oscurata in Iran): cosa che non sarebbe mai potuta accadere in un incontro più formale.

Sempre su Clubhouse l’avvocata e attivista Narges Mohammadi ha discusso della difesa dei diritti fondamentali nel paese in un evento pubblico che sarebbe impensabile in presenza. Mohammadi è la vicepresidente e portavoce del Centro dei Difensori dei Diritti umani, organizzazione che ha vita molto difficile in Iran: nel 2013 era stata condannata per “attentato alla sicurezza dello stato” e “propaganda contro il sistema”; scarcerata in via condizionale qualche anno dopo, di recente è stata confermata la sua condanna a 30 anni di reclusione.

In un evento del 31 maggio scorso, Mohammadi ha spiegato che boicotterà le elezioni del 18 giugno e farà propaganda attiva per l’astensione: «Se non sono garantiti i diritti politici dei cittadini, tra cui la libertà d’espressione e di riunione, il voto  non avrà un significato reale. […] Nel 2009 i cittadini hanno votato contro il governo; in altre occasioni hanno votato per candidati che si distinguevano almeno un po’ dal sistema.  Insomma, hanno usato quei minimi spazi politici. Ma nell’atmosfera politica attuale, non vedo uno spazio. Le elezioni hanno perso la loro funzione» (qui un resoconto più esteso dell’avvocata Mohammadi).

Cresce il partito dell’astensione

Mentre gli appelli all’astensione si moltiplicano, l’apatia degli elettori cresce. Secondo l’ultimo sondaggio  della Iran Students Polling Agency (Ispa), affiliata al ministero della Scienza e Tecnologia, solo il 34 per cento dei votanti si dichiara deciso ad andare alle urne; contando gli indecisi si arriva intorno al 38 per cento. Sono percentuali addirittura più basse di quelle registrate in maggio: come se la campagna elettorale oltre a non richiamare più elettori li avesse addirittura allontanati.

I sondaggi vanno presi con cautela, ma molti prevedono una partecipazione bassa.

Nelle ultime tre presidenziali la percentuale dei votanti ha oscillato tra il 72 e l’85 per cento.

Controcorrente, giorni fa l’anziano Mehdi Karroubi, autorevolissimo leader riformista, ha rivolto agli iraniani un appello a votare nonostante tutto, e ha chiesto ai riformisti di unirsi dietro a un nome, magari quello di Hemmati, per non lasciare ai conservatori una vittoria troppo facile. Un anno fa, l’apatia degli elettori e il veto su buona parte dei candidati riformisti hanno permesso alle correnti conservatrici di conquistare la maggioranza assoluta del parlamento iraniano; oggi si preparano a conquistare la presidenza.

La disillusione degli iraniani però è forte. «Ancora nel 2013 c’era uno spirito positivo negli elettori, c’era speranza», fa notare Faezeh Hashemi. Poi però le promesse di sviluppo e benessere aperte dalla presidenza Rohani e dall’accordo sul nucleare non si sono materializzate. L’avvento dell’amministrazione Trump ha riportato sanzioni e difficoltà per le classi medie iraniane, e accentuato la tensione internazionale. La repressione delle proteste popolari, la tragedia dell’aereo ucraino abbattuto per errore, l’incertezza economica – tutto concorre a erodere la fiducia pubblica. La scarsa affluenza al voto ne è un segno.

Bel paradosso per un regime che ha sempre indicato la partecipazione popolare come la prova della sua legittimità.

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Lotte armate: il rapporto (freddo) tra il Kgb e gli “anni di piombo” https://ogzero.org/lotte-armate-e-kgb-negli-anni-di-piombo/ Mon, 07 Jun 2021 21:07:03 +0000 https://ogzero.org/?p=3773 La quarta puntata della serie dedicata da Yurii Colombo ai servizi di intelligence russi si incentra sul rapporto tra le lotte armate nel mondo e il Kgb nei cosiddetti “anni di piombo”. Anche per questo contributo è prevista una diretta streaming di approfondimento dei contenuti; in autunno, una pubblicazione in cui confluiranno testi inediti a […]

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La quarta puntata della serie dedicata da Yurii Colombo ai servizi di intelligence russi si incentra sul rapporto tra le lotte armate nel mondo e il Kgb nei cosiddetti “anni di piombo”. Anche per questo contributo è prevista una diretta streaming di approfondimento dei contenuti; in autunno, una pubblicazione in cui confluiranno testi inediti a cura dell’autore a completamento delle analisi proposte nel nostro sito in questi mesi. Presto tutti i dettagli.


Raf, Ira, Fplp

In molti si sono esercitati nel compito di verificare se tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta ci furono delle relazioni tra organizzazioni europee dell’estrema sinistra che praticavano la lotta armata e il Kgb; o addirittura potessero essere state eterodirette o controllate. Il materiale su cui tentare di capire cosa sia successo realmente resta però assai limitato se si vuole evitare ogni tipo di dietrologia o di operare solo su ipotesi fantasiose. Credibili, in buona parte, sono i materiali raccolti nel cosiddetto Archivio Mitrokhin, gli archivi della Stasi che sono stati resi disponibili da qualche anno e ben poco altro. Per quanto riguarda gli archivi sovietici, invece, questi restano ancora oggi in buona parte non disponibili ai ricercatori.

Su queste basi e su parte della memorialistica in circolazione è possibile sicuramente sostenere che per quanto riguarda la Raf tedesca (Rote Armee Fraktion, ai più conosciuta come banda Baader-Meinhof), il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (Fplp) di George Habash (sostanzialmente l’ala marxista dell’Olp negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso) e varie organizzazioni rivoluzionarie irlandesi che praticavano il terrorismo in Gran Bretagna ci furono rapporti con i servizi sovietici – per certi significativi – ma non furono comunque mai eterodirette o controllate dal Kgb.

Né col Sessantotto, né con le BR

Per quanto riguarda le Brigate Rosse o altri gruppi italiani che praticarono la guerriglia allo stato dell’arte non si può che confermare le tesi del principale dirigente delle BR nella fase di più ampio sviluppo dell’organizzazione, Mario Moretti, che ha sempre negato qualsiasi relazione con il Kgb o comunque con servizi dei paesi dell’Est Europa.

I limitati o inesistenti rapporti tra Urss e formazioni di estrema sinistra italiana che praticavano la lotta armata avevano del resto prima di tutto un fondamento politico. Gruppi come le Brigate rosse e affini in Europa erano sorti sul mito del “foco” guerrigliero latinoamericano che era stato contrastato nettamente dai partiti comunisti sudamericani legati a Mosca da sempre su posizioni moderate (al punto di giungere in Argentina perfino a sostenere la Giunta Videla). La simpatia dei gruppi della lotta armata europea andava in primo luogo piuttosto verso il maoismo, malgrado la freddezza di Pechino per qualsiasi ipotesi di lotta armata. Tale diffidenza era condivisa da Mosca che vedeva oltretutto questi gruppi come un ricettacolo di ribelli, omosessuali e tossicodipendenti sorti sostanzialmente sull’onda della controcultura e in seguito al Sessantotto.

Tuttavia soprattutto nella fase in cui alla testa del Kgb si trovò Yuri Andropov, dei rapporti effettivamente ci furono in particolar modo con i palestinesi e gli irlandesi e, in misura minore, con i tedeschi.

Palestina libera, Palestina rosso-bruna

Il principale agente operativo sovietico nel movimento palestinese a partire dal 1968-1969 fu Wadi Haddad, che era il vice di Habash e si occupava in primo luogo di azioni di diversione in Europa. Tutti i tre dirottamenti aerei organizzati dal Fplp nel 1970 furono realizzati sotto la direzione del Kgb secondo l’ex agente Mitrokhin, una rivelazione confermata anche dal dissidente Vladimir Bukovskij, nel suo documentatissimo Gli archivi segreti di Mosca. L’autorizzazione a sostenere Haddad, documentata da una serie di minute, fu data ad Andropov direttamente dal segretario del Pcus Leonid Breznev, che diede persino l’approvazione a realizzare per mezzo del Fplp il rapimento del vice ambasciatore americano in Libano dell’epoca. Furono consegnate all’uopo dal Kgb ai palestinesi 5 lanciagranate anticarro portatili Rpg-7, 50 pistole di produzione tedesco occidentale e 5000 munizioni; 50 mitragliatrici MG-21, 5 mitragliatori automatici Sterling di fabbricazione britannica, 50 fucili automatici americani AR-16 e 5 mine oltre che una limitata quantità di danaro.

L’operazione non andò poi in porto, ma ovviamente i palestinesi si tennero armi e soldi.

 

Tripoli 1977: Yasser Arafat, Muammar Gaddafi, Nayef Hawatmeh e George Habash.

You may bill the revolutionary, but never the Revolution

Andropov si dimostrò disponibile anche a dare una mano al movimento irlandese nell’Ulster. Il 6 novembre 1969 il segretario generale del Partito comunista irlandese, Michael O’Riordan, si fece latore all’allora capo del Kgb di una richiesta diretta di armi proveniente da Seamus Costello che dirigeva l’ala marxista dell’Irish Republican Army (Ira) che poi darà vita all’Ira Officials. L’operazione aveva un aspetto politico di lotta interna all’Ira dove i marxisti ortodossi sostenevano che i futuri e più celebri Provisionals non sarebbero stati in grado di condurre la lotta armata e la ribellione dell’Irlanda del Nord in modo coerente e alle sue estreme conseguenze rivoluzionarie. Dopo molti tentennamenti, nel 1972, Andropov decise di iniziare a consegnare agli Officials partite di armi. Secondo quanto riportato da Mitrokhin, «il 21 agosto 1972, Andropov presentò i dettagli del piano Splash al Comitato Centrale del Pcus, ovvero il piano per l’operazione di una spedizione di armi agli amici irlandesi», che prevedeva la consegna da parte dei servizi russi di armi all’Ira Officials, che Mosca considerava ancora sufficientemente marxista, nella prospettiva di una scissione dell’Ira che avverrà alla fine di quell’anno. Dopo l’approvazione del Partito, i cosiddetti “specialisti tecnici” del Kgb assemblarono una spedizione composta da due mitragliatrici, 70 fucili automatici, 10 pistole Walther, 41.600 cartucce, tutte di fabbricazione non sovietica. Inoltre, le pistole Walther sono state lubrificate con olio della Germania occidentale mentre gli imballaggi sono stati raccolti da diversi punti del mondo dagli agenti del Kgb.

«Mosca non voleva che le armi venissero rintracciate come proprie nel caso fossero cadute nelle mani delle forze di sicurezza britanniche», ha raccontato Mitrokhin.

Diverse ulteriori spedizioni di armi sovietiche all’Ira Official vennero fatte via mare, probabilmente fino alla fine degli anni Settanta quando i Provisionals ebbero infine la meglio nella lotta per l’egemonia nel movimento nordirlandese.

Della Stasi era il proiettile

Il rapporto tra Kgb e Raf fu invece assai più indiretto e si realizzò essenzialmente attraverso la Stasi. Sicuramente i vertici “benedirono” le relazioni dei servizi tedesco-orientali con la Raf, e avendo dei database informativi comuni con tutti gli altri servizi del Patto di Varsavia i russi erano sicuramente a conoscenza di quanto succedeva in Germania, tuttavia restarono comunque “freddi” con la guerriglia tedesca di estrema sinistra. Alla base c’era una riluttanza dei sovietici a sviluppare relazioni con un gruppo che comunque era sorto a partire da tesi vagamente marcusiane della Raf che consideravano la classe operaia tradizionale occidentale “imborghesita” e incapace di giocare un ruolo politico rivoluzionario, una tesi che per cultura politica era estremamente lontana dall’approccio del Cremlino.

I rapporti tra Stasi e Raf si svilupparono essenzialmente dopo la catastrofe del 1977 quando tutto il gruppo dirigente del gruppo armato trovò la morte nel carcere di Stammheim e in seguito varie azioni armate non andarono a buon fine.

Grazie ai servizi tedeschi di Berlino Est negli anni Ottanta la Raf fu in grado di avere una certa ripresa organizzativa anche se in un quadro politico per possibilità di reclutamento e sviluppo dell’attività armata ormai ridotto al lumicino dopo il riflusso dei movimenti giovanili degli anni precedenti in Europa.

Come ha riportato Mitrokhin comunque la Raf fu in grado prima di spegnersi di realizzare «nell’agosto 1981 un attentato con un’autobomba al quartier generale europeo dell’aviazione americana a Ramstein, nella Germania occidentale in cui restarono ferite diciassette persone; un mese dopo, i terroristi della Raf effettuarono un attacco missilistico senza successo a Heidelberg contro l’auto del generale Frederick Kroesen».

L’attentato a Ramstein nel 1981.

Durante il biennio 1984-85, la Raf tentò anche di far saltare in aria la scuola della Nato a Oberammergau, bombardò la base aerea americana di Francoforte e attaccò i soldati americani a Wiesbaden. La Stasi fu complice nell’attentato dei rivoluzionari tedesco-occidentali alla discoteca La Belle di Berlino Ovest, favorendo il trasporto degli esplosivi che uccisero un sergente americano e una donna turca e ferirono 230 persone, tra cui una cinquantina di militari statunitensi.

La dietrologia del Pci rivoltata contro se stessa

Per quanto riguarda le Brigate rosse, non sono mai state portate prove o indizi significativi di loro rapporti né con i servizi cecoslovacchi (di cui tanto si parlò a un certo punto) né con la Stasi né tanto meno con il Kgb. Durante la commissione parlamentare di inchiesta ad hoc che si formò non emerse di fatto nulla. La commissione lavorò essenzialmente sull’archivio Mitrokhin nella sua interezza (circa 6 casse di materiali) e sulla base di audizioni, ma le informazioni che riuscì a produrre furono assai scarse: non venne alla luce più di quanto si sapesse e cioè che probabilmente tra gruppi armati europei si parlò e si era a conoscenza di alcune relazioni di alcuni di essi con i sovietici; ma per quanto si è potuto appurare fino a oggi, le BR non ebbero alcun rapporto con servizi orientali. Recentemente l’ex presidente di quella commissione Paolo Guzzanti ha sostenuto che in Ungheria ci sarebbero le prove dei rapporti tra Urss e Brigate rosse ma l’ex deputato berlusconiano non è riuscito a produrre o a farsi consegnare alcun documento a Budapest che provasse le “relazioni pericolose”.

Inoltre Antonio Selvatici ha pubblicato un libro (Chi spiava i terroristi. KGB, STASI – BR, RAF. I documenti negli archivi dei servizi segreti dell’Europa «comunista») che prometteva molto dal titolo ma è risultato assai deludente. Anzi ciò che emerge dal libro è tutto il contrario di quello che si vorrebbe provare, ovvero lo stretto legame politico ed economico che il Pci mantenne con Mosca fino al 1991, il quale a tutto era interessato meno che allo sviluppo delle formazioni armate in Italia.

Berlinguer incontra Breznev nel 1973.

Che l’approccio del Pci fosse del resto ben poco accondiscendente verso la lotta armata anche sotterraneamente lo intendevano anche i brigatisti stessi. In un ampio documento di bilancio storico della loro attività, appena pubblicato da alcuni militanti delle BR, si afferma che «già alla metà degli anni Settanta il “nucleo storico” era giunto alla conclusione che “l’intera area socialimperialista”, cioè l’Urss e i suoi alleati – e i paesi non allineati –, fosse contraria allo sviluppo sul teatro europeo di un processo rivoluzionario armato che mettesse in discussione l’equilibrio tra i due blocchi» ed evidentemente non potesse aspettarsi aiuti particolari dall’Est europeo. Ciò è confermato dall’atteggiamento completamente passivo che il Kgb ebbe durante il periodo del rapimento Moro nel 1978. Sembra che Giorgio Amendola fosse preoccupato in quel periodo che potessero emergere relazioni tra BR e servizi cecoslovacchi ma anche qui non emerse mai niente di consistente.

Ciò che era noto a tutti invece è che esisteva una fronda “filosovietica” nel Pci guidata da Armando Cossutta e sostenuta in parte dal quotidiano “Paese Sera” che come emerge dall’archivio Mitrokhin, anche attraverso il Kgb, riceveva del denaro da Mosca.

All’atto pratico però si trattò sempre di “spiccioli”: 700.000 dollari nel 1985, 600.000 dollari nel 1986 e 630.000 dollari nel 1987. La corrente berlingueriana malgrado si lamentasse di possibili interferenze del Kgb e di altri servizi segreti orientali nella sua attività (come per quanto riguarda il caso del presunto attentato a Enrico Berlinguer a Sofia nel 1973 da parte dei servizi bulgari), in realtà anche dopo la propria adesione alla Nato e la denuncia del golpe in Polonia del 1981 mantenne stretti legami con Mosca, ben più importanti di quelli che poteva vantare la corrente Cossutta.

Nel 1983 in uno dei pochi documenti affiorati dagli archivi sovietici nei primissimi anni Novanta emerge che il Pci, malgrado le divergenze con Mosca, continuava a ricevere soldi dai russi a profusione: «Richiesta degli amici italiani. Incaricare il Ministero per il commercio estero (compagno [Nikolaj] Patolicev) di vendere alla ditta Interexpo (presidente, compagno L.[uigi] Remigio), sulla base commerciale abituale, 600mila tonnellate di petrolio e 150mila tonnellate di carburante diesel a condizioni di favore tali che, abbassando il prezzo dell’1% circa e dilazionando il pagamento di tre-quattro mesi, i nostri amici possano ricavare da questa operazione commerciale attorno ai 4 milioni di dollari», è scritto in un documento del Comitato centrale del Pcus reso pubblico una ventina di anni fa. Insomma se qualcuno fu aiutato in Italia dall’Urss fu chi, come il Pci, combatté strenuamente il brigatismo e non il contrario. A volte la dietrologia può fare veramente brutti scherzi.

Se interesse ci fu in Italia da parte del Kgb, fu soprattutto in relazione al ruolo che avrebbe potuto giocare – e che giocò – la Chiesa cattolica dopo l’elezione di Giovanni Paolo II a papa nel tentare di destabilizzare la situazione nei paesi socialisti e non solo in Polonia ma anche nelle zone sovietiche a maggior insediamento cattolico come l’Ucraina, la Bielorussia e la Lituania.

Giovanni Paolo II in visita in Lituania, sulla Collina delle Croci, nel 1993.

 

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La telenovela e la fuga di notizie, lotta politica a Tehran https://ogzero.org/realta-e-finzione-si-sovrappongono-la-telenovela-e-la-fuga-di-notizie-lotta-politica-a-tehran/ Sun, 09 May 2021 10:19:38 +0000 https://ogzero.org/?p=3421 Quando la politica e la fiction si intrecciano, in un uso strumentale dei mezzi di comunicazione, per uscire vincitori in una lotta di potere tra le diverse correnti del sistema politico iraniano. Marina Forti ci racconta come realtà e finzione si sovrappongono a Teheran, tra arresti, condanne a morte, fughe di notizie pilotate, messaggi lanciati […]

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Quando la politica e la fiction si intrecciano, in un uso strumentale dei mezzi di comunicazione, per uscire vincitori in una lotta di potere tra le diverse correnti del sistema politico iraniano. Marina Forti ci racconta come realtà e finzione si sovrappongono a Teheran, tra arresti, condanne a morte, fughe di notizie pilotate, messaggi lanciati via social e vere e proprie azioni di intelligence.


Pragmatici e riformisti, ortodossi e oltranzisti

Una serie tv e una strana “fuga di notizie” illustrano la furibonda lotta di potere in corso a Tehran, in un momento particolarmente delicato per l’Iran. Infatti, da un lato sono in corso a Vienna difficili negoziati tra l’Iran e le sei potenze mondiali per resuscitare l’accordo sul programma nucleare iraniano firmato nel 2015 – da cui l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump si era ritirato nel 2018 benché l’Iran avesse osservato tutti i suoi obblighi. D’altro lato, il 18 giugno l’Iran eleggerà un successore al presidente Hassan Rohani, che conclude il suo secondo mandato. Le candidature non sono ancora definite, e la competizione tra le diverse correnti del sistema politico iraniano è serrata: i pragmatici al governo con il presidente Rohani, i riformisti, o all’opposto le correnti più ortodosse e oltranziste, le Guardie della rivoluzione, la magistratura (sottotraccia c’è anche la corsa a “posizionarsi” per influenzare la futura successione al leader supremo, l’ottantunenne Ali Khamenei).

I negoziati in corso a Vienna e la battaglia elettorale sono molto intrecciati. E questo ci porta alla serie tv intitolata Gando, dal nome di un coccodrillo delle zone palustri del Sistan Baluchistan, provincia sudorientale dell’Iran.

Gando: il coccodrillo e la spy story

Gando è una spy story in cui eroici agenti del controspionaggio delle Guardie della Rivoluzione combattono agenti stranieri infiltrati fino ai vertici della diplomazia iraniana. Messa in onda dalla tv di stato, la prima stagione è andata in onda nel 2019: sullo sfondo dei negoziati sul nucleare, coraggiosi agenti iraniani smascherano il corrispondente di una famosa testata degli Stati Uniti, in realtà una spia americana. I titoli di testa avvertivano che la fiction era “ispirata a fatti reali”. In effetti il giornalista-spia assomigliava molto a Jason Rezaian, l’ex corrispondente del “Washington Post” a Tehran arrestato nel 2014 e accusato appunto di spionaggio (accuse mai spiegate in modo convincente), condannato dopo un processo a porte chiuse e infine liberato nel 2016 grazie a uno scambio di prigionieri con gli Usa, proprio mentre l’accordo sul nucleare entrava in vigore. Ovviamente la fiction sposa le tesi dell’accusa.

Jason Rezaian, dopo la liberazione

La prima puntata della seconda stagione è andata in onda lo scorso 21 marzo, un giorno dopo Nowruz (il capodanno persiano). Questa volta “i nostri eroi” sventano l’infiltrazione di spie occidentali nei ranghi della delegazione iraniana ai negoziati avvenuti tra il 2013 e il 2015, conclusi con la firma dell’accordo sul nucleare. Una puntata dopo l’altra, gli spettatori scoprono con orrore che tra i massimi negoziatori ci sono agenti stranieri.

Anche nella nuova stagione troviamo “citazioni” esplicite. C’è per esempio un giornalista che ricorda un noto oppositore iraniano residente in Europa, Ruhollah Zam, invitato a Baghdad e là rapito da agenti di sicurezza iraniani, portato in Iran, processato e condannato a morte per spionaggio (fatto reale: la condanna di Zam è stata eseguita lo scorso dicembre).

Ruhollah Zam di fronte ai giudici che lo condanneranno. L’esecuzione è avvenuta il 12 dicembre 2020.

Non solo. I due negoziatori che (nella fiction) fanno il doppio gioco a favore di potenze straniere assomigliano molto a due assistenti del ministro degli Esteri Javad Zarif, che guida la delegazione (reale) ai negoziati. La fiction sembra suggerire che lo stesso capo delegazione sia una spia.

La censura e le accuse

La serie ha suscitato grandi polemiche, poi si è interrotta bruscamente. Pare che il presidente Rohani abbia fatto grandi rimostranze presso il leader supremo. Ora giornali e media legati a settori oltranzisti accusano il governo di aver censurato Gando.

Accusa paradossale, perché Irib, la radiotelevisione statale, costituisce un potere a sé tra le istituzioni della Repubblica islamica. Il suo direttore è nominato direttamente dal leader e non risponde al governo. È un monopolio (non esistono radio e tv private), ed è sempre stata una roccaforte delle correnti più oltranziste. Le voci vicine ai riformisti non vi trovano spazio, che si tratti di artisti, cineasti o intellettuali non allineati. Al governo del moderato Rohani la tv di stato riserva una copertura ridotta e spesso malevola.

Il monopolio della radio e tv di stato però è sempre più insidiato. In primo luogo dalle tv che arrivano via satellite, tra cui diversi canali occidentali in lingua farsi (“Bbc Persian” o “Voice of America” in lingua farsi) che lo stato vieta ma non riesce del tutto a oscurare. Ma non solo dei canali di news, anche la fiction e l’intrattenimento sono terreni di battaglia per imporre una “narrativa”. Le serie tv più guardate per esempio vengono dalla Turchia: più spigliate e professionali, doppiate in farsi in modo molto professionale, sono diffuse da canali satellitari o su piattaforme come Namava, un equivalente di Netflix.

Lo stile aiuta

Dunque una buona fiction è un investimento politico. Gando è più brillante delle solite serie della tv di stato. Ha attori famosi, uno stile tra James Bond e l’ironia di Ncis, è stata girata tra l’Iran e la Turchia, prodotta con grande dispendio di denaro. Sceneggiatore e produttore sono nomi noti. Nel 2019 il giornale (governativo) “Jam-e Jam” aveva scritto che la casa produttrice era finanziata da società delle Guardie della Rivoluzione (nulla di strano: hanno interessi in ampi settori dell’economia iraniana e anche nell’industria culturale). Nel gennaio scorso il ministro Zarif è stato esplicito: «L’intelligence delle Guardie della Rivoluzione ha fatto Gando». La cosa non è stata smentita.

Giornalisti e commentatori vicini ai riformisti o al governo Rohani accusano Gando di travisare la realtà, screditare il governo con false illazioni, gettare fango sui negoziatori che invece hanno lavorato nell’interesse dell’Iran. È ben noto che le correnti più oltranziste della Repubblica islamica, in particolare legate ai militari, hanno osteggiato il negoziato: non potevano impedirlo, perché aveva il beneplacito del leader supremo, ma non l’hanno mai digerito.

Parlare a nuora perché suocera intenda

Sembra che quando Gando è tornato sugli schermi, in marzo, il presidente Rohani si sia lamentato presso il leader per questo attacco subdolo. Così, quando la serie si è interrotta in modo un po’ brusco, giornali e social media vicini ai conservatori hanno accusato il governo. Il produttore, Mojtaba Amini, ha parlato di censura. Un noto commentatore (Pooyan Hosseinpour, su Twitter, 24 marzo) ha ammonito il governo: «Non dimentichiamo il disastro di Dorri-Esfahani, che spiava i negoziatori sul nucleare». Abdolrasoul Dorri-Esfahani era il rappresentante della Banca centrale iraniana nel team negoziale guidato da Zarif tra il 2013 e il 2015; in seguito è stato accusato di passare informazioni riservate a governi stranieri e per questo è stato condannato nel 2017: a molti è sembrata una ritorsione degli oltranzisti furiosi per l’avvenuto accordo. Un avvertimento obliquo? Qualcuno l’ha inteso così: Zarif è avvertito, potrebbe fare la fine di Dorri-Esfahani.

Fatto sta che nei primi giorni di aprile il quotidiano “Vatan-e Emrooz”, allineato su posizioni oltranziste, ha criticato aspramente la diplomazia iraniana per aver accettato di tenere colloqui con gli Stati Uniti in vista del rilancio dell’accordo sul nucleare, in un editoriale di prima pagina dall’eloquente titolo: La terza stagione di “Gando” verrà scritta a Vienna?.

Zarif, il bersaglio

Insomma: Gando è un’operazione politica e il suo target, ancor più che il presidente Rohani, è proprio il ministro degli esteri Javad Zarif.

I motivi sono almeno due. Primo, screditare i colloqui di Vienna – che però di nuovo hanno il beneplacito del Leader (se arriveranno a un esito è ancora incerto, anche se alcuni segnali sono positivi; è chiaro che molti lavorano contro, non solo a Tehran ma anche a Washington e in alcune capitali del Medio Oriente).

Ma il discredito buttato su Zarif ha soprattutto lo scopo di mobilitare la base dei conservatori a fini interni, e premere perché l’organismo di controllo (il Consiglio dei Guardiani) sbarri la strada alla sua possibile candidatura alle elezioni presidenziali del 18 giugno.

Infatti Javad Zarif resta una figura popolare in Iran, proprio perché è stato il volto pubblico di un Iran che si riapre al dialogo, e la sua popolarità sarebbe di sicuro rafforzata se i colloqui di Vienna portassero a far cadere le sanzioni che soffocano l’economia del paese. Anche se Zarif ha sempre escluso di volersi candidare, molti sono convinti che sarebbe la carta migliore per moderati e riformisti, l’unica in grado di sfidare i pronostici che danno vincente lo schieramento opposto. Di più: l’unica capace di mobilitare l’elettorato, di fronte a diffusi propositi di astensione.

È qui che entra in gioco la “strana” fuga di notizie. Una intervista, o meglio: tre ore di conversazione tra il ministro Zarif e un noto giornalista ed economista, Saeed Leylaz, diffusi il 25 aprile da “Iran International”, tv satellitare con sede in Arabia Saudita e a Londra. Il capo della diplomazia parla in modo schietto e critica l’eccessivo ruolo delle Guardie della Rivoluzione nel determinare la politica estera iraniana, scavalcando la diplomazia. Hanno fatto scalpore i passaggi in cui cita le brigate Al Qods, il corpo speciale delle Guardie della Rivoluzione, e il defunto comandante Qassem Soleimani (ucciso da un attacco mirato degli Stati Uniti a Baghdad nel gennaio 2020).

La fuga di notizie

Chi ha diffuso quella registrazione, per di più facendola arrivare a un canale tv “avversario”? Tre giorni dopo la devastante fuga di notizie, un infuriato presidente Hassan Rohani ha dichiarato durante una riunione di gabinetto (trasmessa dalla tv) che quella conversazione era confidenziale, fa parte di un progetto di storia orale a cui sta lavorando il Centro di ricerche strategiche affiliato alla presidenza della repubblica. Ha aggiunto che diffondere quei brani è stato un gesto irresponsabile che mira a far deragliare i colloqui in corso a Vienna per rilanciare l’accordo sul nucleare e rimuovere le sanzioni contro l’Iran. E ha annunciato un’indagine: «il ministero dell’Intelligence dovrà usare tutte le sue abilità per scoprire come sia successo». (A quanto pare anche l’intelligence delle Guardie della rivoluzione, separata e spesso concorrente a quella del governo, ha aperto la sua indagine.)

Intanto tutto lo schieramento conservatore ha lanciato attacchi feroci contro il ministro degli Esteri, chiedendo che si scusi per le affermazioni “sacrileghe” su Soleimani, o meglio ancora si dimetta.

Ovviamente diversi media hanno citato solo questa o quella frase. Chi ha ascoltato per intero quelle tre ore di audio (tratte da una conversazione di sette ore) riferisce che Zarif non fa affermazioni del tutto nuove. Riferisce precisi episodi in cui le Guardie della Rivoluzione hanno preso iniziative non coordinate. Dice che la Russia avrebbe preferito far fallire i negoziati sul nucleare (per mantenere l’Iran nella sua sfera d’influenza), e le Guardie della Rivoluzione hanno cercato l’aiuto russo per lo stesso scopo.

Zarif racconta che sei mesi dopo l’entrata in vigore dell’accordo sul nucleare è venuto a sapere dal suo omologo John Kerry (allora segretario di stato Usa) che l’Iran aveva intensificato l’invio di aiuti a Damasco usando i voli di Iran Air, con evidente danno per la posizione negoziale iraniana, al punto di scoprire dalla tv che il presidente siriano Bashar al-Assad era in visita a Tehran (era il febbraio 2019, e in effetti quella volta Zarif diede le sue dimissioni – rifiutate da Rohani: «quel giorno compresi che se non mi dimettevo… nessuno più mi avrebbe preso sul serio», dice in quella conversazione confidenziale).

La politica delle cannoniere

Il ministro degli Esteri rivendica però i suoi buoni rapporti con Soleimani, che incontrava spesso, e proclama la sua fedeltà al sistema della Repubblica islamica. Ricorda che le linee di politica estera vengono definite dal Consiglio di sicurezza nazionale, in cui sono rappresentate diverse istituzioni tra cui i militari, e sanzionate dal leader supremo: però poi i militari prendono iniziative proprie. Secondo Zarif, vedono le relazioni internazionali “con lenti da guerra fredda”: «pensano che chi è forte sul piano militare sia anche forte sulla scena internazionale… perseguono la politica delle cannoniere. Non credono che anche l’economia, e la diplomazia, e la solidarietà nazionale possano renderci più forti». (Secondo la corrispondente del “Financial Times”, dalle parole di Zarif emerge chiaro che chi detiene davvero il potere a Tehran sono i militari).

Il 2 maggio il leader in persona è intervenuto a criticare i giudizi dati da Zarif in quella registrazione, pur senza nominarlo: «non dobbiamo fare commenti che evocano quelli del nemico»; questo è “un grave errore” che «un alto funzionario dello stato non dovrebbe commettere». Poche dopo il ministro degli Esteri, in un post su Instagram, ha precisato che le sue parole volevano offrire in modo “onesto” il suo punto di vista, si scusa se hanno “contrariato” la massima autorità e ringrazia il leader per aver “messo fine al dibattito”.

Un noto esponente riformista, Abbas Abdi, ha scritto che le rivelazioni «avranno il sicuro effetto di impedire la candidatura di Zarif». Aggiunge però che danno un ritratto degli oltranzisti come degli irresponsabili, e dei riformisti come deboli, quindi in ultima istanza non beneficiano proprio nessuno. Certo descrivono una lotta di potere senza esclusione di colpi.

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L’Iran guarda a Est https://ogzero.org/attacco-cibernetico-a-natanz/ Tue, 13 Apr 2021 09:02:44 +0000 https://ogzero.org/?p=3058 Il più importante impianto nucleare iraniano è di nuovo al centro dell’attenzione internazionale: il 10 aprile Rohani aveva inaugurato lì, a Natanz, in pompa magna una nuova serie di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Il giorno dopo però l’impianto è stato colpito da un attacco cibernetico che le autorità iraniane hanno definito “terrorismo nucleare”. Già il […]

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Il più importante impianto nucleare iraniano è di nuovo al centro dell’attenzione internazionale: il 10 aprile Rohani aveva inaugurato lì, a Natanz, in pompa magna una nuova serie di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Il giorno dopo però l’impianto è stato colpito da un attacco cibernetico che le autorità iraniane hanno definito “terrorismo nucleare”. Già il 2 luglio 2020 l’impianto di Natanz era stato oggetto di un attacco, presumibilmente israeliano. Questa volta la responsabilità di Israele è asserita da fonti dell’intelligence statunitense citate dal New York Times. Il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif ha dichiarato, lunedì 12 aprile, che l’Iran “risponderà” all’attacco, e ha accusato: Israele «ha voluto vendicarsi per i nostri progressi sulla via la revoca delle sanzioni». Insomma:  il nuovo attacco a Natanz  accentua i rischi di escalation tra Iran e Israele, e minaccia di ipotecare i colloqui appena avviati a Vienna per rilanciare l’accordo del 2015 sul programma nucleare iraniano.

L’articolo di Marina Forti che proponiamo colloca il contenzioso sul nucleare iraniano nel contesto, allargando lo sguardo ad altri protagonisti, ponendo le basi per interpretare la collocazione geopolitica dell’Iran nei prossimi anni.


Uno spostamento, verso Est?

La firma di un accordo venticinquennale di partenariato tra l’Iran e la Cina è stata accolta da commenti contrastanti. Firmato il 27 marzo a Tehran dai ministri degli Esteri iraniano e cinese, Javad Zarif e Wang Yi, l’accordo riguarda commercio, investimenti e difesa. È uno sviluppo importante, per il merito, e forse prima ancora per il momento in cui viene annunciato.

Presupposti per la ripresa del Jcpoa

Infatti, una delle partite più difficili affrontate oggi dalla diplomazia internazionale riguarda il possibile rilancio dell’accordo sul nucleare iraniano – il Joint Comprehensive Plan of Action, o Jcpoa, firmato da sei potenze mondiali con l’Iran nel 2015, da cui gli Stati Uniti si sono ritirati unilateralmente nel maggio 2018 per volere dell’allora presidente Donald Trump.

Il suo successore Joe Biden, appena insediato alla Casa Bianca, ha affermato l’intenzione di riportare gli Stati Uniti in quell’accordo: a condizione però che l’Iran torni a osservare le limitazioni alle sue attività nucleari previste dal Jcpoa, in parte abbandonate negli ultimi mesi. Tehran ha risposto che è stata Washington a rompere gli accordi: dunque prima gli Usa revocano le sanzioni draconiane e unilaterali che da due anni e mezzo soffocano l’economia iraniana, poi anche l’Iran torna a osservare i patti. La questione di chi debba compiere il primo passo ne nasconde altre, non ultimo il fatto che sia a Washington, sia a Tehran lavorano gruppi di interesse contrari alla ripresa di quegli accordi.

L’impasse si è prolungata per oltre due mesi. Finché gli Stati Uniti hanno accettato di partecipare a un vertice dei firmatari dell’accordo nucleare (Francia, Regno Unito, Germania, Russia, Cina, Unione europea e Iran), che si è tenuto a Vienna nella settimana dopo Pasqua, con i rappresentanti europei nel ruolo di mediatori. Iran e Stati Uniti hanno dunque accettato di definire un meccanismo di rientro simultaneo: gli Usa revocano le sanzioni del periodo Trump mentre l’Iran torna a limitare l’arricchimento dell’uranio secondo il vecchio accordo. Definire le modalità non sarà semplice, ma il percorso è aperto.

C’entra qualcosa tutto questo con l’accordo di cooperazione sino-iraniano, annunciato solo pochi giorni prima? Direttamente no, certo. E però, è chiaro che un partenariato economico tra l’Iran e la Cina limita l’efficacia del principale strumento di pressione usato da Washington verso Tehran, cioè le sanzioni commerciali. «L’Iran sta cercando di dire che ha dei partner, anche in un momento di tensione e difficoltà», commenta Esfandiar Batmangheligj, direttore della newsletter Bourse and Bazar specializzata in Iran e Asia centrale (citato da “The Independent”).

L’importanza di questo accordo però va oltre il dossier nucleare, e si inquadra nella più ampia strategia di sviluppo dell’Iran tra Europa e Asia.

Cosa sappiamo degli accordi tra Cina e Iran?

Per la verità non conosciamo molti dettagli sul “patto di cooperazione strategica” firmato a Tehran. Sappiamo che è stato in gestazione per cinque anni: ne parlò per la prima volta il presidente cinese Xi Jinping nel gennaio 2016 durante la sua visita a Tehran, dove aveva incontrato il Leader supremo, ayatollah Ali Khamenei. Sul momento la cosa sembrava caduta; si tornò a parlarne solo nel febbraio del 2019, quando l’allora presidente del parlamento iraniano Ali Larijani, in visita a Pechino, ne riparlò con il presidente Xi. Nel luglio di quell’anno lo stesso Larijani dichiarò che l’Iran aveva elaborato una bozza di accordo da discutere con le controparti cinesi. I negoziati sono proseguiti nel più assoluto riserbo; nel settembre 2019, quando il giornale “Petroleum News” ha dato notizia di un accordo negoziato “in segreto”, è sembrata una sorpresa.

Nel luglio del 2020 un’agenzia di stampa iraniana ha affermato di avere la bozza dell’accordo appena approvata dal governo di Hassan Rohani; poco dopo la stessa bozza è stata diffusa da “IranWire”, sito di oppositori iraniani all’estero.

Tanta segretezza ha suscitato molte polemiche in Iran. Le correnti più oltranziste hanno accusato il governo Rohani di “svendere” il paese; si diceva che avesse dato in concessione alla Cina alcune isolette iraniane nel Golfo Persico, forse addirittura l’isola di Kish, nota destinazione turistica. Il governo ha smentito. Il parlamento (dominato da deputati ultraconservatori) ha convocato il ministro degli Esteri per rispondere a interrogazioni molto ostili. L’ex presidente Mahmoud Ahmadi Nejad ha accusato Rohani di trasformare l’Iran in un protettorato cinese. Polemiche basate su illazioni e anche vane, poiché è noto che un tale accordo non si potrebbe negoziare senza il coinvolgimento del Consiglio di sicurezza nazionale e il consenso del Leader supremo. (Interessante però che le stesse accuse al governo Rohani siano state mosse dagli ultraconservatori interni e dagli exilés di “IranWire”).

Anche il “New York Times” nel luglio 2020 ha affermato di aver ricevuto il documento in 18 pagine che delinea la cooperazione tra Iran e Cina: secondo il giornale newyorkese, gli è stata data «da qualcuno al corrente dei negoziati con l’intenzione di mostrare l’ampiezza dei progetti considerati». In altre parole, fonti della Repubblica Islamica intenzionate a far sapere agli Stati Uniti (c’era ancora Trump) quanto la strategia di “massima pressione” fosse vana.

Dettagli del Patto di cooperazione sino-iraniana

In ogni caso, tutto ciò che sappiamo di quell’accordo si basa su quella bozza (secondo fonti citate sempre dal “New York Times” non sarebbe cambiata in modo sostanziale). Se dobbiamo prenderla per buona dunque sappiamo che la “cooperazione strategica” permetterà alla Cina di espandere la propria presenza in Iran nei settori delle telecomunicazioni, porti, ferrovie, nel sistema bancario, industria energetica, sanità, turismo e molti altri.

Città petrolifere alla foce dello Shatt-el Arab (foto di Wollwerth).

L’accordo elenca un centinaio di progetti, dai treni ad alta velocità alla creazione di “zone economiche speciali”: a Maku, nel Nordovest dell’Iran; a Abadan, città di installazioni petrolifere dove il fiume che separa Iran e Iraq (Shatt-el Arab per gli iracheni, Arvand per gli iraniani) si butta nel Golfo Persico; e sull’isola di Qeshm, nel Golfo. Si parla poi di infrastrutture per la rete di telecomunicazioni 5G, del sistema di posizionamento globale Beidou (il “Gps cinese”), di sistemi di monitoraggio del cyberspazio (controllare ciò che circola sulla rete).

Il sistema di posizionamento cinese Beidou

I progetti elencati non hanno nulla di stupefacente: sono quelli che la Cina ha proposto ovunque nell’ambito della sua “Belt Road Initiative”, il progetto globale di infrastrutture con cui sta espandendo commercio e investimenti cinesi nel mondo. Però denotano che Pechino non ha avuto troppe remore, anche ai tempi dell’amministrazione Trump, a pianificare investimenti in Iran nonostante il rischio di incorrere nelle “sanzioni secondarie” degli Stati Uniti – quelle che gli Usa applicano a paesi e aziende di paesi terzi che intrattengono relazioni economiche con l’Iran. (Si ricordi che la compagnia di telecom cinese Huawei è stata punita negli Usa proprio per non aver rispettato l’embargo all’Iran.)

Investimenti e accordi militari del Patto di cooperazione sino-iraniana

Le fonti citate dal “New York Times” dicono che la Cina investirà un totale di 400 miliardi di dollari nel periodo coperto dagli accordi (25 anni), in gran parte nei primi anni. E che riceverà in cambio regolari forniture di petrolio iraniano, a quanto pare a prezzi molto scontati: l’interesse sarebbe reciproco, perché Pechino importa tre quarti del suo fabbisogno di greggio, mentre l’Iran è tra i maggiori produttori mondiali ma ha visto il suo export assottigliarsi proprio a causa delle sanzioni statunitensi.

Quanto alla cifra di 400 miliardi di dollari non ci sono conferme, e secondo alcuni esperti è molto esagerata. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijan, ha dichiarato che l’accordo non prevede “target definiti” sul volume degli scambi e degli investimenti; c’è solo la volontà di sviluppare «il potenziale di cooperazione dei due paesi nel campo economico, umano e altro».

L’accordo ha anche un capitolo sulla difesa, e qui i dettagli sono ancora più scarsi: si parla di addestramenti ed esercitazioni congiunte, ricerca, scambio di intelligence. Non è una novità assoluta. La cooperazione militare tra Cina e Iran ha già portato a tenere esercitazioni congiunte almeno tre volte dal 2014 a oggi; l’ultima nel dicembre scorso quando una nave da guerra cinese ha raggiunto quelle di Iran e Russia in una esercitazione nel golfo di Oman. Dire che sia un’alleanza in chiave antiamericana è esagerato (la Cina ha ottimi rapporti e acquista petrolio anche da paesi che invece sono nel campo americano, a cominciare dall’Arabia saudita). Però il segnale resta, e l’Iran tiene a sottolinearlo. In occasione delle manovre navali sino-russo-iraniane l’agenzia ufficiale cinese, Xinhua, aveva citato il comandante della Marina militare iraniana, Ammiraglio Hossein Khanzadi, secondo cui «l’era delle invasioni americane nella regione è finita».

Ricaduta infrastrutturale del Patto di cooperazione sino-iraniana

Quale sarà la traduzione pratica di questi accordi è presto per dire. Lo sviluppo più significativo per la Cina sarà rafforzare la sua presenza in un paese al crocevia geografico dell’Eurasia – e consolidare una presenza strategica sulle coste iraniane del mare d’Oman: si parla di un porto a Jask, appena fuori dallo stretto di Hormuz, quindi all’imboccatura del Golfo Persico tanto importante per il trasporto di petrolio mondiale (non a caso sul lato opposto di quel mare, in Bahrein, ha base la Quinta flotta degli Stati Uniti). Non pare che l’Iran si prepari a concedere una base militare alla Cina sulle sue coste (la sola base navale cinese all’estero oggi è a Gibuti, costruita nel 2015 a poche miglia da una base statunitense). Ma è chiaro che anche i porti commerciali hanno una valenza strategica, e negli ultimi decenni la Cina ne ha costruita una serie in tutto l’oceano Indiano, da Hambantota nello Sri Lanka meridionale a Gwadar in Pakistan, sulla rotta per Suez.

Per l’Iran invece lo sviluppo più concreto sono proprio i potenziali investimenti in infrastrutture e altri progetti economici. E secondo diversi osservatori questo si inserisce nel quadro di un riorientamento strategico delle priorità iraniane, che va ben oltre la necessità di resistere alle sanzioni statunitensi.

La Cina soppianta l’Unione europea

Le relazioni economiche tra Tehran e Pechino in effetti non sono nuove. Già nel 2011 la Cina aveva preso il posto dell’Unione europea come primo partner commerciale dell’Iran. Il motivo è semplice: tra il 2010 e il 2014, durante il secondo mandato del presidente Ahmadi Nejad, l’Iran si era trovato circondato da un muro di sanzioni (allora erano multilaterali, decretate dell’Onu oltre che da Unione europea e Stati Uniti), che aveva reso molto difficile importare qualunque cosa.

Allora però la Cina era solo un ripiego; per l’Iran il partner economico prioritario restava l’Europa. Così nel 2015, quando il moderato presidente Rohani ha firmato l’accordo sul nucleare, l’Iran ha puntato a rafforzare gli scambi e attirare gli investimenti europei. In effetti, per qualche tempo delegazioni commerciali da tutta Europa sono arrivate a Tehran in cerca di affari, e decine di memorandum d’intesa sono state firmate. Le aspettative però hanno tardato a realizzarsi (anche perché l’Iran restava escluso dal sistema bancario internazionale, controllato dagli Usa attraverso il dollaro). Poi l’avvento del presidente Trump ha decretato per l’Iran un isolamento economico ancora più forte delle precedenti sanzioni multilaterali. Gli investimenti europei, che in ogni caso erano rimasti sulla carta, si sono dileguati. E Tehran ha cominciato a riconsiderare la sua strategia.

Scelte di partnership alternative forzate dal protrarsi di sanzioni

Per resistere all’accerchiamento economico l’Iran doveva assicurarsi fonti alternative per le sue importazioni, soluzioni alternative per le transazioni finanziarie, vie alternative per esportare il proprio petrolio, e soprattutto modi per espandere le esportazioni di manufatti e prodotti non petroliferi. Ed è ciò che ha fatto.

Oggi due elementi vanno sottolineati. Il primo è «una crescente importanza dei paesi vicini come partner commerciali e lo spostamento delle fonti di importazione dai paesi occidentali a quelli della regione e orientali», osserva l’analista e imprenditore iraniano Bijan Khajehpour, che si basa sui dati diffusi dal ministero degli esteri iraniano per i primi dieci mesi dell’ultimo anno fiscale (dal 20 marzo 2020 al 20 gennaio 2021).

Il volume totale degli scambi, esclusi petrolio e prodotti petroliferi, ammontava in quei dieci mesi a 58,7 miliardi di dollari (è il 18 per cento meno del periodo corrispondente l’anno prima, ma pesa la pandemia di Covid-19). Le esportazioni non-petrolifere ammontavano a circa 28 miliardi di dollari, di cui oltre il 76 per cento è andato a cinque paesi: per il 26 per cento alla Cina (primo mercato per i prodotti iraniani), poi all’Iraq, gli Emirati Arabi Uniti, la Turchia e l’Afghanistan.

Nello stesso periodo l’Iran ha importato poco più di 30 miliardi di dollari di beni e servizi (il 20 per cento meno dell’anno prima), e i primi cinque paesi d’origine sono Cina (24,8 per cento), Emirati, Turchia, India e Germania (poco meno del 5 per cento).

Quanto all’export di petrolio bisogna fare delle ipotesi, perché i dati restano confidenziali (ovvio: sfugge ai monitoraggi ufficiali, perché chiunque ammetta di importare petrolio iraniano rischia ritorsioni da parte statunitense). Khajehpour ipotizza che l’export di greggio nei dieci mesi considerati ammonti a 7,2 miliardi di dollari, calcolando circa 600.000 barili al giorno al prezzo medio di 40 dollari a barile. (Per avere un’idea di quanto le sanzioni Usa costino all’economia iraniana si pensi che nel giugno 2018, quando gli Stati uniti si sono ritirati dall’accordo nucleare, l’Iran esportava 2,7 milioni di barili di greggio al giorno.)

Riconversione economica e sviluppo di medio-piccola manifattura locale

Il secondo elemento da sottolineare è che nelle esportazioni iraniane l’industria manifatturiera ha superato gli idrocarburi, e non solo nell’ultimo anno di pandemia. Già nel 2019 l’export non-petrolifero aveva totalizzato 41 miliardi di dollari, superando quello del petrolio. Non solo: mentre il settore petrolifero si era contratto del 35 per cento a causa delle sanzioni, il manifatturiero si era contratto appena dell’1,8 per cento.

Questo conferma che l’economia iraniana è molto più diversificata di quelle di altri paesi grandi produttori di idrocarburi: e sebbene fosse una tendenza già visibile nei primi anni del secolo, sono state proprio le sanzioni ad accelerarla. L’industria manifatturiera iraniana – automobili, meccanica, agroalimentare, farmaceutica e altro – rappresenta ormai l’ossatura dell’economia nazionale, con una struttura di piccole e medie imprese che producono sia per un mercato interno di 84 milioni di persone, sia per esportare nella regione circostante.

Strategia di resistenza

È questo che negli ultimi tre anni ha permesso all’economia iraniana di resistere alla “massima pressione” esercitata dagli Usa. La cosiddetta “economia di resistenza”, cioè la strategia di consolidare la produzione industriale interna, non è servita solo a sostituire le importazioni (sempre più costose a causa delle sanzioni), ma anche a consolidare «una strategia mista, promuovere le esportazioni e diversificare le fonti delle importazioni», osserva Khajehpour (così anche nelle importazioni pesano meno di una volta i beni di consumo finiti; nell’ultimo anno il 70 per cento delle importazioni erano beni intermedi, destinati all’industria interna).

La strategia di resistenza è stata questa: espandere la produzione nazionale anche per rafforzare l’export; rafforzare gli scambi con i paesi vicini, inclusa la Russia e l’Asia centrale; ridurre la dipendenza tecnologica dall’Occidente diversificando le importazioni. E guardare all’Eurasia, stabilire accordi di cooperazione a lungo termine con la Cina e nel prossimo futuro la Russia.

Si può immaginare che tutto questo andrà ben oltre l’esito dei colloqui cominciati a Vienna, la (auspicabile) revoca di almeno parte delle sanzioni statunitensi e il possibile rilancio dell’accordo sul nucleare. L’Iran ha cominciato a guardare all’Eurasia.

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Nazione di poeti, navigatori e… trafficanti d’armi https://ogzero.org/italia-nazione-di-trafficanti-darmi/ Sun, 21 Mar 2021 11:25:30 +0000 https://ogzero.org/?p=2638 L’attenzione per la repressione sanguinosa in Myanmar e gli addentellati con i traffici d’armi dell’industria italiana hanno smosso nei nostri ricordi alcuni collegamenti che si dipanano dal Sudest asiatico al Sahara occidentale, attraversando la storia dell’industria bellica italiana dal 1973, anno della Guerra del Kippur (e della sua conseguenza sull’approvvigionamento energetico mondiale), fino alle armi […]

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L’attenzione per la repressione sanguinosa in Myanmar e gli addentellati con i traffici d’armi dell’industria italiana hanno smosso nei nostri ricordi alcuni collegamenti che si dipanano dal Sudest asiatico al Sahara occidentale, attraversando la storia dell’industria bellica italiana dal 1973, anno della Guerra del Kippur (e della sua conseguenza sull’approvvigionamento energetico mondiale), fino alle armi che fanno strage dei resistenti di Mandalay e un’inchiesta di Atlante delle Guerre e Opal ha dimostrato come abbiano aggirato l’embargo più che decennale nei confronti del Myanmar

La tradizionale presenza della industria bellica italiana nei teatri di guerra

Riprendiamo a proporre gli articoli che Eric Salerno scrisse per “Il Messaggero” seguendo le prime azioni del Polisario, quelle che prendevano di mira le truppe mauritane illuse di poter partecipare della spartizione delle spoglie del Sahara ex spagnolo. Bastò l’incipit del catenaccio, le raffiche sul palazzo presidenziale di Nouakchott e i mauritani lasciarono perdere: i colonizzatori avevano puntato sui marocchini per perpetuare lo sfruttamento delle risorse.

La lettura dell’ingerenza delle potenze coloniali è massicciamente presente nell’articolo di Eric, dove si respirano le tensioni positive che parlavano di panafricanismo – chiamato proprio a difesa delle sacrosante rivendicazioni saharawi, e gli stati africani rispondevano a tono, mentre ora sono in coda per accedere agli Abraham Accords – e di altre illusioni di un periodo esaltante, dove non era una bestemmia parlare del ruolo svolto dall’Italia nell’“aggressione condotta dall’imperialismo” contro la lotta di liberazione: era il 5 luglio 1977.

Polisario contro Mauritania

Primi attacchi del Polisario e scoperta dell’approvvigionamento di armi italiane all’esercito mauritano

 

Ma perché ci siamo affrettati ora a passare a un nuovo appuntamento con gli articoli di Eric Salerno pubblicati nel 1977 proprio in questo periodo concitato che cerca di capire come il mondo trascorre dall’epoca di Trump a quella di Biden? Semplice: perché in questi giorni alcune realtà complici della nostra testata hanno scoperchiato la vergogna di armi di fabbricazione italiana usate da Tatmadaw contro i manifestanti birmani che si ribellano al golpe in Myanmar. E in questo articolo in enjambement trovate un lungo pezzo, incastonato in centro al reportage che rilascia una scia di disgusto non ancora consumata: «La presenza dell’industria italiana sul mercato mondiale della armi ci vede oggi impegnati in un dibattito che tocca i punti fondamentali dello scontro di classe in Italia» [e oggi era il 1977, non è cambiato nulla se non in peggio].

Ma è soprattutto la combinazione dei due elementi compresenti nell’articolo (l’Flm, coinvolta a sostegno della lotta saharawi; e le armi costruite dalle maestranze italiane, probabilmente aderenti alla Federazione lavoratori metalmeccanici) che vanno a unirsi in un altro testo che ricordava quegli anni e va nel ricordo a comporli insieme: il redattore era un amico di Eric, uno di quelli che avevano fortemente voluto la nascita di un sindacato forte e internazionalista come poteva essere negli anni Settanta la Federazione di tutti i lavoratori metalmeccanici: Alberto Tridente si impegnò infatti anche a lungo per sostenere la lotta saharawi.

In particolare a corredo dell’articolo di Eric Salerno ci piace riproporre stralci da questo racconto autobiografico di Alberto Tridente, raccolto nel volume da lui redatto nel 2011, poco prima di arrendersi al cancro dopo 10 anni di resistenza alla malattia senza smettere di denunciare i trafficanti di morte e l’ipocrisia che li ha sempre coperti nella vulgata italiana: Dalla parte dei diritti (Torino, Rosenberg & Sellier, 2011, pp. 178 e sgg.).

Scommettere sulla guerra?

Nel dicembre del 1973 dalla Oto Melara di La Spezia, nota fabbrica di sistemi d’arma esportati in tutto il mondo, era partita una nave carica di cannoni Oto-Mat diretta al Cile di Pinochet. All’inizio del 1974 andai a La Spezia e mi confermarono il cinico invio di armi al governo assassino. Non potevo crederci. Ne parlai a lungo con i sindacalisti e seppi che il Pci stava organizzando una “Conferenza di produzione”.

Era l’iniziativa attraverso la quale il Pci (in quella critica fase di ripensamento della sua strategia del compromesso storico in seguito ai fatti cileni) andava da tempo realizzando nelle grandi fabbriche, cercando di accreditare la sua idoneità a governare il paese, presentandosi alle imprese come interlocutore fondamentale per lo sviluppo delle attività produttive. L’incremento occupazionale era lo scopo dichiarato della “Conferenza di produzione”.

Un passo indietro a questo punto. necessario. Negli anni torinesi avevo conosciuto Achille Croce, giovane animatore del Movimento non violento valsusino. Nel 1972 Croce era impegnato a convincere i lavoratori delle Officine di Moncenisio, fabbrica che riparava carri ferroviari, a non accettare la trasformazione dell’azienda in fabbrica di sistemi d’arma. L’incontro con Achille Croce era stato un altro di quelli che lasciavano il segno. Testimoniava la resistenza allo scandalo del cinico scambio: quello di produrre più armi in cambio di maggiori occupati. Nel sindacato avevamo affrontato da tempo i temi del “cosa e come produrre”, ma quello delle armi era ancora un argomento scabroso del quale non si parlava perché non facile da trattare. Non mi ero mai direttamente occupato, come tutto il sindacato del resto, dell’industria bellica, delle implicazioni che quelle produzioni comportavano dal punto di vista morale, né delle prospettive che maggiori commesse belliche significavano per l’occupazione. Achille aveva invece le idee chiare. Era membro del direttivo della Fim provinciale e nelle riunioni dell’organismo aveva qualche volta posto il problema della produzione bellica che il sindacato non poteva trascurare di affrontare. Allora non aveva trovato molto ascolto, sembrava che parlasse nel deserto, ma quelle sue appassionate parole non erano state dimenticate. All’assemblea della Oto Melara, all’inizio del 1974, mi trovavo di fronte a una straordinaria e lacerante sfida: come accettare, dopo tante manifestazioni e proteste contro il colpo di stato di Pinochet in Cile e la morte di Allende, che un’importante fabbrica italiana, a capitale pubblico e altamente sindacalizzata, provvedesse a rifornire di cannoni i golpisti?

Cannoni navali in lavorazione nella fabbrica dell’Oto Melara di La Spezia nel 1980

La situazione aveva del paradossale. L’invio di un carico di cannoni a Pinochet avveniva senza proteste o un minimo di obiezioni da parte del Consiglio di fabbrica e del sindacato provinciale della Flm di La Spezia. Al contrario si organizzava una “Conferenza di produzione”, il cui fine era maggiore produzione bellica per ulteriore occupazione, ovvero si scommetteva sulla guerra. Erano annunciate significative presenze: il Consiglio di fabbrica, la sezione interna del Pci alla Oto Melara, il sindaco di La Spezia, il presidente della provincia, insieme all’amministratore delegato, ingegner Stefanini. La scommessa sulla guerra era non solo implicita, ma andava oltre: ne auspicava cinicamente altre, magari più estese, al fine di ottenere incrementi produttivi e occupazionali. Non ricordo se il film Finché c’è guerra c’è speranza con Alberto Sordi nella parte del mercante di armi fosse apparso sugli schermi italiani prima o dopo la Conferenza della Oto Melara, fatto sta che decisi di parteciparvi a nome della Flm nazionale, per parlare ai lavoratori contro le ragioni che l’avevano proposta, rovesciando lo slogan che dà titolo al film di Sordi.

 

Nella segreteria nazionale Flm proposi che se ne discutesse a fondo, non senza contrasti da parte di coloro che, specie nella Fiom e nella Uilm, non percepivano ancora con chiarezza la contraddizione del produrre armi in cambio di occupazione, come se queste fossero prodotti come gli altri. Ottenni comunque il consenso a sostenere la tesi che non era nella linea della Flm affidare la garanzia della maggiore occupazione alla speranza di maggiori conflitti nel mondo. Con questa convinta posizione andai a La Spezia. Una foto del mio intervento testimonia questa mia prima personale e diretta esperienza in un’assemblea di lavoratori che auspicava maggiori produzioni belliche. La mia “conversione sulla via delle Officine Moncenisio di Condove”, in bassa Valle di Susa, e la memoria dell’incontro con Achille Croce mi aiutarono ad affrontare un cammino che si annunciava tutto in salita.

Il refettorio della Oto Melara dove si teneva l’assemblea era strapieno di operai e impiegati. Parlarono i provinciali della Flm, il Consiglio di fabbrica, l’amministratore della Oto Melara, ingegner Stefanini, e poi toccò a me concludere.

Sparai – . proprio il caso di dirlo, data la fabbrica – tutte le mie cartucce contro l’illusione della “scommessa sulle guerre”. Dissi che era inaccettabile: «Manifestare il sabato contro i colpi di stato fascisti e, poi, dal lunedì al venerdì, lavorare e rifornire di armi coloro che le avrebbero usate per reprimere nel sangue la democrazia! Le guerre sarebbero, prima o poi, finite e la crisi del settore bellico avrebbe sgonfiato tutte le illusioni delle conferenze produttive di quel tipo… Sarebbe stato più saggio, oltre che morale, pensare per tempo a produzioni alternative, per non trovarsi sprovvisti di altre opportunità di produzione e lavoro, strangolati dalla mancanza di alternative a quella bellica, e che appariva rischioso affidare ai conflitti nel mondo le speranze produttive e occupazionali».

Era stata una provocatoria, temeraria e frontale accusa a tutti i presenti che avevano organizzato e creduto in quella iniziativa, che privilegiava apertamente una scelta cinica, contraddittoria e immorale che inavvertitamente corrompeva le coscienze dei lavoratori e tradiva coerenti scelte politiche. E aggiungevo: «Seppure l’intento di avere più occupati in futuro potrà apparire un obiettivo nobile, questo non dovrà avvenire auspicando il passaggio dalla guerra fredda a quella calda, in ogni parte del pianeta!» Silenzio e sconcerto accompagnarono le mie conclusioni. Le tesi da me esposte rovesciavano la “torta appena confezionata”. Gelido il commento dell’ingegner Stefanini, così come dei dirigenti sindacali e di partito presenti. Al termine della Conferenza,

il solo ad avvicinarsi e a parlarmi fu un delegato della Fiom, Claudio Rissicini, che mi disse: «Belìn, cosa volevi, che ti applaudissero? Lo avrebbero fatto volentieri, ma con le mani sulla tua faccia! Lo sai che parlare in questa fabbrica di conversione al civile ha significato nel dopoguerra solo disoccupazione?». Claudio, negli anni che seguirono, divenne un caro, fraterno amico e compagno di importanti iniziative nel settore della cooperazione. Fu uno dei primi a partire per anni di missione in Mozambico, nel quadro dei programmi di cooperazione che per conto della Flm firmai con quel paese, quando si liberò dal colonialismo portoghese.

Cresce il fatturato bellico italiano.

Nella mia attività mi stavo dedicando anima e corpo a queste idee centrali, complicate e difficili, che avevano saturato anche il mio poco tempo libero: convincere i lavoratori del settore sulla validità della distinzione storica fra interessi dei lavoratori e quelli delle lobby dell’industria bellica, persuaderli a non produrre armi e in ogni caso a non venderle ai regimi dittatoriali e razzisti; elaborare un coerente intervento del sindacato sui temi della pace e della solidarietà e, nello stesso tempo, proteggere l’occupazione in quelle stesse fabbriche. In quel momento la produzione bellica e il suo commercio crescevano a ritmi impressionanti in Italia e all’estero. Erano perciò un ostacolo in più, ai numerosi che già si ergevano sul cammino del disarmo e della pace.

Questo lavoro si raccordava inoltre con l’attività del Tribunale Russell, che affrontava spesso la vergogna delle esportazioni di armi in quei paesi considerati criminali dall’attività del Tribunale. Il volume produttivo e commerciale collocava il nostro paese al primo posto nel gruppo dei minori esportatori di sistemi d’arma. Il fatturato totale esportato dal nostro paese aveva ormai raggiunto e oltrepassato i 5000 miliardi di lire a metà degli anni Settanta: un record mai raggiunto dall’industria bellica italiana. L’aumento della produzione e l’affermazione dei prodotti sui mercati internazionali avevano fatto dire al ministro del commercio estero di allora, il socialista Enrico Manca, che la vendita di undici navi militari (quattro fregate e sei corvette, più una nave appoggio) all’Iraq di Saddam Hussein era un fatto inedito e veramente straordinario. Per quantità e qualità del naviglio venduto lo si poteva definire “l’affare del secolo”. Prima dell’attacco al Kuwait, oltre all’Italia, vendevano armi a Saddam soprattutto i francesi. Fornivano cacciabombardieri Mirage e Super Standard e i relativi missili che li equipaggiavano. Da parte loro i sovietici vendevano carri armati e blindati, i brasiliani blindati e autocarri. Generoso l’aiuto finanziario statunitense all’Iraq, affinché potesse comprarne di più e su tutti i mercati. Saddam era un “buon cliente e amico”, si preparava ad attaccare il “cattivo dell’area”, l’Iran di Khomeyni, e fin lì tutto andava bene, per gli americani, per l’Occidente e per “madama la marchesa”!

Italia nazione di trafficanti

Elicottero AW109M costruito da AgustaWestland partecipata di Leonardo, azienda controllata dallo stato italiano

A Firenze nacque un gruppo che si proponeva di studiare a fondo il tema e che tuttora [2012, N.d.R.] continua a pubblicare ricerche sull’argomento. Era cresciuto nel frattempo il numero dei lavoratori e dei Consigli di fabbrica che collaboravano. Il lavoro sull’industria bellica aveva già prodotto i primi obiettori di coscienza nelle fabbriche dove lavoravano: tra questi, Elio Pagani, operaio dell’Aermacchi, e Marco Tamburini dell’Agusta elicotteri. Ero fermamente convinto che il difficile lavoro per la riconversione richiedeva anche momenti fortemente emozionali per farsi ascoltare da assemblee talvolta scettiche, se non ostili o nettamente contrarie alla sola idea di rischiare il posto di lavoro per quelle che erano ritenute utopie. La produzione e la vendita di sistemi d’arma creava infatti occupazione e apparivano stolti coloro che opponevano scrupoli morali allo sviluppo di un settore che migliorava la bilancia commerciale. All’assemblea della Aermacchi, la prima in una fabbrica italiana di aerei da guerra e addestratori che commerciavano con il Sudafrica razzista, mi aveva accompagnato Antonio Mongalo, l’africano di etnia Zulu, rappresentante in Italia dell’Africa National Congress del carismatico leader Nelson Mandela, allora ancora in carcere. L’impatto fu emotivamente fortissimo. Alle obiezioni di alcuni operai e capetti, che giustificavano in nome del lavoro la liceità del commercio con quel regime, Antonio parlò con passione della sua gente: «Segregata, sfruttata come schiavi nelle miniere, relegata nei tuguri malsani delle disperate periferie delle città da un regime spietato, lì, nella loro stessa terra, usurpata con la forza da coloni bianchi. Non cittadini, senza i più elementari diritti in quella che era stata da sempre la loro patria».

Imposto un embargo si trova l’inghippo

L’aggiramento dei divieti era da tempo collaudato; nel caso del Sudafrica l’embargo veniva aggirato attraverso il cosiddetto commercio triangolare: le imprese vendevano a un paese autorizzato a riceverle e questo le girava al paese sotto embargo e il gioco era fatto. Pajetta era furibondo. Mi accusava di aver attaccato l’iniziativa della conferenza e mi sfidava a provare quanto affermavo. L’irritazione era fondata: a Livorno il Pci era forte, specie fra i portuali. Anche Granelli mi domandò, più educatamente, se quanto denunciavo nell’intervista al “Corriere della Sera” era accaduto per davvero.

L’intervento dei mozambicani nel dibattito mi aiutò, confermando quanto detto da me nell’intervista. Essi affermarono: «In effetti questo accadeva ed era accaduto spesso nel passato», aggiungendo che erano talvolta sconcertati perché non capivano come l’Italia, da sempre impegnata nella solidarietà, vendesse armi a paesi che le usavano contro di loro. La soddisfazione per me fu enorme. Granelli in seguito si scusò: aveva accertato che la mia denuncia era fondata.

Il prodotto venduto che più ci copriva di vergogna nel mondo erano le mine antiuomo della Valsella e della Valmara. Erano armi povere per vittime povere. Infinito il numero di bimbi e di contadini mutilati alla fine di ogni conflitto: vittime di esplosioni subdole, perché “ritardate” nella loro criminale efficacia. Finalizzate per uccidere, come tutte le altre armi, erano state progettate (e lasciate nel terreno) per terrorizzare e mutilare le potenziali vittime, soprattutto quelle innocenti di tutti i dopoguerra. Il divieto alla loro esportazione era stato, finalmente, un modesto successo, che confermava e incoraggiava a proseguire nel lavoro. Molte produzioni erano e sono tuttora “dualistiche”, basate su tecnologie che permettono di realizzare prodotti sia civili che militari, offrendo così merci alternative. Consorzi di imprese inter-armi erano e sono stati promossi per integrarne le produzioni e facilitarne la penetrazione nei mercati. Il modello del Consorzio Melara, prodotto “chiavi in mano”. ormai diffuso con successo.

 

E con le mine antiuomo torniamo al Saharawi, che fa da perno a questa triangolazione virtuosa tra inchiesta di Opal, Atlante delle guerre, Rete Pace Disarmo sfociata in una serie di articoli di Emanuele Giordana e Alessandro De Pascale sulla presenza di armi di fabbricazione italiana nel Myanmar dei golpisti; lavoro di una vita antimilitarista di Alberto Tridente, narrata nel suo libro-testamento, infarcito di figure mitiche dell’indignazione del profitto derivante dalle guerre; la testimonianza di Eric Salerno collocata nel Sahara occidentale e risalente al 1977 delle prime imprese del Frente Polisario, che vide tra gli ambasciatori di giustizia proprio Alberto Tridente, attivo nel denunciare la presenza delle micidiali mine nel deserto abitato dagli esuli Saharawi. Non con sole armi l’Italia esporta guerre, ma anche con scuole di polizia per l’addestramento di  apparati speciali, assimilabile alla famigerata Escuela de Las Americas, per questo aspetto è interessante seguire il lavoro di Antonio Mazzeo

 

 

 

 

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Usa e Iran: “Missiles will be on the table” https://ogzero.org/strategie-per-accordi-epocali-sugli-armamenti-in-iran/ Mon, 01 Mar 2021 10:25:23 +0000 https://ogzero.org/?p=2521 Pubblichiamo un articolo che Lorenzo Forlani ha scritto per OGzero a breve distanza dal primo bombardamento ordinato da Biden su postazioni missilistiche sciite in Siria come segnale nei confronti dell’Iran, all’interno di un cambio di strategie Usa per raggiungere accordi epocali sul programma nucleare iraniano che coinvolgono anche gli armamenti missilistici di Teheran. Nel ridimensionamento […]

L'articolo Usa e Iran: “Missiles will be on the table” proviene da OGzero.

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Pubblichiamo un articolo che Lorenzo Forlani ha scritto per OGzero a breve distanza dal primo bombardamento ordinato da Biden su postazioni missilistiche sciite in Siria come segnale nei confronti dell’Iran, all’interno di un cambio di strategie Usa per raggiungere accordi epocali sul programma nucleare iraniano che coinvolgono anche gli armamenti missilistici di Teheran. Nel ridimensionamento delle potenze regionali (il contenimento di Bin Salman e la spregiudicatezza di Erdoğan non più tollerabile), collegabile al cambio di strategia dell’amministrazione americana, il negoziato sul nucleare – in cui è anche incluso il programma missilistico iraniano – si trova a un punto delicatissimo e nel panorama mediorientale (e con gli ultimi eventi di Erevan) torna alla ribalta il fallimento dei nuovi equilibri che si erano insinuati negli spazi lasciati vuoti da Trump durante gli Accordi di Astana, al punto che la Turchia rientra nell’alveo della Nato con un regalo “balistico”, condividendo con gli Usa la tecnologia del missile russo Pantsir, catturato sull’ambiguo fronte libico, emblematico della svolta nel dopo Trump.


Quanto può essere alzata la posta?

Esiste una porzione della società e dell’arena politica americana convinta che l’amministrazione guidata da Donald Trump, con la sua strategia della “massima pressione” sull’Iran, abbia lasciato a Joe Biden una preziosa eredità, mettendolo in condizione di “alzare la posta” in un nuovo possibile negoziato sul nucleare. E nelle stanze del potere statunitense, quando si parla di “alzare la posta” sul dossier iraniano, si fa riferimento a due dimensioni: quella delle milizie filoiraniane in Medio Oriente, e soprattutto quella del programma missilistico iraniano. Non solo una parte dei repubblicani ma anche un segmento dei democratici – oltre agli alleati americani nella regione, cioè Israele, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita – spinge per inserire soprattutto quest’ultimo nei nuovi colloqui sul nucleare. «Missiles will be on the table», ha detto recentemente Jack Sullivan, National Security Advisor di Joe Biden.

Si tratta di un aspetto molto delicato, potenzialmente anche in grado di far fallire un accordo di massima sul nucleare, perché il programma missilistico costituisce per l’Iran una linea rossa, un pilastro della sua capacità di difesa asimmetrica. I missili, è noto, sono armamenti facili da occultare e relativamente difficili da intercettare: per Teheran, che rispetto ai suoi rivali regionali ha una tecnologia meno avanzata e una minore capacità militare complessiva – riflesso di spese militari annuali in rapporto al Pil che mediamente, dal 1990 al 2012, ammontano a un terzo di quelle saudite e alla metà di quelle israeliane –, i missili sono un vitale strumento di deterrenza, in una regione nella quale il fronte antiraniano – ulteriormente rafforzato dalla firma degli “Accordi di Abramo” tra Israele e una serie di Paesi arabi, soprattutto nel Golfo – è sempre più compatto.

Potenza e potenzialità degli arsenali

Non sorprende, quindi, che quella iraniana sia la flotta missilistica più eterogenea e ricca in termini numerici nella regione. Nel marzo 2020 si stimava attorno ai 2500-3000 la somma di missili balistici iraniani, ai quali va aggiunto un numero imprecisato di missili Cruise. I missili balistici si dividono in quattro classi: a raggio corto (fino a 1000 km di gittata), medio (da 1000 a 3000), intermedio (da 3000 a 5500) e intercontinentale (da 5500 in su).

Missili iraniani nel Museo della Difesa di Teheran (Foto di Elena Odareeva)

L’arsenale iraniano è composto da missili a corta gittata (Tondar, Fateh, Shabab 1 e 2) e soprattutto da missili a gittata media (Shabab 3, Zolfaghar, Qiam 1, Burkhan 2h, , Sejil, Emad e Ghadr), mentre a oggi la Repubblica islamica non sembra avere le capacità – ma forse neanche l’interesse, considerando la natura regionale delle sue preoccupazioni in politica estera e di sicurezza – di sviluppare missili intercontinentali (Icbm), in grado di raggiungere l’Europa, sebbene al dipartimento della Difesa americana si registri una certa inquietudine rispetto ai progressi fatti da Teheran nella realizzazione di veicoli di lancio spaziale (Slv), con cui sono stati mandati dei satelliti in orbita (il primo fu il Sina-1, satellite iraniano mandato in orbita nell’ottobre 2005 dalla Russia). Secondo il Worldwide Threat Assessment realizzato dall’intelligence americana nel 2019: «I progressi dell’Iran con gli Slv diminuiscono i tempi per arrivare agli Icbm, poiché Icbm e Slv usano tecnologie simili».

40 anni di Repubblica islamica fondata sui sistemi di difesa

L’Iran ha maturato la decisione di sviluppare un programma missilistico autonomo durante la Guerra con l’Iraq (1980-1988). Il programma missilistico precedente, nato con lo shah, era stato interrotto da Khomeini, per via della avviata collaborazione con Israele e dei sospetti che pendevano sugli ufficiali delle Forze armate, specie dopo il tentato golpe del 1980 (il golpe di Nojeh).

L’indisponibilità di gran parte della comunità internazionale a fornire a Teheran i missili con cui rispondere agli attacchi di Saddam Hussein sulle città iraniane convinse in realtà già nel 1985 l’allora presidente del Parlamento e membro del Consiglio di guerra, Ali Akbar Rafsanjani, a ottenere i missili Scud da Corea del Nord e Libia, per poi produrre localmente, nel 1990, il primo missile a corto raggio (il Mushak, probabilmente con l’assistenza cinese).

Reazioni difensive meccaniche introiettate e…

Ciò è utile a ricordare una postura non più molto familiare in Occidente: a torto o a ragione, sin dalla fine della guerra con l’Iraq, Teheran attribuisce una natura esistenziale alle minacce che affronta, fronteggiamenti che rendono il mantenimento di un programma missilistico fuori discussione. Ciò si spiega anche con quella che i politologi chiamano la path dependance (dipendenza dal percorso): una concezione interiorizzata, per cui piccoli o grandi eventi del passato, anche se non più rilevanti (l’Iraq oggi non è più un paese ostile come con Saddam), possono avere conseguenze significative in tempi successivi, che l’azione economica può modificare in maniera limitata, anche perché i costi di una regressione da un cammino intrapreso sono alti.

Nel caso iraniano, il motivo contingente alla base della decisione di dotarsi di missili fu l’aggressione di Saddam Hussein: una motivazione che non sussiste più ma che è stata “riempita” con le minacce di strike da parte di Israele. Spesso nel Parlamento iraniano è stato citato il caso di Libia e Iraq per mettere in guardia da qualunque concessione sul programma missilistico: sia la Libia che l’Iraq, infatti, furono invasi dopo aver accettato alcune limitazioni al proprio programma missilistico. Diverse componenti politiche in Iran, in sostanza, si chiedono: a che prezzo porre limitazioni al principale deterrente contro un regime change? Chi garantisce che non sia la premessa per ulteriori restrizioni militari?

… quali priorità nelle riduzioni degli arsenali?

Se in molti, sia in Occidente che nei paesi del Medio Oriente riconducibili al blocco antiraniano, spingono in diverse sedi e modalità per porre un freno al programma missilistico dell’Iran, in pochi sembrano in grado di entrare nel dettaglio, rispondendo anzitutto alla domanda: cosa limitare? La capacità iraniana di trasporto delle testate nucleari? Il numero di missili (a prescindere dalla capacità di trasporto nucleare) prodotti e impiegati dall’Iran? Il dispiegamento di nuovi e più avanzati sistemi? È difficile trovare delle risposte elaborate a questi punti.

Vista la diffidenza diffusa nella regione, qualunque accordo sul dossier missilistico – con limitazioni anche per gli altri paesi regionali – dovrebbe essere sostenuto da adeguati meccanismi di verifica, che a oggi sono impossibili da implementare, non esistendo peraltro alcun framework internazionale per il controllo dei programmi missilistici (per cui l’Iran percepirebbe l’eccezionalità del controllo esclusivo sul suo programma, in una riedizione del dossier nucleare). Privare l’Iran degli strumenti e dei sistemi per trasportare armi nucleari è inverosimile, poiché i missili Shabab 3 e Ghadr – utilizzabili anche a questo scopo – costituiscono soprattutto il cuore della capacità iraniana di rispondere a eventuali attacchi israeliani; limitare il numero dei missili prodotti e impiegati richiederebbe ispezioni intrusive e approfondite alle basi militari e ai centri di produzione militare iraniani, difficili da accettare per l’Iran, specie in assenza del framework menzionato.

Il fatto che a oggi Teheran non sia interessata agli Icbm è in parte dimostrato dal fatto che, a fronte di enormi progressi in campo missilistico negli ultimi 20 anni, Teheran non abbia mai effettuato nemmeno dei test con missili a lungo raggio, in grado di raggiungere gli Stati Uniti, e che abbia ristretto volontariamente la gittata massima dei suoi missili a 2000 km. Se da una parte l’unico aspetto “controllabile”, senza essere eccessivamente intrusivi, è la capacità iraniana di trasporto di testate nucleari, per la quale potrebbero essere introdotte restrizioni ai test di volo, è bene anche ricordare che eventuali pressioni o ricatti sui missili da parte dell’Occidente potrebbero spingere le autorità iraniane a inaugurare per rappresaglia proprio i test sui missili a lungo raggio.

Strategie per accordi epocali

In conclusione, anche a prescindere dal raggiungimento in tempi brevi di un nuovo accordo sul nucleare, appare chiaro come le richieste unilaterali all’Iran di cessazione o limitazione al proprio programma missilistico siano destinate a non funzionare. Ne consegue che l’eventuale tentativo americano di inserire modifiche al programma missilistico iraniano come precondizione a un rientro degli Stati Uniti nel nuclear deal sarebbe rovinoso: nel più roseo dei casi ne uscirebbe un accordo “vuoto”, e delle limitazioni che non soddisferebbero nessuno. Sarebbe forse più utile aprire discussioni di lungo termine – e allargate alla regione – sui missili intercontinentali, come ricordano gli studiosi Fabian Hinz e Sahil Shah.

Ex ambasciata degli Stati Uniti a Teheran (Foto di Fotokon)

Con i presupposti attuali, una ipotesi – comunque complessa da percorrere – potrebbe essere quella di accordare all’Iran il rafforzamento della flotta di missili a medio raggio (con la attuale soglia massima di 2000 chilometri) in cambio di limitazioni all’uso di tecnologie militari nel programma spaziale di Teheran e/o al trasferimento di missili Cruise e balistici ad attori non statali sostenuti da Teheran (come gli houthi in Yemen). A ogni modo, così come sul dossier nucleare, anche sul programma missilistico sarebbe profondamente sbagliato guardare all’Iran con il “prisma” libico, nella convinzione quindi che Teheran ceda se messa sotto pressione. Se non altro, perché Teheran è sotto pressione dal 1979.

Lo sforzo empatico non sarebbe tanto una concessione ma anzitutto una operazione funzionale all’inquadramento del problema: tenere conto della percezione delle minacce – le strategie israeliane, i paesi del Golfo, le formazioni jihadiste perlopiù antisciite e antipersiane, le basi militari americane in tutti i paesi confinanti… – da parte dell’Iran, e in particolare della convinzione che la sua sicurezza, in una regione polarizzata e instabile, dipenda dalla sofisticazione del suo arsenale missilistico. Le lezioni della Guerra fredda possono essere d’aiuto, ma fino a un certo punto: se è infatti vero che la limitazione delle capacità militari sovietiche non avvenne grazie alle sanzioni, ma mediante l’istituzione dei meccanismi di controllo e concessioni accompagnate da leveraging militare, è anche bene ricordare che in Medio Oriente la citata scarsa fiducia diffusa sussista non tra due ma tra un numero consistente di attori regionali, mossi da agende quasi inconciliabili.

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Popoli oppressi vs cinismo tattico: quale soluzione? https://ogzero.org/il-diritto-dei-popoli-all-autodeterminazione-le-lotte-comuni/ Fri, 26 Feb 2021 12:26:50 +0000 https://ogzero.org/?p=2482 Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Sartori pubblicato il 31 agosto 2014 dalla rivista “Etnie” (dove trovate, l’articolo in versione integrale) con il titolo “Indipendentismo e anarchismo: relazione impossibile?”. Ne riportiamo qui alcuni brani che danno un senso compiuto al concetto di autodeterminazione che ci interessa particolarmente quando riferito a popoli che lottano […]

L'articolo Popoli oppressi vs cinismo tattico: quale soluzione? proviene da OGzero.

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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Sartori pubblicato il 31 agosto 2014 dalla rivista “Etnie” (dove trovate, l’articolo in versione integrale) con il titolo “Indipendentismo e anarchismo: relazione impossibile?”. Ne riportiamo qui alcuni brani che danno un senso compiuto al concetto di autodeterminazione che ci interessa particolarmente quando riferito a popoli che lottano – al di là delle istanze religiose o nazionaliste – per la propria identità, con la volontà di liberare dal controllo dall’esterno di un territorio e delle genti che lo abitano.


Una premessa. Personalmente considero l’indipendentismo come uno degli aspetti assunti dalle lotte per i diritti e per l’autodeterminazione dei popoli. E l’indipendenza uno sbocco possibile, non un destino necessario.

Alla richiesta di analizzare la possibilità di un rapporto organico, stabile e strutturale tra anarchismo e indipendentismo di sinistra, ho sempre risposto con una buona dose di scetticismo.
Tuttavia, dato che le circostanze e le scelte mi avevano portato a solidarizzare con irlandesi, baschi, corsi, curdi e altri (in quanto vittime di una forma di oppressione, una delle tante che devastano questa “valle di lacrime”), senza mai rinnegare i miei trascorsi giovanili inequivocabilmente libertari, ho cercato di vivere dentro questa contraddizione. Per quanto mi è stato possibile, in base al principio della makhnovsina: «Con gli oppressi contro gli oppressori, sempre».
Che poi ci sia anche riuscito, questo è un altro paio di maniche.

L’apparato statale è indispensabile?

In una fase precedente, evidentemente in preda all’ecumenismo, mi ero spinto oltre, scrivendo che «lottare per il superamento della forma-stato a favore dell’autorganizzazione totale delle classi subalterne deriva da una concezione del mondo non dissimile da quella di chi teorizza il superamento dello stato-nazione per l’autorganizzazione della comunità popolare» 1). E mi salvavo l’anima aggiungendo un indispensabile “Forse”. Del resto le “nazioni senza stato” che hanno saputo sopravvivere, conservare tradizioni e linguaggi, combattere l’oppressione e lo sfruttamento e talvolta anche difendere la propria terra dal degrado, non dimostrano, magari senza volerlo, che l’apparato statale non è poi così indispensabile?
Penso quindi che tra libertari e indipendentisti di sinistra (“nazionalisti”? “nazionalitari”? “abertzale”?) ci si possa comunque sopportare, si possa convivere. E talvolta, di fronte al comune nemico del momento, solidarizzare, lottare insieme 2).

Lotte comuni e condivisione

La Storia infatti ha registrato lotte comuni contro capitalismo, fascismo e imperialismo, contro il nucleare e in difesa dell’ambiente, dei diritti umani e dei prigionieri…. Oltre naturalmente alla condivisione di repressione, galera, esilio. Non sono poi mancate reciproche contaminazioni, biografie familiari e personali che si sovrappongono, osmosi tra gruppi libertari e indipendentisti di sinistra.

[…]

Popoli manovrati

Ma negli ultimi anni lo scenario sembra essersi ulteriormente complicato. Non tanto per la possibilità, comunque scarse, di coniugare in maniera duratura le istanze libertarie con quelle indipendentiste. E nemmeno perché questi “nazionalisti” siano cambiati in peggio. Da parte mia mantengo un profondo rispetto per tutti quei militanti baschi, catalani, irlandesi o curdi (da Bobby Sands al Txiki) che hanno perso la vita cercando di coniugare liberazione nazionale e sociale.

Quello che è cambiato, sicuramente in peggio, è l’accresciuta capacità del sistema tecno-industriale-militare dominante (il “caro”, vecchio imperialismo, fase suprema eccetera eccetera) di strumentalizzare i movimenti di liberazione. Anche questo un “effetto collaterale” della globalizzazione? L’autodeterminazione rischia davvero di ridursi, come avvertiva il sociologo catalano Manuel Castells, a una variabile che si usa o si getta a seconda del caso?
Una questione che ovviamente non riguarda soltanto gli anarchici, ma tutta quella sinistra antagonista, non omologata e non addomesticata che ancora si confronta con il diritto dei popoli all’autodeterminazione.
Certo, per i colonizzatori il divide et impera non è una novità. Viene praticato con successo almeno dai tempi di Giulio Cesare.
Le milizie curde alleate della Turchia che (come ha riconosciuto il Parlamento curdo in esilio) parteciparono al massacro degli armeni durante il genocidio del 1915 possono aver fornito un protocollo per l’utilizzo da parte della Francia, e in seguito degli Usa, di alcune minoranze indocinesi contro la resistenza vietnamita. In Irlanda del Nord era il proletariato protestante, maggiormente garantito, a condurre la “guerra sporca” (omicidi settari, spesso indiscriminati) contro gli abitanti dei ghetti cattolici. Da sottolineare che entrambi, indigeni irlandesi e coloni scozzesi, erano di origine celtica (non germanica, come gli inglesi, angli e sassoni). Un elemento in più per sottolineare l’artificiosità e la strumentalità, a tutto vantaggio dell’imperialismo di Londra, della divisione in due comunità reciprocamente ostili.
Putin ha potuto “pacificare” la Cecenia con il ferro e con il fuoco, utilizzando anche bande di ex guerriglieri indipendentisti divenuti collaborazionisti. Sul piano religioso, sciiti e sunniti, a fasi alterne, vengono strumentalizzati in Medio Oriente. Lo stesso avviene con le popolazioni minorizzate – curdi, beluci, turcomanni – alimentando e armando le loro aspirazioni a una maggiore autonomia o all’indipendenza.

Contraddizioni e guerre tra poveri

Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e al-Da’wa, notoriamente filoiraniani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente gli Usa avrebbero utilizzato in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad al-Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?
Anche le “guerre tra poveri” che hanno insanguinato il subcontinente indiano danno l’impressione di essere state in parte manovrate. Nel 2007 alcuni gravi attentati compiuti in occasione di feste nazionali e anniversari dell’India, vennero inizialmente attribuiti ai gruppi islamici. Successivamente emerse la pista dei separatisti del nord-est (bodo, naga…). Nel secolo scorso lo scontro era stato particolarmente duro nell’Assam, dove la maggioranza della popolazione è induista. Dal 1989 al 1996 la guerriglia dei bodo (in maggioranza cristiani) avrebbe causato la morte di migliaia di persone. Nel dicembre 1996 un attentato al Brahamaputra Express, mentre attraversava l’Assam, provocò più di trecento morti. Ancora prima delle rivendicazioni, l’atto terroristico venne attribuito ai bodo che due giorni prima avevano fatto saltare un ponte ferroviario.

Strategia della tensione mascherata da lotta per l’autodeterminazione?

Molto probabilmente in alto loco qualcuno pensa che è “sempre meglio che si ammazzino tra di loro”, purché il controllo del territorio e delle risorse rimanga saldamente nelle mani di chi detiene il potere. Si tratti di un esercito di occupazione, di una multinazionale o di criminalità organizzata come nei pogrom di Ponticelli. E naturalmente anche l’oppresso, il diseredato di turno ci metterà “del suo”.
Un caso limite, a mio avviso, quello dei karen, in perenne fuga tra Birmania e Thailandia e che da qualche tempo verrebbero sostenuti da gruppi neofascisti europei.
Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale e di quelli autonomistici non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Non a caso Manuel Castells ha parlato di «indipendenze a geometria variabile», denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese «a seconda di chi, del come e del quando». Ricordava che osseti e abkhazi si erano ribellati contro la Georgia nello stesso periodo in cui i ceceni si sollevavano contro la Russia. Inizialmente gli Usa appoggiarono l’insurrezione cecena, ma tollerarono facilmente la repressione da parte della Georgia. Analogamente nel caso del Kosovo (dove è stata poi costruita un’immensa base statunitense) si è invocato il diritto all’autodeterminazione, mentre per il Tibet non si va oltre qualche protesta simbolica. Quanto agli uiguri, sembra quasi che non esistano come popolo.

Il cinismo tattico caso per caso

«Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione – ha scritto il sociologo catalano – sono frutto di un cinismo tattico» e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno «strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente». Gli esempi si sprecano. Pensiamo al diverso trattamento riservato ai curdi in Iraq, già praticamente autonomi (e alleati degli Usa a cui hanno consentito di installare alcune basi militari), mentre quelli della Turchia continuavano a essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, grande alleato degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. Nel 2010, dopo una serie di impiccagioni di militanti curdi che l’opinione pubblica mondiale aveva completamente ignorato, i curdi dell’Iran (Partito per una vita libera in Kurdistan, Pjak, considerato il ramo iraniano del Pkk attivo in Turchia) sembravano essersi rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva rivelato “Le Monde”, ma poi la situazione sembra essere cambiata).
Nel caso di Timor Est, la popolazione subì per anni un vero e proprio genocidio nell’indifferenza dell’opinione pubblica. Tra le poche eccezioni, negli anni Settanta, Noam Chomski e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip). Solo di fronte al rischio concreto di una dissoluzione dell’Indonesia intervennero le forze internazionali, ripescando l’ex guerrigliero Gusmão, leader del Frente revolucionària de Timor-Leste independente (Fretilin) per farne il presidente. Pare che inizialmente non ne fosse particolarmente entusiasta, dato che aspirava a ritirarsi dalla vita politica e darsi all’agricoltura. Paradossale che per garantire l’indipendenza di Timor Est venissero impiegati anche soldati inglesi provenienti dalle caserme di Belfast.
E a proposito di Belfast, due situazioni molto simili come l’Irlanda del Nord e il Paese basco negli ultimi anni sembravano aver imboccato strade antitetiche. Soluzione politica, abbandono della lotta armata da parte di Ira, Inla e delle principali milizie lealiste, liberazione dei prigionieri politici e cogestione del governo locale a Belfast e Derry.

Repressione, ancora casi di tortura, tregue effimere, illegalizzazione di partiti (Herri Batasuna, Batasuna, Bildu, Sortu…), associazioni ( Jarrai, Haika, Segi, Gestoras pro Amnistia, Askatasuna…) e giornali (“Egin”, “Egunkaria”) a Bilbo, Donosti e Gasteiz. Solo nel 2012, con la definitiva rinuncia alle armi di Eta e la possibilità per la “sinistra abertzale” di partecipare alle elezioni (con Sortu), si è riaperta la possibilità di una soluzione politica del conflitto. Ma al momento Arnaldo Otegi e altri esponenti indipendentisti rimangono ancora in galera (come se durante le trattative Blair avesse fatto arrestare Gerry Adams) e per i prigionieri politici baschi, in particolare per gli etarras, la situazione rimane molto difficile 3).
La mia ipotesi è che negli anni Novanta il «grande laboratorio a cielo aperto per la controinsurrezione» dell’Irlanda del Nord dovesse chiudere in vista della partecipazione britannica alle guerre in Afghanistan-Iraq e del ruolo fondamentale assunto da Londra. Meno convincente la tesi della conversione di Blair al cattolicesimo, anche se non si può mai dire. Quanto agli Usa, Clinton avrebbe agito per conservare il voto dei cittadini statunitensi di origine irlandese che solitamente votano per i Democratici.

L’ombra dei poteri globali

È ipotizzabile che in Irlanda del Nord la stessa Cia abbia dato una mano per togliere di mezzo qualche capo delle milizie lealiste (filobritanniche) che non aveva compreso la nuova situazione. Ipotesi formulata anche dal compianto Stefano Chiarini. Al contrario, già negli anni Novanta Washington inviava agenti della Cia nel Paese basco per coadiuvare l’apparato repressivo.
Il problema di “quale autodeterminazione” si pone soprattutto nel caso di stati nati dalla colonizzazione, dato che le loro frontiere sono state stabilite in base a trattati europei con cui si decideva arbitrariamente il destino delle popolazioni. I poteri globali reali (economici, militari, tecnologici) stabiliscono caso per caso, di volta in volta, se appoggiare una lotta di liberazione, legittimarne la repressione o anche inventarne una di sana pianta. Al limite della farsa l’episodio che ha visto un gruppo di aspiranti golpisti (quasi tutti membri di una loggia massonica) arruolare mercenari per sobillare la rivolta secessionista nel Cabinda, regione angolana ricca di petrolio. Episodio da segnalare per l’uso spregiudicato di due onlus (Freedom for Cabinda e Freedom for Cabinda Confederation) create appositamente per ricevere donazioni.

Alcuni casi esemplari, storici, di separatismo a puro uso e consumo di qualche potenza coloniale (come il Katanga di Tshombe nell’ex Congo belga) potrebbero tornare di attualità. Per esempio in Bolivia con Santa Cruz, capoluogo di una regione ricca, abitata prevalentemente da discendenti dei colonizzatori, che ha spinto per l’indipendenza. Chissà? Forse Evo Morales (il presidente boliviano esponente del Ma, Movimento al socialismo) ha rischiato davvero di finire come Lumumba, il presidente progressista del Congo, assassinato nel 1961 dagli sgherri di Tshombe al servizio dell’imperialismo belga.
E forse non è un caso che nel 2008, dopo anni di impegno a fianco dei popoli oppressi, la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip), riconosciuta dall’Onu e dall’Unesco, abbia definitivamente sospeso le sue attività. Fondata da Lelio Basso, la Lidlip è stata per trent’anni portavoce delle minoranze, delle popolazioni perseguitate, dei movimenti di liberazione dal colonialismo.

 

NOTE

1) Gianni Sartori, Catalogna – Storia di una nazione senza stato, ed. Scantabauchi, 2007.
2) Ovviamente mi riferisco all’indipendenza come sbocco di una lotta di liberazione, dall’oppressione coloniale classica, “da manuale”. Come nel caso di Algeria, Guinea Bissau, Mozambico, Angola, Irlanda… o dal “colonialismo interno” come potrebbe essere per i Paesi baschi, il Tibet e la Cecenia. A mio avviso si può legittimamente parlare di movimenti di liberazione quando la lotta è anche contro il sistema economico responsabile dell’oppressione (capitalismo, neoliberismo, capitalismo di stato…). Escludendo, per quanto mi riguarda, dall’interessante dibattito partiti come l’Adsav bretone, la Lega Nord o alcuni indipendentisti fiamminghi nostalgici del nazismo.
3) Ma l’auspicata soluzione politica del conflitto è tornata nuovamente al palo dopo la retata del 1° ottobre 2013 contro 18 esponenti di Herrira (tra cui il portavoce Benat Zarrabeitia). Il giudice Eloy Velasco ha accusato l’associazione basca per i diritti umani dei prigionieri politici di essere “un tentacolo di Eta” in quanto avrebbe organizzato manifestazioni di “esaltazione” dei prigionieri baschi.

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La mezzaluna sciita si dissemina per raccogliere la svolta di Biden https://ogzero.org/il-proliferare-di-milizie-nella-mezzaluna-sciita/ Thu, 28 Jan 2021 11:55:02 +0000 http://ogzero.org/?p=2320 Il nastro si riavvolge riproponendo attentati Venerdì 22 gennaio, nel centro di Baghdad, 32 persone sono morte in un attentato suicida rivendicato dall’Isis. Suona come una notizia tristemente familiare, eppure erano quasi tre anni – 2018 sempre a gennaio, 27 vittime – che in Iraq non si verificava un attacco suicida di queste proporzioni. Attribuirlo […]

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Il nastro si riavvolge riproponendo attentati

Venerdì 22 gennaio, nel centro di Baghdad, 32 persone sono morte in un attentato suicida rivendicato dall’Isis. Suona come una notizia tristemente familiare, eppure erano quasi tre anni – 2018 sempre a gennaio, 27 vittime – che in Iraq non si verificava un attacco suicida di queste proporzioni. Attribuirlo in modo esclusivo alla graduale compromissione delle condizioni e dei dispositivi di sicurezza in Iraq nel corso dell’ultimo anno è forse un’operazione prematura e parziale ma è significativo che l’attentato sia avvenuto in questo momento storico, in una città i cui quartieri e ingressi sono presidiati dall’Esercito iracheno e da una miriade di milizie governative e non, molte delle quali protagoniste della stessa sconfitta dell’Isis nel 2014, e finanziate dall’Iran.

Nelle settimane precedenti all’attentato le sensazioni di un cittadino iracheno potevano risultare contrastanti: da un lato l’idea che attorno al 2 gennaio, primo anniversario dell’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani e del suo luogotenente iracheno, il comandante Abu Mahdi Al Muhandis, molte delle citate milizie potessero organizzare una qualche forma di rappresaglia su obiettivi americani, insieme ai rischi di sicurezza storicamente connessi ai grandi assembramenti, proprio come quello organizzato per l’anniversario; dall’altro la consapevolezza, diffusa forse più sui media internazionali che nella società civile ma comunque fondata, che fino al 20 gennaio – giorno dell’insediamento di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti – Teheran avesse diffidato le milizie dal compiere qualunque azione in grado di fornire all’uscente presidente Trump un pretesto per un’operazione militare last-minute contro l’Iran. Ha prevalso la seconda, se si escludono dei lanci dimostrativi di alcuni razzi da parte di formazioni sempre più fuori controllo.

L’eredità di Soleimani

Quel che però è successo lo scorso 22 gennaio può stimolare alcune riflessioni sulle conseguenze di lungo termine dell’assassinio di Soleimani: all’apparenza, e nella percezione americana, un duro colpo alla capacità di mobilitazione paramilitare in Iraq contro gli interessi statunitensi, per via della paternità e dell’ascendente di quest’ultimo su gran parte di quelle milizie. In realtà, e al di là degli aspetti di illegalità – Soleimani era in visita con passaporto diplomatico in un paese, l’Iraq, che lo aveva invitato –, l’assassinio di Soleimani e Al Muhandis ha contribuito a rendere ancor più imprevedibile una situazione già instabile. E che potrebbe sfuggire di mano anche all’Iran stesso.

Perché i due militari avevano sì il potere di coordinare gran parte delle milizie e le loro azioni contro le truppe americane ma di riflesso anche quello, sostanzialmente esclusivo, di contenerle o farle cessare. Di “razionalizzare”, e non solo “alimentare”, la diffusa ostilità alla presenza militare americana. Una capacità perlomeno utile, nella prospettiva di una possibile riapertura del negoziato sul nucleare da cui Donald Trump era uscito unilateralmente, inaugurando una nuova e per certi versi improvvisa stagione di crociera in nuove tensioni, a ridosso dell’escalation.

Le milizie, formazioni di difesa locale o di offesa globale?

L'eredità di Soleimani

Sebbene l’abbandono del Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa) sul nucleare iraniano abbia costituito un fatto senza precedenti nella storia delle relazioni tra Stati Uniti e Repubblica islamica dell’Iran, anche per via della sua natura ufficiale e multilaterale, non è la prima volta che gli Stati Uniti fanno un passo indietro o recedono da una qualche forma di intesa formale con Teheran. La motivazione addotta è più o meno sempre la stessa: le attività di “destabilizzazione regionale” degli iraniani, la cui cessazione per gli Stati Uniti costituisce sin dagli anni Ottanta una sorta di presupposto implicito – quindi non formalizzato – di qualunque compromesso con Teheran. E quando le diverse amministrazioni americane – a cominciare da quella di Trump, soprattutto per bocca del suo segretario di Stato, Mike Pompeo – parlano di “espansionismo” e “attività terroristiche e destabilizzanti” dell’Iran in Asia occidentale, fanno riferimento proprio a quelle milizie che la Repubblica islamica ha finanziato, addestrato e mobilitato negli anni in diversi paesi della regione: dal Libano, passando per la Siria, fino allo Iraq, cioè l’arena in cui l’influenza di Teheran è forse più rilevante e visibile.

Esiste, a monte, una fondamentale questione di percezioni. Gli Stati Uniti considerano nella forma e nella sostanza le milizie filoiraniane e gli stessi Guardiani della Rivoluzione (Irgc) delle entità equiparabili all’Isis e ad Al Qaeda: soggetti con un’agenda prettamente offensiva, operatività potenzialmente globale e utilizzo sistematico del terrorismo, in una visione che non distingue nemmeno formalmente le vittime civili da quelle militari. Tutte caratteristiche che non appartengono alle milizie, che sono invece formazioni locali, nate per combattere l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, alla stregua della nascita di Hezbollah in Libano agli inizi degli anni Ottanta contro l’invasione israeliana.

Il potere dal territorio, frammentato in sfere d’influenza…

Non si tratta solo di errate valutazioni circa la loro natura: il sostegno iraniano a queste milizie viene letto dagli Usa in ottica offensiva, come espressione di un cieco fanatismo espansionista e antioccidentale. L’Iran – esercitando un soft e hard power composito, e che in parte ha inglobato l’eredità reputazionale dello stato antagonista, di principale recipiente dell’“antiamericanismo” (prima riconducibile all’Urss) – ha invece usato le milizie come strumento difensivo avanzato. Lo ha fatto e lo fa in una regione frammentata dal punto di vista amministrativo e altamente militarizzata, nella quale Teheran coltiva alleati locali – o, nel caso del conflitto siriano, il regime contro le formazioni a esso ostili – per erodere il suo storico isolamento e costruire una sua sfera d’influenza, che rafforzi la sua “cintura” di sicurezza e le riconosca un ruolo di potenza regionale.

Quella delle milizie è un’arma asimmetrica e imprevedibile, funzionale a forme di deterrenza rispetto a paesi rivali – Arabia Saudita e Israele in particolare – che hanno spese militari molto più ingenti e armamenti più avanzati, rispetto alla presenza militare americana in diversi paesi confinanti con l’Iran e rispetto alle diverse formazioni dell’internazionale jihadista di matrice soprattutto wahhabita, notoriamente animate da radicale avversione per gli sciiti.

Centralità dell’Iraq nella strategia iraniana

È abbastanza facile capire perché sia l’Iraq il paese col più alto numero di milizie filoiraniane e non, tutte accomunate da gradi diversi di ostilità alla presenza militare americana: un confine di 1500 km con un paese che dal 2003 è in frantumi, privo di un vero stato, e nove basi militari americane al suo interno, alcune molto vicine al confine iraniano. Implicito è l’aspetto demografico, visto che l’Iraq del post-Saddam è tornato a essere un paese a maggioranza sciita come l’Iran, e che le milizie in gran parte – ma non tutte – sono animate da immaginario e simbolismo sciita.

Composizione delle milizie filoiraniane nella mezzaluna sciita

Le Forze di Mobilitazione popolare (Pmf, in arabo Hashd al Sha’abi) si presentano ufficialmente, in forma embrionale, tra il 2012 e il 2014, quando l’allora primo ministro Nuri Al Maliki inizia a reclutare piccoli gruppi di volontari nelle Brigate di Difesa Popolare (Saraya al Dif’a al sha’abi). Il “bollo di autenticità” arriva il 13 giugno 2014 – l’Isis quasi alle porte di Baghdad –, quando la principale autorità religiosa irachena, l’Ayatollah Ali Al Sistani, emette una fatwa che invita i cittadini iracheni (non solo sciiti) a combattere contro l’Isis: le Pmf assumono una forma ufficiale, che in seguito alle fondamentali vittorie militari nei confronti dell’Isis le porterà a essere inquadrate nell’Esercito iracheno. Come ricorda Michael Knights, se in un sondaggio del 2011 solo il 15% degli iracheni nutriva fiducia nelle Pmf per la gestione della sicurezza in Iraq, nel 2017 questa percentuale è schizzata al 91% per gli iracheni sciiti e al 65% per i sunniti.

Lo zoccolo duro delle milizie irachene direttamente collegate all’Irgc iraniana è composto dalla Kata’ib Hezbollah, “cugina” di Hezbollah in Libano e guidata fino a un anno fa proprio da Al Muhandis, che può contare almeno su 10.000 uomini, e la Kata’ib al Imam Ali, con circa 8000 effettivi. Entrambe molto attive contro l’Isis ma anche accusate di violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione sunnita evacuata nelle aree controllate dall’Isis. Le altre milizie con rapporti di diverso grado con Teheran sono la Brigata Badr di Hadi Al Amiri – rilevante anche per i rapporti con le milizie sunnite nelle aree tribali – e Asa’ib Hal al-Haq (Aah, che è anche un partito con 15 seggi in Parlamento), con 10.000 effettivi e guidata da Qais Al Khazali, sul quale si tornerà più avanti. Alla fine del 2014 il numero stimato di miliziani delle Pmf era di circa 60.000, a cui sommare almeno 20.000 uomini non inquadrati ufficialmente nelle Pmf.

Ghaani, grigio funzionario e il sotterraneo lavoro di intelligence

Anche all’indomani dell’uccisione di Al Muhandis e Soleimani, i diffusi timori che innescasse una escalation erano stati in parte sopiti dalla reazione contenuta e in qualche modo “calcolata” di Teheran, che l’8 gennaio seguente aveva colpito con alcuni missili a lunga gittata la base americana in Iraq di Al Asad, ferendo un centinaio di soldati. Nel frattempo, il Parlamento iracheno aveva votato il ritiro delle truppe americane dall’Iraq, che chiaramente non è avvenuto. In tempi relativamente brevi, quindi, l’Iran ha nominato come successore di Soleimani a capo dei reparti Al Quds dell’Irgc. Ghaani però, a differenza di Soleimani, non parla arabo, conosce poco l’Iraq e non ha nessuna relazione personale con i capi delle milizie. Come ricorda Suadad Al Salhy, viene considerato un semplice messaggero, senza particolari prerogative o qualità diplomatiche e strategico-militari.

La sua nomina, che alla luce di queste informazioni è stata letta da alcuni come il segnale di un indebolimento delle milizie e soprattutto dell’influenza iraniana, è stata in effetti accolta dai comandanti delle principali milizie con sorpresa. Ma in realtà segnala qualcosa di più profondo, cioè il ritorno del ruolo dell’intelligence iraniana in Iraq. Durante gli anni Ottanta, quelli del conflitto tra Iran e Iraq, i servizi iraniani erano molto attivi a Baghdad e dintorni. Dal 2005, dopo la caduta di Saddam Hussein, il loro ruolo inizia invece a declinare. Vengono gradualmente sostituite dalle Forze Al Quds, guidate da Soleimani dal 1998, che organizzano alcune delle nascenti milizie popolari per combattere gli americani e scongiurare la possibilità che un paese in preda all’anarchia non si trasformasse né in una “base” statunitense per eventuali regime change a Teheran né in avamposto per gruppi jihadisti antisciiti. L’apice del potere delle Forze Al Quds dell’Irgc è nel 2014, quando Teheran per prima assiste militarmente Baghdad e il governo autonomo del Kurdistan, alle prese con l’invasione di Mosul e di larghe parti del paese da parte dell’Isis, e contestualmente attiva le sue milizie.

La barriera di giovani corpi del Movimento sulla strada delle milizie

L'eredità di Soleimani

In seguito alla sconfitta dell’Isis le milizie rafforzano progressivamente sia i loro rapporti con l’Iran che la loro preminenza politico-militare in Iraq: figlia dei loro successi bellici ma madre di diversi malumori generati negli iracheni, culminati con le proteste di fine 2019. Proprio le proteste, insieme all’assassinio di Soleimani e Al Muhandis, secondo una fonte irachena vicina all’Iran e citata da Al Salhy, avrebbero avuto l’effetto collaterale di arrestare un processo di ristrutturazione delle milizie innescato nel 2017, dopo che lo stesso Al Sistani aveva chiesto un ridimensionamento dell’influenza iraniana.

In particolare, Teheran stava avviando lo smantellamento di alcune formazioni (come la Brigata Khorasani) e una strategia basata sulla fiducia al premier iracheno Mustafa Al Khadimi, sulla diversificazione delle fonti di finanziamento dei suoi alleati politici iracheni e sul loro leverage nella politica economica locale; sul ricollocamento di migliaia di miliziani, non inquadrati nelle Pmf, in ruoli civili, sul rafforzamento delle fondazioni e imprese legate alla ricostruzione, sul modello della Jihad-e-Sazandegi dopo la guerra contro l’Iraq o Jihad al Bina in Libano dopo i bombardamenti israeliani. In generale, una maggiore enfasi sulla politica e la diplomazia (anche quella parallela delle Hawza, le scuole religiose sciite irachene e iraniane) rispetto al militarismo

La diversa “fedeltà” a Tehran delle milizie

Senza Qassem Soleimani, hanno preso forma due opposte tendenze centrifughe: una serie di milizie – come Liwa Ali Al Akbar, Firqat al Imam Ali Al Qitaliyah, Liwa Ansar al Marjaiya – si sono progressivamente sfilate dall’ombrello iraniano, alcune in aperta protesta contro la corruzione diffusa in alcune formazioni delle Pmf. Le cosiddette “fazioni del Mausoleo”, cioè particolarmente vicine all’Ayatollah Al Sistani, in una conferenza dello scorso 2 dicembre a Najaf hanno ribadito la propria richiesta di separarsi dalle Pmf, e di poter riportare esclusivamente al ministero della Difesa e al primo ministro.

Altre sono invece andate fuori controllo in senso opposto: è il caso della Aah di Qais al Khazali. Forte del suo peso politico – l’obiettivo è andare oltre gli attuali 15 seggi e guidare l’intera coalizione di Al Fatah – e militare, Aah negli ultimi tempi è stata protagonista di crescenti scaramucce sul controllo di alcuni checkpoint intorno a Baghdad con Kata’ib Hezbollah e con Harakat Hezbollah al Nujaba, anche per via della rivalità tra Al Khazali e Akram Al Kaabi, il capo della seconda, che peraltro è nata da una scissione da Aah nel 2013. In modo ancor più significativo, poi, ha più d’una volta contravvenuto all’ordine di non lanciare razzi verso obiettivi americani nelle ultime settimane del mandato di Trump: l’ultima volta lo scorso dicembre, dopo l’assassinio dello scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh, spingendo lo stesso Ghaani a incontrare Al Khadimi proprio per recapitare agli Stati Uniti un messaggio sulla propria estraneità ai fatti. Nello stesso giorno a Baghdad sono stati arrestati Hossam Al Zerjawi di Aah (ritenuto responsabile dei lanci) e Hamed Al Jezairy e Ali Al Yasiri, comandanti della dismessa Brigata Khorasani (di cui una settimana prima erano stati arrestati altri 30 membri).

Sembra che Al Khazali fosse contrariato dalla nomina di Abu Fadak Al Muhammadawi (Kata’ib Hezbollah) a capo delle Pmf, e che pensi tuttora di meritare la leadership della muqawama (“resistenza”). Teheran, invece, lo considera poco gestibile militarmente e lo vedrebbe più come uno di quei politici da coltivare e con cui sviluppare la strategia accennata, puntando su un blocco parlamentare solido, specie se si considera il parziale raffreddamento delle relazioni politiche con il blocco di Muqtada Al Sadr, anch’egli orientato al contenimento del ruolo iraniano, oltre che di quello americano.

Il vento nucleare sospeso in attesa di Biden

Questa strategia, però, è vincolata all’idea che Joe Biden rientri quanto prima nell’accordo sul nucleare, e che lo faccia alle stesse condizioni del precedente, senza tentare di inserire il programma di missili balistici – che sono una linea rossa per Teheran – e le stesse milizie in un nuovo negoziato. È infatti assai possibile che alle elezioni presidenziali iraniane del prossimo giugno vinca un candidato principalista, più vicino alle prerogative dell’Irgc e meno incline a fidarsi nuovamente della diplomazia statunitense, motivo per cui il tempo per quest’ultima potrebbe essere più favorevole nei primissimi mesi della presidenza Biden.

Una presidenza che potrebbe ricalibrare all’insegna del realismo le sue percezioni sulle Pmf, abbandonando l’idea che esse costituiscano delle organizzazioni terroristiche globali e funzionali a supposti progetti di dominio dell’Iran. Provando magari a negoziare separatamente un loro ridimensionamento, in cambio del ritiro americano o perlomeno di uno speculare contenimento delle proprie attività in Iraq. Sarebbe in ogni caso opportuno operare nella consapevolezza che una politica non esplicitamente volta a sconfessare quella di Trump, o che decida di trattare egualmente le milizie come formazioni terroristiche, sortirebbe effetti prevedibili: perché si può anche “potare” qualunque legame con l’Iran, eliminare Soleimani o dichiarare guerra senza quartiere alle milizie irachene sue “orfane”, ma è molto difficile che l’hard power e le risorse belliche americane siano in grado di estinguere le ragioni della nascita e dell’esistenza di quelle stesse milizie, cioè proprio la presenza militare americana. Decisamente più probabile è che questa ragione ne esca rinvigorita. E che sullo sfondo, in un Iraq da troppo tempo non in condizione di controllare il proprio destino, attentati come quello di venerdì 22 gennaio tornino a essere routine.

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Segnali di fumo dal Bosforo a Washington https://ogzero.org/segnali-di-fumo-dal-bosforo-a-washington/ Fri, 13 Nov 2020 12:59:02 +0000 http://ogzero.org/?p=1757 Annusate le possibilità di nuove concessioni con il cambio della guardia alla Casa Bianca si fanno notare i movimenti del presidente turco per sondare e preparare una nuova faccia rispetto a quella adottata con l’abbandono da parte di Trump degli interessi americani in Medio Oriente, delegati a sauditi e israeliani, tollerando le scorrerie turche; mentre […]

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Annusate le possibilità di nuove concessioni con il cambio della guardia alla Casa Bianca si fanno notare i movimenti del presidente turco per sondare e preparare una nuova faccia rispetto a quella adottata con l’abbandono da parte di Trump degli interessi americani in Medio Oriente, delegati a sauditi e israeliani, tollerando le scorrerie turche; mentre nei quattro anni di amministrazione evanescente i motivi di attrito erano soprattutto in materia di embarghi, sanzioni non rispettati, minacce di dazi e collisione tra i traffici di armi, gli affari con Cina, Russia e Iran… Le elezioni statunitensi con il cambio in Pennsylvania avenue impongono il riposizionamento.

Cina e Iran convitati di pietra   

Per Biden due sono i problemi centrali della politica estera statunitense: la Cina e l’Iran. Nel primo caso la Turchia è ben posizionata, perché ha continuato a fare affari e perché è uno degli hub della Belt Road Iniziative, da tantissimo tempo la Cina vende armi alla Turchia, i due paesi collaborano da tempo in materia di antipirateria e nel contrasto dell’irredentismo uyguro, la cui diaspora è in parte tollerata da Ankara ma in forma di controllo per conto di Pechino, soprattutto sui rifugiati privati dei contatti con la famiglia e tenuti in un limbo senza speranze.

Ma anche per quel che riguarda l’Iran, con cui Erdoğan partecipa delle decisioni prese nei tanti accordi intestati ad Astana triangolando con Putin, la Turchia si trova a intersecare il punto di incontro tra il bisogno degli ayatollah di trovare un intermediario e le necessità di ricostruire un lavoro diplomatico statunitense. La soluzione siriana è stata trovata insieme, come avvenuto in Nagorno in un modo ancora più smaccato a favore della Turchia; senza considerare che il problema delle rivendicazioni curde si ritrovano identiche per i territori a maggioranza curda al confine turkmeno con l’Iran, come quelli da sempre occupati dai curdi in Anatolia. La Turchia ha sempre aggirato anche l’embargo contro Tehran, allo stesso modo in cui si è accordata sulle merci cinesi.

Ascolta “La Turchia nei dossier “Iran” e “Cina” della Casa Bianca” su Spreaker.

Dunque in qualche modo la Turchia si trova ben posizionata con entrambi gli schieramenti.

Perciò la diplomazia di lungo corso che la figura di Biden rappresenta non potrà che venire a patti, cercando di far rientrare a pieno Erdoğan nella Nato, aprendo questi due dossier e considerando quanto la Turchia sarà disponibile a offrire, ma soprattutto anticipando gli aspetti su cui è in grado di tornare indietro sulle forzature e sugli strappi creati finora. I rumors sui nomi che entreranno a far parte dell’amministrazione Biden lasciano immaginare un orizzonte di questo tipo.

Rapporti con la Nato, questione di schieramenti

Ankara può ribaltare tutti i rapporti perseguiti con gli altri potenti che in questi 4 anni di vacanza strategica internazionale degli Stati Uniti sono stati gli interlocutori principali di Erdoğan per spartirsi le spoglie abbandonate da Washington in Medio Oriente: è il modo di adattarsi a Biden e alla sua politica, tornando magari ad altre forme di difesa targate Usa, stracciando per esempio i contratti di fornitura degli S-400.

Ascolta “Rapporti con Nato, questione di schieramenti” su Spreaker.

Caatsa disatteso: sanzioni applicabili da Biden

L’interazione commerciale con Mosca, da cui Ankara dipende per l’enorme fame di energia che contraddistingue la Turchia. Anche qui Erdoğan si è inserito nel solco delle sanzioni del 2017 (Countering America’s Adversaries through Sanctions Act) contro chi collabora con Corea del Nord, Iran e Russia, finora disattese. Erdoğan dovrà immaginare una contromossa nel caso Biden decida di applicarle.

Ascolta “Caatsa disatteso: sanzioni applicabili da Biden?” su Spreaker.

Albayrak vittima sacrificale in dono a Biden?

Potentissimo fino al 9 novembre 2020, con cariche ministeriali e il controllo di affari strategici in Africa, ma inviso all’elettorato di Erdoğan e quindi, pur essendo erede di una delle famiglie oligarchiche e genero dello stesso presidente, compromesso con l’amministrazione Trump, è il capro espiatorio ideale per avviare un nuovo corso di relazioni con la Casa Bianca di Biden e stornare l’attenzione dal sultano riguardo alla miseria che si allarga nel paese. Si è dimesso con un messaggio su Instagram, Twitter gli è stato sottratto… palesando le forme di censura e solo dopo la nota ufficiale di Erdoğan si è potuta diffondere la notizia. La stampa rimane strettamente sotto il controllo del governo di Ankara.

Ascolta “Albayrak offerto sull’altare di rapporti nuovi con la nuova Casa Bianca” su Spreaker.

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Onda d’urto nucleare sull’Iran https://ogzero.org/dalla-esplosione-di-natanz-alla-bocciatura-allonu-di-nuove-sanzioni-a-tehran-sabotaggio-e-pressione-rohani/ Fri, 04 Sep 2020 12:17:22 +0000 http://ogzero.org/?p=1141 L'amministrazione Trump ha stracciato l’Accordo sul nucleare che l'Occidente con Obama aveva stipulato con il regime degli ayatollah; e Israele non perde occasione per sabotare gli impianti iraniani, da ultimo l'esplosione di Natanz il 2 luglio. Si crea così un duplice fronte, interno ed esterno all'Iran, insufficiente a mettere in crisi la Repubblica Islamica

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Sabotaggio: massima pressione su Rohani

L’ammissione è arrivata con quasi due mesi di ritardo. L’esplosione avvenuta il 2 luglio negli impianti nucleari di Natanz, in Iran, è il risultato di un atto di “sabotaggio”, ha dichiarato il 23 agosto un portavoce dell’Agenzia per l’energia atomica della repubblica islamica iraniana, citato dall’agenzia di stampa ufficiale Irna. Non ha precisato che tipo di esplosione e che materiali siano stati usati: questo «verrà annunciato a momento debito».

L’esplosione, che ha distrutto un intero edificio nell’impianto di Natanz, era stata preceduta da una serie di “misteriosi” incendi e esplosioni nei giorni e settimane precedenti in diverse altre installazioni di carattere militare in Iran, e aveva già suscitato un turbine di ipotesi: bombe, attacchi missilistici, attacco elettronico, sabotaggio? Da parte di dissidenti iraniani, degli Stati uniti, di Israele? Di sicuro l’ipotesi di incidenti fortuiti non ha mai convinto nessuno. In particolare, nel caso di Natanz già pochi giorni dopo l’esplosione il governo annunciava di aver determinato la causa, anche se non poteva per il momento rivelarla per “considerazioni di sicurezza”.

Chi tocca il reattore muore

La parola sabotaggio dunque non sorprende. Del resto non sarebbe la prima volta: sia gli Stati uniti che Israele hanno in passato condotto azioni coperte in Iran, come gli attentati in cui sono stati uccisi diversi scienziati nucleari iraniani (che molti attribuiscono a Israele), o le azioni di sabotaggio elettronico ai danni di impianti atomici attribuite agli Usa (ben prima dell’avvento di Donald Trump). Solo pochi giorni dopo l’esplosione del 2 luglio, il New York Times citava anonimi «agenti di intelligence mediorientali» (tra cui uno delle Guardie della Rivoluzione iraniane) secondo cui l’attacco a Natanz è stato compiuto da Israele con una bomba ad alto potenziale. Cosa in sé plausibile, ma difficilmente vedremo prove o ammissioni ufficiali. Da parte israeliana certo non verranno conferme, e di prassi neppure smentite (interrogato in proposito, il ministro della difesa israeliano Benny Gantz ha semplicemente detto alla radio di stato: «Non tutto quello che accade in Iran ha necessariamente a che fare con noi»: risposta che non è una smentita).

Natanz, regione di Esfahan

Il capoluogo dello sharestan omonimo ospita l’impianto nucleare più imponente dell’Iran

L’uranio di Natanz

Altri interrogativi riguardano l’entità del danno provocato. L’impianto di Natanz, costruito in parte nel sottosuolo non lontano dalla città di Isfahan nell’Iran centrale, è tra quelli soggetti a regolari ispezioni da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’ente delle Nazioni unite per la sicurezza nucleare. È a Natanz che a partire dal 2012 l’Iran ha cominciato a costruire le sofisticate centrifughe necessarie ad arricchire l’uranio. In luglio l’Agenzia atomica iraniana ha ammesso che l’esplosione ha ritardato il programma di arricchimento dell’uranio di alcuni mesi. Alcuni esperti occidentali sostengono invece che i danni all’impianto potrebbero aver ritardato il programma di un paio d’anni.

Che si voglia credere all’agenzia iraniana o agli esperti occidentali, pare chiaro che il sabotaggio potrà al massimo rallentare il programma atomico di Tehran – difficilmente riuscirà a fermarlo. Non ci sono riusciti i sabotaggi del passato. L’Agenzia atomica iraniana ha già annunciato che ricostruirà l’impianto distrutto, «con equipaggiamenti ancora più moderni».

Conviene ricordare che quando nel 2015 l’Iran e sei potenze mondiali hanno firmato il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), più semplicemente chiamato l’“Accordo sul nucleare iraniano”, Tehran aveva accettato di rinunciare a buona parte della sua riserva di uranio già arricchito appunto a Natanz (intorno al 20 per cento, livello necessario alla ricerca medica ma lontano da quello che serve per confezionare armi atomiche); aveva inoltre accettato di non costruire nuove centrifughe per i successivi otto anni. In effetti l’uranio arricchito era stato spedito fuori dal paese, e la costruzione di centrifughe a Natanz era stata fermata, come hanno certificato le regolari ispezioni dell’Aiea. L’Iran ha sempre negato di voler costruire armi nucleari, mentre ha sempre puntato in modo abbastanza esplicito ad avere la “capacità atomica”, cioè la capacità di maneggiare il ciclo nucleare: considerando che dava migliori garanzie di “deterrenza” avere la capacità di costruire un ordigno in caso di necessità, piuttosto che costruirlo effettivamente. Ma anche a voler diffidare delle intenzioni di Tehran, bisogna osservare che dal punto di vista della non proliferazione, il Jcpoa aveva effettivamente messo un freno alle attività iraniane.

L’indipendenza europea sotto tutela

Finché nel maggio 2018 il presidente Trump ha annunciato il ritiro degli Stati uniti dal Jcpoa, ed è allora che a Natanz l’officina di fabbricazione delle centrifughe ha ripreso l’attività. Non subito, bisogna dire: per un anno e mezzo l’Iran ha continuato a osservare la sua parte dell’accordo, chiedendo piuttosto ai partner europei (Francia, Germania e Gran Bretagna sono i firmatari insieme all’Unione europea) di compensare l’Iran per i benefici persi. Sappiamo però che questo è il punto dolente: i paesi europei continuano ad affermare l’importanza del Jcpoa, della diplomazia multilaterale, e del dialogo con l’Iran, ma sul lato pratico non hanno saputo davvero contrastare le sanzioni economiche statunitensi: vivida illustrazione di quanto sia limitata l’autonomia europea in una economia mondiale dominata dal dollaro (ogni transazione rilevante che avviene in dollari, ovunque, è soggetta allo scrutinio delle autorità finanziarie statunitensi). Il meccanismo finanziario chiamato Instex, annunciato dall’Unione europea nel settembre 2018 (ma diventato operativo solo nel gennaio 2020) per offrire un canale per gli scambi commerciali con l’Iran, incluso il settore petrolifero, avrebbe dovuto permettere alle imprese europee di aggirare le sanzioni Usa: ma finora non è andato oltre una singola transazione dimostrativa. Lo stesso vale per un meccanismo che dovrebbe facilitare forniture “umanitarie”, farmaci e attrezzature mediche.

Insomma: di fronte agli indugi europei, nell’ultimo anno gradualmente Tehran ha ripreso ad arricchire uranio oltre il limite previsto dal Jcpoa (anche se resta ben al di sotto delle quantità di cui disponeva prima di firmare l’accordo). Passi molto graduali, definiti da parte iraniana una “riduzione degli impegni”; per il resto l’Aiea nota che Tehran continua ad attenersi agli accordi. Il presidente Hassan Rohani ha più volte ripetuto che le attività riprese sono facilmente reversibili, e che l’Iran è pronto a tornare indietro se gli Stati uniti rientreranno nel Jcpoa o se gli altri firmatari troveranno il modo di compensare il ritiro americano. Il presidente Rohani, e il ministro degli esteri Javad Zarif, sono convinti che restare nei termini dell’accordo sia nell’interesse dell’Iran.

Fronte nucleare interno

Ma è chiaro che la posizione di Rohani è sempre più difficile da tenere, in Iran. Quelli che hanno accusato Rohani di “svendere” gli interessi nazionali, ora possono dire “non bisognava fidarsi degli Stati uniti che firmano un accordo e non lo rispettano”. E dopo il sabotaggio a Natanz le voci contrarie all’accordo nucleare hanno alzato il volume. In parlamento è stato detto che il sabotaggio è frutto delle “infiltrazioni” di “spie” sotto la copertura dell’Aiea. Un gruppo di deputati sta raccogliendo firme su un progetto di legge per il ritiro “automatico” dell’Iran dall’Accordo nucleare nel caso che l’Onu torni a imporre le sue sanzioni come chiesto da Washington. Altri vorrebbero che l’Iran si ritirasse anche dal Trattato di Non Proliferazione, il Tnp, quello da cui discende l’Aiea con tutta la sua architettura di ispezioni e controlli (a cui l’Iran si è sempre sottoposto, si fa notare, al contrario di molti paesi della regione, Pakistan e India a est, Israele a ovest). C’è chi ha detto che l’Iran dovrebbe fare come la Corea del Nord, non subisce attacchi un paese che ha fatto davvero un test nucleare.

Posizioni simili ben poco realistiche, neanche ora che le correnti oltranziste dominano il parlamento: i processi decisionali su questioni di sicurezza nazionale non passano per il Majlis ma per un complicato equilibrio di poteri rappresentati nel Consiglio supremo di sicurezza nazionale, e in ultima istanza sono sanzionati dal Leader, prima autorità dello stato. Ma la crescente retorica antiaccordo è un segno del clima politico. E dopo il sabotaggio a Natanz, appare anche più giustificata.

Falchi americani e falchi iraniani

Il punto è proprio questo. Come in uno specchio, la guerra scatenata dall’amministrazione di Donald Trump ha fatto un enorme favore alle correnti più oltranziste della Repubblica Islamica. Attentati e sabotaggi infatti fanno parte di una vera e propria guerra: non dichiarata, non l’invasione spesso evocata dai falchi e sostenitori del “regime change” che albergano nella Casa Bianca (rappresentati ora dal segretario di stato Mike Pompeo). Ma pur sempre una guerra: in forma militare, come con l’attacco mirato che ha ucciso il generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad lo scorso gennaio, o la guerra economica condotta con le sanzioni. O ancora con le provocazioni, come i jet statunitensi che volano pericolosamente vicino a un aereo civile iraniano. Le provocazioni si moltiplicano: come quando Mike Pompeo è intervenuto alla Convention Repubblicana in videoconferenza da Gerusalemme rivendicando l’uccisione di Soleimani. L’ultima nomina della Casa Bianca alla carica di “inviato per l’Iran” è l’ennesimo segnale di ostilità: Elliott Abrams, è un autentico falco, già coinvolto nell’affare Iran-Contras durante l’amministrazione Reagan.

Ciò non farà crollare il regime. Il muro di sanzioni pesa sull’economia, certo, e sulla vita quotidiana degli iraniani; i sabotaggi e le provocazioni infliggono danni e alzano la tensione in modo pericoloso: ma tutto ciò non spingerà l’Iran a tornare al tavolo dei negoziati con gli Stati uniti (che sarebbe l’obiettivo teorico dichiarato dall’amministrazione Trump).

Invece, ha contribuito a cambiare l’equilibrio dei poteri a Tehran: a screditare i fautori del dialogo, l’amministrazione di Hassan Rohani, i “pragmatici” che avevano riaperto l’Iran al mondo (e allentato il clima di controllo interno: in un paese sotto attacco, anche le libertà civili sono schiacciate). Ha contribuito anche a rafforzare il potere e l’influenza della casta militare, che va ben oltre la difesa: le Guardie della rivoluzione hanno un ruolo essenziale nell’economia sotterranea che si espande proprio a causa delle sanzioni; gruppi industriali legati alle Guardie rilevano i contratti per grandi infrastrutture, petrolifere e non, abbandonate dalle imprese occidentali timorose di incorrere nelle ritorsioni americane.

Qualche scacco allo strapotere americano

In questo quadro però sorgono degli intoppi. Gli Stati uniti hanno subito una rara sconfitta al Consiglio di sicurezza dell’Onu, quando in agosto non sono riusciti a far passare una risoluzione per reimporre sanzioni delle Nazioni unite all’Iran, tra cui un embargo sulle vendite di armi (quello attualmente in vigore scade in ottobre, ai sensi del Jcpoa): la risoluzione Usa ha raccolto solo il voto della Repubblica Dominicana, mentre gli altri 13 membri del Consiglio di sicurezza hanno votato contro o si sono astenuti, inclusi i tradizionali alleati europei. [Sulla minaccia rappresentata dall’Iran, è utile ricordare che Tehran spende per la difesa una frazione rispetto ai paesi vicini, secondo il Stockholm International Peace Research Institute: il budget della difesa iraniano era stimato a quasi 13 miliardi di dollari nel 2019, contro i 62 miliardi dell’Arabia Saudita, i 20,4 miliardi per Israele (e lo stanziamento di 732 miliardi nel budget statunitense)].

Gli Stati uniti hanno allora tentato la carta di avviare il “meccanismo di arbitrato” (dispute mechanism) previsto dal Jcpoa, cioè il meccanismo legale che i firmatari dell’accordo possono avviare se uno dei partecipanti viola gli accordi, e che dovrebbe portare a sanzioni entro 30 giorni. Gli altri firmatari degli accordi però hanno osservato che Washington non è più un membro del Jcpoa, da cui si è ritirato nel 2018, quindi non ha il potere di avviare il meccanismo legale di sanzioni. Commentatori americani hanno osservato con disappunto che invece di isolare l’Iran, l’amministrazione Trump ha messo gli Usa in una posizione imbarazzante.

Mentre l’Iran ha avuto l’occasione di mostrare che in fondo sa prendere decisioni pragmatiche. Il 26 agosto infatti ha annunciato un accordo con l’Aiea, che chiedeva accesso a due siti atomici per ispezioni. L’accordo è stato annunciato insieme dal direttore dell’Agenzia iraniana per l’energia atomica, ali Akbar Salehi, e dal direttore generale dell’Aiea Rafael Grossi al termine di una missione di quest’ultimo a Tehran. L’Iran “dà volontariamente accesso” ai due siti interessati, è stato detto. Una data per la visita degli ispettori è stata concordata (“molto presto”, ha aggiunto Grossi). La questione non riguarda direttamente il Jcpoa (su questo, le ispezioni dell’Aiea non sono mai state interrotte). L’Iran applica un “Protocollo addizionale” che permette all’Aiea ispezioni ulteriori: ma in gennaio si era vista negare l’accesso per verifiche in due siti dove sarebbero state condotte nei primi anni Duemila attività di conversione dell’uranio e test su esplosivi che potrebbero alludere a attività belliche: dubbi che l’Aiea chiede di chiarire dopo aver ricevuto informazioni da Israele (sulla base, pare, di documenti che i servizi israeliani erano riusciti a trafugare dall’Iran). Il fatto che le illazioni siano arrivate da Israele aveva provocato le rimostranze iraniane. Durante la sua visita, Grossi ha precisato che l’Aiea non vuole “politicizzare” la questione. Il comunicato congiunto afferma che «sulla base delle sue informazioni, l’Aiea non ha ulteriori richieste di accesso» con l’Iran: la questione sembra chiusa.

La linea del dialogo dunque tiene – per ora. Ma è precaria: in attesa che gli europei facciano funzionare i canali commerciali con l’Iran, che la cooperazione prevalga sulle provocazioni. In attesa, soprattutto, delle elezioni presidenziali statunitensi: di sapere se alla Casa Bianca siederà il democratico Joe Biden, che promette di riportare gli Stati uniti nell’accordo nucleare con l’Iran, o il presidente Trump che continuerà a perseguire la sua “massima pressione”.

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Considerazioni sul Libano che vanno oltre il Libano https://ogzero.org/considerazioni-sul-libano-che-vanno-oltre-il-libano/ Thu, 03 Sep 2020 09:08:42 +0000 http://ogzero.org/?p=1121 Archiviare i rapporti di forza coloniali in questo periodo di nazionalismi esasperati può ricondurre a modelli vecchi di secoli, anziché soddisfare le richieste di emancipazione dei popoli repressi: l'impero ottomano e quello russo tentano di ricreare le antiche sfere di influenza.

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«Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: “la Padania è una repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore”». Parole di Umberto Bossi nella sua dichiarazione d’indipendenza della Padania, 15 settembre 1996. Una sfida, una provocazione politica. Ma anche la realtà di un mondo in cui le Nazioni, come sono state disegnate negli ultimi secoli, non necessariamente corrispondono agli elementi coesivi che finora hanno consentito loro di sopravvivere in pace.

Anni fa sentivo un giovane militare israeliano stanco della guerra contro l’indipendentismo palestinese affermare: «A cosa serve tutto questo. Presto il mondo sarà globalizzato e le nazioni, come le conosciamo oggi, non esisteranno più. Ognuno vivrà dove meglio si trova». Quel futuro (non solo per il Covid) c’è e non c’è. E invece assistiamo a una lenta e spesso cruenta trasformazione del mondo come fu tracciato nella sabbia o sulle cime dei monti dai nostri nonni e bisnonni. Divisioni e non consolidamento.

Confini tracciati altrove

Da Bossi e la Padania, tra razzismo e settarismo religioso, non è difficile approdare sulle sponde meridionali del Mediterraneo. Non soltanto perché sono poche ore d’aereo ma perché il Vicino Oriente come lo vediamo sulle cartine geografiche e nelle cronache dei telegiornali, fu creato o disegnato nel Castello Devachan a Sanremo tra il 19 e il 26 aprile 1920 e consolidato – si fa per dire – pochi mesi dopo a Sèvres, in una antica fabbrica di porcellane a sud di Parigi. Il tutto sulle rovine di uno dei più longevi, affascinanti, poco studiati e spesso incompresi imperi della storia. Di cui anche il minuscolo territorio che conosciamo come Libano faceva parte.

Segno di cambiamento degli equilibri

L’esplosione del 4 agosto 2020 a Beirut, che ha ucciso oltre 200 persone e ferito altre 7000 devastando vaste zone della capitale libanese, ha riportato il paese dei cedri sulle prime pagine dei giornali. Accanto a dubbi, incertezze, ipotesi (attentato o incidente?) sono riprese le considerazioni sulla stabilità, direi quasi la sopravvivenza, del piccolo paese creato dalla Francia e di cui Parigi sembra rivendicare un diritto di tutela se non di più. I legami tra Francia e Libano risalgono al XVI secolo quando la monarchia parigina si rivolse al sultano ottomano per proteggere i cristiani di una regione che, dalla nascita di Gesù in poi, il mondo religioso cresciuto attorno alla sua memoria definisce “Terra santa” ma che per 623 anni, dal 1299 al 1922, faceva parte di uno degli imperi più longevi e potenti e spesso più illuminati della storia controllando, in nome dell’islam sunnita, fette importanti dell’Europa e dell’Asia.

Dove le feroci Crociate dei cristiani d’Europa non riuscirono nel loro intento di dominare la terra d’altri, la forza militare e la diplomazia degli imperi più recenti del vecchio continente ebbero maggiore successo. Con la sconfitta tedesca nella Prima guerra mondiale e la conseguente distruzione del suo alleato di comodo – l’impero Ottomano appunto – francesi, inglesi e italiani (con il consenso dello zar di tutte le Russie) si divisero le spoglie. Non fu un processo indolore. Il trattato di Sèvres provocò la reazione immediata dei nazionalisti turchi sopravvissuti alla sconfitta del vecchio impero. Mustafa Kemal Atatürk, il padre della Turchia moderna, guidò una serie di guerre per cacciare francesi, italiani, greci dall’Anatolia e dopo appena tre anni, con il Trattato di Losanna, gli europei furono costretti a fare un piccolo passo indietro riconoscendo i confini della Turchia di oggi. Un prezzo relativamente modesto visto come Gran Bretagna e Francia erano riusciti a consolidare la loro presenza nel Vicino Oriente e determinare la realtà di nuove entità come Siria, Iraq, e a gettare le basi, con il patto semiclandestino di Sykes-Picot (16 maggio 1916), per la creazione di Israele. Nelle loro menti probabilmente più che un regalo ai sionisti ebrei (peraltro quasi tutti europei) doveva essere un elemento di disturbo nel mondo arabo dominato dalle due anime principali dell’islam.

Mandato coloniale permanente?

Torniamo al Libano. La Società delle Nazioni, ratificando l’accordo Sykes-Picot, affidò la Grande Siria (la Siria attuale e cinque province che costituiscono l’attuale Libano) al controllo diretto della Francia. E Parigi agendo da padrone colonialista, nel settembre 1920 istituì la Repubblica libanese con Beirut come capitale sul territorio allora in gran parte cristiana ma con una forte minoranza musulmana (oggi maggioranza) e drusa. Il paese divenne indipendente alla fine della Seconda guerra mondiale. Fu adottata una Costituzione che voleva garantire i diritti delle varie comunità con un sistema di divisione del potere. Per molti anni ha funzionato trasformando il piccolo stato sulle rive del Mediterraneo in una specie di Svizzera del Medio Oriente: nel bene e nel male.

Gli sviluppi politici nella regione dopo la creazione dello stato d’Israele e, più di recente, con la rivoluzione khomeinista in Iran, assommato ai grandi cambiamenti demografici in Libano, hanno portato alla situazione che vediamo oggi. Con una provocatoria petizione online firmata da 60000 tra residenti e membri della grande e influente diaspora libanese, è stato chiesto alla Francia di tornare a prendersi cura del Libano con un nuovo Mandato. «La Francia non lascerà mai il Libano», parole del leader francese Macron in visita a Beirut devastata dall’esplosione al porto. «Il cuore del popolo francese batte ancora al polso di Beirut». Solo retorica o il neocolonialismo francese fatica a morire? Per sottolineare il legame storico, Macron ha fatto il bis tornando a Beirut il 1° settembre, cento anni dopo quel famoso “Mandato”. Ancora parole, ma forse la consapevolezza che troppi fattori, locali e regionali, giocano contro un ruolo di Parigi che vada oltre eventuali piogge di euro per sostenere un sistema corrotto e fallimentare. Di sicuro, con la divisione del potere costituzionale che non rispecchia più la realtà demografica del Libano, il futuro della piccola nazione è sempre più in bilico in un mondo in cui montano le tendenze autonomiste, si inasprisce lo scontro tra Iran e Arabia saudita, gestori delle due verità contrapposte dell’islam, e prendono impeto le aspirazioni di vecchie potenze imperiali, tra cui la Turchia. Una nota: gli stati nazionali radicati nella storia della regione di cui parliamo sono appena quattro: Egitto, Iran, Yemen e Turchia.

Il passato, un incubo rinnovabile

La disgregazione dell’Unione sovietica e della Jugoslavia hanno aggiunto nuove nazioni all’Onu e si è parlato molto negli ultimi anni di ridisegnare i confini del Medio Oriente per soddisfare le istanze, per esempio, dei curdi, traditi dalle spartizioni postimpero Ottomano. Stesse ipotesi aleggiano per risolvere il conflitto interno della Libia, altra realtà complessa disegnata dall’Italia coloniale dopo la cacciata dei turchi da Cirenaica e Tripolitania. In essenza, è in corso nel bacino del Mediterraneo un grande gioco i cui protagonisti rispecchiano più il passato che un’idea rivoluzionaria per il futuro. Mentre la Francia rincorre la sua gloria appassita e la Russia agisce pensando non tanto all’Urss, di relativamente breve memoria storica, quanto al grande impero degli zar che molti osservatori tendono a dimenticare, la Turchia (membro della Nato, formalmente alleato dell’Occidente e, purtroppo, più volte respinta come possibile membro dell’Unione europea) sembra voler ripristinare la gloria dell’impero d’Oriente e dell’islam sunnita che dominarono per sei secoli sulle rovine dell’impero cristiano di Costantinopoli. La nuova classe dirigente turca e buona parte degli ufficiali superiori rivendicano quanto meno un ruolo di potenza regionale soprattutto sul Vicino Oriente islamico.

Per i servizi segreti israeliani, che guardano con simpatia alle mosse di Macron, e per la Cia, in uno stato di confusione anche per la politica attuale della Casa Bianca, la Turchia di Erdoğan (in corso di collisione con la Grecia per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nel Mediterraneo) «è più pericolosa dell’Iran» degli ayatollah. Di sicuro l’estensione della presenza militare di Ankara – dalla Libia a Siria, Libano settentrionale, Iraq, Qatar, Afghanistan, Somalia e i Balcani – non è mai stata tanto vasta dai giorni dell’Impero Ottomano. L’accordo tra gli Emirati arabi uniti (che hanno paura dell’Iran) e Israele (nemico principale di Tehran) fa parte del Grande gioco regionale che mette in difficoltà soprattutto le pedine più piccole e deboli. Quelle create a tavolino.

Assisteremo a nuove guerre e alla creazione di nuovi confini? Una piccola scintilla potrebbe far esplodere le istanze autonomiste di cui conflitti religiosi e tribali sono i sintomi sempre più evidenti. Se la nostra Padania non è veramente a rischio perché non vi esistono le condizioni fondamentali per rivendicare l’autodeterminazione, non è così per molte delle realtà nel Vicino Oriente (e non soltanto) dove vi sono popoli riconosciuti come tali sottomessi da governi non rappresentativi che li discrimina come razza, credo o colore.

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L’Iran da Astana all’Eurasia https://ogzero.org/liran-da-astana-alleurasia/ Sun, 02 Aug 2020 22:20:34 +0000 http://ogzero.org/?p=990 Massima pressione americana e scenario multilaterale regionale È passato inosservato l’ultimo vertice dei presidenti di Russia, Turchia e Iran, riuniti il 1° luglio scorso (in videoconferenza) per discutere gli ultimi sviluppi della situazione in Siria. Il virtuale incontro però aveva la sua importanza. Per cominciare, ha riaffermato che il cosiddetto “processo di Astana” non è […]

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Massima pressione americana e scenario multilaterale regionale

È passato inosservato l’ultimo vertice dei presidenti di Russia, Turchia e Iran, riuniti il 1° luglio scorso (in videoconferenza) per discutere gli ultimi sviluppi della situazione in Siria. Il virtuale incontro però aveva la sua importanza. Per cominciare, ha riaffermato che il cosiddetto “processo di Astana” non è defunto, come molti andavano annunciando.

Con questo nome si indica la serie di colloqui cominciata del dicembre 2016 nella città di Astana (Kazakhstan) per iniziativa di Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdoğan e Hassan Rohani con l’inviato del segretario generale dell’Onu per la Siria: una iniziativa diplomatica per la pace in Siria, parallela agli (inconcludenti) colloqui sponsorizzati dall’Onu a Ginevra. Il format di Astana ha portato nel settembre 2017 a un accordo per istituire quattro “zone di de-escalation” nel territorio siriano, di cui le tre potenze si sono fatte “garanti”.

Non entreremo qui nei dettagli di come questi accordi si sono tradotti sul terreno: che la Siria sia ancora lontana da una effettiva stabilizzazione è sotto gli occhi di tutti. Il punto che qui interessa è che sotto lo stravagante format intitolato a una citta kazakha abbiamo tre potenze regionali che discutono compromessi e accordi in uno scenario, la Siria e il Vicino Oriente, dove però le rispettive agende politiche sono diverse e spesso in aperto conflitto. A cominciare dal fatto che la Turchia appoggia le formazioni ribelli sunnite che cercano di rovesciare il governo di Bashar al Assad, mentre la Russia e l’Iran si sono adoperati anche militarmente per tenerlo in piedi.

Più in particolare, il vertice di luglio è stato il primo da quando Turchia da un lato, Russia e Iran dall’altro si sono scontrati nella provincia di Idlib, la più ampia delle zone di “de-escalation” (la tensione era salita in febbraio con 33 militari turchi uccisi da un raid attribuito a jet russi, a cui la Turchia ha risposto attaccando forze del regime siriano e milizie sciite filoiraniane). Una relativa calma è tornata dopo che Erdoğan in marzo è volato a Mosca e ha concordato con Putin un cessate il fuoco, con un meccanismo di “corridoi di sicurezza” per garantire le vie di comunicazione, e di pattugliamenti comuni che però dovrebbe preludere alla ripresa di controllo delle forze di Damasco sulla provincia di Idlib (ovvero, sembrerebbe che Ankara abbia dovuto accettare le condizioni russe). In realtà molti segnali dal terreno fanno temere una ripresa di ostilità.

 

Integrazione attraverso scambi, favori e relazioni complicate

Eppure il comunicato congiunto del vertice tripartito lascia intendere che la Russia lascerà alla Turchia più tempo per concludere ciò che si è impegnata a fare nel quadro degli accordi di Astana, e cioè mettere sotto controllo i ribelli jihadisti siriani che operano nella provincia di Idlib. Le variabili sono numerose e complicate: dalla dinamica tra le formazioni ribelli più dipendenti dal sostegno turco (come Hayat Tahrir Shams) e quelle più radicali – al controllo delle province nordorientali a maggioranza kurda, che la Turchia considera una propria zona di pertinenza (tanto che occupa un’ampia “zona cuscinetto” con l’accordo di fatto degli Usa e anche della Russia). Concedere alla Turchia di occupare altro territorio siriano-kurdo potrebbe diventare moneta di scambio per recuperare zone strategiche controllate dai ribelli sunniti più a sud. Altre variabili poi ci porterebbero in Libia, un altro teatro di guerra internazionalizzata dove Mosca e Ankara sono su fronti contrapposti: le due crisi sono molto intrecciate.

Tutto questo dice quanto sia ancora lontano un assetto stabile che sia preludio alla pace in Siria. Intanto però il format di Astana afferma la sua esistenza sulla scena mediorientale come un fronte politico-diplomatico contrapposto a quello a conduzione statunitense.

La dichiarazione dei tre presidenti per esempio se la prende con «l’appropriazione e trasferimento illegale di risorse petrolifere che appartengono alla Repubblica Araba di Siria», allusione alle forze degli Stati Uniti che presidiano due campi petroliferi nella provincia nord-orientale siriana, la cui amministrazione autonoma curda (controllata dalle Forze democratiche siriane, filo Usa) ha di recente concesso a compagnie Usa il diritto di commercializzare il petrolio estratto. I tre presidenti ribadiscono inoltre l’impegno a difendere «sovranità, indipendenza e integrità territoriale» della Siria, quindi a «respingere iniziative illegali di autogoverno» – riferimento alla tentazione di affermare un’autonomia territoriale curda nel Nordest difesa dagli Usa. Condannano le sanzioni statunitensi contro la Siria.

La dichiarazione congiunta poi condanna «gli attacchi militari di Israele in Siria», e questa è una concessione al presidente Rohani: si riferisce alla serie di raid condotti nelle ultime settimane da forze israeliane contro obiettivi iraniani e delle milizie filoiraniane intorno a Damasco (l’ultimo episodio è del 20 luglio). Ma proprio questo è anche un esempio di come il format tripartito copra agende molto diverse. Infatti è dubbio che la Russia abbia davvero intenzione di reagire agli attacchi di Israele contro obiettivi iraniani in Siria. C’è perfino chi parla di un vero e proprio accordo dietro le quinte tra Mosca e Tel Aviv (che peraltro hanno intensi contatti diplomatici) per ridimensionare le milizie filoiraniane, e in generale la presenza dell’Iran in Siria.

Lo scenario è complicato, e anche le relazioni tra Tehran e Mosca lo sono. Nel 2015 l’Iran ha concesso ai jet russi in partenza dalle basi nella regione del Caucaso di sorvolare il proprio spazio aereo per andare a bombardare le postazioni dello Stato islamico in Siria, e a Tehran la cosa era presentata come il primo passo di una nuova alleanza strategica con Mosca. L’occasione era la comune “guerra alla Stato islamico”, o Daesh secondo l’acronimo in arabo (pare che ai russi interessasse in particolare colpire le milizie cecene all’interno delle formazioni jihadiste). L’Iran aveva già mandato forze speciali sul terreno a sostenere l’esercito governativo e organizzare milizie; l’entrata in gioco della Russia ha contribuito in modo decisivo a cambiare le sorti militari del conflitto siriano e salvato il regime di Assad.

Dal punto di vista dell’Iran, l’interesse strategico in Siria è evidente. Si tratta di un raro “paese amico” tra i vicini arabi (e da lunga data: negli anni Ottanta Damasco con Hafez al Assad, è stata l’unica capitale araba a non appoggiare l’invasione dell’Iran da parte dell’Iraq di Saddam Hussein), e di un’area di influenza strategica importante, via di comunicazione verso il Mediterraneo, accesso verso l’alleato movimento di Hezbollah in Libano: dunque quella che Tehran considera la sua “profondità strategica” nei confronti di Israele. Vedere a Damasco un governo sunnita di stampo saudita sarebbe per Tehran un disastro da evitare a tutti i costi. Per questo ha sostenuto l’esercito governativo siriano e varie milizie filogovernative, spesso addestrate e organizzate dalle Guardie della rivoluzione iraniana (anche se nessuno ne darà mai conferma ufficiale): cosa che continuerà finché le varie reincarnazioni di Daesh e di al-Qaeda avranno i loro sponsor. L’obiettivo iraniano è assicurarsi in futuro che a Damasco sieda un governo non ostile. Anche la Russia, che ha in Siria la sua unica base militare nel Mediterraneo, ha tutto l’interesse a garantirsi in Siria un governo amico.

Le convergenze di interessi però non sono eterne, e comunque non esclusive. Le milizie organizzate dalle Guardie della Rivoluzione iraniane in Siria (e in Iraq) sono state fondamentali per respingere l’offensiva dello Stato islamico (e il principale artefice di questo successo sul terreno è stato il comandante delle forze speciali al Qods, Qassem Soleimani, poi ucciso da un raid statunitense nei primi giorni di gennaio 2020 a Baghdad). Ma quelle milizie sono diventate ingombranti per molti, sia in Iraq che in Siria: che esista o meno un accordo dietro le quinte tra Israele e Russia, entrambe le parti hanno interesse a ridimensionare l’influenza iraniana sul terreno.

Questo non significa che l’alleanza strategica sia finita. E in ogni caso non impedirà a Russia, Turchia e Iran di tenere “al più presto” il prossimo vertice del “processo tripartito”, questa volta in presenza a Tehran su invito del governo iraniano (ma non c’è ancora una data).

 

Astana per uscire dall’isolamento: cooperazione e infrastrutture

Come valutare il “processo di Astana”, visto da Tehran? Per rispondere bisogna allargare lo sguardo. L’Iran ha un evidente interesse a far parte di una sede di diplomazia multilaterale. In primo luogo per restare nel gioco regionale: riaffermare che una soluzione per la Siria non può prescindere da tutte le parti in causa nella regione, e l’Iran è una di queste (si ricordi che i primi, vani tentativi di dialogo sulla Siria promossi in sede Onu avevano escluso l’Iran a causa del veto Usa: solo dopo l’accordo sul nucleare del 2015, su insistenza russa, i rappresentanti di Tehran sono stati ammessi ai “colloqui sulla Siria” – benché finora inconcludenti).

L’interesse però va oltre la Siria, per quanto importante. Il punto è che la Repubblica Islamica dell’Iran fa i conti con uno storico accerchiamento nella regione: politico, diplomatico, a volte militare (come quando le truppe Usa si trovavano in Iraq, in Afghanistan, oltre a pattugliare il Golfo Persico). L’accordo sul nucleare del 2015 (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa, firmato da sei potenze mondiali e dall’Iran) aveva rotto l’isolamento. Ma da quando nel maggio 2018 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha deciso di buttare alle ortiche l’accordo, intorno all’Iran si è costruito un nuovo blocco: un muro di sanzioni senza precedenti. Benché unilaterali, il sistema di sanzioni Usa riesce a isolare l’Iran grazie al ricatto delle sanzioni secondarie (che colpiscono aziende e paesi terzi che abbiano contatti commerciali con Tehran). È la strategia della “massima pressione”. Non che sia riuscita a far crollare l’Iran, e difficilmente ci riuscirà: ma certo sta pesando molto. Dal crollo delle esportazioni di greggio alla difficoltà di acquistare pezzi di ricambio industriali, derrate alimentari o materiale medico, gli iraniani stanno pagando un prezzo molto alto.

L’Iran ha un disperato bisogno di rompere questo isolamento. Per questo, con il “programma tripartito” di Astana e ben oltre, l’Iran ha un interesse fondamentale ad approfondire la cooperazione strategica con la Russia, come del resto con la Cina. E con i paesi vicini. Con la Turchia in particolare l’Iran ha legami di vecchia data, sia politici che commerciali, culturali, umani (la Turchia è tra i pochissimi paesi dove i cittadini con passaporto iraniano non abbiano bisogno di un visto d’ingresso). Benché spesso in concorrenza sulla scena regionale, Tehran e Ankara mantengono una “cooperazione strategica” nell’interesse reciproco.

Tanto più importante è la sponda russa. Il 22 luglio scorso il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif ha concluso una missione a Mosca, dove ha portato un “messaggio speciale” del presidente Hassan Rohani a Vladimir Putin (il contenuto del messaggio non è stato diffuso), e dove ha discusso con il suo omologo, il ministro degli esteri Sergey Lavrov, una serie di questioni bilaterali e di coordinamento regionale. Non sapremo cosa si sono detti circa lo scacchiere siriano. Sappiamo però che Iran e Russia hanno concordato di definire un nuovo accordo ventennale di cooperazione strategica, che vada oltre quello attualmente in vigore (che scade in marzo).

Analogo accordo è quello che l’Iran ha in ballo con la Cina: un accordo venticinquennale di cooperazione economica e di sicurezza, che secondo alcune fonti sarebbe addirittura già stato firmato anche se finora è circolata solo una bozza ufficiosa e numerose illazioni (cosa che ha suscitato grandi critiche in Iran, e attacchi dell’opposizione conservatrice che accusa il governo di Rohani di “svendere” il paese). L’accordo è in discussione da quando il presidente Xi Jinping in visita a Tehran nel 2016 ne ha parlato con l’ayatollah Ali Khamenei, e tratterà di energia, telecomunicazioni, infrastrutture come porti e ferrovie – e del petrolio che la Cina comprerà dall’Iran.

Gli accordi di cooperazione con Russia e Cina sono di sicuro il tentativo, per l’Iran, di allentare la “massima pressione” statunitense cercando la partnership di due potenze altre (entrambe membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu). Ma in entrambi i casi la cooperazione è cominciata ben prima dell’avvento di Trump a Washington. La realtà è che la “massima pressione” avrà solo accelerato una dinamica che sarebbe emersa comunque, la tendenza a una maggiore integrazione in quello spazio di scambi e relazioni politiche ed economiche spesso chiamato “Eurasia” e di cui l’Iran è un tassello centrale, in senso geografico e politico: in cui si incrociano corridoi di trasporti e progetti industriali, la Belt Road Initiative cinese, i gasdotti russi, ferrovie, porti (come quello Chabahar sulla costa iraniana, possibile sbocco nell’oceano Indiano per molte repubbliche centroasiatiche). Uno spazio multilaterale in cui Tehran sta a pieno titolo.

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La crisi iraniana ai tempi del coronavirus https://ogzero.org/la-crisi-iraniana-ai-tempi-del-coronavirus/ Tue, 28 Jul 2020 17:50:16 +0000 http://ogzero.org/?p=417 I dispacci del ministero della sanità iraniano non lasciano dubbi: in Iran il coronavirus ha ripreso a correre. I contagi sono in costante aumento e il numero totale dei decessi ufficialmente attribuiti al Covid-19 ha superato ormai le 17000 persone. L’allarme era scattato alla fine di giugno, con una media di oltre cento morti al […]

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I dispacci del ministero della sanità iraniano non lasciano dubbi: in Iran il coronavirus ha ripreso a correre. I contagi sono in costante aumento e il numero totale dei decessi ufficialmente attribuiti al Covid-19 ha superato ormai le 17000 persone. L’allarme era scattato alla fine di giugno, con una media di oltre cento morti al giorno; un mese dopo, il 27 luglio il portavoce del ministero della sanità ha avvertito che la media ormai supera i 200 decessi quotidiani. L’epidemia di Covid-19 così è tornata di prepotenza sulle prime pagine della stampa iraniana, da cui era pressoché scomparsa, con titoli allarmati: Il coronavirus uccide un iraniano ogni 12 minuti. Alcuni parlano di «seconda ondata», altri di «una nuova, pericolosa fase del coronavirus in Iran», e invitano a «prendere il coronavirus sul serio».

I messaggi di allarme sono alternati però a tentativi di rassicurare. Il 25 giugno il presidente Hassan Rohani aveva annunciato che l’uso della mascherina in pubblico sarebbe stato reso obbligatorio, ma aveva aggiunto che non sarebbe stato necessario chiudere gli esercizi commerciali – se tutti avessero mostrato senso di responsabilità e rispettato le norme del “distanziamento”. Alla fine di luglio, di fronte al contagio che continua ad aumentare, il viceministro della Sanità Iraj Harirchi ha osservato che è Tehran la «fonte di diffusione» del coronavirus nel resto del paese, visto che ogni giorno centinaia di migliaia di persone raggiungono l’area metropolitana per lavoro o altro. Un moltiplicatore di contagi sono «usanze e tradizioni locali» come feste e celebrazioni religiose: Harischi cita il caso di 120 persone infettate dopo aver partecipato alla stessa festa di matrimonio. Ha però aggiunto che il 95 per cento dei contagiati guarisce senza bisogno di particolari cure.

Sta di fatto che a metà giugno il ministero della sanità ha dichiarato “zona rossa” cinque province (Bushehr, Khuzestan, Est Azarbaijan, Kermanshah e Hormozgan, nel sud-ovest, ovest e nord del paese) e poi via via altre: ora sono 12, sul totale di 31.

Se basteranno le mascherine e gli appelli al distanziamento, resta da vedere. Intanto, la ripresa dell’epidemia pone un dilemma ai dirigenti della Repubblica Islamica dell’Iran, restìi ad ammettere che le restrizioni imposte in marzo sono state probabilmente tolte troppo presto.

All’inizio di marzo l’Iran era emerso tra i maggiori punti caldi della pandemia del coronavirus Sars-CoV-2 fuori dalla Cina (prima di essere superato dall’Italia). Colta di sorpresa, Tehran aveva dapprima cercato di minimizzare: il primo decesso ufficialmente attribuito al Covid-19 risale al 19 febbraio, ma solo il 5 marzo il governo iraniano ha dichiarato la “mobilitazione nazionale” per contenere l’epidemia. I media internazionali ne hanno riferito soprattutto per accusare le autorità iraniane di lentezza e avanzare dubbi sul conteggio ufficiale dei decessi, che molti in Iran e fuori considerano sottostimati. In effetti una analisi del Centro studi del Parlamento iraniano in aprile suggerisce che il numero reale dei decessi dovuti a Covid-19 sarebbe quasi il doppio di quello dichiarato dal ministero della sanità.

In ogni caso alla vigilia di Nowrooz, il capodanno persiano che quest’anno cadeva il 20 marzo, il governo ha imposto una chiusura generalizzata, benché non totale: chiuse scuole e università, sospese le preghiere del venerdì, annullate tutte le manifestazioni culturali e festival di ogni tipo, limitate le attività commerciali, scoraggiati (benché non vietati) gli spostamenti interni.

Poi però, a partire dall’11 di aprile il blocco è stato gradualmente revocato, nonostante il parere contrario di molti esperti di sanità pubblica: prima le attività “a basso rischio” poi via via tutto il resto (solo eventi culturali, cinema e moschee hanno prolungato la chiusura per tutto maggio).

Il punto è che l’epidemia ha colpito l’Iran in un momento difficile, tra crescenti tensioni internazionali e con un’economia già colpita dalla recessione e dalle sanzioni imposte dagli americani. E con un quadro politico interno decisamente spostato a favore delle fazioni conservatrici, opposte al presidente Rohani e alla sua linea di dialogo internazionale e moderazione interna: sono queste che dominano la nuova legislatura insediata formalmente il 27 maggio.

Per ironia, le elezioni parlamentari tenute il 21 febbraio sarebbero proprio uno dei motivi per cui il governo non aveva voluto dichiarare l’emergenza per il coronavirus né isolare il primo focolaio, registrato allora nella città di Qom, sede delle scuole teologiche molto presenti nella politica interna: temeva di scoraggiare la partecipazione al voto. Infatti era previsione unanime che l’affluenza alle urne sarebbe stata bassa, dopo mesi di crisi: la repressione delle proteste di novembre, l’escalation della tensione con gli Stati Uniti e l’uccisione del generale Soleimani, lo sconcertante episodio dell’aereo ucraino abbattuto per errore. Per non parlare dell’esclusione di gran parte dei candidati “riformisti”. E infatti la nuova legislatura, dominata dagli ultraconservatori, è stata eletta con il voto meno partecipato nella storia della Repubblica Islamica: appena il 42 per cento di affluenza, e solo il 25 per cento a Tehran (le precedenti elezioni parlamentari avevano visto votare il 61 per cento degli elettori, e per le presidenziali del 2017 alle urne si era recato il 73 per cento degli aventi diritto).

Perché l’Iran è uscito dal “lockdown”

Rimettere in moto l’economia era “una necessità” per il paese,  ha argomentato il presidente Rohani in un discorso del 22 aprile: l’Iran non poteva permettersi di prolungare il blocco.

Per capire perché il presidente Rohani abbia preso una decisione così rischiosa sul piano sanitario bisogna ricordare che già prima dell’epidemia, l’Iran era in recessione profonda. Il Prodotto interno lordo aveva registrato una crescita negativa del 7 per cento nell’anno fiscale concluso il 20 marzo (secondo il Fondo monetario internazionale la decrescita sarebbe più profonda, meno 9,5). L’inflazione aveva raggiunto il 41 per cento secondo la stima della Banca centrale iraniana, un livello che non si vedeva dalla fine della disastrosa presidenza di Ahmadi Nejad.

Tutto questo è in buona parte conseguenza della nuova ondata di sanzioni decretata dagli Stati uniti a partire dal maggio 2018, quando il presidente Donald Trump ha deciso di ritirarsi dall’accordo sul nucleare (il Joint Comprehensive Plan of Action, o Jcpoa) firmato nel 2015 dall’Iran e da sei potenze mondiali (Usa, Russia, Cina, e da Francia, Regno unito e Germania in rappresentanza dell’Unione europea). Tre anni dopo le grandi speranze aperte da quell’accordo, per l’Iran è cominciata una nuova stagione di isolamento economico.

Le sanzioni decretate da Washington infatti sono particolarmente pesanti, benché unilaterali, sia perché gli Usa bloccano l’accesso dell’Iran al circuito bancario internazionale, sia perché con il meccanismo delle sanzioni secondarie colpiscono anche i soggetti di paesi terzi che mantengono relazioni economiche con Tehran. I paesi europei firmatari del Jcpoa hanno più volte proclamato la volontà di mantenere aperti canali commerciali con l’Iran; a questo dovrebbe servire uno strumento finanziario chiamato Instex, lungamente discusso e varato infine nel gennaio del 2019: ma senza grandi conseguenze pratiche;  la prima e per ora unica transazione di merci con questo meccanismo è avvenuta nel marzo del 2020.

La prima conseguenza che le esportazioni iraniane sono crollate e le importazioni sono diventate più care. In particolare è crollato l’export di petrolio, specialmente preso di mira da quella che la Casa Bianca  definisce “strategia della massima pressione”.

L’effetto è stato drastico. Nel giugno 2018, quando gli Stati uniti si sono ritirati dall’accordo nucleare, l’Iran esportava 2,7 milioni di barili di greggio al giorno (bpd, barrel-per-day); nel settembre di quell’anno (ancora prima che le nuove sanzioni entrassero in vigore) era già sceso a 1,9 milioni. Da allora ha continuato a scendere: un milione di bpd nell’aprile del 2019, una media di 260000 bpd nell’ottobre 2019. Il ricavato netto è sceso di conseguenza, da un picco di 67 miliardi di dollari nel 2018 a circa 20 miliardi di dollari nei primi sei mesi del 2019 (secondo la Aie, Agenzia internazionale per l’energia). In altre parole, le sanzioni costano all’Iran miliardi di dollari di mancato reddito. Ed è a questo punto che arriva il coronavirus.

La pandemia sotto sanzioni

L’Iran è l’unico paese al mondo che stia combattendo una pandemia sotto sanzioni. Il paese ha un servizio sanitario tra i migliori della regione mediorientale, con una rete di strutture decentrata e personale medico e paramedico di ottimo livello, tra cui molti specializzati all’estero (anche se ha un numero di posti letto per abitante appena sufficiente in tempi normali). Ma sconta una cronica carenza di attrezzature e farmaci, proprio a causa delle sanzioni applicate dagli Stati Uniti. Il materiale sanitario in teoria non è coperto da embargo, ma di fatto anche importare attrezzature mediche o ospedaliere è quasi impossibile perché l’esclusione delle banche iraniane dal sistema bancario globale blocca i normali canali di pagamento. Il 27 febbraio il governo svizzero ha ufficialmente varato un meccanismo finanziario per permettere l’acquisto da parte iraniana di medicinali, cibo e forniture “umanitarie”. Ma due mesi dopo la prima transazione “pilota”, una vendita di materiale medico per 2,5 milioni di dollari, non si è visto più nulla: segno che la “massima pressione” esercitata da Washington continua a dissuadere molte aziende dal vendere all’Iran materiale medico peraltro perfettamente legale.

Il confinamento intanto ha aggravato la recessione, com’era inevitabile. Ha colpito in primo luogo il commercio, perché gli acquisti che precedono il Nowrooz contano per circa metà del fatturato annuo dei negozianti e di molte imprese di beni di consumo. Poi l’industria turistica: ristoranti, agenzie viaggi e hotel sono rimasti semivuoti durante le vacanze più importanti dell’anno; il giro d’affari del settore è crollato di oltre il 90 per cento, secondo le prime stime.

Un bilancio più approfondito resta da fare. L’economia iraniana è molto più diversificata di molti altri paesi grandi produttori di idrocarburi, e le sanzioni hanno accelerato l’emancipazione dell’Iran dal petrolio. Il settore manifatturiero rappresenta già da tempo l’ossatura dell’economia nazionale, con una struttura di piccole e medie imprese che producono sia per un mercato interno di 80 milioni di persone, sia per l’esportazione – in particolare nella regione circostante (dall’Iraq alla Turchia, agli Emirati arabi, alle repubbliche dell’Asia centrale). Anzi: è proprio questo settore – dalle automobili alla meccanica all’agroalimentare – che ha permesso all’economia iraniana di resistere alla “massima pressione” esercitata dalle sanzioni Usa. L’anno scorso l’export di prodotti non-oil ha fatto 41 miliardi di dollari superando per la prima volta il reddito petrolifero. E mentre il settore petrolifero si è contratto del 35 per cento nell’anno appena trascorso a causa delle sanzioni, il manifatturiero si è contratto appena dell’1,8 per cento.

Se questo lascia sperare per una futura ripresa, il punto è che l’epidemia di Covid-19 ha effetti disastrosi nell’immediato.

Secondo alcune stime il prodotto interno iraniano sarà diminuito del 15 per cento a causa del blocco delle attività durante il confinamento. Il valore della valuta iraniana, il Rial, è crollato negli ultimi due anni e ha avuto un ulteriore crollo alla fine di giugno: sotto la duplice spinta delle aspettative nere e di manovre speculative.  Di sicuro sono andati in fumo molti posti di lavoro. Anche qui sono stime preliminari: la  stampa iraniana cita la Mezzaluna rossa iraniana secondo cui due milioni di lavoratori alla giornata hanno perso ogni reddito. Prima del coronavirus circa 3 milioni di iraniani figuravano disoccupati (ma secondo alcune stime erano di più); l’11 aprile un portavoce del governo aveva detto che un lockdown prolungato avrebbe aggiunto altri 4 milioni di disoccupati. In termini di impoverimento e aumento delle diseguaglianze, il futuro è fosco.

L’allarme degli economisti

In una lettera indirizzata al presidente Hassan Rohani il 3 aprile, una cinquantina di economisti iraniani avvertivano che l’impatto dell’epidemia aggraverà in modo insostenibile la recessione e il declino della produzione interna, con la conseguenza di accrescere la povertà e il disagio sociale, approfondire il deficit di bilancio dello stato, far lievitare l’inflazione. Dicevano che l’Iran rischia nuove proteste e disordini nelle periferie urbane a basso reddito – magari alla fine di quest’anno o nei primi mesi del prossimo.

Una prospettiva tutt’altro che remota, per chi ricordi l’ondata di rabbia innescata dall’aumento del prezzo della benzina nel novembre scorso. Allora la repressione fu così brutale da suscitare sconcerto nel paese e spingere il Majlis (il parlamento) a istituire una commissione d’inchiesta. Alla fine di maggio proprio il deputato che presiede quella commissione ha dichiarato che 230 manifestanti sono stati uccisi durante i disordini: la prima ammissione, benché semiufficiale.

Nella loro lettera, gli economisti propongono diverse misure per attutire il crollo dell’economia, a cominciare da una serie di sussidi ai cittadini e alle imprese.

In parte, è proprio ciò che il presidente Rohani ha fatto. Il 16 marzo il suo governo ha annunciato misure come un “bonus” una tantum per i cittadini già percipienti dei programmi di welfare statale; piccoli prestiti senza interesse ripagabili in trent’anni a piccoli negozianti e venditori ambulanti; sussidi e inserimento al lavoro per le madri sole. È stato annunciato anche un aumento del 50 per cento del salario degli impiegati pubblici di basso livello, che rientrano senza dubbio tra le fasce più povere della società.

Questi però sono piccoli interventi. Il governo ha anche sospeso per tre mesi l’esazione delle imposte per le aziende in difficoltà. E ha promesso di stanziare l’equivalente di 6,25 milioni di dollari per garantire prestiti a tasso agevolato (ripagabili in tre anni al tasso del 12 per cento, mentre le banche praticano normalmente tassi del 20 per cento): molti hanno obiettato che doveva offrire almeno prestiti a interesse zero.

In termini di “stimolo” per rilanciare l’economia è ben poco, se si pensa alle migliaia di miliardi mobilitati in Europa. Il fatto è che il governo ha serie difficoltà a offrire assistenza finanziaria  agli imprenditori iraniani, per il semplice motivo che le entrate dello stato si sono ridotte in modo drammatico proprio in questi mesi di crisi sanitaria. La domanda mondiale di petrolio è crollata in seguito alla pandemia, facendo scendere il prezzo, e questo ha colpito le già declinanti esportazioni iraniane. Anche le entrate fiscali sono crollate, con tante aziende costrette a chiudere o in crisi.

Questo ha spinto il governo Rohani prima a chiedere (e ottenere) il permesso del parlamento a prelevare un miliardo di euro dal Fondo nazionale per lo sviluppo, una riserva speciale dello stato. Poi a chiedere di attingere al fondo speciale del Fondo monetario internazionale (Fmi) per la lotta al Covid-19, con un prestito di 5 miliardi di dollari: la prima volta che l’Iran chiede un prestito al  Fmi dalla Rivoluzione del 1979. Un gesto “politico” dunque, con cui Rohani si è guadagnato forti critiche interne dall’opposizione conservatrice. Ma comunque vano: è assai improbabile che il prestito sia concesso, tanto più che Washington ha una posizione preminente nel Consiglio d’Amministrazione del Fmi e blocca la domanda iraniana.

Il governo si è poi rivolto all’interno, proponendo dei titoli di stato (una sorta di “coronavirus bond”) per attingere al risparmio degli iraniani – e magari alle grandi fortune che un certo numero di super-ricchi nazionali tiene ben al sicuro all’estero: con quanta fortuna si vedrà.

C’è però da considerare un altro aspetto della risposta pubblica alla crisi sanitaria. Anche in Iran l’epidemia ha mobilitato a vari livelli la società civile, suscitando un diffuso movimento di solidarietà esemplificata da casi di “crowdfunding” per finanziare servizi medici, o la Campagna chiamata Nafas, “respiro”: una coalizione di organizzazioni umanitarie non governative, imprese e camere di commercio, che ha cercato di facilitare l’importazione di beni necessari (protezioni mediche, per esempio), arrivando ad allestire una clinica specializzata in pazienti Covid (ne accenna qui l’analista Bijan Khajehpour).

Notizie come questa fanno pensare alla capacità di resistenza degli iraniani: abituati a vivere tra crisi e sanzioni, faranno fronte anche all’epidemia.

Il 27 luglio il portavoce del ministero della Sanità iraniano ha annunciato che in media 200 persone al giorno sono morte di Covid-19 nelle ultime due settimane; il numero totale dei decessi attribuiti ufficialmente alla pandemia ora supera i 16000. Le provincie sottoposte a restrizioni per motivi sanitari sono salite a 12 (su 31). Secondo il viceministro della Sanità Iraj Harirchi però è Tehran la “fonte di diffusione” del coronavirus nel resto del paese, visto che centinaia di migliaia di persone vi si recano ogni giorno per lavoro o altro. Il dato positivo e che il 95 per cento delle persone infettate guarisce senza bisogno di particolari cure.

L'articolo La crisi iraniana ai tempi del coronavirus proviene da OGzero.

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Il mare di Astana: il Mediterraneo https://ogzero.org/studium/il-mare-di-astana-il-mediterraneo/ Thu, 09 Jul 2020 10:26:26 +0000 http://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=435 L'articolo Il mare di Astana: il Mediterraneo proviene da OGzero.

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Il mare di Astana: il Mediterraneo

Le strategie diventate palesi in questioni mediorientali hanno prodotto proposte per risolvere i conflitti sulla sponda meridionale del Mediterraneo ma anche spartizioni di aree sottoposte al controllo dei poteri locali coalizzati ad Astana. Questo “studium” tentava di illustrare i diversi ruoli delle potenze regionali coinvolte e gli equilibri toccati a livello globale dagli sviluppi dei frequenti appuntamenti nel quadro del Processo di Astana.
Con il coinvolgimento di alcuni tra i più occhiuti esperti del quadrante mediorientale abbiamo tentato di accompagnare la narrazione di questo scorcio di periodo che volge al termine con la conclusione del “non coinvolgimento” trumpiano e le prime mosse della amministrazione Biden; ci siamo convinti che il cambiamento in atto vada a incidere sugli accordi che ad Astana hanno creato le condizioni per la spartizione tra Iran, Turchia e Russia delle spoglie della Mesopotamia, concludendo quella sorta di alleanza e dunque può essere legittima un’analisi conclusiva e complessiva, allargando lo “studium”, che avevamo avviato limitandolo al Mediterraneo, proponendo una fiaba piratesca intitolata ‘Tutti i mari di Astana’ come progetto editoriale.
Alla fine ce l’abbiamo fatta: questo è il primo prodotto risultato di un agglomerato di idee, interventi, articoli, podcast pubblicati attorno agli sviluppi degli Accordi di Astana: ha seguito esattamente i passi previsti dall’idea che ha dato la stura al progetto di OGzero, che proprio con questo confronto iterato deve arrivare a individuare la necessità di una pubblicazione che faccia il punto sull’argomento. Il lungo percorso, durato 16 mesi, con i tanti materiali che trovate qui di seguito, ha trovato in Antonella De Biasi chi ne ha fatto non solo una sintesi ma anche analisi ulteriori, ipotesi interpretative, collegato eventi e inanellato strategie più o meno palesi, usando una rotonda e piacevole forma linguistica puntellata da evocative metafore marinare.

E così possiamo proporvi questo splendido volumetto di 88 pagine, un concentrato di informazioni, approfondimenti e analisi: “Astana e i 7 mari”… buona lettura


Accordi di Astana di pacificazione graduale delle Sirie

A  caldo, mentre Tahrir al-Sham entrava in Damasco e le altre insorgenze prendevano possesso del territorio abbandonato dall’esercito in disfatta di Bashar al-Assad, abiamo sentito Murat Cinar per una brevissima analisi su quelli che possono essere i futuri orizzonti per quella terra che eravamo abituati a chiamare Siria e ora è un bantustan di comunità che come unico collante ha la gioia per la liberazione dal tirano fuggito a Mosca:

“La dissoluzione siriana: tappa storica del progetto di rivolgimento mediorientale”.

Non è l’epilogo di Astana, ma solo una tappa in più verso il nuovo disegno del medioriente

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Avanzamento



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isbn: 9791280780027


Dopo il compimento definitivo della trasformazione del territorio tracciato da Sykes-Picot finora chiamato Siria, con l’accelerazione degli accordi globali che ha dato semaforo verde ai mercenari di Tahrir al-Sham concentrati per anni a Idlib per proseguire il piano ebraico-statunitense di cancellazione degli equilibri del Medio Oriente come li conosciamo da mezzo secolo a questa parte, abbiamo chiesto a Murat Cinar di aiutarci a comporre il mosaico, seguendo le strategie dei singoli protagonisti e lo sviluppo della Storia che ha visto travolgere i regimi tunisino,libico, egiziano, siriano… come diceva il (profetico nei suoi confronti) Gheddafi: «Chi è il prossimo?»

Intanto Astana si sposta a Doha, dando un segnale di quale dei tre pards stia dando le carte in questa fine del 2024: ERdogan e il suo bancomat al-Thani cercano di evitare di venire travolti e lo fanno giocando su più tavoli e facendo le mosse giuste, previste nel piano di imposizione dello Stato ebraico come pivot unico mediorientale a guardia degli interessi americani.

Gli eventi globali che coinvolgono il superamento del multilateralismo e il nuovo ordine mondiale che dovrà scaturire dal confronto pesante tra potenze mondiali continua a poter venire interpretato alla luce del testo scritto da Antonella De Biasi ormai quasi un anno fa e ancora completamente consultabile per ritrovare i prodromi di quanto sta avvenendo… e ancora ci si incontra tra compari di Astana, lasciando immaginare accordi particolari in funzione antioccidentale. Così abbiamo interpellato la nostra autrice per fare il punto sulla situazione mediorientale:

Il libro di Antonella De Biasi continua anche a mesi dalla sua uscita a suggerire percorsi interpretativi per i nuovi panorami che si dipanano nella direzione individuata in Astana e i 7 mari. E OGzero continua a porre al centro proprio quegli accordi giunti al settimo appuntamento (oltre ai molti collaterali incontri spartitori); adesso ci sembra che quel sistema di controllo regionale tra Russia, Turchia, Iran si inserisca nello stravolgimento globale innescato dalla sfida all’egemonia americana dell’invasione russa dell’Ucraina, palesemente fuori dal sistema di controllo mondiale e con un occhio al confronto dell’Indopacifico. Proponiamo qui un intervento di Matteo Bressan docente di Relazioni internazionali presso l’Osservatorio per la stabilità e sicurezza del Mediterraneo allargato della Lumsa, durante il quale sono emersi molteplici spunti che si trovavano in nuce nel libro ma che ora  trovano nuovi inquietanti risvolti collegabili al processo inaugurato ad Astana tra Mosca, Teheran e Ankara. Questa la registrazione:

Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 spunti offerti da Eric Salerno e Sabrina Moles, che ci hanno rievocato le intuizioni messe in gioco in Astana e i 7 mari di Antonella De Biasi. Così “OGzero” nel momento dell’annuncio di un tavolo di pace imbandito a Istanbul comincia a credere che lo spirito di Astana non è sfumato del tutto e su questo dubbio ha cercato di ricostruire i cocci prodotti dall’esplosione del multilateralismo nei rapporti tra stati, dallo scardinamento di alleanze esili, dalla individuazione del momento in cui il Cremlino ha pensato che fosse più opportuno far saltare gli equilibri. Un istante che Antonella nel suo scritto, steso a ottobre, preconizzava individuando nella ignominiosa ritirata americana dall’Afghanistan il segnale della debolezza per cui era possibile azzardare il morso del serpente.

Salvo poi accorgerci che ciascuno ha tratto vantaggio o imponendo spese militari, o annettendosi nuovi territori rivieraschi, o soffiando su un nazionalismo sovranista, cancellando piani ecologisti e ridistribuendo energia con un maggior profitto per i produttori. Distribuito sciovinismo e testosterone in tutti i paesi del primo mondo.

Perciò a partire dalla chiosa del libro, proviamo con questo editoriale a mettere in fila gli eventi delle ultime settimane sulla scorta di quello che il volume di Antonella De Biasi aveva già individuati come potenziali snodi critici; andremo a trovare nel libro verifiche delle analisi prodotte a posteriori dagli equilibri scaturiti dalla “spezial operazy” di Putin, così da inserirla nell’annoso flusso geopolitico senza gli isterismi cavalcati dal profitto guerrafondaio. Infatti il volume si chiude con una frase emblematica: «Il gioco di Astana, seppur precario, in fondo è anche un gioco delle parti» e le dichiarazioni e le mosse diplomatiche di fine marzo seguono il canovaccio.

Continua a leggere qui

Sulla base del testo di Antonella De Biasi il 21 gennaio 2021 si è assistito a un webinar condotto da Vittoria Valentini con Matteo Bressan docente di Relazioni internazionali presso l’Osservatorio per la stabilità e sicurezza del Mediterraneo allargato della Lumsa, durante il quale sono emersi molteplici spunti evinti da Astana e i 7 mari, evidenziando come sia un testo valido per sviluppare ulteriori analisi degli Accordi tra Mosca, Teheran e Ankara. Questa la registrazione:

“Osservatorio mediterraneo su Astana e i 7 mari”.

Introduciamo alcune considerazioni fatte con Stefano Capello in questa fase di riepilogo dei materiali affastellati nello Studium durato alcuni mesi. Alterniamo in questa sezione le parole di Stefano Capello con le suggestioni tra parentesi dei potenziali sviluppi dell’aspetto portato in evidenza che ci sorgono come insieme di ipotesi e perplessità, che potranno essere fugate dall’analisi più approfondita che intendiamo realizzare.

Considerazioni finali

di Stefano Capello

L’accordo di Astana tra Turchia, Iran e Russia sembra messo in grave difficoltà dai recenti avvenimenti del Caucaso, dai cambiamenti di peso delle potenze locali con l’inizio dell’Amministrazione Biden e dalla nuova strategia Blinken. In realtà si tratta di un patto che non poteva che produrre un equilibrio dinamico di competizione tra i tre attori.

Elementi pregressi con potenziali sviluppi

Per capire il patto di Astana bisogna tenere conto dell’evoluzione del sistema geopolitico del Grande Medio Oriente.

  • In primo luogo il ridimensionamento definitivo della Russia da superpotenza mondiale a superpotenza regionale. La Russia ha ormai una proiezione di potenza che è concentrata sull’estero vicino e non è più considerabile un rivale globale degli Stati Uniti. Le sue rivalità si calibrano sui rapporti con le altre grandi potenze regionali con le quali condivide gli spazi di influenza e di interesse immediato. Resta ovviamente l’esistenza di un grande arsenale nucleare che in questo momento risulta più un peso economico che non un effettivo strumento di proiezione di potenza.

[Per l’ambito relativo ad Astana questo vale se lo consideriamo rivolto verso i paesi occidentali e il bacino del Mediterraneo; ci sorge il dubbio che sul Pacifico e nei confronti delle altre grandi potenze asiatiche (Cina e India) si possano immaginare alleanze in grado di consegnare alla Russia un ruolo come potenza di riferimento? Perché non sarebbe prevedibile una sorta di Accordo di Astana con la Cina, visto che è rimasta fuori dalle alleanze militari anticinesi (ma anche dal Rcep)?]

  • La Turchia è una potenza Nato in via di autonomizzazione nelle dinamiche regionali. in questo senso persegue una sua politica di potenza che deve sicuramente tener conto delle necessità e delle pressioni della superpotenza americana con la quale però i rapporti sono definibili come di partenariato conflittuale a livello del grande Medio Oriente. Ankara comunque persegue una sua autonoma proiezione di potenza sui territori “ottomani”. Da un lato prosegue il conflitto con la Grecia sia per l’Egeo che per Cipro mirando al controllo del Mediterraneo orientale e in questo senso deve essere letta anche la riapertura della conflittualità con Israele ed Egitto (per quanto con entrambi siano in corso negoziati per la spartizione delle risorse del Mediterraneo orientale); dall’altra persegue un ritorno alle posizioni del vecchio impero tanto nel vicino Medio Oriente (proiezione militare in Siria e Iraq, quanto diplomatica verso il Libano e il Qatar); alcuni segnalano una forte presenza nei Balcani anche, con una presa in particolare ovviamente sui territori maggiormente abitati da musulmani come Albania, Kosovo, Macedonia, bosgnacchi e in modo molto diverso gli accordi amichevoli con lo stato bulgaro. La presenza poi in Libia non deve essere vista solo come una vestigia dell’impero ottomano prima del 1911, ma piuttosto come un aspetto del conflitto con l’Egitto e allo stesso tempo una sfida aperta alla Francia e alla sua volontà di egemonia sul Mediterraneo occidentale, iniziato con l’attacco a Gheddafi e che per Bagnoli è il motivo che ha spinto Putin a intervenire in Siria, per paura che gli occidentali potessero occupare il Mediterraneo orientale; il conflitto nel Caucaso va visto nel suo aspetto di aumento dell’egemonia in un’area cruciale per il transito energetico e, per la longue durée, come il riproporsi di un’area di frizione tra i tre imperi dell’area, quello ottomano, quello russo e quello persiano.

[Si direbbe che la Turchia stia rimodulando le alleanze e cerchi di rientrare nell’alveo della Nato, guardando all’Egitto come possibile partner economico e svolgendo il ruolo di player diplomatico per conto di Blinken; un riposizionamento che non può che consolidare le posizioni di Ankara nell’Asia centrale e nei Balcani, facendo collidere maggiormente gli interessi in aree dove il contrasto con Putin è maggiore?]

  • Infine l’Iran fin dalla rivoluzione islamica si è posto il problema di porsi come potenza regionale autonoma in conflitto con la superpotenza americana ma non solo; il conflitto con i sauditi e le altre monarchie del golfo è un conflitto da questo punto di vista non essenziale per l’Iran dal momento che lo spazio di profondità strategica dell’Iran non è la penisola arabica o il Golfo persico ma è il vicino Oriente nella parte relativa agli attuali Iraq e Siria, cioè gli stati che si frappongono tra l’Iran stesso e il Mediterraneo. Da questo punto di vista il conflitto strategico è proprio quello con la Turchia che ha interesse sulle stesse aree. In fondo si tratta di ritornare al progetto millenario dell’impero persiano che è quello di egemonizzare il vicino Oriente allo scopo di porsi come paese intermediario dell’asse del commercio europ-asiatico, cioè l’80 per cento del commercio mondiale.

[Quindi i cardini su cui Tehran e Ankara possono ancora trovare delle intese o un patto di non belligeranza a cosa si ridurrebbero? Il contenimento dei curdi, che abitano parte del territorio di entrambi; dei comuni nemici sauditi – a questo punto  anche per conto degli americani da parte turca; il contrasto degli interessi israeliani?]

Situazione sviluppatasi durante il patto a tre

  • Progressivo disinvestimento americano dall’area del “Grande Medio Oriente”. Per gli Stati Uniti il Medio Oriente conta meno di una volta. in fondo l’ultimo tentativo di controllo diretto dell’area è stato il progetto “Grande Medio Oriente” di Bush con la catastrofica invasione dell’Iraq del 2003. Da questo punto di vista l’amministrazione Obama ha segnato un effettivo cambio di strategia americana sull’area. Il progetto di indipendenza energetica perseguito soprattutto attraverso la pratica del fracking hanno reso gli Stati Uniti sempre meno dipendenti dal petrolio arabo; questo ha cambiato parecchio la situazione degli interessi degli Stati Uniti nell’area. D’altra parte tanto l’amministrazione Obama, quanto l’amministrazione Biden sono perfettamente coscienti che lo scontro vero e proprio si giocherà con la Cina e questo rende i teatri fondamentali della guerra l’Europa (da schierare contro la Cina) e l’Indopacifico (dove gli Stati Uniti hanno fatto passi da gigante per costruire un’alleanza navale anticinese). In questo quadro il Medio Oriente per gli americani diventa un teatro da stabilizzare secondo i principi classici delle potenze di mare: evitare sempre che ci sia un paese in una determinata area che assuma un ruolo egemonico. Da questo punto di vista per gli Stati Uniti la stabilizzazione del Medio Oriente passa attraverso un equilibrio di potenza tra i maggiori attori regionali: Israele, Turchia, Arabia Saudita, Iran ed Egitto.
    Resta ovviamente la relazione privilegiata con Israele che però viene sempre più forzatamente integrato all’interno di una alleanza regionale che vede come protagonisti anche l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti (il cosiddetto “Patto di Abramo”).

[L’Iran e la Turchia in questo quadro sono due potenze regionali che vanno ridimensionate o semplicemente si cerca di attribuire loro un ruolo mediorientale utile per il minore coinvolgimento diretto degli Usa? È escluso un conflitto diretto che da un lato mischierebbe gli Stati Uniti in una guerra che rischia di essere simile a quella di Bush, dall’altra rischierebbe di squilibrare troppo il rapporto di potere a favore degli altri attori regionali, piuttosto è possibile che nei piani americani si stiano prendendo le misure per ridurre il potenziale di scontro con il mondo sciita filoiraniano da un lato e si intenda far svolgere il ruolo di gendarme pacificatore alla Turchia per quel che riguarda l’area compresa in quelli che erano i confini ottomani?]

  • La Russia in tutto ciò si comporta come una potenza regionale che tesse accordi con le altre potenze regionali tutte comunque allo stesso tempo alleate e concorrenti. Una strategia estesa un po’ in ogni quadro dello scacchiere (anche in Africa, per esempio in Mali o in Sudan), dove Putin invia milizie, o fa accordi con tutti i protagonisti anche in contrasto tra loro (palese tattica messa in atto in Nagorno) L’accordo con l’Iran è storico ed è soprattutto in funzione antiamericana, l’Iran però è anche storicamente nemico di Turchia e Arabia Saudita con le quali i russi hanno continuato a svolgere accordi nel corso di questi anni. Sicuramente è stato fondamentale nell’alleanza tra Russia e Iran il rapporto sul territorio siriano a difesa del governo di Assad ma non è l’unico punto; in larga parte il contrasto all’espansionismo turco nel Caucaso ha unito le due potenze. Più in generale però la Russia sembra interessata più che a costruire un’alleanza di ferro con l’Iran a costruire una seria di rapporti a geometria variabile nell’area con tutti gli attori presenti. Rapporti che sono a seconda dei momenti di tensione anche militare o di collaborazione.

[Più in generale l’interesse della Russia è fondamentalmente quello di mantenere il controllo sull’estero vicino, in questo caso il Caucaso e non perdere il piede a terra nel Mediterraneo. fondamentali diventano le alleanze in questo quadro che permettono la stabilizzazione delle basi siriane ma anche l’appoggio alla fazione cirenaica nella guerra in Libia; in Siria il nemico erano quindi la Turchia e le monarchie del Golfo che in forme diverse appoggiavano le fazioni anti-Assad nel paese. In Libia invece le stesse monarchie che attraverso l’Egitto, appoggiano i cirenaici sono gli alleati del momento mentre la Turchia rimane il nemico. Potrà essere questo rivolgimento il motivo che farà saltare il periodo di Accordi di Astana?]

Quadro finale dopo il Nagorno-Karabakh

In questo quadro però le alleanze, come dimostrato dalla situazione in Siria e Libia non sono finalizzate a ricercare una soluzione definitiva quanto a cercare un equilibrio che permetta ai russi di mantenere le loro posizioni.

  • In generale da questo punto di vista l’accordo di Astana sembra più un tentativo di trovare un punto di accordo che delimiti delle sfere di interesse piuttosto che una vera e propria partnership globale nell’ambito regionale.
  • Nello specifico della guerra per il Nagorno-Karabakh in realtà l’accordo di Astana è stato sostanzialmente mantenuto. L’Armenia è stata decisamente ridimensionata senza che l’Azerbaijan potesse arrivare a una vittoria totale sul campo; la Turchia ha aumentato il suo peso specifico sul campo tramite l’alleanza con Baku; le truppe di interposizione sono russe e sia l’Armenia che l’Azerbaijan devono fare i conti con Mosca rispetto alle loro politiche interne; il presidente armeno è stato pesantemente colpito nel suo tentativo di avvicinarsi all’Occidente; l’Iran ha potuto evitare di schierarsi con uno dei due contendenti dal momento che si trova nella scomoda posizione di alleato dell’Armenia mentre il 21 per cento della sua popolazione è di origine azera.

Il mare di Astana: il Mediterraneo

Ultima tappa della normalizzazione del “dopo-Trump” per il Vecchio Mondo

Dopo i segnali lanciati dai sauditi come tentativo di composizione delle dispute scatenate il 5 giugno 2017 contro l’emirato del Qatar, reo di non adeguarsi alle sanzioni antiraniane e sottoposto a sua volta a un embargo durissimo, che solo l’aiuto turco ha evitato la capitolazione e la chiusura persino della emittente “Al-Jazeera”, nel dicembre 2020 si assiste a manovre volte a reintegrare a tutti gli effetti il Qatar. L’aiuto turco era giunto in cambio dell’appoggio ricevuto da Erdogan nel momento del golpe fallito, ma soprattutto sanciva l’alleanza che da quel momento in particolare ha consentito a Turchia e Qatar di espandere controllo su territori, intensificare le relazioni militari tra loro e colonizzare mercati; ma soprattutto la Turchia ha potuto avvalersi delle enormi disponibilità di denaro dell’emiro, in cambio della svendita e del controllo di infrastrutture, impianti, industrie, interi pezzi di territorio turco. Forse con il cambio alla presidenza americana MbS ha intensificato gli sforzi per ricollocare il Qatar nell’ambito delle monarchie arabe della Penisola, in funzione antiraniana; in questo contesto rimane soltanto l’Egitto di al-Sisi restio ad accettare di riaccogliere il Qatar nel consesso arabo-sunnita. In particolare è il Kuwait a intensificare gli sforzi per una mediazione tra il “Quartetto” e la “Corrente di Doha”, coadiuvato dal dinamico genero di Trump, che ha già sponsorizzato gli Abraham Accords tra Israele e due dei componenti del “Quartetto” (Emirati e Barhein): Kushner si è infatti recato a Riad e a Doha il 2 dicembre per verificare le potenzialità di un accordo e mantenere un po’ di prestigio e potere al regno wahhabita durante il New Deal di Biden?

Il punto dopo gli attentati antiraniani e gli accordi sul Nagorno-Karabach

Gli sviluppi della concertazione tra i protagonisti di Astana – ovvero le potenze localmente più attive nel controllo del Mediterraneo orientale e delle sue sponde meridionali; del Medio Oriente, in particolare la Mesopotamia; del Caucaso e dei paesi dell’Asia centrale – dopo il cessate il fuoco in Nagorno Karabach e gli omicidi mirati antiraniani passati quasi sotto silenzio da parte di Russia e Turchia ci hanno convinto che il quadro risulta sufficientemente chiaro da poter cominciare a tirare le somme.

Un trappolone ordito a Neom ai danni degli iraniani, già sotto sanzioni in tempo di Covid

Quello che getta una luce sinistra sugli accordi di Astana dopo un 2020 che si apre con il drone che centra l’auto di Qasem Soleimani, capo delle Guardie della Rivoluzione e si chiude con un altro drone che inquadra la vettura di Muslim Shahdan, capo dei pasdaran fa pensare che stiano venendo meno uno dei presupposti per cui la repubblica islamica aveva aderito agli incontri di Astana: poter contare su appoggi e sull’alleanza in particolare con la Turchia, con cui condivide anche le medesime “soluzioni” del  comune problema curdo. Di fronte all’attacco provocatorio del Mossad si trova a dover risolvere pulsioni vendicative che sarebbero controproducenti e Realpolitik che suggerirebbe cautela. Questa l’analisi di quali potenziali percorsi stretti rimangono per rieditare gli accordi obamiani affidata a Michele Giorgio in un intervento su Radio Blackout del 3 dicembre a commento della eliminazione di Mohsen Fakrizadeh, capo del progetto della agenzia nucleare iraniana.

Ascolta “Eliminazioni nucleari per avvelenare i pozzi nel Golfo” su Spreaker.

Di conseguenza ci si può chiedere quali strategie siano state innescate a Neom tra Netanyahu, Mbs e Pompeo e se ci si deve attendere reazioni iraniane prima che subentri l’amministrazione Biden (e questo potrebbe rendere inutile l’alleanza di Astana?), oppure si registreranno escalation apertamente belliche che Trump potrebbe lasciare in eredità insieme a Netanyahu, a ridosso di nuove elezioni a Tel Aviv e con i guai giudiziari ad attenderlo? Le ripercussioni coinvolgerebbero l’intero Golfo persico, con le prevedibili ritorsioni sugli Emirati per un eventuale attacco israelo-statunitense sul suolo persiano. Anche su questo abbiamo chiesto il parere di Michele Giorgio.

Ascolta “Mossad in azione antiraniana o in estensione degli Abraham Accords?” su Spreaker.

Un trappolone ordito ai danni degli armeni, i russi distribuiscono le spoglie

Nel caso del recente conflitto tra armeni e azeri la raffinata tattica russa ha fatto in modo di immaginare una soluzione che accontentasse tutte le nazioni in gioco senza nemmeno guastare i rapporti con l’unico attore in commedia che ha subito una umiliante sconfitta (confidando erroneamente in un maggiore appoggio da parte russa): gli armeni, puniti per la loro rivoluzione di velluto che stava portandoli pericolosamente a flirtare con quelle democrazie occidentali (Gruppo di Minsk), uscite dal conflitto senza aver ottenuto nemmeno una tregua che durasse più di un paio di ore, durante il conflitto in cui la differenza è stata data dall’uso di tecnologie sofisticate da parte dell’esercito azero (i droni di fabbricazione turca e tecnologia israeliana in particolare). I russi hanno legato a sé ancora di più gli armeni: infatti controlleranno per 5 anni il territorio attraverso il Fsb, compreso il corridoio per unire il Nakhchivan all’Azerbaijan, contestato dall’Iran. Questo il punto di vista di Murat Cinar:

Ascolta “Accordo moscovita pigliatutto” su Spreaker.

Leggermente discorde il parere di Yurii Colombo, che considera un ripiego la soluzione adottata da Putin per il Nagorno, messo alle strette dall’evoluzione della guerra e volendo mantenere un profilo equidistante tra i due contendenti, evitando di intervenire come in Bielorussia, ma finendo con l’inimicarsi la parte che non ha potuto contare sugli armamenti conferiti invece agli azeri da turchi e israeliani, in particolare; secondo Yurii Colombo sarà  facile che anche l’Armenia cerchi nella Nato un protettore più affidabile.

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Putin e Aliyev firmano l’accordo per la cessazione dei combattimenti tra armeni e azeri

L’Iran ha scongiurato eccessivi coinvolgimenti sul confine segnato dal fiume Aras con la persistenza dell’enclave armena che limita la pressione sui confini settentrionali dell’Iran; questo può bastare per salvaguardare gli interessi di Tehran? In fondo il piano che aveva presentato Khamenei aveva come primo punto il ritorno ai confini riconosciuti dall’Onu e questo è il fondamento dell’accordo sancito; inoltre l’intervento russo ha impedito una vittoria completa dell’Azerbaijan e ha posto fine alle dimostrazioni della minoranza azera in Iran che chiedevano agli ayatollah di intervenire a fianco di Baku. Infine la fine delle ostilità porterà via i mercenari sunniti scaricati da Erdoğan al confine anche iraniano.

La Turchia ha invece ottenuto l’accesso diretto a Baku via terra e sono state esaudite molte richieste decennali del nazionalismo interno che produrranno consenso, confermando Erdoğan nella strategia volta a potenziare un’economia di guerra, dispendiosa ma che in prospettiva potrebbe fornire risorse dai territori controllati e costruzione di infrastrutture adesso fuori dai confini. Un’ipotesi di cambio nell’impostazione dell’economia bellica turca nelle parole di Murat Cinar che potrebbe preludere a una ulteriore e più difficilmente sanabile frattura tra Mosca e Ankara.

Ascolta “Erdoğanomics di guerra in Nagorno-Karabach” su Spreaker.

I missili S-400: un rilancio – la prosecuzione – dell’Impero ottomano?

Alcune recenti iniziative della Turchia potrebbero dimostrare che Ankara ormai si muove come una superpotenza in grado di trattare da pari a pari con i due colossi (Usa e Russia) oltre che con le altre entità rilevanti (Iran, Arabia Saudita…). Sarebbe quindi fuori luogo cercare di ridimensionarla specificando “potenza a livello regionale”, visto che qui si parla sia di Medio Oriente che di Mediterraneo e Caucaso.
Un passetto alla volta, la Turchia sembrerebbe intenzionata a integrare – anche ufficialmente – il sistema di difesa S-400 nella sua struttura di difesa contraerea e di combattimento, nonostante il gesto di Ankara assuma quasi l’aspetto di uno sgarro nei confronti di Washington, in lampante contraddizione con il ruolo della Turchia, per il momento ancora alleata degli Usa e membro della Nato.
E dove verrebbero collocate definitivamente tali batterie di missili? Una – molto probabilmente – dovrebbe rimanere nei pressi di Ankara. Le altre a sorvegliare mar Egeo e Mediterraneo orientale. Oppure alle frontiere con la Siria e con l’Armenia e in questo caso, agitare la minaccia dell’impiego operativo dei missili S-400 funzionerebbe come merce di scambio (o, se preferite, ricatto). Non mancano peraltro risvolti della vicenda che suonano come ostentazione di indipendenza da Mosca.

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I giochi di Astana sono agli sgoccioli?

Il ritorno di fiamma della guerra in Nagorno-Karabach dimostra con evidenza che i cinque anni di politica di appeasement tra Russia e Turchia stanno volgendo al termine e la partnership rischia di crollare a causa dell’inconciliabilità delle ambizioni geopolitiche (già sintomatiche erano le posizioni prese in relazione alla situazione libica a inizio 2020).

Bisogna capire se il punto di caduta dello scontro nel Nagorno-Karabakh, escludendo la catastrofe di un confronto diretto tra Russia e Turchia, sarà una vittoria completa azera o se, come continuano ad affermare gli esperti di strategia russi, Ilham Aliyev si accontenterà di sedersi al tavolo della trattativa dopo essersi ripreso i corridoi che collegano il Nagorno-Karabakh all’Armenia. In entrambi i casi, Mosca ne uscirà indebolita e dovrà ripensare seriamente ai suoi rapporti con Ankara. A settembre Erdoğan ha annunciato di aver trovato giacimenti di gas nel Mar Nero che dovrebbero garantire entro il 2023 l’autonomia energetica al suo paese. A quel punto allora, i buoni rapporti con Putin, potrebbero per lui essere solo un intralcio.

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Massima pressione americana e corridoio multilaterale eurasiatico

Russia e Turchia sembrano voler affinare ulteriori strategie bilaterali, che si aggiungono a quelle orchestrate con gli ayatollah.

Per il terzo protagonista l’interesse essenziale degli accordi tripartiti è l’uscita dall’isolamento e la realizzazione di rapporti e scambi che aggirino le sanzioni. L’Iran è apparentemente più defilato ma è il tassello centrale del mosaico di corridoi commerciali e infrastrutturali, sbocchi sull’oceano Indiano e passaggi di pipeline; non si limita a rinnovare gli accordi ventennali in scadenza con la Russia, o a rinsaldare la partnership con la Turchia in un quadro complesso dato da divisioni di ogni tipo, ma sulla base mesopotamica degli accordi di Astana, nati sul pretesto di dare una soluzione al conflitto siriano, fonda il mantenimento del ruolo regionale e salvaguarda la multilateralità alla base della geopolitica eurasiatica… magari guardando anche ad accordi con la Cina già in atto.

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Da zar a raiss: la strategia putiniana in Medio Oriente e nel Mediterraneo

La “guerra ibrida” non è quella creata dai russi ma – nel pensiero putiniano – è quella che l’Occidente ha creato con l’uccisione di Gheddafi,  tramite la propaganda sui media – in un continuo ribaltamento di ruoli tra chi ne è il fautore – sia per l’occupazione della Crimea sia per l’interventismo sull’altra sponda del Mediterraneo.

Da questo deriva la strategia putiniana messa in atto con le potenze regionali per seguire i suoi interessi economici: appoggiare al-Assad in Siria mentre Erdoǧan dà il suo sostegno ad al-Sarraj in Libia, spartendosi territorio su cui far correre infrastrutture (pipeline), trafficare in armi e risorse energetiche.

Da zar a rais. La tentazione di esagerare, quando si affronta il tema della politica mediorientale di Vladimir Putin, è forte. Il perché è ovvio. L’operazione militare in Siria è stata (quasi) un successo, la gestione degli equilibri di forza sul campo con Iran e Turchia un capolavoro di tattica, l’offensiva diplomatica nell’area il tratto del maestro. Se si aggiunge la volontà di disimpegno americana dall’Oriente Medio, ecco spiegato perché oggi si parla di Vladimir d’Arabia: nella mente di Putin è Tripoli, e non Damasco, il vero obiettivo per vincere la ‘regata’ nel Mediterraneo. In quella parte di mondo però il successo non è mai stabile, bensì mobile come le dune dei suoi deserti: nel 1941 l’offensiva coloniale italiana contro la colonia egiziana della Gran Bretagna cominciò l’inizio della fine del nazifascismo, ma avrebbe dovuto saldarsi con le truppe lanciate alla conquista dell’Unione Sovietica per controllare gran parte delle risorse energetiche dell’area, quell’Urss che già nel 1946 richiese l’amministrazione controllata della Tripolitania e dell’Eritrea. Evidentemente già strategiche per la Russia di allora.

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L’idillio turco-russo messo alla prova da Libia e Siria

Sin dall’inizio della guerra in Siria, la posizione di Ankara è stata sempre a favore della caduta del regime Ba’th. Nel frattempo le relazioni tra Turchia e Russia, nonostante alcuni periodi difficili, si sono allacciate sempre più. Questo crea stupore dato che in Siria, dal 2014, Putin è apertamente schierato in forze accanto al presidente Assad per salvarlo e sembra che l’appoggio di Mosca abbia cambiato le sorti della guerra a favore di Damasco.

Le cose sono diventate ancora più complicate con l’intervento della Turchia nella guerra libica. Nel 2019, Ankara ha deciso di sostenere economicamente, militarmente e politicamente Fayez al-Sarraj, presidente riconosciuto dall’Onu, contro il generale Haftar, uomo appoggiato da Mosca che vorrebbe ottenere il controllo assoluto del paese. Dunque anche in Libia queste due forze si trovano a portare avanti due strategie diverse con un forte rischio di scontrarsi.

Fuori dai territori libici e siriani la collaborazione turco-russa vive un idillio senza precedenti. La domanda che sorge è semplice: “Com’è possibile un quadro del genere?”. Le risposte sono molteplici e non del tutto definitive. Scelte economiche, strategie di alleanza per mantenere il potere e nascondere la corruzione.

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]]> La Russia e il Medio Oriente https://ogzero.org/la-russia-e-il-medio-oriente/ Mon, 06 Jul 2020 10:56:02 +0000 http://ogzero.org/?p=427 Da zar a raiss. La tentazione di esagerare, quando si affronta il tema della politica mediorientale di Vladimir Putin, è forte. Il perché è ovvio. L’operazione militare in Siria è stata (quasi) un successo, la gestione degli equilibri di forza sul campo con Iran e Turchia un capolavoro di tattica, l’offensiva diplomatica nell’area – tra […]

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Da zar a raiss. La tentazione di esagerare, quando si affronta il tema della politica mediorientale di Vladimir Putin, è forte. Il perché è ovvio. L’operazione militare in Siria è stata (quasi) un successo, la gestione degli equilibri di forza sul campo con Iran e Turchia un capolavoro di tattica, l’offensiva diplomatica nell’area – tra contratti miliardari di armi e visite di stato “storiche” del presidente russo, come quella a Riad nell’ottobre del 2019 – il tratto del maestro. Se si aggiunge lo zampino di Washington con la sua volontà di disimpegno dall’Oriente Medio, iniziata da Barack Obama e proseguita da Donald Trump, ecco spiegato perché oggi si parla di Vladimir d’Arabia. In quella parte di mondo però il successo non è mai stabile, bensì mobile come le dune dei suoi deserti. L’esempio più fulgido, e attuale, è la “campagna” di Libia. Mosca, dopo la ritirata del maresciallo Haftar, pare in difficoltà. Ma non mollerà. Perché, paradossalmente, nella mente di Putin è Tripoli, e non Damasco, il vero obiettivo per vincere la ‘regata’ nel Mediterraneo.

La Libia, infatti, per Putin è l’omphalos delle crisi che hanno portato alla destabilizzazione della regione e il segnale tangibile – se ce ne fosse ancora bisogno – che dell’Occidente non ci si può fidare. Al Cremlino, nel 2011, era in sella Dmitry Medvedev e Putin, al contrario, si era adattato alle mansioni del primo ministro (che non prevedono la politica estera, saldamente nelle mani del presidente). Come ricorda Mikhail Zygar nel suo Tutti gli uomini del Presidente, «per Putin la decisione di Medvedev di non porre il veto all’ONU sulla risoluzione antilibica fu un’imperdonabile dimostrazione di debolezza». Così ruppe la comanda del silenzio e iniziò a criticare pubblicamente la Nato (e implicitamente le decisioni di Medvedev). «Se l’obiettivo era la no-fly zone perché i palazzi di Gheddafi vengono bombardati ogni giorno?», dichiarò in Tv. Per Putin Europa e Usa non solo avevano truffato Gheddafi – prima revocando il suo status di paria, ammettendolo nel circolo bene dei vari G8, e poi pugnalandolo alla schiena – ma anche Medvedev. E dunque la Russia.

Secondo Zygar la morte del dittatore libico per Putin fu un vero e proprio shock. Non solo. Fu l’evento che lo convinse a tornare al Cremlino, ordinando a Medvedev di farsi da parte. «Il mondo è un casino, rischieresti di perdere la Russia», disse Putin al suo incredulo delfino nel corso (appropriatamente) di una battuta di pesca nei pressi di Astrakhan. «Gheddafi non credeva di certo che avrebbe perso la Libia ma gli americani lo hanno fregato: io resto il candidato più forte». Così l’arrocco fu deciso e Putin s’incoronò zar per davvero (ora, grazie alla riforma della Costituzione, potrà governare indisturbato, se lo vuole, fino al 2036). C’è di più. La Libia non è cruciale nel Putin-pensiero solo per la detronizzazione di Gheddafi, ovvero per gli effetti della rivoluzione, ma soprattutto per le sue cause. Che secondo il Cremlino sono esogene.

Tutte le “rivoluzioni colorate”, infatti, per Mosca sono create dall’estero, in particolare dalla Cia, e la “Primavera araba” rientra in questo esercizio di sovvertimento dello status quo attraverso metodi “ibridi”, che fondono la manipolazione sapiente dell’opinione pubblica (grazie ai social media) alla buona vecchia forza bruta, quando serve. L’uso qui del termine “ibrido” non è un caso. Anzi. Perché la Libia è un caleidoscopio dove le nostre certezze sulla Russia si smontano per essere ricomposte subito dopo in altra foggia e colore. Se dunque fino a oggi avete pensato che il concetto di “guerra ibrida” fosse il prisma adatto con cui osservare e spiegare le mosse di Mosca, be’, è vero l’esatto contrario. La guerra ibrida, per la Russia, l’ha inventata l’Occidente e il suo principale poligono di tiro è stata propria la Libia. Altro che Ucraina.

Ecco, qui per non perdere la bussola sarà necessario aprire una rapida parentesi. La guerra ibrida russa, nei circoli occidentali, prende anche il nome di “dottrina Gerasimov”, in onore del capo dello stato maggiore dell’esercito, il generale Valery Gerasimov. Era il febbraio del 2013 e il periodico russo “Military-Industrial Courier” aveva dato alle stampe un discorso di Gerasimov in cui il generale parlava di come, nel mondo moderno, l’uso della propaganda e dei sotterfugi rendesse possibile a «uno stato perfettamente fiorente di trasformarsi, nel giro di mesi e persino di giorni, in un’arena di feroci conflitti armati, cadere vittima d’intervento straniero e sprofondare nel caos, nella catastrofe umanitaria e nella guerra civile». Ovvero la carta d’identità della Libia post-Gheddafi.

Nel “saggio” si afferma che «lo spazio informatico apre grandi possibilità asimmetriche per ridurre la capacità combattiva di un potenziale nemico: in Africa siamo stati testimoni dell’uso delle tecnologie per influenzare istituzioni e popolazioni con l’aiuto dei network informativi (i social, N.d.r.) ed è necessario perfezionare le attività della sfera digitale, compresa la difesa nei nostri stessi obiettivi». Insomma, a essere ibridi sono gli altri, è la Russia che si deve attrezzare, e il target finale è proprio Mosca, che si vorrebbe destabilizzare con una rivoluzione colorata ad hoc. L’intervento di Gerasimov, in sé passato inosservato, è stato però tradotto in inglese e rilanciato dal blog dell’analista Mark Galeotti. Che per amor di fama ha un po’ forzato la mano. «Un blog – racconterà poi nel 2018 in un articolo pubblicato da “Foreign Policy” – è un esercizio di vanità come tante altre cose: ovviamente volevo che la gente lo leggesse. Così, per avere un titolo scattante, ho coniato il termine “dottrina Gerasimov”, anche se già allora avevo notato nel testo che questo non si trattava altro che di “un contenitore” e non era certo “una dottrina”».

Bene. Se il desiderio era fare colpo, missione compiuta. Con lo scoppiare della crisi ucraina, e l’euro-Maidan di Kiev, altra operazione speciale dell’Occidente agli occhi del Cremlino, il titolo “scattante” di Galeotti tracima l’ambito degli addetti ai lavori e grazie ai media diventa di dominio comune. «All’annessione della Crimea, quando “gli omini verdi” – commandos senza mostrine – si impadronirono della penisola senza sparare un colpo, seguì la guerra del Donbass, combattuta inizialmente da una variegata schiera di teppisti locali, separatisti, avventurieri russi e forze speciali, accompagnati da una raffica di sapida propaganda russa: all’improvviso sembrò che Gerasimov avesse davvero descritto ciò che sarebbe venuto, se solo ce ne fossimo resi conto», riflette ancora Galeotti. Il che è curioso. Sembra una versione geopolitica del Batman di Tim Burton, in cui il Joker e l’eroe mascherato si accusano di essersi creati a vicenda.

La Russia e l’Occidente d’altra parte hanno una lunga tradizione di incomprensioni reciproche e Winston Churchill si spinse a definirla «un rebus all’interno di un enigma avvolto nel mistero». Il grande statista britannico, campione negli aforismi tanto quanto modesto coi pennelli, non si limitò però a lasciarci nella nebbia. Il segreto per decifrare il segreto russo era infatti seguire il filo d’Arianna «dell’interesse nazionale». E in effetti funziona. Oggi, se vogliamo, possiamo aggiornare Churchill usando il concetto di “sovranità” – termine senz’altro più à la page – e le nebbie inizieranno a diradarsi. In Siria la Russia è intervenuta per difendere i propri interessi nazionali e la sovranità del governo in carica (piaccia o no, Bashar al-Assad formalmente era il presidente legittimamente eletto), riaffermando al contempo un doppio principio: Mosca non abbandona i propri alleati ed è ora abbastanza forte per dimenticare le guerre di cortile (Cecenia 1 e 2, Georgia 2008) e tornare a proiettare la sua influenza sullo scacchiere internazionale, come ai tempi dell’Unione Sovietica. Tripoli è dunque la conclusione logica di questo processo. Per chiudere la partita là dove è iniziata. E ristabilire al contempo il proprio interesse nazionale – ovvero il rispetto dei contratti firmati al tempo di Gheddafi.

L’abbiamo presa un tantino larga, ma alla fine siamo arrivati al punto. La Libia, per la Russia, è anche una questione di soldi. Armi, infrastrutture, energia. Mosca aveva dei bei piani con l’autore del Libro Verde. Poi è stato il caos e il Cremlino non ha perso l’occasione per ritagliarsi un posto al tavolo libico. Ma l’equazione Mosca-Libia non è automatica. O perlomeno, non lo era. Nel corso della conferenza stampa di Serghei Lavrov, ministro degli Esteri russo nonché veterano della diplomazia globale, e del suo omologo italiano (al tempo Paolo Gentiloni, era il 2016), dopo un incontro nella capitale russa, Lavrov rispose in modo abbastanza piccato a chi, tra di noi, gli chiedeva se tra Russia e Italia potesse aprirsi un ponte sul dossier libico. In sintesi, Lavrov si lamentava del fatto che in Siria la Russia era vista dall’Occidente come una forza «destabilizzante» mentre in Libia era stato l’intervento della Nato a causare «la distruzione dello stato». «Mi pare curioso pensare che adesso sia compito della Russia trovare il modo per risolvere la crisi», disse Lavrov, legando di fatto i due teatri.

Ecco, quattro anni più tardi lo status quo è sotto gli occhi di tutti. In Libia operano i mercenari russi della Wagner (benché il Cremlino smentisca) e recentemente gli Usa hanno pubblicato delle immagini satellitari che proverebbero la presenza di jet russi moderni nell’est del paese. Insomma, un aiuto sostanziale a Haftar. Mosca, dal canto suo, ha smentito anche questa informazione, per bocca di Mikhail Bogdanov, fine arabista nonché inviato speciale di Putin in Medio Oriente e viceministro degli Esteri: aerei «vecchi», già presenti «da tempo», le solite «fake news». Al di là della querelle sull’aiutino russo, che peraltro viene confermato da chiunque si occupi con attenzione di Libia, la vera questione, persino più interessante, è se davvero Haftar si possa considerare un uomo di Putin. E la risposta è ni.

Dietro l’uomo forte della Cirenaica ci sono diversi interessi. L’Egitto, per esempio. Ma anche gli Emirati Arabi. Il passato di un uomo, parafrasando Fitzgerald, non passa davvero mai, fino in fondo. Se infatti è vero che Haftar, al termine degli anni Settanta, ha ricevuto l’addestramento militare nell’Unione Sovietica, completando una speciale laurea triennale per ufficiali stranieri presso l’Accademia militare M.V. Frunze, in seguito ha poi proseguito la sua formazione militare in Egitto. Senza contare che ha vissuto per 20 anni negli Usa, fino a diventare cittadino americano. Da eroi dei due mondi a voltagabbana il confine d’altra parte è spesso sottile. Quindi sì, Mosca ha una certa familiarità con il maresciallo ma, come ha recentemente sottolineato Jalel Harchaoui, ricercatore dell’Istituto Clingendael dell’Aia, «se dipendesse dai russi, Haftar oggi avrebbe molto meno potere».

L’amara verità è che la vera novità, in Libia come in altre parti del Medio Oriente, è l’inedito attivismo della Turchia. A cambiare le sorti della guerra civile è stato l’intervento di Erdoğan, su richiesta di Tripoli. Che poi è esattamente quanto accaduto in Siria, a parti invertite. Putin in tal senso ha fatto davvero scuola e forse il sultano che fu costretto a baciare la pantofola dello zar per archiviare il grande affronto del jet russo abbattuto dai turchi nei cieli siriani si è tolto un bel sassone dalla scarpa. Sia come sia, Ankara e Mosca hanno ormai alle spalle una lunga storia di collaborazione (per certi versi quasi un’intesa). Senz’altro in Siria, dove, con l’aggiunta dell’Iran, è nata la troika genitrice del format di Astana: piaccia o non piaccia, quella piattaforma ha portato a dei progressi sul piano negoziale, sebbene forse ormai del tutto vanificati dall’esuberanza turca nell’area di Idlib.

E proprio Idlib è stata al centro delle ultime divergenze tra Mosca e Ankara, sanate poi da un summit Putin-Erdoğan in cui si è salvato il salvabile, con un’intesa che ha sino adesso riportato la calma sul terreno. In quell’occasione i due leader hanno affermato che Russia e Turchia, quando la situazione lo richiede, sanno “sempre” giungere a un “accordo”. Non sempre alleati, insomma, ma nemici mai. Un rapporto certo non facile eppure di reciproca soddisfazione. Erdoğan ha acquistato i famigerati sistemi antimissilistici russi S-400 mandando su tutte le furie gli Usa, che da un alleato Nato si aspetterebbero ben altra fedeltà. Un punto a favore (sulla carta) per Putin. C’è poi il TurkStream. Che oltre a portare altro gas russo in Turchia ha dato la possibilità al Cremlino di resuscitare, di fatto, il South Stream, allacciando al tubo i Balcani e l’Est Europa meridionale (e un giorno forse anche l’Italia). Altro favore a Putin. Ma anche a se stessa. La Turchia, infatti, è diventata così un importante hub energetico (sempre sul suo territorio passa il gasdotto che unirà a breve l’Azerbaigian alla Puglia).

Ecco allora che la presenza turca, in Libia, potrebbe non essere così deleteria, per Putin: il punto di caduta, nel medio periodo, si troverebbe su una spartizione del territorio per zone d’influenza. Poi chi vivrà vedrà. Intanto finché l’Occidente non vince, il Cremlino non perde. C’è chi pensa infatti che sarebbe un errore credere che Mosca abbia un “gran piano” in mente per tutto il Medio Oriente e il Mediterraneo. Bruno Macaes, ex ministro portoghese per gli Affari europei e autore di fortunati libri sul ruolo dell’Eurasia (e dunque di Cina e Russia) nella geopolitica che verrà, non esclude che la Russia al momento si accontenti di «partecipare al gioco».

Il coronavirus ha poi scompigliato tutte le carte. Mosca avrà il suo daffare a tamponare la crisi, che sarà pesante dal punto di vista economico, e non è detto che per Putin rappresenti un giro di boa indolore, al netto della riforma costituzionale che dovrebbe (o se non altro potrebbe) garantirgli la poltrona al Cremlino fino al 2036. Il paradiso, per lo zar, può dunque attendere, in Medio Oriente o altrove. Il 2020-2021 sarà probabilmente l’anno in cui, più che giocare a Risiko, Putin si dedicherà a consolidare il fronte interno.

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Tribalismi e nazionalismi a confronto nel Kurdistan iracheno https://ogzero.org/tribalismi-curdo-iracheni-a-confronto-excerpta/ Fri, 19 Jun 2020 16:50:20 +0000 http://ogzero.org/?p=272 La frammentazione in varie etnie, clan tribali e gruppi linguistici curdi in Iraq ha portato alla nascita di una miriade di partiti politici; le tribù erano per lo più suddivise tra Kdp e Puk che si erano aggiudicati le posizioni di potere e ad alto livello all’interno del partito e del governo; l’organizzazione in forma […]

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La frammentazione in varie etnie, clan tribali e gruppi linguistici curdi in Iraq ha portato alla nascita di una miriade di partiti politici; le tribù erano per lo più suddivise tra Kdp e Puk che si erano aggiudicati le posizioni di potere e ad alto livello all’interno del partito e del governo; l’organizzazione in forma di partito era funzionale alla gestione delle questioni sociali e tribali e proprio per questo i due partiti sono sempre stati più forti degli organi giurisdizionali del paese. Talvolta i capitribù che avevano rifiutato il completo appoggio a un partito politico ne hanno pagato le estreme conseguenze: i partiti hanno sempre usato la retorica nazionalista per accusare qualche rivale di tradimento e giustificarne così l’esecuzione.

I partiti curdi hanno impugnato le armi nella lotta politica in diverse fasi della loro storia, ma i governi iracheni hanno sempre operato con pugno di ferro e repressione. Tra genocidi, collaborazionismo con i vari governi e rivolte si è dipanata la storia della società curda irachena – quest’ultima divisa, controllata e strumentalizzata – che ha forgiato il nazionalismo e le politiche fino ai giorni nostri nel paese.

L’immagine è di Kamal Chomani. L’argomento è approfondito nella sua versione estesa e completa di mappa relativa ai gruppi linguistici e confederazioni tribali in Rivalità e sangue tra etnie curde nella politica irachena in questo sito.

 

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Questioni dottrinarie in Medio Oriente https://ogzero.org/questioni-dottrinarie-in-medio-oriente/ Sun, 29 Mar 2020 16:26:48 +0000 http://ogzero.org/?p=56 Ma come avevano reagito gli sceicchi alauiti all’abbraccio sciita degli ayatollah al-Sadr e al-Shirazi? Ed era cambiato qualche cosa nella loro dottrina? Rispondere a questo quesito è assai complicato: un conto era quanto veniva proclamato in pubblico, ben altro era stabilire davvero quale dottrina seguissero gli alauiti in segreto. Forse alcuni degli sceicchi più giovani […]

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Ma come avevano reagito gli sceicchi alauiti all’abbraccio sciita degli ayatollah al-Sadr e al-Shirazi? Ed era cambiato qualche cosa nella loro dottrina? Rispondere a questo quesito è assai complicato: un conto era quanto veniva proclamato in pubblico, ben altro era stabilire davvero quale dottrina seguissero gli alauiti in segreto. Forse alcuni degli sceicchi più giovani e istruiti avevano cominciato a formulare una sorta di riformismo alauita per avvicinarsi maggiormente alla teologia e alla filosofia dello sciismo duodecimano. In realtà in una fede esoterica come quella alauita le dispute dottrinarie tendevano a restare confinate a una cerchia ristretta di iniziati: le bocche erano cucite e le lingue si scioglievano soltanto per ripetere che gli alauiti appartenevano allo sciismo, una sorta di mantra recitato per respingere l’accusa di essere miscredenti.

Le questioni dottrinarie poi erano quasi inseparabili dalle dispute sull’autorità religiosa: e in questo campo non ci furono cambiamenti. Gli sceicchi alauiti siriani non riconobbero nessuna autorità e nessuno di loro seguì mai i fatwa o le indicazioni religiose che venivano da Qom e Najaf.

Questo era un punto cruciale. Fino a quando si fossero rifiutati di riconoscere l’autorità religiosa dei più importanti mullah sciiti, gli alauiti non avrebbero mai potuto ottenere un riconoscimento dei grandi ayatollah della statura di un Abol Qassem Khoi a Najaf oppure di Qassem Shariatmadari a Qom, considerati dei marja e-taqlid, fonti di imitazione, quindi dotati di un prestigio assoluto nel mondo sciita del tempo e che oggi può vantare soltanto Alì al-Sistani, il grande ayatollah iraniano, allievo di Khoi, che risiede dagli anni Settanta in Iraq.

I Naqshbandi

Tutto questo è dimostrato da una vicenda per niente secondaria. L’ayatollah Shariatmadari, protagonista della rivoluzione del 1979 contro lo shah e che aveva attirato l’interesse dei reporter occidentali, oltre che del filosofo francese Michel Foucault, intrattenne una lunga corrispondenza con Ahmed Kuftaro, gran muftì della Siria e strettamente legato al clan degli al-Asad. Fu Kuftaro, di origini curde, capo anche della confraternita Naqshabandi, ad accompagnare Giovanni Paolo II nella sua famosa visita alla grande moschea ommayade di Damasco nel 2001: era la prima volta che un papa entrava in una moschea. 

È curioso che la guida del papa fosse il capo in Siria della Naqshbandyya, una tariqa, una confraternita molto antica, che vantava la sua origine dai discendenti di Maometto e che fu in seguito associata al grande mistico del xiv secolo Muhammad Bahah al-Din al-Naqshbandi, da cui ha preso la denominazione. 

I Naqshbandi, detti anche Naksibendi in Turchia, hanno un ruolo chiave nelle sotterranee solidarietà della politica mediorientale. Durante una delle tante finte elezioni presidenziali irachene negli anni Novanta, Izzat Ibrahim al-Douri, vice di Saddam Hussein ed eminente esponente baathista, si fece accompagnare dalla stampa a Tikrit, città natale di Saddam, dove aveva forgiato i legami con il raìs. 

In quella occasione fu più facile del solito avvicinarlo e al-Douri ci rivelò di essere assai religioso: ogni venerdì andava a pregare in una delle moschee più importanti della capitale. Da un membro del suo seguito scoprimmo che apparteneva all’Ordine dei Naqshbandi, la confraternita estesa dall’Asia centrale alla Turchia alla Mesopotamia. Queste credenziali religiose dovevano averlo reso affidabile anche gli occhi del Califfato e del suo capo Abu Baqr al-Baghdadi che si vantava di essere membro di questa tariqa

Che i baathisti avessero dato una mano importante all’ascesa dello Stato Islamico di al-Baghdadi lo dimostrava anche il messaggio caloroso rivolto ai jihadisti con cui nel 2014 era riaffiorato alle cronache Izzat Ibrahim al-Douri dopo un decennio da imprendibile latitante tra Siria e Iraq. Al-Douri, che sarebbe stato ucciso nel 2015 a Suleymania, non era l’unico politico della regione affiliato all’ordine. 

In Turchia la confraternita dei Naksibendi nel dopoguerra trova il suo rinnovatore nell’imam Mehmet Zahid Kotku. Anche lui era un sufi che trasformò il sonnolento ordine della Naqshbandyya turca in una vera scuola socio-politica: sono stati seguaci di Kotku il presidente Turgut Ozal, il primo ministro islamista Necmettin Erbakan e lo stesso presidente Tayyp Erdogan, capo del partito musulmano Akp.

Quando si pensa ai protagonisti della scena mediorientale nessun legame deve essere trascurato e alcuni di questi possono apparire sorprendenti soltanto perché li ignoriamo. Per questo fui meno sorpreso quando due giorni prima della caduta di Baghdad, nella primavera 2003, feci colazione con il segretario di Saddam. Il dottor Ahmad mi venne a prendere nella hall dello Sheraton dove erano accampati alcuni islamisti che avevano sfilato qualche settimana prima per le vie della capitale con le cinture esplosive. «Ma questi prima non li impiccavate ai pali della luce?» osservai. «È vero – rispose Ahmad – ma adesso ci servono anche loro». Erano membri del gruppo islamista Ansar e facevano riferimento proprio a Izzat Ibrahim al-Douri. Qualche tempo dopo si sarebbero fatti esplodere ai check point degli americani e nelle moschee degli sciiti, i nuovi padroni dell’Iraq.

Proprio nel fatale 1979, l’anno della rivoluzione iraniana, il gran muftì siriano Kuftaro visitò Qom e si diffusero voci che fosse andato proprio dall’ayatollah Shariatmadari per ottenere un riconoscimento ufficiale degli alauiti come membri dello sciismo. Ma Shariatmadari non disse una parola al riguardo né fece alcun gesto in questa direzione: il silenzio assordante di Qom lasciò delusi diversi sceicchi alauiti e lo stesso clan degli al-Asad che avevano riposto la loro massima fiducia nella mediazione di Kuftaro, molto noto per la sua abilità nell’intrecciare il dialogo interreligioso.

La rivoluzione iraniana e gli alauiti

La rivoluzione iraniana e lo sciismo militante arrivarono a Damasco prima ancora che l’imam Khomeini facesse ritorno a Teheran il primo febbraio 1979 dopo la fuga dello shah Reza Palhevi. Nel giugno del 1977 era stato sepolto a Damasco, accanto al famoso mausoleo di Zeynab, Alì Shariati, uno dei simboli della rivoluzione.

La storia me la racconta nella sua casa di Teheran Ibrahim Yazdi, testimone di quel tempo. Alla parete della sala c’è la sua foto, quella di un uomo maturo e vigoroso, con un folta capigliatura corvina che arringa una folla oceanica a Korramshar. Un’immagine in bianco e nero, netta, senza sbavature, come poteva apparire in quel momento l’orizzonte dell’Iran: il passato, lo shah, era stato travolto e la rivoluzione prometteva un mondo nuovo. Yazdi il 1° febbraio 1979 era sbarcato a Teheran con il volo da Parigi insieme all’ayatollah Khomeini: pochi giorni dopo sarebbe diventato ministro degli Esteri del primo governo della Repubblica islamica. 

Fu lui, Yazdi, a presentare il progetto di costituzione a Khomeini. Sul frontespizio c’era scritto: «Costituzione della repubblica dell’Iran», l’imam prese una penna e aggiunse: «Costituzione della repubblica islamica dell’Iran». Dieci mesi più tardi il governo di Mehdi Bazargan, che aveva lasciato fuori dalla porta i mullah, si dimetteva e Yazdi passava, per sempre, all’opposizione: 30 anni dopo con i capelli bianchi, qualche anno di carcere alle spalle, un cancro superato, aveva ancora voglia di raccontare.

«Con la sua interpretazione marxista dell’islam Alì Shariati fu l’ideologo più influente della sua epoca e l’inventore dello “sciismo rosso”. Per lui la storia degli sciiti, con il martirio di Hussein a Kerbala nel 680, ucciso dai califfi sunniti, non era altro che la dialettica della lotta di classe, destinata a culminare nella rivoluzione». Delle idee di Shariati e degli slogan sulla rivolta degli oppressi si impossessarono la leadership religiosa e l’imam Khomeini, che però legittimarono il loro potere con il millenarismo sciita. Khomeini fu abile a trasformare la caduta dello shah, alla quale parteciparono nazionalisti, liberali, comunisti e gruppi di sinistra, nella rivoluzione dei turbanti. 

Islamologia, il volume più famoso di Shariati, in poco tempo divenne una sorta di “libretto rosso” tra le giovani generazioni iraniane. Tale fu il successo di Shariati che nel 1973 il regime dello shah lo arrestò imponendogli una durissima carcerazione. Liberato su forti pressioni internazionali andò in esilio in Europa dove aveva studiato negli anni Sessanta a Parigi, appassionandosi a Frantz Fanon e diventando amico di Sartre. 

A Londra il 18 giugno 1977 ricevette una telefonata dalla moglie in cui lo avvertiva che lei e una delle figlie erano state fermate all’aeroporto. Accompagnato da alcuni amici si recò velocemente a Southampton dove attese con grande ansia il complicato superamento dei controlli doganali da parte della moglie e della figlia. Tornato a casa, Shariati si addormentò per l’ultima volta; il mattino seguente fu ritrovato morto nel letto, c’è chi dice a causa di un arresto cardiaco e chi perché caduto vittima di un agguato notturno della polizia segreta dello shah.

«Fu 24 ore dopo la sua morte – racconta Yazdi – che ci trovammo a Londra con Sadq Gotzbadeh e Abholassam Banisadr per decidere dove seppellirlo: la sua volontà era di essere tumulato vicino al mausoleo di Zeynab a Damasco e mi incaricai dell’operazione». Gotzbadeh diventato ministro dopo la rivoluzione fu giustiziato da un plotone di esecuzione nel 1982 per aver partecipato a un complotto contro Khomeini; Banisadr, primo presidente della repubblica islamica, fu deposto nel 1981 e costretto all’esilio in Francia. L’altro fondatore insieme a Yazdi del Movimento per la libertà iraniana negli anni Sessanta, cui aveva aderito anche Shariati, era Mostafa Chamaran, ex fisico della Nasa: nominato ministro della Difesa fu ucciso nel 1981 sul fronte nella guerra Iran-Iraq. La rivoluzione e la guerra divoravano così i protagonisti della storia insieme a un milione di giovani iraniani che cadevano nelle paludi dello Shatt al-Arab.

La tomba di Shariati è una stanza accanto al mausoleo di Seyeda Zeynab, la figlia di Alì e di Fatima, quindi nipote di Maometto. È meta di lunghi pellegrinaggi da parte degli sciiti iraniani che con i pasdaran montano la guardia al complesso monumentale situato nel governatorato di Damasco. Shariati è sepolto in una stanza dove ci sono le sue foto, mazzi di fiori e una piccola biblioteca che espone alcuni dei suoi libri, compresi Islamologia e Fatima è Fatima, un libro dedicato da Shariati alla figlia del Profeta e al ruolo delle donne rivoluzionarie. Anche gli alauiti vanno a trovare Zeynab, in quanto figlia di Alì, e il mausoleo è una meta delle visite non solo degli sciiti ma anche delle correnti sufi devote al culto della nipote di Maometto.

La scelta di seppellire Shariati a Damasco non fu casuale. Dopo il 1973 e la legittimazione elargita dall’imam Musa al-Sadr, le autorità siriane avevano cominciato a dare rifugio ai fuoriusciti iraniani, soprattutto religiosi, che formavano l’opposizione allo shah Reza Palhevi ed erano perseguitati dalla Savak, la polizia segreta.

E non fu casuale che a officiare le esequie di Alì Shariati fosse proprio Musa al-Sadr, che aveva incoraggiato i rapporti tra il regime di al-Asad e gli ayatollah antishah. Da parte loro i siriani non potevano certo immaginare che il variopinto corteo dei dissidenti iraniani, dai mullah con il turbante ai giovani esponenti delle correnti marxiste, potesse un giorno rovesciare il regime di Teheran fortemente sostenuto dagli Stati Uniti che ne avevano fatto una sorta di guardiano del Golfo. Lo stesso presidente democratico Jimmy Carter, un anno prima dello scoppio della Rivoluzione, era andato a Teheran dallo shah per brindare con le mogli al Capodanno 1978: le due coppie furono fotografate che alzavano calici di champagne e sorridevano agli obiettivi.

Agli alauiti di Damasco importava soprattutto tenere buoni rapporti con gli ayatollah sciiti. Non avevano potuto ottenere l’appoggio del celebre Shariatmadari ma forse speravano in quello dell’imam Khomeini che allora si trovava ancora a Najaf. Dopo tutto Khomeini era un rivoluzionario che subordinava la tradizione religiosa all’obiettivo primario di abbattere lo shah e anche lui, come del resto Musa al-Sadr, aveva bisogno di amici influenti. Non è chiaro fino a che punto gli alauiti siriani al potere si spinsero a chiedere il sostegno religioso di Khomeini per la loro legittimazione ma è certo che corteggiavano i religiosi sciiti in esilio: quando Khomeini fu costretto a lasciare Najaf e gli fu rifiutato l’ingresso in Kuwait prese in considerazione di stabilirsi a Damasco prima di scegliere la Francia.

1979: paradossale alleanza strategica siro-iraniana

I rapporti tra siriani e iraniani diventarono strategici dopo la rivoluzione del 1979. La Siria tollerava la presenza dei pasdaran iraniani nella valle della Bekaa dove stava nascendo il movimento degli Hezbollah in un Libano sotto lo stretto controllo di Hafez al-Asad. In cambio l’Iran stese il silenzio sulla repressione da parte del regime siriano dei Fratelli musulmani che erano scesi in rivolta a Hama. E quando Saddam Hussein attaccò l’Iran il 22 settembre del 1980 i siriani si schierarono con Teheran. 

Era un paradosso: da una parte l’Iran combatteva contro l’Iraq baathista di Saddam, presentando il regime sunnita di Baghdad come l’emblema dell’empietà, dall’altra gli ayatollah iraniani erano in stretti rapporti con un altro regime baathista, quello di Damasco, in mano agli alauiti ritenuti dai sunniti degli incorreggibili miscredenti.

La posta in gioco tra i laici di Damasco e i religiosi di Teheran era altissima: senza la cooperazione della Siria l’Iran non poteva estendere la sua influenza fino alle coste del Mediterraneo e i siriani senza la collaborazione della Repubblica islamica non potevano tenere sotto controllo il Sud sciita del Libano, una pistola puntata contro Israele che aveva occupato le alture siriane del Golan nel 1967 proprio quando Hafez al-Asad era comandante dell’aviazione.

I due regimi, quello di Damasco e quello di Teheran, avevano credenze religiose diverse ma condividevano lo stesso destino geopolitico: è stato così fino ai nostri giorni con l’asse sciita tra Teheran-Baghdad-Damasco e gli Hezbollah libanesi.

L’Iran ha quindi fornito al regime di al-Asad una legittimazione religiosa derivante dai suoi interessi strategici ma lo ha fatto sempre in maniera indiretta e sottile. Quando i religiosi iraniani della Repubblica islamica, anche quelli che in passato sono stati direttamente legati all’imam Khomeini, visitano Damasco parlano sempre il linguaggio della politica. Non si soffermano mai a discutere di dottrina o a fare riferimenti di carattere religioso, non accennano minimamente ai rituali degli alauiti. Parlano di solidarietà politica tra Damasco e Teheran e si appellano genericamente all’ecumenismo tra musulmani, alla necessità di essere uniti contro la minaccia dell’imperialismo, del colonialismo e del sionismo. Sottolineano sempre i grandi sacrifici compiuti dai siriani su questi fronti ma si guardano bene dal toccare argomenti religiosi per non aprire capitoli scottanti tra loro e gli alauiti che si autoproclamano seguaci dello sciismo. Tanto più dopo che nel 2015 la Russia, potenza cristiano-ortodossa, è scesa direttamente in campo con le sue forze armate per sostenere Bashar al-Asad.

Non c’è dubbio però che la rivoluzione iraniana abbia fatto sentire i suoi effetti anche sull’esigenza di riforme all’interno della comunità alauita. Nel 1989 Hafez al-Asad incontrò più volte gli sceicchi alauiti a Qardaha chiedendo una modernizzazione della dottrina e di rafforzare i legami culturali con i maggiori centri dello sciismo duodecimano. Alcune centinaia di studenti alauiti vennero spediti a Qom ma non è chiaro fino a che punto poi ci sia stata una reale riforma interna e se gli sceicchi siriani abbiano davvero sacrificato la loro verità eterna alle esigenze effimere del potere. Il velo del silenzio e il mantello del segreto proteggono ancora il mistero alauita.

Frags tratti da Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente, di Alberto Negri, con una prefazione di Lucio Caracciolo, Torino, Rosenberg & Sellier, 2017

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Lo sciismo nella terra dei due fiumi https://ogzero.org/lo-sciismo-nella-terra-dei-due-fiumi/ Sun, 29 Mar 2020 15:45:15 +0000 http://ogzero.org/?p=51 Questo era il mondo nella Qom dell’imam Musa al-Sadr, che se non fosse scomparso in Libia nel 1978 forse avrebbe cambiato la traiettoria dello sciismo. Figlio dell’imam Sadr al-Din, dopo essersi formato nello studio delle scienze religiose, si laureò in sharia e scienze politiche presso l’Università di Teheran nel 1956 prima di insediarsi a Tiro […]

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Questo era il mondo nella Qom dell’imam Musa al-Sadr, che se non fosse scomparso in Libia nel 1978 forse avrebbe cambiato la traiettoria dello sciismo. Figlio dell’imam Sadr al-Din, dopo essersi formato nello studio delle scienze religiose, si laureò in sharia e scienze politiche presso l’Università di Teheran nel 1956 prima di insediarsi a Tiro del Libano nel 1960. Fu il fondatore del movimento Amal, particolarmente attivo e seguito nel Sud del Libano a forte maggioranza sciita. 

Alto, affascinante, con occhi verdi mobili ed espressivi, Musa al-Sadr parlava molte lingue ed era un oratore brillante, ascoltato anche dalle altre comunità libanesi. Possedeva anche grandi capacità organizzative e abilità nel raccogliere fondi che servirono a cause sociali, umanitarie e alla fondazione delle milizie di Amal, nei cui campi di addestramento passarono attivisti iracheni, iraniani e un corpo di pasdaran, le Guardie della rivoluzione khomeinista.

Musa al-Sadr fu il primo imam musulmano a pregare in una chiesa alla cerimonia di Pasqua, a entrare nel salotto buono della Beirut cristiana citando in un famoso discorso Sartre, Jaspers e Marx, a scrivere un saggio su “Le Monde”. 

Gli al-Sadr in Siria

Al-Asad e gli alauiti lo interessavano. Fu lui, capo allora dell’Alto consiglio sciita del Libano, a emettere nel 1973 un fatwa (un responso sulla legge religiosa) in cui si sanciva che gli alauiti erano membri a pieno titolo della grande comunità islamica degli sciiti come seguaci di Alì, il primo dei Dodici imam. Da allora lo sciismo diventò uno dei pilastri del regime, con la conseguente diffusione di rituali e pellegrinaggi che hanno poi legato sempre di più Damasco alla repubblica islamica iraniana, con la quale un tempo condivideva anche un nemico comune, il presidente iracheno Saddam Hussein.

Questo è il motivo originario per cui gli al-Asad, passato lo scettro dopo la morte di Hafez al figlio Bashar nel 2000, sono ancora oggi alleati di ferro di Teheran: i religiosi sciiti legittimarono il loro potere politico a Damasco di fronte ai sunniti. Ma questa fu anche la fine dell’alauitismo originario. Gli alauiti non andavano in moschea, non praticavano il ramadan e osservavano rituali completamente diversi, inoltre credevano nella metempsicosi, la trasmigrazione della anime. Con l’affiliazione allo sciismo gli al-Asad cominciarono a comportarsi come “veri” musulmani e trascinarono con loro gran parte della minoranza alauita. Il loro modello religioso era quello sciita.

L’imam Seyed Musa al-Sadr aveva avuto un ruolo fondamentale nella trasformazione della setta degli alauiti. Gli al-Sadr sono una delle dinastie più prestigiose dello sciismo e la famiglia di Musa al-Sadr attraverso le parentele con gli Sharefeddine e i Noureddine faceva risalire le sue origini al settimo dei Dodici imam Musa al-Kazim a sua volta discendente di Alì e Fatima, la figlia di Maometto. E come tutti i discendenti di Maometto i religiosi al-Sadr, ramificati con i loro alberi genealogici collaterali dall’Iran, all’Iraq, al Libano, al Golfo, indossano come segno distintivo il turbante nero e vantano l’appellativo di seyyed

Hasab e Nasab, la genealogia e la stima acquisita sono più importanti in questo mondo del luogo di nascita e la fama di un grande ayatollah e della sua famiglia trascendono ampiamente le frontiere del Medio Oriente. 

Gli al-Sadr in Iraq

Quella degli al-Sadr è una storia con un prestigio quasi senza eguali nello sciismo, non solo sotto il profilo religioso e dottrinario ma anche per l’influenza politica. Era cugino di Musa al-Sadr, per esempio, Mohammed Baqr al-Sadr, grande giurista e politologo, definito una sorta di Khomeini dell’Iraq, che insieme alla sorella fu giustiziato da Saddam nel 1980. E Mohammed Baqr era lo zio di Muqtada al-Sadr, uno dei capi degli sciiti iracheni dopo l’invasione americana del 2003, il cui padre Sadiq al-Sadr venne anche lui giustiziato dal regime sunnita iracheno nel 1999.

Cosa significasse essere un al-Sadr lo toccai con mano in Iraq dove quella famiglia rappresentava la resistenza al potere sunnita monopolizzato dal clan di Tikrit di Saddam Hussein. La sua storia coincideva con quella degli sciiti iracheni. Fu in base agli interessi della Corona britannica che Gertrude Bell, grande scrittrice e agente dei servizi di sua Maestà, disegnò l’Iraq e lo affidò a una minoranza sunnita per contrastare i religiosi sciiti che durante e dopo la Prima guerra mondiale avevano condotto la rivolta contro gli inglesi, inchiodandoli in furibonde battaglie con 90 000 morti. Sul trono salì l’hashemita Feisal, figlio dello sceicco spodestato della Mecca, al quale seguì il nipote Feisal II, rovesciato e ucciso da un colpo di stato del generale Kassem nel 1958. Ma il monopolio sunnita del potere proseguì con il golpe del 1963 dei fratelli Arif e quello baathista del 1968 che proiettò ai vertici il clan di Tikrit con Saddam, che quando si presentò l’occasione ordinò di impiccare o assassinare tutti gli ayatollah più importanti, deportò migliaia di sciiti nel 1979-1980 e con la repressione della rivolta della primavera 1991, seguita alla guerra del Golfo, ne massacrò nel Sud almeno 100 000. 

«È necessario andare oltre a queste vicende sanguinose, trovare il modo di superare le divisioni, stringerci la mano e agire per il bene dell’Iraq», ripeteva dal suo esilio di Londra Abdul Majdi al-Khoi, figlio del grande ayatollah Seyed al-Khoi, il cui fratello Taqi era stato assassinato nel 1994 dai sicari di Saddam. I suoi appelli alla pacificazione, che suonano ancora oggi d’attualità dopo la barbarie del Califfato, però non ebbero fortuna: quando tornò in Iraq fu accoltellato nella moschea di Alì a Najaf il 10 aprile 2003 mentre Saddam Hussein era in fuga, braccato dagli americani. Questi ultimi accusarono della sua morte proprio Muqtada al-Sadr ed emisero contro di lui un mandato di cattura, poi annullato per sedare una delle frequenti rivolte delle sue milizie denominate l’Esercito del Mahdi.

Con la fine del regime baathista nel 2003 gli Stati Uniti avevano di fatto consegnato il governo alla maggioranza sciita alleata dell’Iran: una rivincita storica e un risultato che Teheran aveva ottenuto senza muovere un pasdaran, come del resto era accaduto nel 2001 con la caduta dei talebani, arcinemici della repubblica islamica sciita. E non è certo un caso che quando il raìs venne impiccato, prima che il suo corpo fosse inghiottito dalla botola, gridasse tutte le sue maledizioni contro l’Iran mentre i suoi giustizieri inneggiavano a Muqtada al-Sadr e alla famiglia diventata il simbolo della resistenza al potere sunnita. 

Di quella scena fosca abbiamo soltanto le immagini labili e sfocate girate con i cellulari: riguardandole dopo qualche anno appare più chiara la parabola di al-Qaida nella Terra dei due fiumi guidata all’epoca da Abu Musab Zarqawi, ucciso dagli americani nel 2006, e diventa anche più distinta la traiettoria dell’allievo di Zarqawi, Abu Baqr al-Baghadi, il fondatore del Califfato il 29 giugno 2014 a Mosul, che per sollevare i sunniti in Iraq e in Siria si alleò con gli ex ufficiali di Saddam.

Il ritratto di Muqtada allora era ovunque, accompagnato da quello del leader libanese degli Hezbollah, Hassan Nasrallah. Le altre foto di Sadr City, uno dei più grandi quartieri di Baghdad disegnato negli anni Cinquanta sul modello urbanistico di Manhattan, ricordavano a tutti la genealogia di Muqtada: c’erano oltre al ritratto dello zio, Mohammed Baqr, anche quello del padre, Sadiq al-Sadr, ucciso dal raìs nel 1999 insieme ai due fratelli di Muqtada.

I due “martiri al-Sadr”, Musa e Sadiq, gli avevano trasmesso un’eredità molto significativa, spirituale e materiale. Il prestigio politico e quello religioso, nonostante Muqtada nei suoi studi teologici si fosse fermato prima della laurea islamica. Ma soprattutto aveva ereditato come fosse una proprietà di famiglia inalienabile una rete di decine di migliaia di seguaci a Baghdad ed estesa a tutto il Sud dell’Iran. 

Per questo quando gli americani tentarono per due volte di metterlo alle strette nel 2004 esplosero rivolte ovunque, da Baghdad a Najaf, a Nassiriya e nel 2008 anche a Bassora. 

Custode di questa rete, che comprende le consistenti elemosine dei credenti e le entrate dai pellegrinaggi, era stato per anni l’ayatollah Kazem Hussein Haeri di Qom, considerato il successore di Mohammed Baqer al-Sadr, lo zio di Muqtada. Haeri, insieme alla leadership di Teheran, aveva convinto Muqtada a trasformare il suo movimento sul modello degli Hezbollah libanesi: partito politico e milizia, organizzato con una forte presenza sociale sul territorio.

Muqtada al-Sadr

Nel dicembre 2006, in occasione di un’intervista con Muqtada, entrai ancora una volta nel tempio di Alì a Najaf sormontato dalla famosa cupola d’oro. 

Prima della caduta del raìs iracheno, all’ingresso dell’ufficio del custode era incollata una grande targa nera con caratteri in oro che riportava l’albero genealogico di Saddam: il leader baathista, sunnita e secolarista aveva trovato il modo di far risalire la sua famiglia a quella del genero e cugino di Maometto. Si trattava, ovviamente, di un falso ed era stata rimossa. Una stanza era stata invece riservata alla tomba del grande ayatollah Khoei, ritenuto una specie di santo e guaritore: accanto erano stati sepolti i suoi due figli brutalmente assassinati.

Il giornalista iracheno che mi accompagnava, Sadiq Sattar al-Husayni, mi fece notare che due delle quattro porte del tempio erano controllate da uomini di Muqtada e da lì era vietato l’ingresso a chiunque: «Il grande ayatollah Alì al-Sistani, il più importante religioso iracheno, ne ha una sola. Un’altra è per i membri anziani dell’hawza, il consiglio del clero. Non c’era dubbio alcuno che qui comanda Muqtada, un mullah di 32 anni che pure non ha nessuna qualifica di alto grado nella gerarchia religiosa». Senza l’aiuto di Sattar, che aveva studiato a Najaf e sapeva come superare le insidie del viaggio da Baghdad, andare da Muqtada sarebbe stato rischioso e anche inutile. 

Febbraio 2014

Il giovane mullah, con il turbante nero, una barba mal coltivata e una tunica larga che non riusciva a nascondere una sagoma intorno al quintale, aveva un’aria svogliata. Erede di una famiglia di ayatollah – il padre, lo zio e due fratelli furono uccisi da Saddam Hussein – Muqtada, sposato con una cugina, senza figli, era trincerato a Najaf, da dove minacciava un jihad (sforzo contro gli infedeli per la causa islamica) contro gli americani se non se ne fossero andati presto dal paese. 

«Ho fatto testamento e comprato la stola di cotone bianco che adorna i defunti – confidò nervosamente – perché americani, saddamisti e terroristi mi vogliono morto». Respirò pesantemente prendendo fiato e fece una lunga tirata: «Odio l’America perché ha importato il terrorismo in Iraq: continuerà a scorrere un fiume di sangue finché ci saranno soldati stranieri. Noi siamo pronti a parlare con i sunniti moderati. Ma ci stiamo anche preparando a una grande battaglia contro i terroristi sunniti e al-Qaida. Loro hanno voluto la guerra distruggendo la moschea di Samarra, dopo che Bin Laden aveva approvato un fatwa per ammazzare gli sciiti. Quella è stata la svolta. Il capo degli ulema sunniti, Haret al-Dhari appoggia al-Qaida e ha impedito la ricostruzione della moschea facendo uccidere tecnici e operai che avevo mandato con i soldi raccolti tra i fedeli di Najaf e Kerbala. È amico dei sauditi, sempre pronti a finanziare i terroristi sunniti. Sono stato per un giro diplomatico nei Paesi arabi: ho constatato che, tranne qualche eccezione, sono tutti nostri nemici».

Muqtada contava nel 2006 su migliaia di uomini armati, questa era la sua massa di manovra più temibile, ma aveva anche ottenuto la quota maggiore dei seggi nel blocco sciita vincitore delle elezioni del 2005. Tra rivolte e battaglie, l’ultima quella di Bassora nel 2008, Muqtada al-Sadr non è però riuscito nell’obiettivo di conquistare la leadership sciita e del paese, ed è stato convinto dall’Iran a rinfoderare le armi e a usarle soltanto per costituire le milizie anti-Califfato. Ma le roccaforti del suo potere restano ancora oggi, nel 2016, intatte.

Secondo Sattar, che conosceva bene le trame dei mullah iracheni per averli a lungo frequentati, «Muqtada voleva diventare il leader dell’Iraq mettendo in secondo piano anche l’autorità dell’Hawza, l’alto consiglio religioso di Najaf composto da quattro Grandi Ayatollah, l’iracheno Said al-Hakim, l’iraniano Alì al-Sistani, il più prestigioso, Mohamed Seyed Fayad, afghano, e Bashir al-Najafi, di origini indiane. Come vedi – sottolineava Sattar – il consiglio di Najaf è una sorta di “multinazionale” sciita: per questo Muqtada insiste sul nazionalismo iracheno come carattere distintivo del suo movimento». Un obiettivo molto ambizioso, avversato, oltre che dagli americani, dai sunniti e dagli stessi sciiti come la famiglia Hakim, eterni rivali degli al-Sadr. 

La posta in gioco è sempre il potere, il prestigio religioso e politico con la strumentalizzazione della fede settaria, il controllo delle finanze del clero e, soprattutto, del petrolio del Sud, il carburante indispensabile con i petrodollari dei grandi progetti politici di questa parte del Medio Oriente. 

Ma la «mezzaluna sciita» avrebbe potuto scrivere una storia diversa da quella già conosciuta in questa regione, non in Iraq, forse, ma in Libano, dove un giorno arrivò Musa al-Sadr. 

Come svanisce un ayatollah

Ci sono molti modi di essere un al-Sadr. Nell’estate del 2006, mentre infuriava la battaglia tra gli Hezbollah libanesi e Israele, vado a Tiro. L’ufficio di Fatima alla Fondazione dell’imam Musa al-Sadr è un accampamento. Fatima sta raccogliendo gli aiuti, fa una lista delle persone scomparse e ospita come può i bimbi senza genitori e con le famiglie divise. Non ha tempo per rispondere a domande ma invoca un sostegno, un aiuto di qualunque tipo. L’emergenza in Medio Oriente non finisce mai: ai profughi di allora in Libano si sono aggiunti quelli dalla Siria, un milione su una popolazione di 4,2 milioni di persone. 

La foto dell’imam, scomparso in Libia a 50 anni, si trova ovunque a Tiro: fu qui che il religioso iraniano cominciò la sua attività pubblica. Il partito da lui fondato, Amal, “la speranza”, qui vince ancora regolarmente le elezioni municipali battendo gli Hezbollah di Nasrallah. Colto, elegante, ammantato del fascino dei Seyed, i discendenti del sangue di Maometto, Musa al-Sadr arrivò nel Jabal Amil, il Sud del Libano dove la sua famiglia aveva vissuto fino al xviii secolo, alla fine degli anni Cinquanta: con lui iniziò il risveglio degli sciiti, il loro riscatto morale, economico.

La sorella dell’imam Musa al-Sadr, Robabeh, oggi dirige la Fondazione, istituita nel 1960, che sostiene con borse di studio 1200 studenti, assiste migliaia di orfani e ogni anno cura oltre 50 000 persone. È aiutata dal figlio, Rida Charafeddine, laureato all’Università americana e manager della Byblos Bank, esponente di una generazione di sciiti moderna, emancipata. E non in contraddizione con gli insegnamenti di Musa al-Sadr. Il turbante nero di al-Sadr, frenetico viaggiatore, non esitava a corteggiare politici arabi, intellettuali cristiani e sunniti, uomini d’affari e banchieri, per sostenere la causa sciita.

«Prima della partenza per il suo ultimo viaggio a Tripoli lo aiutai a preparare una valigia piena di libri, c’erano anche cassette di musica persiana», ricorda la sorella Robabeh al-Sadr Charafeddine. E anche una lettera, mai spedita, a Khomeini. 

Due giorni prima della partenza da Beirut per la Libia Musa al-Sadr aveva inviato un articolo a “Le Monde” sulla lotta in Iran tra lo shah e l’opposizione religiosa degli ayatollah. L’Iran era la sua patria e naturalmente si sentiva coinvolto in prima persona, come persiano ed esponente religioso di primo piano. «In Iran – scrisse anticipando i tempi – è in corso un’autentica rivoluzione che non è di destra o di sinistra ma di un intero popolo nella sua diversità, vi partecipano studenti, lavoratori, intellettuali e uomini di religione. Il leader della rivoluzione,– aggiunse – il grande imam Khomeini, esprime le dimensioni nazionali, culturali e libertarie di questa rivoluzione». Fu un giudizio influente che pesò successivamente anche in Occidente sulla prospettiva con cui vennero valutati gli eventi che travolsero dopo qualche mese l’Iran e portarono alla fuga dello shah: Khomeini tornò trionfalmente in Iran il primo febbraio 1979.

Ma forse l’imam Musa pagò soprattutto un’intervista che diede a Tripoli due giorni prima di scomparire: è l’ipotesi, piuttosto fondata, che avanzava qualche anno fa Fouad Ajami, celebre studioso della politica araba e profondo conoscitore delle vicende di al-Sadr. Musa al-Sadr sosteneva sul giornale kuwaitiano “Al Nahda” che era venuto il momento di trattare con Israele: per dare la caccia ai palestinesi dell’Olp lo stato ebraico aveva appena invaso il Libano del Sud uccidendo un migliaio di sciiti e provocando l’esodo di altri 250 000. «Gli sciiti – dichiarò Musa al-Sadr – avevano perso le loro case, la loro terra e molte vite: forse avrebbero potuto evitarlo se avessero accettato di collaborare con Israele». Parole dette allora che probabilmente ancora oggi possono suonare come una condanna a morte per un leader musulmano agli occhi dei radicali: allora dominava il “fronte del rifiuto” di ogni negoziato con gli israeliani e il Colonnello libico Gheddafi insieme alla Siria degli al-Asad ne faceva parte. 

La sorella Robabeh mi raccontò la sua versione della storia, assai interessante: «Israele aveva invaso il Libano meridionale e rifiutava di ritirarsi secondo la risoluzione 425 dell’Onu. Mio fratello riteneva fosse suo dovere informare i leader arabi della situazione di crisi politica e umanitaria. Si recò quindi in Siria, Giordania, Arabia Saudita, Algeria, per chiedere una conferenza araba sul Sud del Libano. Al termine di un colloquio durato quattro ore con Houari Boumèdiène, il presidente algerino gli consigliò di fare rotta sulla Libia da Gheddafi: «Il mio fratello libico – disse Boumèdiène – ha informazioni sbagliate sulla situazione libanese». Fu così che cominciò la trattativa per il suo viaggio a Tripoli: si accordarono per il 25 agosto ma Musa al-Sadr avvertì i libici che sarebbe dovuto partire comunque il 1° settembre per una visita alla moglie che doveva essere operata in un ospedale di Parigi. Scomparve cinque giorni dopo la partenza ma in tutto il periodo che restò a Tripoli non abbiamo mai ricevuto da lui nessuna telefonata o notizia, neppure dai suoi compagni di viaggio. Un comportamento davvero insolito per l’imam ma anche per Badreddin, il giornalista che lo accompagnava. Io credo che Gheddafi fosse ostile alle posizioni politiche di Musa al-Sadr e soprattutto al suo piano di avviare trattative con Israele».

La sparizione di Musa al-Sadr

La scomparsa di al-Sadr è una vicenda controversa che riaffiora continuamente. L’imam arrivò nella capitale libica il 25 agosto del 1978 insieme a due compagni di viaggio, un religioso, lo shaykh Muhammad Yakoub, e un giornalista Abbas Badreddin, direttore dell’agenzia di notizie libanese: fu visto per l’ultima volta il 31 agosto in un hotel di Tripoli, Al Shati, da cui uscì verso mezzogiorno. Incontrando una delegazione di libanesi nella lobby affermò che stava andando a un appuntamento con Gheddafi. Secondo i libici invece aveva lasciato la capitale proprio quel giorno con un volo Alitalia diretto a Roma. Ma in Italia arrivò soltanto la sua valigia depositata all’Holiday Inn da due agenti di Gheddafi che misero sul letto della sua camera anche il mantello scuro dell’imam. 

Dopo la caduta di Gheddafi nel 2011, venne fuori che negli anni Ottanta i servizi segreti italiani, per mantenere buoni rapporti con il raìs libico, avevano avallato la versione del regime secondo il quale Musa al-Sadr nell’estate del 1978 si era volatilizzato durante una tappa a Roma. Ma nessuna testimonianza, né del personale dell’Alitalia né di quello dell’Holiday Inn confermava questa versione dei fatti. 

Nell’autunno del 2015 si cercavano ancora le sue tracce. Uno dei figli di Gheddafi, Hannibal, si era rifugiato a Damasco ma in un viaggio a Beirut venne arrestato dagli Hezbollah che lo interrogarono con metodi brutali sulla fine di Musa al-Sadr per poi consegnarlo controvoglia alla magistratura libanese in un momento politico delicato in cui si doveva decidere il candidato cristiano alla carica di presidente. Hannibal accusò Jallud, il numero due del regime libico, di aver fatto scomparire l’imam al-Sadr. La storia e il mito dell’imam scomparso in tutti questi decenni non si sono mai offuscati e gli sciiti non smettono di cercare la verità.

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Rivalità e sangue tra etnie curde nella politica irachena https://ogzero.org/etnie-curde-in-iraq/ Sun, 29 Mar 2020 15:13:26 +0000 http://ogzero.org/?p=42 Totalitarismo, democrazia e federalismo  In seguito alla Prima guerra mondiale, il colonialismo britannico istituì lo stato dell’Iraq, riunendo – anche con la forza – tutte le componenti della regione. Da allora il popolo curdo iracheno, stanziato principalmente nella parte settentrionale del paese, nei governatorati di Dahuk, Erbil, Kirkuk e Sulaymaniyya, e tra Mosul, Salah-al-Din, Diyala e Baghdad, lotta per salvaguardare […]

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Totalitarismo, democrazia e federalismo 

In seguito alla Prima guerra mondiale, il colonialismo britannico istituì lo stato dell’Iraq, riunendo – anche con la forza – tutte le componenti della regione. Da allora il popolo curdo iracheno, stanziato principalmente nella parte settentrionale del paese, nei governatorati di Dahuk, Erbil, Kirkuk e Sulaymaniyya, e tra Mosul, Salah-al-Din, Diyala e Baghdad, lotta per salvaguardare i propri diritti politici e culturali. Negli anni Venti fu stroncato il primo tentativo guidato dallo sceicco Mahmoud Hafid di istituire uno stato curdo a Sulaymaniyya e da allora il movimento di liberazione curdo continua a opporre una strenua resistenza contro i governi iracheni susseguitisi nel tempo.

I partiti curdi in Iraq hanno impugnato le armi nella lotta politica in diverse fasi della loro storia, ma i governi iracheni hanno sempre operato con pugno di ferro e repressione. Le atrocità da loro perpetrate raggiunsero un picco nel 1988 quando il dittatore Saddam Hussein utilizzò le armi chimiche e promosse la campagna Anfal (cioè un genocidio che approfondiremo più avanti) dalla metà alla fine degli anni Ottanta. I giorni migliori per i curdi iracheni furono quelli annoverati dal resto della popolazione irachena come i peggiori, quando cioè la coalizione guidata dagli Stati Uniti invase il paese nel 2003.

Sebbene negli anni successivi la violenza dilagasse a più livelli, per la prima volta l’Iraq sceglieva la strada della democrazia con l’elezione nel 2005 di un nuovo parlamento seguito dalla stesura della prima Costituzione democratica della storia del paese che riguardava tutte le genti irachene, compresa la nazione curda.

Oltre alla nascita della democrazia, un altro passo importante fu il riconoscimento della regione curda come regione federale irachena anche se la leadership curda non riuscì a praticare politiche utili al popolo iracheno e al Kurdistan. Questo processo portò anche alla costituzione di una élite politica totalitaria e corrotta non così dissimile dagli oppressori curdi del passato. Nel settembre 2017, in seguito alla sconfitta dello Stato Islamico in Iraq e Siria, il presidente curdo Barzani impose prematuramente un referendum ai curdi che portò a un ulteriore deterioramento dei rapporti con Baghdad, distruggendo il sogno indipendentista. 

Tribalismi e nazionalismi a confronto 

Con l’Accordo Sykes-Picot il 16 maggio 1916 l’Iraq finì sotto il mandato britannico; fino all’indipendenza dell’Iraq nell’ottobre 1932, il popolo guidato dal re del Kurdistan – lo sceicco Mahmud Hafid – ingaggiò una guerra sanguinosa contro il governo inglese lottando per la propria indipendenza, ma senza successo, nonostante una strenua resistenza politica e armata. Nel marzo 1931, il leader curdo Mahmud Hafid inviò una dura lettera al capo della Lega delle Nazioni a Parigi, in cui denunciava chiaramente l’annessione del Kurdistan meridionale allo stato iracheno come Regione curda dell’Iraq del Nord.

Quando nel 1932 l’Iraq divenne una nazione indipendente i curdi non ebbero altra scelta – dato il fallimento delle ulteriori rivolte – che accettare la nuova situazione. Mullah Mustafa Barzani, fondò il Partito democratico del Kurdistan (Kdp) nel 1946 ispirandosi al Partito democratico del Kurdistan iraniano (Kdpi). Il Movimento di liberazione curdo si rafforzò durante la monarchia, ampiamente influenzato dal Partito comunista (1934) e dallo stesso Kdp, che aveva controllato la politica curda fino ad allora, e i suoi attivisti riuscirono a mobilitare i contadini per ottenere maggiori diritti democratici. La monarchia fu rovesciata dal colpo di stato di Abd al-Karim Qasim nel 1958 e il popolo curdo lo sostenne; allora Mustafa Barzani tornò dalla Russia, paese che ospitava numerosi profughi dopo il collasso nel 1946 di quella Repubblica di Mahabad in Iran, di cui si è fatto cenno nell’Introduzione di questo libro. Sebbene in un primo tempo i rapporti tra i curdi e Qasim fossero buoni, dopo tre anni scoppiò la rivoluzione. Molti storici attribuiscono a entrambe le parti la colpa del deterioramento dei rapporti a scapito di una collaborazione per il bene dell’Iraq. 

Con il dipanarsi della storia che ha forgiato il nazionalismo e le politiche fino ai giorni nostri la società curda è stata divisa in vari clan e tribù, controllati e strumentalizzati con facilità dai nemici dei curdi chiamati a difenderli dalle tribù rivali, aiuto spesso offerto dai regimi iracheni stessi.

Una delle ragioni principali della fine della luna di miele tra Mullah Mustafa Barzani e Abd al-Karim Qasim fu una questione tribale: quest’ultimo aveva rapporti distesi con le tribù Hark e Zibâri che si opponevano al clan Barzani, così Mullah Mustafa Barzani pensò che Qasim volesse usare i suoi rivali per ridurre il suo potere nel Nord. L’ex presidente iracheno e segretario generale del Puk Jalal Talabani, coprotagonista in quei giorni, scrive nelle sue memorie pubblicate nel 2017 che «il crollo delle relazioni tra Barzani e Qasim cominciò quando Ahmed Agha Zibâri (leader di quella tribù) che era un violento, aveva ucciso molti dei Barzani iniquamente» e aggiunge: «Mullah Mustafa Barzani aveva mandato alcuni della sua cerchia per ucciderlo». In seguito Qasim cercò di trascinare in giudizio gli assassini e Barzani respinse quella soluzione; in risposta Qasim armò la tribù Zibâri. Questa mossa fu considerata da Barzani ostile alla sua tribù e al suo potere in Iraq, in particolare nel Nord. 

Da allora le rivalità e il sangue versato tra tribù e clan curdi hanno certo agevolato i regimi iracheni nell’intento di rintuzzare le rivoluzioni curde. E allo stesso tempo alcune tribù e clan, insieme ai loro leader, sono stati la colonna vertebrale delle rivoluzioni contro i regimi iracheni.

Prima di stabilire un nuovo stato-nazione in Iraq, i curdi accumularono potere attraverso gli emiri locali affiliati all’Impero Ottomano, mantenendo il controllo delle amministrazioni locali, battendo moneta e predicando in qualità di emiri curdi e non come sultani ottomani. Il nuovo stato iracheno insomma non riuscì a portare i curdi totalmente sotto il suo controllo, così come non riuscì a creare un’identità nazionale in grado di raccogliere tutte le componenti regionali oltre al comune sciovinismo nazionalista arabo. Infatti nel Congresso fondativo del Partito baathista del 1947, lo statuto chiaramente affermava: «Il partito nazionalista crede che il nazionalismo sia una inconfutabile verità». E fu così che in Iraq nacque il nazionalismo curdo, in opposizione a quello arabo.

La spartizione del potere 

Dal 1932 al 1946 proliferarono svariati partiti nonché figure-chiave politiche che guidarono la rinascita nazionalista e intellettuale, come Ibrahim Ahmed, Rafiq Hilmi e Ala al-Din Sajadi. 

Tutto ciò lasciò un segno politico e intellettuale sulla popolazione, nonostante la nascita del Kdp di Mustafa Barzani avesse messo tutti gli altri partiti un po’ in ombra. Sebbene l’attuale leader, Masoud Barzani, figlio di Mullah Mustafa, abbia portato i curdi al referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno tenutosi il 25 settembre 2017, il Kdp richiedeva in realtà l’autonomia all’interno dei confini nazionali iracheni fin dall’inizio del 1992, quando il parlamento curdo si batteva per la costituzione di una Federazione della regione curda dell’Iraq (Kri). Allo stesso tempo, il Kdp non si è mai pronunciato sul diritto all’autodeterminazione fino al 2010, al contrario dell’Unione patriottica del Kurdistan iracheno (Puk) guidata da Jalal Talabani che insisteva su questo punto fin dal 1975.

Si noti come il Kdp sia diventato un movimento popolare che riuniva le più importanti tribù e capitribù, così come gli intellettuali curdi e gli studiosi islamici e, a differenza di altri partiti, riuscì nell’intento di costruire relazioni paradiplomatiche con più di una nazione. Oltre al forte legame con lo scià iraniano, ebbe rapporti con gli Stati Uniti, Israele e la Russia. Quando il legame con la Repubblica irachena si deteriorò il Kdp guidò l’Aylul (la Rivoluzione di Settembre). Nonostante la guerra la rivolta curda si espandeva sempre più: il leader del Kdp Mustafa Barzani era in contrasto con l’Ufficio politico guidato da Ibrahim Ahmed e da Jalal Talabani, e questo portò a una scissione nel 1964, quando Talabani fece ritorno a Baghdad. L’ala fedele all’Ufficio politico accusò Mullah Mustafa Barzani di essere “tribale e conservatore”, mentre i politici curdi dell’epoca erano impregnati di marxismo. Il Kdp fallì, persino la retorica nazionalista curda non era così efficace perché il suo leader non capiva la reale portata intellettuale e ideologica dell’opposizione al regime iracheno. Mentre la rivoluzione curda si rafforzava, lo stato iracheno si indeboliva a causa di due consecutivi colpi di stato dei baathisti nel 1963 e 1968, che li portarono al potere.

Voltafaccia baathisti e iraniani

I baathisti al potere avevano bisogno di rafforzare la loro presa; annunciarono così in prima battuta riforme economiche radicali in Iraq, nazionalizzarono il settore petrolifero e abbracciarono la causa dei diritti del popolo curdo. Tale apertura portò a un’intesa storica l’11 marzo 1970 tra il governo iracheno e il movimento rivoluzionario curdo di Aylul in cui per la prima volta l’identità curda veniva riconosciuta come partner politico in Iraq. I curdi guadagnarono il diritto all’autonomia e si istituirono delle amministrazioni locali curde nei governatorati di Erbil, Sulaymaniyya e Dahuk, mentre Kirkuk rimase una questione in sospeso. 

Una volta che i baathisti si stabilirono al potere, però, iniziarono a fare un passo indietro rispetto agli accordi presi, avvicinandosi al regime dello scià di Persia per trovare un compromesso su alcune zone dello Shat al-Arab in cambio della sospensione del sostegno iraniano alla rivoluzione curda. Nel frattempo, anche gli Stati Uniti non avevano mantenuto la promessa di sostenere il popolo curdo e la più grande rivoluzione curda era fallita per un complotto a livello regionale. Anche se Mullah Mustafa aveva un cospicuo esercito di peshmerga e godeva del sostegno di gran parte della società, era preoccupato delle mosse dello scià di Persia: fermò quindi la rivoluzione e non permise che altri la rinfocolassero e vietò agli altri leader curdi di proseguirla. 

Il governo iracheno di allora, agli inizi degli anni Settanta, complottò contro la rivoluzione curda dopo pochi anni di pace e prosperità nella regione del Kurdistan e in Iraq. Nel 1973 i rapporti curdo-iracheni stavano prendendo un’altra strada quando il regime baathista annunciò un fronte comune con il Partito comunista, più che altro per avversione nei confronti del Kdp. Quindi nel 1974 riprese la guerra tra il governo iracheno e i rivoluzionari curdi e questi ultimi capitolarono nel momento in cui l’Iraq strinse un’intesa con lo scià di Persia, il 6 marzo 1975, nota come gli Accordi di Algeri, con il supporto dell’Occidente, dell’Oriente e degli Stati Uniti. A Baghdad erano ormai rimasti pochi partiti minori senza una base forte all’interno della società curda; erano piuttosto considerati utili al regime iracheno per distruggere il movimento rivoluzionario curdo. 

In seguito alla fine della Rivoluzione di Mullah Mustafa, apparvero sulla scena molti partiti politici e movimenti armati curdi in opposizione al governo. Fino al 1975, il Kdp e Mullah Mustafa Barzani avevano controllato il panorama politico curdo, eppure in quel periodo riuscirono a emergere alcuni importanti partiti e leader che lui riuscì però sempre a marginalizzare rendendo il partito praticamente privo di opposizione. 

Quando Barzani intraprese una campagna militare contro Qasim la maggioranza delle tribù lo sostenne, così raccolse l’appoggio dei clan Balakayati e Pizhdar (utili perché più vicini all’Iran), ma all’interno della Rivoluzione, i capi delle tribù e dei clan erano in disaccordo sul potere e capitò che venissero eliminati attraverso veri e propri eccidi, come nel caso di Hamad Aghay Mergasori e dei suoi figli: i peshmerga più coraggiosi della Rivoluzione Aylul degli anni Sessanta furono uccisi da Barzani, timoroso che volessero prendere il controllo del partito.

I vari regimi iracheni cominciarono ad arruolare tribù e clan in funzione controrivoluzionaria, iniziando da quelli che avevano buone relazioni con Baghdad, in particolare nella zona di Dahuk. All’interno delle tribù e dei clan c’erano sempre state divisioni tra chi aveva sostenuto la rivoluzione e chi l’aveva avversata.

Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta il regime di Saddam Hussein reclutò molte fragili tribù e clan curdi che controllava fomentando controversie tra di loro in modo che ricorressero all’appoggio del governo. Uno dei motivi per cui così tanti clan e tribù curdi si univano facilmente alle truppe irachene derivava dal fatto che il regime aveva drenato tutte le loro risorse per vivere. Il regime di Saddam aveva distrutto i villaggi e deportato i capitribù in riserve dove migliaia di persone non avevano lavoro. Saddam adottò questa raffinata strategia con l’intento innanzitutto di diminuire la forza dell’opposizione curda e in secondo luogo per fare sì che queste genti rimanessero leali al suo governo evitando di unirsi agli insorti.

Fine dello spirito di Aylul: la fenice curda risorge divisa

L’era successiva al Mullah Mustafa Barzani aprì le porte alla società curda e ai politici di diverse provenienze e ideologie. Nonostante la divisione dei partiti armati abbia portato a una lotta interna fratricida detta birakuji (“guerra civile”), tale diversità portò varie correnti nella politica e nel Movimento di liberazione curdo, dal maoismo all’islamismo.

Il più potente partito fondato da un gruppo di rivoluzionari curdi dentro e fuori dal paese dopo la Rivoluzione Aylul, avversario di Barzani, fu l’Unione patriottica del Kurdistan (Puk), guidato a Damasco dal futuro presidente iracheno Jalal Talabani. Una coalizione di marxisti-leninisti, maoisti e nazionalisti si riunirono con l’impegno preciso di combattere il regime baathista in Iraq e di sfidare l’arretratezza del tribalismo curdo, creando una società curda, socialista e democratica. Il nome specificava l’obiettivo “del diritto all’autodeterminazione del Kurdistan”, un’eredità del Movimento di liberazione curdo, che non intendeva chiedere solo l’autonomia per quella regione. Il Puk modificò anche la retorica del partito poiché si rivolse alla classe lavoratrice ispirandosi allo slogan marxista che invitava i lavoratori e gli oppressi a unirsi. La leadership di partito era giovane e proveniva da vari strati della società, anche con un alto grado di istruzione. Talabani era un leader pragmatico capace di tenere insieme i rivoluzionari più conservatori e i progressisti. Il Puk aveva principalmente tre anime: il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Kzp), un gruppo marxista-leninista attivo fin dagli inizi degli anni Settanta; la Linea generale, l’ala che riuniva alcuni capitribù e i conservatori; e il Movimento socialista del Kurdistan. 

Ispirato al maoismo, il Puk era il partito ideologico per tutti, nonché una forza armata notevole, ma adeguò la sua ideologia nel tempo, assecondando le varie potenze internazionali, e da antimperialista e antisionista alla fine degli anni Ottanta si avvicinò alle forze statunitensi.

In seguito alla nascita del Puk (anti-Kdp e anti-Barzani, considerati entrambi “traditori e conservatori”), il Kdp – i cui seguaci erano stati espulsi in Iran e i cui leader, come Barzani, erano rifugiati negli Stati Uniti o in Europa – si riorganizzò nella speranza di costituire un’opposizione. Alcuni membri annunciarono in un incontro tenutosi a Berlino una leadership pro tempore di Serkrdayeti Kati o Qiyada Muwaqata durante la diaspora. 

Presto iniziarono i contrasti tra la leadership pro tempore e il Puk, come proseguimento della rivalità tra il fronte di Talabani/Ahmed e quello di Mullah Mustafa Barzani, un conflitto noto in curdo come Jalali-Mullahi, e presente ancora oggi. Fino al fallimento della Rivoluzione Aylul, la politica interna curda e le rivalità non furono mai violente e con il partito più forte, il Kdp, che deteneva il controllo della politica curda e del Movimento di liberazione curdo, sarebbe stato facile spegnere ogni dissenso. Comunque sia Kdp che Puk, come anche altri partiti, istituirono una propria forza armata e la politica interna curda si trasformò in una cruenta guerra civile costellata persino da massacri. Molti partiti curdi si frammentarono a causa delle interferenze da parte dei governi regionali e di quello centrale iracheno. Il primo scontro armato tra il Puk e il Kdp accadde nel 1978 a Hakkâridove alcuni leader del Puk persero la vita. Molti membri di questo partito furono uccisi durante gli scontri e nonostante il Kdp godesse del sostegno iraniano e il Puk di quello del regime di Hafiz al-Assad, il Puk non fu capace di trarne profitto a causa di questioni di confine. La forza del Puk infatti era concentrata sulle aree di confine con l’Iran a Sulaymaniyya e a nordest di Erbil, cosa che aveva reso difficile far giungere le armi dalla Siria. In quel periodo il Puk subì una spaccatura che si rivelò un vero disastro per il partito, anche se questo non bastò a indebolirlo. All’inizio degli anni Ottanta il Puk considerava impossibile una negoziazione con il regime per risolvere la questione curda in Iraq, ma in seguito ammorbidì la propria posizione e accettò di trattare un accordo in cambio dell’autonomia nella Kri. Il regime di Saddam si era indebolito a causa della guerra Iran-Iraq e, auspicando una tregua, invocò la pace con i curdi. I negoziati partirono ma furono di poco conto. La guerra tra il Puk e il regime iracheno questa volta risultò più sanguinaria: dopo un anno dall’interruzione dei negoziati, l’Iran era sempre più addentro alla questione curda ed era riuscito a portare tutti i partiti sotto l’ombrello del Fronte del Kurdistan (7 maggio 1988). Il Puk era il partito più potente tra gli otto del Fronte. 

Le tribù curde si erano suddivise tra Kdp e Puk ed erano state distribuite posizioni di potere e ad alto livello all’interno del partito e del governo; l’organizzazione in forma di partito era funzionale alla gestione delle questioni sociali e tribali e proprio per questo i due partiti sono sempre stati più forti degli organi giurisdizionali.

Talvolta i capitribù che avevano rifiutato il completo appoggio a un partito politico ne hanno pagato le estreme conseguenze: i partiti hanno sempre usato la retorica nazionalista per accusare qualche rivale di tradimento e giustificarne così l’esecuzione. Durante la guerra civile nel 1996 Masoud Barzani (del Kdp) accusò Hussein Agha Surchi, leader della tribù Surchi, di collaborare con Saddam e con il Puk; questa accusa emerse quando Barzani temette il rafforzamento del rivale. Alla fine, nel 1996, un manipolo del Kdp attaccò la sua casa uccidendo lui e parecchi suoi uomini. Questo spinse gli altri superstiti leader tribali e centinaia di Surchi a sostenere il Puk nella lotta contro il Kdp.

Il bottino del ladro di Baghdad: l’operazione Anfal di Saddam

Alla fine degli anni Settanta, i gruppi rivoluzionari curdi si erano riorganizzati. Il Puk, il Partito socialdemocratico, il Partito comunista, e diversi gruppi minori si unirono nella resistenza contro il regime iracheno che in risposta deportò popolazioni dalle montagne, distruggendo quasi 4000 villaggi che fornivano appoggio logistico, cibo, intelligence e braccia per la rivoluzione. Interruppe i collegamenti e bombardò le strade che portavano ai villaggi nella speranza di ostacolare la lotta armata. Durante la guerra Iran-Iraq il Kdp si avvicinò al regime iraniano, mossa che portò al coinvolgimento curdo nel conflitto. Nel 1983, il Kdp aiutò l’esercito iraniano a guadagnare terreno nella parte settentrionale dell’Iraq a Haji Omaran, dove l’Iraq aveva contrattaccato in modo disumano massacrando oltre 4000 persone della tribù Barzani, gente innocente che viveva nei campi di concentramento (fonti ufficiali curde parlano di 8000 vittime), deportata lì dai villaggi al tempo della resistenza e della rivolta, nella speranza di sterminarli. Questo massacro segnò l’inizio di una serie di stermini noto come Anfal (il bottino). Sebbene il Partito baath iracheno non fosse di matrice islamica, egli utilizzò il nome di un versetto del Corano noto come Anfal per giustificare i suoi crimini e il clima di terrore e per ingannare il mondo arabo e musulmano facendo credere che i curdi sostenessero gli sciiti iraniani. 

Nello sforzo sistematico di annientare la resistenza curda alla metà e alla fine degli anni Ottanta, il regime iracheno sotto la guida diretta di Ali Hassan al-Majid, noto come Ali il ‘Chimico’ in Kurdistan, dal 1987 al 1989 utilizzò tutti i mezzi possibili per terrorizzare e distruggere la resistenza curda e massacrò oltre 50 000 (fonti curde ufficiali dicono addirittura 182 000) uomini, donne e bambini innocenti, a Garmiyan. Vale la pena ricordare che i partiti curdi avrebbero dovuto evitare ogni coinvolgimento diretto con le forze iraniane perché sapevano per esperienza cosa Saddam sarebbe stato capace di fare, cioè massacrare anche i civili. Saddam Hussein avrebbe giustificato l’ostilità curda come un atto di lesa maestà. I partiti curdi avevano già sperimentato l’ostilità del regime, almeno avrebbero dovuto imparare la lezione o quantomeno tenere segreta la collaborazione. 

I crimini iracheni raggiunsero l’apice quando il 16 marzo 1988 fu attaccata la città di Halabja sul confine Iran-Iraq nella provincia di Sulaymaniyya. L’Iran avanzava sulla città con l’aiuto dei peshmerga curdi, per tutta risposta il regime iracheno commise il crimine più barbaro e orrido della storia dell’Iraq quando Ali Hassan al-Majid, d’accordo con Saddam Hussein, ordinò l’utilizzo di armi chimiche per avvelenare la gente di Halabja. In una sola ora 5000 uomini, donne e bambini innocenti morirono soffocati, lasciati soli nella città rasa al suolo; la maggior parte della popolazione dovette fuggire altrove nel paese o trovare rifugio in Iran, dove si dispersero molti bambini, alcuni dei quali, dopo essere stati adottati da famiglie iraniane, tornarono nella regione del Kurdistan. L’impatto dei gas velenosi sull’ambiente di Halabja è ancora presente oggi. 

Dopo la campagna Anfal, i rivoluzionari curdi vissero tempi bui perché la maggior parte dei villaggi fu distrutta e gran parte dei peshmerga furono uccisi o feriti; la guerra Iran-Iraq era finita dando al regime iracheno l’opportunità di affrontare i curdi in modo molto più efficace che se si fosse trattato di uno scontro esclusivamente tra i curdi e il raìs di Baghdad. 

Bagatelle per un genocidio: collaborazionismo Jash

I colpevoli dei bombardamenti chimici della campagna Anfal e di Halabja furono condotti davanti alle corti internazionali quando nel 2003 cadde il regime iracheno: alcuni criminali vennero protetti dal Kdp e dal Puk, altri scapparono all’estero. Gli eventi di Halabja e l’operazione Anfal sono stati riconosciuti come atti di genocidio dal Parlamento iracheno e dall’Alta Corte Penale irachena nel 2007. Il governo non aveva risarcito le vittime, né aveva porto le sue scuse ufficialmente. Nel frattempo i curdi avviarono una campagna internazionale per vedere riconosciuti i crimini del regime precedente come atti di genocidio che potenzialmente potevano incontrare la condanna di paesi come la Svezia, il Regno Unito, la Norvegia, la Corea del Sud e il Canada. Nel 2007 l’Alta Corte Penale ordinò indagini su 423 curdi e arabi iracheni ex baathisti sospettati di coinvolgimento nel genocidio dell’Anfal

Uno degli aspetti più tristi di questa campagna furono i baathisti curdi noti come la milizia Jash, traditori e mustashar (consulenti) collaborazionisti dell’esercito iracheno durante il genocidio. I capitribù curdi che collaboravano con le truppe irachene erano considerati traditori agli occhi dei rivoluzionari. Nonostante tutto, quando alla fine degli anni Ottanta si costituì il Fronte del Kurdistan, venne emanata un’amnistia per i leader e i membri della Jash nella speranza che appoggiassero l’insurrezione pianificata. Quando nel 1991 partì la rivolta, molti dei capi della Jash – cui era già stata concessa un’amnistia – voltarono le spalle al regime di Saddam Hussein, combattendo l’esercito iracheno e sostenendo i peshmerga, rivelandosi uno dei motivi del suo successo. Per quanto questa fosse una mossa vincente per i rivoltosi, presto i capi Jash ottennero nuove cariche e privilegi nei partiti curdi, soprattutto nel Kdp.

L’Alta Corte Penale processò i principali imputati dell’Anfal, Ali Hassan al-Majid fu impiccato nel gennaio 2010. L’ex comandante iracheno Sultan Hashim, uno dei principali comandanti della campagna che aveva persino dato il nome Anfal a sua figlia, fu condannato ma non giustiziato perché difeso dai sunniti: è in prigione, ma l’ex portavoce parlamentare iracheno Salim al-Juburi, che è un sunnita, ha provato a farlo rilasciare per anni, senza per ora riuscirci. 

Nel 2010, l’Alta Corte Penale emise dei mandati di cattura per 258 curdi membri del Partito baath per il loro coinvolgimento nell’infame campagna negli anni Ottanta, ma nessuno è stato ancora arrestato, a causa del sostegno tribale di cui Kdp e Puk possono beneficiare.

Alcuni dei capitribù collaborazionisti durante il genocidio erano rimasti a Baghdad fino al 2003. Alla caduta del regime si sono uniti al Kdp o al Puk. La lotta per il potere spinse i due partiti ad accogliere chiunque.

Per quanto i capitribù stessero perdendo poco per volta il loro potere dato che la nuova generazione e i nuovi movimenti civili e democratici cercavano di superare le politiche tribali, alle elezioni il Kdp e il Puk decisero di presentare figure tribali, in modo che le tribù si sarebbero schierate a sostegno dei loro candidati. Il Kdp ha ottenuto un largo successo nella tornata elettorale del 2013 a Dahuk, dove il partito elesse molte figure tribali perché i clan locali li sostennero.

Guerra e pace dopo Anfal…

Alcuni rivoluzionari curdi però non si scoraggiarono e proseguirono la loro attività: in quei giorni il Puk appariva come il partito più potente. Talabani era all’estero a fare proseliti per la causa curda in seguito al genocidio di Halabja e Nawshirwan Mustafa, all’epoca segretario dell’ala marxista e numero due del partito, riuscì a riorganizzare le forze peshmerga. Talabani fu molto efficace durante la sua permanenza negli Stati Uniti, soprattutto nell’incontro con gli ufficiali americani a Washington, fautori del peggioramento dei rapporti tra Usa e Iraq, durante il quale si stabilì un collegamento iniziale tra Puk e Stati Uniti. Kosrat Rasul, segretario generale del Puk giocò un ruolo fondamentale nella riorganizzazione dei peshmerga nella zona di Erbil. Inoltre il Kdp era meno presente nelle zone di confine e cercava anch’esso di riorganizzarsi attraverso il suo decimo Congresso in Iran in cui erano presenti oltre 300 membri del partito. 

… e di nuovo guerra: la rivolta che unisce. Kurdayetî

Il fallimento del Partito baath iracheno nella guerra Iran-Iraq spinse il regime a dichiarare una nuova guerra contro un vicino solo due anni più tardi: il Kuwait. Il paese fu invaso durante un’operazione di due giorni nell’agosto 1990 che portò a cambiamenti radicali nelle dinamiche della politica irachena: molte furono le sommosse nelle città del Sud a maggioranza sciita. E anche nella Kri, nel Nord dell’Iraq la popolazione iniziò a sollevarsi. Dapprima le sommosse erano architettate dal fronte curdo, in particolare dal Puk, sotto la guida di Nawshirwan Mustafa.

La rivolta scoppiò nel marzo 1991 nella città di Ranya per poi espandersi a Sulaymaniyya, Erbil, Dahuk e Kirkuk, fu uno dei maggiori successi del movimento Kurdayetî, e mostrò aspetti nascosti nel nazionalismo curdo quando il suo successo decretò l’inizio della sua fine: si trattava infatti di un movimento di liberazione e non di libertà, liberazione della terra e non libertà dell’uomo. Inoltre, il Kurdayetî era un movimento di lotta e resistenza, non prevedeva modalità alternative e fallì nel tentativo di portare un modello di vita e di governo diversi rispetto a quelli esistenti. Il Puk aveva promesso di «ricostruire e guidare la società curda secondo linee moderne e democratiche», ma aveva fallito. Inoltre, il Kdp non era mai andato oltre la sua struttura tribale. 

I curdi riuscirono a liberare quasi tutti i loro territori, ma presto furono cacciati da Kirkuk e si verificarono scontri feroci tra i pershmerga e l’esercito iracheno. Il 31 marzo 1991, l’esodo curdo verso i confini iraniani e turchi portò nelle zone limitrofe centinaia di migliaia di curdi terrorizzati dalla possibilità che il regime utilizzasse armi chimiche. Le vite di centinaia di migliaia di curdi erano in pericolo mortale, le strade bloccate, intere famiglie alla fame non avevano più acqua potabile e medicine e i neonati morivano di stenti, il freddo e la pioggia mettevano in pericolo la vita degli anziani nelle zone di montagna, molti perdevano la vita tornando verso i villaggi sui terreni minati e ci si poteva imbattere in cadaveri lungo le strade ai confini iraniani o turchi o in bambini sperduti di cui nessuno poteva prendersi cura. 

La rivolta curda del 5 marzo e l’esodo di massa, noto come Korraw, riunì il popolo e i partiti già furiosi per il sanguinoso antagonismo seguito al fallimento della Rivoluzione Aylul. 

Risoluzione Onu 688. La No-fly Zone

Per la prima volta, le Nazioni Unite presero una decisione importante in favore dei curdi iracheni: la Risoluzione 688 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Grazie alla comunità internazionale che reagì all’esodo di massa fornendo una No-fly Zone per proteggere i profughi dall’ostilità del regime iracheno istigata dagli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia (quest’ultima si ritirò nel 1998) assicurarono il controllo curdo su tre province: Dahuk, Erbil e Sulaymaniyya. La Risoluzione 688 fu adottata su richiesta di Francia, Iran e Turchia per mettere fine alla repressione nel Kurdistan iracheno e la No-fly Zone diventò operativa perché Saddam Hussein non si attenne mai alle indicazioni dell’Onu. 

La Risoluzione fu una delle più importanti a influenzare il futuro dei curdi in Iraq e portò alla No-fly Zone, anche se nel programma non se ne faceva menzione esplicita: «Si condanna la repressione della popolazione civile curda in molte zone dell’Iraq, comprese molte aree popolate recentemente dai curdi, con conseguente minaccia della pace e della sicurezza internazionale nella regione» e «si richiede al Segretario generale di perseguire sforzi umanitari in Iraq per agire prontamente – in caso si ritenga appropriato, con una ulteriore missione nella regione – sulla questione che riguarda la popolazione civile irachena, in particolare quella curda, che subisce repressione in tutte le sue forme da parte delle autorità irachene»; e inoltre: «Si richiede all’Iraq, come contributo per rimuovere la minaccia alla pace internazionale e alla sicurezza della regione, di porre fine immediatamente alla repressione, e allo stesso tempo si auspica una ripresa del dialogo per assicurare che i diritti umani e politici dei cittadini iracheni siano rispettati».

Nuove speranze per il nuovo Kurdistan 

Dopo la Risoluzione dell’Onu e l’istituzione della No-fly Zone, il nazionalismo e la politica curda entrarono in una fase in cui le speranze per un nuovo Kurdistan e una nuova società arrivarono al culmine. Dato che i curdi per la prima volta godevano di una parentesi di pace gli intellettuali iniziarono a tenere seminari e convegni in cui si discuteva di democrazia e la società civile si organizzò. Celebrazioni e festeggiamenti si tenevano ovunque così come discussioni e dibattiti sul futuro della Regione del Kurdistan. I media curdi iniziarono a spuntare come funghi; si tenevano marce e dimostrazioni a sostegno dei partiti politici, e si organizzavano scioperi e proteste. Gruppi di lavoratori, contadini, studenti e intellettuali iniziarono a strutturare la società civile, dando vita a comuni in cui si risolvevano questioni sociali, politiche ed economiche, comprese quelle relative alla sicurezza. Fondi della comunità internazionale giungevano nella regione, migliaia di persone deportate alla fine degli anni Settanta e a metà degli Ottanta ritornarono nelle proprie terre d’origine. Migliaia di villaggi furono ricostruiti e la gente tornò a coltivare nelle zone in cui era proibito da anni. Molta gente che si era rifugiata in Iran dopo il fallimento della Rivoluzione Aylul tornò nella Kri. Insegnanti volontari aprirono scuole e per la prima volta quasi tutti gli istituti tornarono a insegnare ai bambini in lingua curda. Riaprì l’università di Salahaddin. Grazie a un movimento senza precedenti furono fondate le università di Sulaymaniyya e Dahuk. Poco dopo il successo della Rivolta, nella Regione del Kurdistan per la prima volta si tennero delle elezioni e – anche se con qualche limite – queste portarono alla fondazione del primo parlamento e governo del Kurdistan. Questi momenti pieni di speranza vennero presto scippati dal Kdp e dal Puk quando iniziarono a fare razzia dei progetti del vecchio regime, come accadde per la diga di Bekhme, il grande progetto per l’energia idrica, in costruzione quando l’amministrazione irachena si ritirò dalla Regione. Purtroppo molta gente comune si unì al saccheggio. Il Kdp e il Puk fermarono la ricostruzione, l’attrezzatura elettrica e industriale fu inviata in Iran e Turchia, svenduta a prezzi scontati, e questo permise loro di mantenere il controllo dell’energia. 

1992, le prime elezioni libere per il parlamento curdo 

Nonostante i suoi limiti e gli oppositori dei valori della rivoluzione da parte dei due principali partiti all’inizio degli anni Novanta, alcune storiche conquiste diedero inizio a un nuovo corso storico. Per la prima volta dopo decenni di guerra, il popolo curdo stabilì il primo governo autonomo e un parlamento. Dopo aver superato alcune sfide, i partiti confluiti nel Fronte del Kurdistan iracheno (Ikf) raggiunsero un accordo sulla data delle elezioni del parlamento che si tennero il 19 maggio 1992, giorno in cui le coalizioni e le varie liste elettorali gareggiarono per superare la soglia del 7 per cento ed entrare nel parlamento curdo. Si trattava comunque della prima esperienza democratica dopo anni di oppressione e repressione: era prevedibile che si verificassero dei brogli. Le elezioni erano comunque una novità, non solo per l’Iraq, ma per molti paesi della regione. La prima esperienza di democrazia in una società postbellica tra conflitti e rivolte costituiva una vittoria in sé.

Il Puk era il favorito perché era il partito più forte con una milizia efficiente e una base sociale organizzata, ma fu il Kdp a vincere le elezioni. Le frodi elettorali riguardavano entrambi i partiti. A parte il Kdp (45,3% e 51 seggi) e il Puk (43,8% e 49 seggi), nessuno degli altri partiti politici riuscì a superare lo sbarramento, anche se si era previsto che fosse alla portata del Movimento islamico curdo (Kim, noto come Bizutnewe, 5,1%) e del Partito socialista curdo (2,6%); il Partito comunista del Kurdistan (2,2%) e il Partito popolare democratico del Kurdistan (1,0%) completarono la débâcle democratica.

Il Puk contestò i risultati accusando il Kdp di aver manipolato i voti, reato che ovviamente avevano commesso entrambi. Alla fine i due partiti si misero d’accordo per dividersi i seggi e le cariche parlamentari equamente. Stranamente il primo parlamento e il primo governo curdi erano composti solo da dirigenti del Kdp e del Puk e soprattutto da coloro che non avevano esperienza di governo perché avevano passato la loro esistenza a combattere contro il regime sulle montagne. Il portavoce parlamentare fu assegnato al Kdp e il primo ministro al Puk. 

Jawhar Namiq Salim, il Segretario dell’Ufficio politico del Kdp, fu eletto il 4 giugno 1992 portavoce del Parlamento curdo e Fuad Masum, membro del Consiglio direttivo del Puk, divenne primo ministro del Kurdistan. Dopo un anno, il Puk rimpiazzò Fuad Masum con Kosrat Rasul Ali; Fuad Masum è stato presidente dell’Iraq fino all’ottobre 2018 e Kosrat Rasul Ali è l’ex vicepresidente della Regione del Kurdistan facente funzione di segretario generale del Puk. Il Puk si attivò per rinsaldare ulteriormente la sua forza militare mentre Rasul era un capo peshmerga senza esperienza di governo.

Guerra civile sanguinosa: tutti contro tutti e una mano lava l’altra 

La prima decisione del Parlamento curdo che improntò al peggio la politica curda fu quella che incoraggiò la Turchia a combattere il Partito curdo dei lavoratori (Pkk) nell’ottobre 1993. Il Pkk aveva incominciato ad aprire sedi in molte città curde, soprattutto a Erbil. Possedeva mezzi di comunicazione molto efficaci e una classe dirigente cresciuta nell’ideologia di Öcalan, a differenza di quelle del Kdp e del Puk che non seguivano un’ideologia specifica. I giovani curdi seguaci del Pkk avevano fatto sì che Kdp e Puk temessero un aumento di consenso per il movimento di Öcalan. D’altro canto, la guerra tra Pkk e Turchia era al culmine e quest’ultima era a caccia dei membri del Pkk in tutto il mondo. Il neonato governo regionale del Kurdistan (Krg) era molto vulnerabile ed economicamente, militarmente e politicamente debole; la Turchia e l’Iran trassero ulteriore vantaggio dai due partiti principali perché temevano che la fondazione della Kri potesse fungere da ispirazione per i fratelli curdi in cerca di autonomia che abitavano nei loro territori. La fondazione della Kri e il ritiro dell’amministrazione curda da Erbil, Dahuk e Sulaymaniyya aprì le porte all’interferenza turca e iraniana nella politica curda e spostò l’attenzione dai campi di battaglia alla lotta contro i gruppi dell’opposizione in Iran e Turchia, al contrario di quanto accadeva durante il regime di Saddam Hussein, il quale stava sostenendo i partiti di opposizione curdo-iraniani, non il Pkk, perché tra quest’ultimo e il regime di Hafiz al-Assad correva buon sangue finché, come visto, il leader del Pkk non fu messo alla porta dal regime di Damasco. 

Vale la pena menzionare che con l’istituzione della Federazione per la regione curda dell’Iraq si sperava di attirare il consenso dei curdi presenti in altre regioni, e così i curdi iraniani furono obbligati a deporre le armi e stabilirsi in campi residenziali all’interno della Kri. A partire dal 1991 fino a oggi, centinaia di membri e dirigenti dell’opposizione curdo-iraniana sono stati assassinati all’interno della Kri dal regime iraniano, come ricordato nell’Introduzione. 

I partiti curdi iraniani furono estremamente influenzati dai cambiamenti nelle dinamiche e nella politica della regione. Durante la guerra Iran-Iraq (1982-1988), i partiti curdi beneficiarono dell’ostilità tra i due paesi, avvantaggiandosi della guerra per costruire solidi legami con l’ex regime baathista in Iraq. Non solo, ma operarono liberamente sulle zone di confine stabilendo lì le proprie basi. Partiti e leadership avevano anche sedi e campi militari all’interno delle città irachene. Quando la guerra finì la situazione si aggravò per i partiti curdo-iraniani a causa dell’allentarsi del sostegno iracheno. Nel frattempo, l’avvicinamento promosso dalla Kri dei curdi iracheni divenne una minaccia incombente sui curdi d’Iran. 

Il Kdpi e altre forze politiche curde si ritirarono, forse è più preciso dire che furono forzate a farlo, dalle montagne sul confine Iran-Iraq (principalmente nelle zone ora sotto il controllo del Pkk) per poi essere ricollocate in vari campi di residenza a Erbil e Sulaymaniyya. Accettarono di deporre le armi perché l’Iran minacciò il Governo regionale del Kurdistan iracheno di prendere provvedimenti contro i due partiti nella Kri. Per fare pressione sia sui curdi iracheni sia sui partiti curdi iraniani, l’Iran condusse una campagna repressiva per eliminare gli attivisti politici e i quadri di partito. I partiti curdi iraniani non ebbero scelta e deposero le armi. Sebbene non tutti fossero d’accordo i membri di questi partiti lo fecero e si rifugiarono nei campi di residenza nel Kurdistan iracheno, e chiamarono questa ritirata kempnišîniî, che letteralmente significa “residenza nei campi”.

Era l’inizio della fine della lotta armata che portò al distacco dalla lotta organizzata in Iran e allo sviluppo ideologico. Da allora, i partiti curdi iraniani furono spazzati via dalla lotta armata, da quella diplomatica, organizzata e ideologica contro la repubblica islamica dell’Iran. Il periodo dei kempnišîniî iniziò nel 1993 e continua ancora oggi, ed è considerato dai curdi di quell’area il peggiore nella storia della zona iraniana del Kurdistan, come vedremo nell’ultima parte del volume. Inoltre, il Puk stava tentando di guadagnarsi l’aiuto di Teheran che lo portò a sostenere l’attacco iraniano agli insediamenti del Kdpi a Koya il 29 luglio 1996. Si trattava dell’inizio del cambiamento delle alleanze regionali per il Kdp e il Puk, che si stava sempre più avvicinando all’Iran, mentre il Kdp propendeva per Iraq e Turchia. Le strategie geopolitiche di Sulaymaniyya portarono il Puk all’interno del blocco iraniano e quelle di Erbil e Dahuk avvicinarono il Kdp alla Turchia. Come allora l’Iran è tornato a colpire il 7 settembre 2018 il Kdpi a Koya, uccidendo 15 esponenti, così perseguendo lo stesso scopo di eliminazione fisica, ma stavolta Turchia e Iran non sono contrapposti. 

Man mano che il legame si indeboliva, progressivamente i partiti curdi iraniani dipendevano sempre più dai curdi iracheni, fino a seguire gli interessi di questi ultimi: il Partito per la libertà del Kurdistan (Pak), fondato nel 1991 e guidato da Hussein Yazdanpana, pareva più un’unità affiliata a Masoud Barzani piuttosto che un partito che combatteva per i diritti dei curdi in Iran. 

Il Kdp e il Puk subivano la pressione dell’Iran per forzare i partiti di opposizione curdo-iraniani a deporre le armi, e in seguito furono incoraggiati dalla Turchia a combattere il Pkk. Data la sua forza e l’esistenza di alcune sedi nella Kri, e i dirigenti che lavoravano all’interno della Federazione (essendo quindi cittadini della Regione del Kurdistan iracheno), il Pkk rifiutò di cedere alle richieste delle due fazioni irachene. All’inizio Talabani aveva giocato un ruolo fondamentale per avviare i primi contatti tra il Pkk e il primo ministro turco Turgut Özal che fu il primo a riconoscere pubblicamente l’esistenza dei curdi dopo la fondazione della repubblica turca – come detto nella parte del volume dedicata ai curdi di Turchia. 

Talabani era in buoni rapporti con Öcalan, che allora viveva a Damasco, e aveva convinto Özal a intavolare negoziati di pace con i curdi. Per la prima volta nella storia della guerra tra Turchia e Pkk, quest’ultimo annunciò un cessate il fuoco alcuni giorni prima della morte di Özal. Talabani aveva detto a Öcalan che il primo ministro turco era davvero intenzionato a risolvere la questione curda, anche se non era riuscito a convincere lo stato, l’esercito e persino il partito di proseguire nel processo di pace. 

La Turchia sostenne la coalizione guidata dagli Stati Uniti per utilizzare la base di İncirlik per colpire l’Iraq, nella speranza che i curdi iracheni non stabilissero un governo proprio, temendo una divisione dell’Iraq o il desiderio di autonomia dei curdi turchi. Intanto Ankara teneva d’occhio Mosul, visto che la considerava parte dell’Impero Ottomano. Allo stesso modo l’Iran era interessato all’Iraq e a qualsiasi forza in grado di indebolire il potere del suo storico nemico, inoltre Teheran riteneva che i curdi iracheni non dovevano spingersi oltre il governo locale, ai fini del mantenimento dell’integrità dello stato iracheno e dei suoi confini, aspetto così importante per un paese sciita che ha a sua volta una minoranza curda. 

Il neonato Governo regionale del Kurdistan iracheno non riuscì ad aprire a tutti e la sua vulnerabilità diede una mano ai partiti a consolidare ancora di più il loro potere. La lotta per il potere tra i partiti curdi stava portando la Regione del Kurdistan verso un futuro oscuro. Ogni partito aveva la sua forza militare, e tentava di consolidare il potere attraverso il finanziamento della propria milizia con mezzi illegali, o ricevendo fondi regionali, cioè dalla Turchia, dall’Iran e dai paesi sunniti del Golfo. Il tentativo non riuscito della Krg di formare un esercito peshmerga unico, rafforzò le milizie che divennero più forti della polizia regionale.

Sebbene il segretario del Puk, il generale Jalal Talabani, avesse annunciato molte volte che i conflitti interni curdi sarebbero finiti e non ci sarebbero più state lotte fratricide, il 20 dicembre 1993, iniziò un’altra fase della guerra civile curda tra il Puk e il Movimento islamico curdo (Kim). Il Puk si considerava il partito legittimo per governare la Kri grazie alla sua potente forza militare e al fatto che aveva organizzato la rivolta che portò alla liberazione della Kri. Comunque, la lotta interna tra Puk e Kim indebolì il primo mentre il secondo fu obbligato ad allearsi con il Kdp in previsione di conflitti futuri. Poiché il Kim era molto più piccolo del Puk questa volta la guerra civile non si estese a tutta la Kri. 

Il Primo Maggio 1994 scoppiò la prima ondata di guerra civile curda con uno scontro tra Kdp e Puk; questi due partiti storicamente si erano sempre combattuti e avevano lottato anche prima del 1991 per il controllo del Movimento di liberazione curdo: ideologicamente lontani, il più profondo motivo di disaccordo successivo al 1991 fu il controllo delle risorse, in special modo le entrate del passaggio di frontiera di Ibrahim Khalil con la Turchia. Il Kdp aveva scelto Dahuk come roccaforte per molte ragioni, e dato che la famiglia di Barzani era di dialetto bahdinai, essi trovarono supporto proprio qui; il presidio del Puk era invece, per altrettante buone ragioni, Sulaymaniyya, dove si parlava il dialetto sorani, la lingua di Talabani. Nella storia moderna questa divisione appartiene ai giorni del conflitto tra l’ala di Talabani e Ibrahim Ahmad nell’Ufficio politico del Kdp e quella di Mullah Mustafa Barzani nella Rivoluzione Aylul. 

Questa lotta interna fu sanguinosa, morirono molte persone e molti furono i feriti, migliaia gli sfollati. La prima fase si compì il 29 agosto 1994 ma la faccenda non finì lì perché la questione non era ideologica ma piuttosto un tentativo di egemonizzare la società curda, il suo popolo e la sua economia. 

Delirio egemonico, divisione amministrativa e controllo straniero

La scissione del 1996: scontro tra clan

Nel dicembre 1994 riprese lo scontro Puk/Kdp e raggiunse il suo picco il 31 agosto 1996 quando il Kdp ricorse a Saddam per riprendersi Erbil dopo che il Puk l’aveva cacciato dalla città; il Puk era ormai vicino alla vittoria ed era subentrato al Kdp pochi giorni prima e allora Barzani stipulò un accordo segreto con il regime iracheno. Fu l’inizio di una nuova epoca storica nella politica curda e fino a oggi la Kri non è riuscita ancora a guarire dalle ferite di quei giorni. Da allora il Kdp si considera l’unico potere presente nella Kri.

Il 31 agosto 1996 si verificò infatti la prima vera scissione nella storia dei curdi, secondo una suddivisione che seguiva quella dei paesi della regione, e dopo quella data qualsiasi evento della politica curda che in passato si sarebbe cercato di evitare divenne la normalità; formare un’alleanza con il regime baathista che aveva commesso le atrocità del genocidio solo otto anni prima può essere considerato l’atto più vergognoso della storia curda. 

L’agosto 1996 cambiò le dinamiche politiche e gli equilibri della Kri; il Kdp spinse il Puk in Iran e questi dopo 40 giorni ritornò, ma senza riuscire a riprendersi Erbil a causa di pressioni esterne. La capitale della Kri, Erbil, passò sotto il controllo del Kdp e Sulaymaniyya cadde sotto l’ala del Puk. La Kri era così divisa amministrativamente in due: il governo Krg-Sulaymaniyya e quello Krg – Erbil e Dahuk. 

Gli scontri tra Kdp e Puk si fermarono, e ripresero quelli tra Puk e Kim a Halabja nell’aprile 1997 finché l’Iran trovò un accordo tra le parti, il Kim si unì al Puk nel governo di Sulaymaniyya e venne cacciato da quello di Erbil. 

Nonostante l’interruzione delle ostilità, non era stato raggiunto un vero accordo. Il Puk e il Pkk si organizzarono insieme per attaccare il Kdp nell’ottobre 1997 e questa volta, insieme, erano abbastanza forti da sconfiggerlo, mentre il Kdp sfruttò l’alleanza dei suoi nemici per invitare la Turchia ad attaccarli: il Kdp, aiutato dall’esercito, dall’aviazione e dai carri armati turchi riuscì a sconfiggere il Puk. 

Arrivano gli yankee 

Nel settembre 1998 il Congresso degli Stati Uniti varò l’Atto di liberazione dell’Iraq che dichiara «dovrebbe essere compito degli Stati Uniti cercare di rimuovere il regime di Saddam Hussein dal potere in Iraq e rimpiazzarlo con un governo democratico» e «autorizza il presidente, dopo la ratifica dei comitati preposti, a fornire alle organizzazioni dell’opposizione democratica irachena: 1) assistenza radiofonica e televisiva; 2) il dipartimento della Difesa (Dod) volto a garantire attrezzature e servizi e un’educazione e un addestramento militare (Imet); e 3) assistenza sanitaria, con particolare attenzione ai bisogni delle persone che siano confluite nei territori sotto il controllo del regime di Saddam Hussein. Inoltre proibisce il sostegno a qualsiasi gruppo o organizzazione che sia impegnata in una collaborazione militare con il regime e autorizza stanziamenti». 

L’Atto di liberazione dell’Iraq spinse gli Stati Uniti a cercare gli attori della politica locale, e i più importanti erano i curdi (per via delle zone da loro liberate dalle milizie) e all’interno dei curdi, il Kdp e il Puk, che stavano perdendo energie in lotte intestine e scontri per il potere. Gli Stati Uniti tentarono una mediazione tra i due partiti e invitarono Barzani e Talabani a firmare gli Accordi di Washington. Vedendo la segretaria di stato Madeleine Albright presentare i due leader mentre si stringevano la mano sorridenti le speranze dei curdi rinacquero. Inoltre, nel 1996 era stato varato l’Oil-for-Food Program delle Nazioni Unite e i primi invii di derrate erano giunti nel marzo 1997, l’anno seguente il livello della qualità della vita era quindi ormai quasi normale. Il Kdp e il Puk ricevettero finanziamenti dagli Stati Uniti, perciò abbandonarono la rivalità per combattere non più solo per i propri interessi e gli Accordi di Washington permettevano di condividere potere e entrate economiche. Con il fine di destituire il regime iracheno, gli Stati Uniti entrarono sempre più nella politica curda in modo tale da spostare l’attenzione sull’Iraq e meno sulle lotte interne curde, quelle che invece stavano fornendo opportunità alla Turchia, all’Iraq e all’Iran di sfruttare i partiti curdi e indebolire le strategie statunitensi in Iraq.

La “discrezione” turca nella regione

La Peace monitoring force (Pmf), un contingente guidato dalla Turchia, promuoveva una tregua tra Kdp e Puk fin dal 1997, guadagnandosi nel tempo un’opportunità di rinforzare la sua influenza nella regione curda. Per la Turchia il controllo di quell’area era strategico al fine di indebolire il Pkk. Sebbene il Pmf fosse solo una forza di osservazione fungeva anche da agente turco nella Kri e lasciò l’area subito dopo la caduta del regime iracheno mentre l’esercito turco vi si insediava, in particolare nella zona controllata dal Kdp; da Zakho a Soran, l’intera catena montuosa al confine con Iran e Turchia era sotto il controllo del Pkk. Il dispiegamento di forze turche non si fermò e attualmente sono presenti una ventina di basi militari nei territori del Kurdistan controllati dal Kdp. Mentre mandiamo in stampa il volume gli scontri nell’area montagnosa di Bradost continuano in particolare sul monte Chyadel a ridosso del confine tra Iraq, Iran e Turchia.

Le lotte intestine tra Kdp e Puk terminarono e il Puk attraversò un momento di cambiamento. Il Kim si divise in due fazioni, un gruppo islamico radicale noto come Ansar al-Islam stabilì la sua base nella zona di Hawraman e il 5 dicembre 2001 gli scontri raggiunsero il culmine; nel 2003 gli Stati Uniti eliminarono questo gruppo durante il processo di liberazione/invasione dell’Iraq. 

Nel 2002 il Puk iniziò a normalizzare i rapporti con la Turchia permettendole di manipolarlo incoraggiando lo scontro con il Pkk. Le ostilità tra Pkk e Puk durarono settimane fino a che il Pkk si ritirò dopo una importante sconfitta ma a quel punto la Turchia non aveva più motivo di fornire il suo sostegno al Puk perché la zona sotto il suo controllo non era strategica per lei, mentre il Kdp costituiva un alleato più affidabile. 

Secondo fonti non ufficiali, durante la Guerra civile degli anni Novanta scomparvero 400 persone, molti prigionieri di guerra furono giustiziati e le perdite furono circa 12 000 su ambo i fronti, e migliaia i profughi, alcuni dei quali sono riusciti a rientrare nelle loro terre d’origine solo ultimamente. 

L’intervento della coalizione in Iraq e lo sviluppo della regione curda

Nel 2002, gli Stati Uniti avevano deciso che il regime iracheno doveva cadere e avevano bisogno dei partiti curdi, che giocavano un ruolo essenziale nell’opposizione al regime in Iraq, possedendo forti milizie e controllando i territori. La rivalità tra i due partiti non si era ancora spenta e il parlamento curdo non si era ancora reinsediato come prescrivevano gli Accordi di Washington. È interessante notare come gli Stati Uniti spingessero entrambe le parti verso una negoziazione che iniziò ai primi di settembre 2002 proprio con la mediazione americana. Un mese dopo, il 4 ottobre 2002, il parlamento curdo tenne la sua prima seduta dopo diversi anni di inattività. 

I curdi diedero il loro contributo nella ricostruzione dell’Iraq e i partiti curdi evitarono ogni divisione settaria mantenendo l’equilibrio tra sunniti e sciiti, aspetto che fornì un ruolo chiave alla leadership curda, in particolare a Talabani, che si rese mediatore dei vari conflitti interni iracheni. Il negoziato tra i gruppi dell’opposizione si concluse positivamente e guadagnò il consenso del sistema federale iracheno. Gli Stati Uniti installarono la Coalition Provisional Authority nel 2003 in seguito alla Fondazione del Consiglio di governo iracheno che avvenne nello stesso anno. I capi di governo si alternavano tra i vari leader iracheni, due dei quali curdi: Jalal Talabani e Masoud Barzani. Il Governo regionale del Kurdistan iracheno (Krg) fu riconosciuto come entità federale. 

In occasione delle elezioni del 2005, i partiti curdi si presentarono per entrare in parlamento con una lista congiunta che si guadagnò 75 seggi su 275. Si tennero anche le elezioni nella Kri e la coalizione Puk-Kdp prese il 90 per cento dei voti, con 104 seggi su 111.

La Regione del Kurdistan iniziò a svilupparsi nel 2003, grazie ai miliardi del petrolio iracheno e agli stanziamenti internazionali, acquistò stabilità mentre le città irachene tendevano all’instabilità. 

Gli Stati Uniti tenevano in gran conto la Kri per diversi motivi; la Regione del Kurdistan era l’unica zona stabile in Iraq in cui i soldati americani venivano accolti calorosamente e non a suon di pallottole, i media internazionali mostravano che la caduta del regime era importante: i curdi del Nord dell’Iraq dopo anni di oppressione stavano sviluppando la loro democrazia che avrebbe potuto fare da modello per l’intera regione. Gli Stati Uniti avevano bisogno dei partiti curdi per controbilanciare l’influenza iraniana a Baghdad, la Kri divenne un luogo sicuro per le missioni americane e i curdi erano abili a mediare le rivalità irachene tanto che i primi ministri iracheni avevano bisogno dell’avallo curdo, e dopo tutto, si supponeva che la Kri possedesse una riserva di barili di petrolio per 45 miliardi e 8000-10 000 miliardi di metri cubi di gas naturale: questi numeri ponevano la Kri all’ottavo posto nella classifica delle riserve mondiali di petrolio e gas naturale. Gli Stati Uniti dovettero confrontarsi con la resistenza di diversi gruppi iracheni, tra cui le forze sciite, ma la Kri sosteneva in ogni modo gli americani per rafforzare il legame che li univa. 

Nel 2006, le amministrazioni di Sulaymaniyya ed Erbil si unirono dando luogo a un nuovo Krg, e oltre al governo esistente la regione curda diede vita alla Presidenza della Regione del Kurdistan. Il Kdp e il Puk si spartirono equamente Erbil e Baghdad, e mentre Jalal Talabani divenne il presidente iracheno, Masoud Barzani governò l’entità politica regionale curda; i primi ministri si sarebbero alternati ogni due anni tra di loro secondo il cosiddetto Accordo Strategico firmato nel 2005, un’estensione degli Accordi di Washington. La condivisione del potere tra Kdp e Puk rese i due partiti più forti agli occhi del popolo, ora che avevano deciso di guidare l’Iraq insieme e di partecipare alle elezioni nella Kri con liste congiunte che, in assenza di un vero partito di opposizione, avrebbero vinto con la maggioranza dei voti. 

Dal 1993 al 2003, la Kri attraversò un periodo di blocco internazionale, un blocco dell’Iraq, una guerra civile, una divisione dei territori, e il 2003 segnò l’inizio di un nuovo periodo storico per la società curda, per i movimenti civili, i media, l’istruzione, la crescita economica e dopotutto anche per le trivellazioni, la produzione e l’esportazione del petrolio e del gas che cambiò il corso della storia curda. 

Dopo il 2003: Proteste, riforme mancate e repressione

Tra il 2003 e il 2009 i media liberi curdi erano diventati potenti, la società civile in questo periodo fu molto incisiva. I tre mezzi di comunicazione indipendenti nella Kri – i quotidiani “Hawlati”, “Awene” e “Lvin” – insieme a pochi altri, mettevano alla prova la politica, la storia e il governo curdi. Le proteste studentesche durante questo periodo si susseguirono ad altre in cui i dimostranti chiedevano democrazia, servizi pubblici, giustizia e l’eliminazione della corruzione. Sfortunatamente, il Kdp e il Puk sedarono ogni protesta, facendo vittime. E l’influenza dei media liberi era così forte da arrivare all’omicidio dei giornalisti Soran Mama Hama, nel 2007 a Kirkuk, Sardasht Othman nel 2010 a Erbil, Kawa Garmyani nel 2013 a Kalar, e Wedat Hussein a Dahuk nel 2016. 

Nel 2006 il deputato della Segreteria generale del Puk Nawshirwan Mustafa diede le dimissioni quando il Puk non rese effettive le riforme politiche, economiche, militari, della comunicazione e delle relazioni internazionali per cui Mustafa lottava. Fondò così la Wusha (World Publishing Corporation), un giornale, e la Tv satellitare Knn. Il 25 luglio 2009, Nawshirwan Mustafa annunciò la fondazione del suo Movimento del cambiamento (Gorran) come lista elettorale in corsa per le elezioni e vinse 25 seggi su 111 nel Parlamento curdo, conferendo maggiori speranze di democratizzazione. 

Le aspettative della gente erano molto alte, e mentre la Krg stava guidando il paese verso un modello di stato autoritario petrolifero simile agli Emirati, i due partiti di governo controllavano ogni cosa: dalle moschee ai pozzi di petrolio, c’era chi si chiedeva se mantenere l’opposizione interna al sistema o scendere in piazza. Il 2011 vide la nascita della Primavera araba e la società curda aveva già assistito a diverse proteste. Il 17 febbraio 2011, i dimostranti curdi si riunirono a Sulaymanyya in sostegno alla rivoluzione egiziana. Ben presto tutto questo si trasformò in una protesta contro l’élite al potere e chiedeva un rinnovamento del sistema politico. Nel giro di 64 giorni, ci furono 10 morti e 500 feriti, centinaia di persone furono rapite e torturare nelle prigioni di Kdp e Puk. 

I due partiti governativi sconfissero ogni opposizione e i media internazionali, i paesi europei e gli Stati Uniti chiusero un occhio perché la Kri costituiva ancora un avamposto stabile in Iraq quando non erano ancora chiari gli sviluppi della Primavera araba. Turchia e Iran avevano anche sviluppato il proprio legame economico e politico con il Kdp e il Puk e un cambiamento di governo non avrebbe giovato ai loro interessi; il governo iracheno si era disfatto dei dimostranti curdi che non ebbero altra alternativa che sospendere le proteste. 

Frags tratti da Curdi, a cura di Antonella Di Biasi, con i contributi di Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018, disponibile in libreria e su tutte le principali piattaforme online.

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