imperialismi Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/imperialismi/ geopolitica etc Mon, 08 Jan 2024 15:21:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 La Zona del Canale di Panama e l’imperialismo “Gringo” https://ogzero.org/studium/la-zona-del-canale-di-panama-e-limperialismo-gringo/ Tue, 12 Dec 2023 18:15:15 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12108 L'articolo La Zona del Canale di Panama e l’imperialismo “Gringo” proviene da OGzero.

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Da un imperialismo all’altro… l’arroganza di Washington

L’importanza geopolitica del Canale

Non è però possibile capire la storia di Colón e dello Repubblica di Panama senza fare riferimento alla creazione della zona del Canale e all’ingerenza degli Stati Uniti d’America nelle vicende interne di questo paese centroamericano.

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Terminal Atlantico del Canale di Panama, provincia di Colón | Foto D. Battistessa (2021)

Concessione capestro

Tutto parte dal Trattato Hay-Bunau Varilla. siglato solo15 giorni dopo l’indipendenza di Panama dalla Colombia (avvenuta il 3 novembre 1903) e che dava agli Usa la concessione per la costruzione del Canale, la sua gestione perpetua e il possesso infinito di una fascia adiacente al percorso del Canale di 16 km (10 miglia) di estensione su ogni lato (est ed ovest). La storica panamense Marixa Lasso nel suo controegemonico libro “Erased: The Untold Story of the Panama Canal” (2020) ci aiuta a capire come i termini di quel trattato furono volontariamente “mal interpretati” dagli Usa, che imposero una lettura unilaterale degli accordi con conseguenze drammatiche sia per gli abitanti originari di quella che divenne poi la Zona del Canale sia per il paese centroamericano in generale.

L’imprescindibile libro della storica Marixa Lasso, nella versione inglese e nella versione in spagnolo. Un documento inestimabile per comprendere la storia del Canale di Panama, non raccontata dagli Stati Uniti D’America

Un territorio occupato e diviso in due

Con l’applicazione di questo trattato si divideva di fatto il paese centroamericano in due, con una frangia di 16 km che costeggiava sui due lati il Canale, spazio nel quale vivevano migliaia di statunitensi con le loro famiglie, in una vera e propria enclave Usa, che funzionava con leggi e regole proprie. Gli abitanti di questa zona erano chiamati zonians (dall’inglese) e vivevano isolati, protetti dalla polizia del Canale e dalle truppe dell’esercito Usa. Un territorio al quale i panamensi non avevano accesso (se non con permessi speciali) e nel quale il tenore di vita era molto più alto che nel resto di Panama. I cittadini di Panama vissero per anni in un clima di discriminazione, ingerenza, disprezzo e soprusi da parte del contingente Usa formato da civili e militari e le tensioni crebbero per anni, fino ai fatti drammatici del gennaio del 1964.

Murales nel centro di Panama, di fronte al monumento ai martiri del 9 gennaio 1964 | Foto D. Battistessa (2022)

Costante riproposizione di imperialismi nei secoli

Contesto imperialista negli anni Sessanta

Fatti che si verificarono in un contesto internazionale molto volatile e di necessaria comprensione per analizzare la trascendenza del sacrificio di quei giovani panamensi, passati alla storia come martiri della patria. Dobbiamo ricordare infatti che il 1° gennaio 1959 aveva trionfato la rivoluzione castrista a Cuba e in tutta la regione soffiava un forte vento antimperialista. A Panama, dove gli Usa esercitavano de facto la sovranità sulla zona del Canale, questo sentimento crebbe e nutrì le giovani menti delle nuove leve, studenti convinti di dover fare la loro parte nel grande “gioco” della storia. Inoltre, pochi mesi prima di quel fatidico 9 gennaio, ricordato appunto come “giorno dei martiri”, venne ucciso a Dallas il presidente degli Stati Uniti d’America John Fitzgerald Kennedy (22 novembre 1963), scatenando una convulsione nazionale che si sommava alla lotta del movimento per i diritti civili delle persone afroamericane e al momento algido della guerra fredda contro l’Unione Sovietica. Nell’agosto del 1964 inoltre gli Stati Uniti d’America entrarono ufficialmente nel conflitto del Vietnam (durato fino al 1975) aprendo un nuovo fronte di lotta internazionale. Il Canale di Panama non era dunque un elemento scollegato dalla trama internazionale ma era bensì un pezzo chiave della scacchiera geopolitica dell’epoca, dove gli Stati Uniti d’America guidavano la loro azione politica in America Latina basandosi sulla “dottrina Monroe”. Una dottrina elaborata dal presidente James Monroe nel suo discorso del 2 dicembre 1823 al Congresso e che stabiliva che gli Stati Uniti d’America non avrebbero tollerato l’ingerenza delle potenze europee nel continente americano. Essa stabiliva inoltre che qualsiasi intervento degli europei nelle Americhe sarebbe stato visto come un atto di aggressione che avrebbe richiesto l’intervento degli Stati Uniti d’America.

La Mattanza…

Fu dunque in questo contesto che il 9 gennaio 1964 decine di giovani studenti marciarono stringendo tra le mani la bandiera di Panama verso la Zona del Canale, area che come detto era fortemente protetta da un contingente militare degli Stati Uniti d’America. Quel giorno, secondo i documenti che furono declassificati anni dopo dal governo di Washington, la polizia della Zona del Canale sparò 600 colpi di fucile, 132 bombe lacrimogene e 1850 proiettili di revolver calibro 0,38. In quegli scontri morirono 22 panamensi e 4 statunitensi, e si registrarono più di 400 feriti. Un giorno drammatico, nel quale si manifestò tutta la spietata e cinica forza bruta dell’imperialismo Usa. Un evento che però lasciò un segno indelebile nelle menti e nei cuori dei panamensi e che favorì la revisione degli accordi sulla sovranità territoriale nel Canale: revisione sfociata nell’abolizione del concetto di controllo “perpetuo” sulla Zona del Canale da parte degli Stati Uniti d’America e nella firma dei Trattati Torrijos-Carter nel 1977.

… e la Dignità

Dopo la repressione del 9 gennaio 1964 infatti, l’allora presidente della Repubblica di Panama, Roberto Francisco Chiari Remón (conosciuto come Roberto Chiari), compì un atto senza precedenti nella storia del piccolo stato centroamericano: rompendo le relazioni diplomatiche con gli Usa. L’azione di Chiari non solo fu coraggiosa ma creò anche un punto di frattura storica in relazione al vassallaggio esercitato dal gigante nordamericano nei confronti degli stati sotto la sua orbita di influenza. Il 15 gennaio Chiari lanciò dichiarazioni infuocate, inspirate dal sacrificio dei suoi concittadini caduti sotto il fuoco delle truppe del Canale per aver difeso la bandiera patria: Panama non avrebbe riallacciato relazioni diplomatiche con gli Usa a meno di una revisione sostanziale del Trattato Hay-Bunau Varilla. Chiari, che fu presto soprannominato dal popolo come “Presidente della Dignità” decise di non dare più corso allo storico sopruso del trattato del 1903 e forzò la mano di Washington che dovette cedere alle pressioni, acconsentendo alla revisione dei termini degli accordi di inizio secolo. Nell’aprile del 1964, Lyndon B. Johnson (prima vicepresidente di J.F. Kennedy e successivamente 36esimo presidente USA) accettò l’apertura di un dialogo per l’eliminazione della causa del conflitto, inviando a Panama il delegato speciale Robert Anderson per avviare i negoziati. Ci vollero ancora 15 anni ma nel 1979 la Zona del Canale venne “cessata” e fu iniziato il processo di passaggio di proprietà degli immobili così come lo smantellamento delle basi militari Usa nella zona. Finalmente, in adempimento a quanto stabilito nei Trattati Torrijos-Carter (concernenti la Neutralità Permanete e il Funzionamento del Canale di Panama), a mezzogiorno del 31 dicembre 1999, il governo degli Stati Uniti d’America trasferì il controllo del Canale di Panama al governo panamense.

I fatti del 9 gennaio 1964

Operazione sovranità

Statua posizionata di fronte al Museo di Arte Contemporanea di Panama che ricorda i martiri del 9 gennaio 1964 |. Foto D. Battistessa (2021)

Quanto successo in quei giorni di gennaio affonda le radici negli accordi del 1903 e in una ingerenza sulla sovranità territoriale esercitata per decenni dagli Usa sul territorio della Repubblica di Panama. Come detto gli abitanti statunitensi della Zona del Canale erano chiamati zonians e vivevano in una realtà parallela rispetto al resto della popolazione di Panama, cittadine e cittadini che dopo anni di separazione, soprusi e boicottaggi, covarono un sentimento di rivalsa che portò ad azioni concrete iniziate nel 1958. In quell’anno ebbe luogo la dimostrazione chiamata Operazione Soberania, attraverso la quale un gruppo di audaci studenti universitari “piantarono” 75 bandiere panamensi nella Zona del Canale. Il motto degli studenti all’epoca era «el que siembra banderas, cosecha soberanía» (chi semina bandiere, raccoglie sovranità), come ricorda uno di protagonisti di quegli eventi, lo scrittore e storico Ricardo Ríos Torres intervistato da BBC nel 2019. L’anno successivo gli stessi studenti organizzarono quella che venne chiamata Marcia Patriottica, invitando i cittadini panamensi a entrare in modo pacifico nella Zona del Canale sotto giurisdizione Usa. Il governatore della Zona del Canale, che all’epoca era William Everett Potter, dette però l’ordine alla polizia di fermare i manifestanti e di impedire loro l’ingresso: scatenando tumulti e scontri che terminarono con un saldo di vari feriti.

Disfide di bandiera

È in questo contesto di tensione che arriviamo alla quistión de la bandera”, pomo della discordia che scatenò le proteste del 9 gennaio 1964. Per far fronte al crescente nervosismo intorno alla Zona del Canale e alle dispute tra i cittadini dei due stati, i presidenti di Panama e Usa dell’epoca (Roberto Chiari e J.F. Kennedy), giunsero a un accordo nel 1962. Con quella negoziazione si decise che a partire dal 1° gennaio 1964, nei luoghi civili dentro la Zona del Canale, sarebbero state fatte sventolare sia la bandiera statunitense che quella panamense. Giunti però alla fatidica data del 1°gennaio del ’64, gli zonians non rispettarono l’ordinanza del governatore (che dal 1° febbraio 1962 era Robert John Fleming) e issarono solo la bandiera statunitense in segno di protesta e provocazione. Gli abitanti della Zona ritenevano infatti che il provvedimento minasse la memoria dei loro antenati, coloro che avevano costruito il canale e lo avevano gestito per 60 anni. Molti di loro erano nati lì, convinti di essere parte di una missione civilizzatrice su grande scala, sentivano di essere creditori di un ringraziamento da parte dei panamensi e non delle loro “arroganti pretese”.

Gli studenti della Balboa High School si negarono ad issare le due bandiere | Foto dell’archivio del Museo del Canale di Panama

Il caso più noto fu quella della Balboa High School (Scuola Superiore Balboa) dove il 7 di gennaio gli studenti si rifiutarono di seguire le istruzioni date dall’amministrazione del Canale e non issarono la bandiera del paese centroamericano insieme a quella Usa. Il gesto di sfida della Balboa High School fu raccolto dagli studenti dell’Istituto Nazionale di Panama, una scuola pubblica conosciuta popolarmente come “Nido de águilas” (Nido delle Aquile), che il 9 di gennaio si diressero verso la Zona del Canale. Gli studenti panamensi marciarono con alla testa la bandiera di Panama e un cartello con la scritta “Panamá es soberana en la Zona del Canal” (Panama è sovrana nella Zona del Canale). Sei di loro, arrivati nei pressi della Balboa High School, dopo aver ottenuto il permesso delle autorità per issare la bandiera, vennero affrontati però dagli zonians della scuola.

Sei studenti panamensi arrivano con il permesso della polizia della Zona alla Scuola Superiore Balboa – Foto dell’archivio del Museo del Canale di Panama

Scontri e polizia assassina (ACAB)

Nei tumulti che seguirono la bandiera di Panama venne strappata e oltraggiata e gli studenti dell’Istituto Nazionale dovettero fare dietrofront. Malconci e umiliati i giovani del Nido delle aquile raccontarono quanto successo e la loro storia accese la miccia definitiva. Le radio di Panama raccontarono l’accaduto a un popolo che tratteneva a stento l’ardore patrio: migliaia si riversarono ai limiti della Zona del Canale. La polizia del Canale si vide presto superata e cominciò a sparare: il quel momento cadde il primo martire di quel drammatico giorno. Si trattava di Ascanio Arosemena Chávez, giovane dirigente studentesco che aveva da poco compiuto 20 anni e che si trovava in prima fila per aiutare i feriti. A rinforzo della polizia del Canale arrivarono i militari della vicina base Usa, moltiplicando così in breve tempo i morti e i feriti.

Nel frattempo la città di Colón, nella parte atlantica del Canale, si univa alle proteste amplificando la magnitudine dello scontro. Nella Città di Panama i negozi statunitensi divennero bersaglio della furia della folla, case e botteghe vennero date alle fiamme, stessa sorte che toccò all’edificio appena inaugurato della compagnia aerea Usa, Pan American Airlines.

Qui i nomi dei martiri panamensi di quel fatidico giorno: Ascanio Arosemena Chávez, Gonzalo Antonio Crance Robles, Teófilo Belisario De La Torre Espinosa, Jacinto Palacios Cobos, Alberto Oriel Tejada, Ezequiel Meneses González, Luis Vicente Bonilla Cacó, José Enrique Gil, Alberto Nichols Constance, Víctor Manuel Iglesias, Rodolfo Sánchez Benítez, Víctor Manuel Garibaldo Figueroa, Gustavo Rogelio Lara, José Del Cid Cobos, Ricardo Murgas Villamonte, Rosa Elena Landecho, Ovidio Lizandro Saldaña Armuelles, Etanislao Orobio Williams, Maritza Avila Alabarca, Carlos Renato Lara, Evilio Lara e Celestino Villareta.

Operation Just Cause (Operazione Giusta Causa)

La storia degli Usa con Panama non termina però con i Trattati Torrijos-Carter nel 1977, ma vede un altro capitolo oscuro che si sviluppò 10 anni prima della consegna definitiva del Canale alle autorità panamensi.

Il 20 dicembre 1989 infatti si produsse l’invasione statunitense di Panama, sotto il nome in codice di “Operation Just Cause”. L’operazione, durata circa due settimane (terminò ufficialmente il 3 gennaio 1990), fu la risposta alla dichiarazione di guerra pronunciata il 15 dicembre da Noriega, generale e dittatore del paese centroamericano dal 1983. Noriega in passato era stato un collaboratore della Central Intelligence Agency (Cia) e conosciuto per essere particolarmente spietato e opportunista. Soprannominato Cara de Piña (Faccia d’Ananas), Noriega si mosse nel contesto della guerra fredda con furbizia e destrezza tra gli interessi e le manovre diplomatiche delle due superpotenze. Tuttavia, quando Washington gli ritirò l’appoggio (accusandolo di estorsione e narcotraffico), decise di dichiarare “guerra all’impero”. George H.W. Bush, presidente statunitense dell’epoca non tardò nel rispondere e decise di inviare a Panama 26.000 militari. Le truppe Usa usarono l’artiglieria e la forza aerea per bombardare i centri nevralgici del paese soprattutto a Città di Panama e Colón. Uno dei luoghi più bombardati fu il quartiere popolare del Chorrillo (nel casco storico della Città di Panama), dove 20.000 persone vennero sfollate e dove ancora oggi non si conosce il numero esatto dei morti causati da quell’operazione.

L’episodio del podcast Indomables, delle giornaliste indipendenti panamensi Leila Nilipur e Melissa Pinel dal titolo “Quien se acordarà de nosotros” (Chi si ricorderà di noi), ci aiuta a fare luce sui centinaia di desaparecidos che conseguirono a quell’attacco.

Un’operazione militare che fu condannata dalla Nazioni Unite e dall’Organizzazione degli Stati Americani (Oas), come violazione della stessa Carta costitutiva dell’organizzazione. Inoltre, il 29 dicembre 1989 l’Assemblea Generale dell’Onu condannò ufficialmente l’intervento militare come una flagrante violazione del diritto internazionale con 75 voti a favore, 20 contrari e 40 astensioni. Le forze di occupazione statunitensi appoggiarono successivamente l’insediamento, come presidente e vicepresidente della repubblica, di Guillermo Endara e Ricardo Arias Calderón nella base militare di Clayton: Endara aveva vinto le elezioni (poi annullate da Noriega), celebratesi nel maggio del 1989 capitanando l’Alianza Democrática de Oposición Cívilista (Adoc). Come risultato dell’intervento militare Usa, non solo Noriega venne arrestato il 3 gennaio 1990 (e condannato il 16 settembre 1992 a 40 anni di carcere, poi ridotti a 30) ma venne abolito definitivamente l’esercito del paese centroamericano. Infatti, per evitare la possibilità di un altro regime militare, il governo di Panama decise di seguire l’esempio del vicino Costa Rica e, nel febbraio 1990, non ripristinò le forze armate.

Clayton – Vecchia Zona del Canale sotto Amministrazione Usa | Foto. D. Battistessa (2021)

Nel 1994, tale divieto venne incluso nella Costituzione all’articolo 310, che stabilisce che «la Repubblica di Panama non ha un esercito» e aggiunge che sono tutti i cittadini di Panama a dover «prendere le armi per difendere l’indipendenza nazionale e l’integrità territoriale dello stato».

Discriminazione, infrastrutture e valori ancestrali

to be continued (6)

¡Ya Basta extractivismo! Marca-paese Dighe e discariche Merci rivolte e infrastrutture Ancestralità e gentrificazione Casco Viejo – CauseWay – Artificial Island

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]]> Dalla Perestrojka al Commonwealth in Africa https://ogzero.org/dalla-perestrojka-al-commonwealth-in-africa/ Sat, 17 Sep 2022 23:23:21 +0000 https://ogzero.org/?p=8921 Archiviando epoche: gli imperialismi seppelliscano gli imperi Parlando con Angelo Ferrari dei due suoi articoli scritti ultimamente per Agi che qui riproponiamo ci siamo convinti che seguendo queste tracce si possono avanzare ipotesi: se non tutte saranno verificabili, aiutano comunque nell’individuazione e valutazione di possibili strategie globali in ambito africano. Senz’altro queste comparazioni tra caratteristiche […]

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Archiviando epoche: gli imperialismi seppelliscano gli imperi

Parlando con Angelo Ferrari dei due suoi articoli scritti ultimamente per Agi che qui riproponiamo ci siamo convinti che seguendo queste tracce si possono avanzare ipotesi: se non tutte saranno verificabili, aiutano comunque nell’individuazione e valutazione di possibili strategie globali in ambito africano. Senz’altro queste comparazioni tra caratteristiche di periodi storici rendono conto di un passaggio epocale, scandito simbolicamente dalla morte di due ultranovantenni protagonisti della politica degli anni Ottanta: Michail Sergeevič Gorbačëv ha incarnato la fine della Guerra Fredda – con tutto ciò che la sua archiviazione ha significato per la spartizione di tasselli sullo scacchiere internazionale che facevano rigidamente riferimento all’una o all’altra grande potenza. La contrapposizione per blocchi è apparentemente un modello di rapporti tra grandi potenze che torna a riconfigurarsi, e di cui dovremmo analizzare cosa può riproporsi e in quali modalità, considerando anche il progresso delle comunità da depredare a trent’anni dalla caduta del muro e dalla trasformazione dei regimi marxisti-leninisti sostenuti dall’Urss in Africa.
Elisabeth Windsor-Mountbatten è stata la più rigida conservatrice dell’impero britannico così come le era stato consegnato, opprimendo con brutalità (fin dall’inizio soffocando le richieste di emancipazione dei Mau-Mau in Kenya); la spasmodica attenzione dei media francesi per le sue esequie è una buona cartina al tornasole, perché evidenzia la sensazione dei regicidi francesi che i destini delle due ex potenze coloniali siano strettamente correlati, angosciando gli ancora tanti nostalgici della grandeur, ma anche galvanizzando gli anticolonialisti come “Mediapart”, che preconizzano che, dopo il bagno di folla ebete dei funerali «Con la morte della regina Elisabetta II, il velo di oblio o di cecità intenzionale che ha coperto la mente pubblica britannica sul suo passato imperiale e coloniale scomparirà. I dannati della memoria si alzeranno in piedi e parleranno». E dopo il processo indipendentista a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta – che ha richiesto la trasformazione dell’approccio e dei processi di occupazione di territori, il loro saccheggio e il condizionamento economico –, ora non è l’emancipazione delle comunità autoctone ma la ripresa dell’espansione di quel colonialismo russo nel Continente nero (che i processi di apertura di Nikita Sergeevič Chruščëv prima e poi di Gorbačëv avevano trasformato, ridimensionandolo) a premere sulle acciaccate potenze coloniali europee.
E di nuovo l’impegno di Mosca sorge nel momento in cui la tensione ha il sopravvento sul multilateralismo. Queste pulsioni, assimilabili alle esigenze che spingono la Realpolitik turca a espandere la propria sfera di influenza su alcuni angoli africani, aggiungono un elemento che configura il neoimperialismo, echeggiando altri momenti epocali in cui si è assistito a conflitti di blocchi contrapposti: neo-ottomanesimo e neozarismo possono sperare che la divisione europea ridimensioni l’egemonia occidentale, approfittando di una nuova Guerra Fredda da cui trae linfa l’espansionismo autocratico nella realtà africana.
Fin qui OGzero, ma questo sproloquio attinge alle suggestioni e ai dati esibiti da Angelo Ferrari nei suoi due originali obituary. E non a caso iniziamo dallo studio sul rilancio del Commonwealth (l’espressione imperiale britannica rivale di quella zarista e dei sultani) che paradossalmente ottiene nuovo slancio dalla morte della simbolica depositaria per 70 anni della potenza inglese, dacché era già sovrana – ingombrante figura difficile da adeguare alle istanze indipendentiste dell’impero senza modificarne l’icona (interessante come nell’articolo di Angelo non venga citata, ma aleggi il venir meno di una prassi pluridecennale caratteristica del suo lungo regno) – quando gli stati decolonizzati entrarono nell’organizzazione grazie alla Dichiarazione di Londra che riformava il vecchio Commonwealth con un compromesso costituzionale, proprio in quegli stessi primi anni Sessanta che costrinsero alla apertura con la prima parziale sospensione della Guerra Fredda.

Ora il Commonwealth rappresenta una valida alternativa per la cooperazione economica tendente a 2 trilioni di scambi. Per gli altri c’è l’“amicizia” predona della Wagner, che non chiede conto alle leadership cresciute militarmente a Rostov (o disposte a scommettere di restituire i prestiti ai cravattari cinesi), di certo non è l’epilogo immaginato dalla perestrojka africana.


Il Commonwealth sempre più africano

Londra sta intensificando la sua presenza nel continente africano attraverso rapporti bilaterali, vuole – è stata la promessa fatta da BoJo nell’ultimo vertice afro-britannico a Londra il 20 gennaio 2020 – incrementare i suoi investimenti ed espandere il suo mercato. Vuole diventare il maggior investitore sul continente africano e superare gli altri membri del G7 e stiamo parlando di Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Giappone e mettiamoci anche l’Italia.

Carta d’identità dell’organizzazione

Il Commonwealth è il più grande gruppo di nazioni che non coinvolge la Russia o la Cina e gli conferisce, sono parole della Truss, «un peso crescente sulla scena mondiale». Quanto può valere entrare nell’ormai grande famiglia? Secondo Patricia Scotland, segretario generale dell’organizzazione nata sulle ceneri dell’impero britannico e andata ormai oltre le ex colonie di Londra, già oggi il commercio tra i paesi membri vale 700 miliardi di dollari. Ma l’obiettivo, anche guardando gli ultimi ingressi, Togo e Gabon, è di superare i 2 trilioni di dollari entro il 2030.
Il Commonwealth è un’organizzazione che conta 56 nazioni per un totale di 2,5 miliardi di abitanti, con un Prodotto interno lordo che si prevede salirà a 19,5 trilioni di dollari nei prossimi cinque anni.


Il Gabon, che si affaccia sul Golfo di Guinea, ultimo arrivato nell’organizzazione è un paese con una superficie boscosa molto rilevante ed è destinato a svolgere un ruolo importante nel commercio dei crediti di carbonio per combattere il cambiamento climatico. E questo, per Londra, è un vantaggio non da poco.

Strategia in chiave anticinese

Londra vuole aprire le sue porte all’Africa e il Commonwealth (oggi conta 21 paesi africani: Sudafrica, Ghana, Nigeria, Sierra Leone, Uganda, Kenya, Malawi, Tanzania, Zambia, Gambia, Botswana, Lesotho, eSwatini, Seychelles, Namibia, Camerun, Mozambico, Nauru, Ruanda, Gabon, Togo) potrebbe diventare la chiave di volta. Ma non solo. Nelle strategie di Londra rientra anche il contrasto alla Cina e in Africa la sfida sembra quasi improba. Ciò era negli intenti dell’ex premier Boris Johnson, ma ribaditi dall’attuale prima ministra, Liz Truss, che è stata molto chiara.

Il Regno Unito deve aumentare l’interscambio commerciale con i paesi del Commonwealth per contrastare la «grave minaccia della Cina ai nostri valori e al nostro modo di vivere, e firmare accordi commerciali con procedure accelerate con gli stati così da aiutare il Regno Unito e altre democrazie a vincere la lotta contro gli stati autoritari».

Truss ritiene che legami economici più stretti aiuteranno ad annullare lo schema della Belt Road Initiative della Cina in base alla quale Pechino ha finanziato progetti in dozzine di paesi in via di sviluppo che si sono rivelati come una “coercizione economica”.

Per allargare il mercato cade la pregiudiziale democratica

Tutti vogliono entrare nel Commonwealth e Londra apre le porte a chiunque, rinunciando anche ai principi fondativi dell’organizzazione delle ex colonie britanniche. Non guarda se è un paese è democratico, se rispetta i diritti fondamentali delle persone. Tutto questo, dopo la Brexit, non conta. Londra sembra avere mani libere, tanto da accettare nell’organizzazione membri che non hanno legami storici con il Regno Unito. Contano gli investimenti e le potenzialità di mercato che offre chi entra nell’organizzazione.

«In passato alcuni paesi africani non avevano relazioni con i paesi del Pacifico o con i paesi anglofoni», ha spiegato il ministro degli Esteri del Gabon – ex colonia francese – Michael Moussa-Adamo, ma ora «ci stiamo allargando e stiamo ottenendo nuovi partner internazionali, rafforzando la nostra economia».

Dinastie africane nell’organizzazione della dinastia britannica

Dati gli obiettivi che si prefigge è evidente che qualsiasi stato è ben accetto. «Il Commonwealth – ha spiegato Scotland – ha iniziato con otto nazioni nel 1949, è cresciuta fino a raggiungere 56 nazioni. La nostra continua crescita, al di là della nostra storia, riflette i vantaggi dell’appartenenza al Commonwealth e la forza della nostra nazione. Sono entusiasta di vedere questi vivaci paesi unirsi alla famiglia e dedicarsi ai valori e alle aspirazioni della nostra Carta» (“360Mozambique”).

È del tutto evidente che la “Carta”, oggi, conta ben poco. Se l’organizzazione dovesse tenere fede ai suoi principi non potrebbe accettare nelle sue file paesi come il Gabon e il Togo che non hanno nulla a che fare con una democrazia moderna.
Il Gabon più che uno stato è una monarchia governata da sempre dalla dinastia dei Bongo Ondimba, padre e figlio, stiamo parlando di oltre cinquant’anni di regno (però i Windsor sono avvezzi a questo tipo di regime, ma proprio il Gabon può rappresentare un ponte tra gli imperi, visto che era in quota sovietica fino al crollo del Pcus). E anche il Togo non è da meno: l’attuale presidente, Faure Gnassingbé detiene il potere dal 2005, ma lo ha ereditato dal padre che lo gestiva in maniera dittatoriale dal colpo di stato del 1967.
Ma anche il Ruanda, che ha ospitato l’ultimo vertice del Commonwealth a fine giugno 2022, non sarebbe un paese “idoneo”, perché nelle sue carceri sono ancora detenuti oppositori, giornalisti indipendenti e youtuber critici con le autorità ruandesi.

Centro congressi di Kigali, sede della convention del Commonwealth 2022

Paul Kagame è presidente del Ruanda dal 1994 quando entrò a Kigali da trionfatore e liberatore, ha modificato la Costituzione così da permettergli di governare il paese fino al 2034. Per non parlare di un altro membro del Commonwealth, il Camerun. Il paese è “guidato” dal 1982 da Paul Biya, ma se aggiungiamo i sette anni da primo ministro, 1975-1982, è al potere da 47 anni.


Le aree di interesse evidenziate dalle citazioni di paesi aderenti alla sfera britannica, poste a confronto con quelle evocate dal mondo sovietico africano, mostrano una vera e propria spartizione tra i due imperialismi che non sovrapponevano i domini. Le incursioni russe e turche in Sahel, Centrafrica e Corno d’Africa entrano in diretta concorrenza soprattutto con l’imperialismo francese, quello più debole e impreparato, perché ancora troppo fondato sull’occupazione militare, ambito in cui i contractor russi e i miliziani turchi sono più efficaci su quel terreno.


Con la fine dell’Urss cambiarono i giochi di potere in Africa… erano solo sospesi?

Cosa ha comportato la scomparsa dell’Urss e quali le conseguenze per chi deteneva il potere? I regimi alleati del blocco orientale, per esempio, furono costretti a riformarsi o cadere.
L’opera intrapresa da Michail Gorbačëv di riforma del sistema sovietico negli anni Ottanta e di disgelo delle relazioni internazionali, cambiando radicalmente la situazione internazionale, ha avuto ripercussioni ed effetti importanti anche per il continente africano. La scomparsa dell’Urss dallo scacchiere africano ha costretto i regimi alleati del blocco orientale a riformarsi o cadere. Nella prima categoria, Angola e Mozambico sono stati costretti a entrare in processi di democratizzazione che hanno posto fine alle guerre civili, prima Maputo e poi Luanda.

Superamento del colonialismo lusitano

Frelimo/Renamo

In Mozambico il sostegno dell’Unione Sovietica si è rivelato fondamentale per la sopravvivenza del paese negli anni Ottanta del secolo scorso. Le spinte anticoloniali portarono i movimenti indipendentisti a coalizzarsi nel movimento armato Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico) e dopo dieci anni di guerriglia contro i coloni portoghesi, il paese ottiene l’indipendenza nel 1975. Iniziò una campagna di nazionalizzazione delle piantagioni e furono costruite scuole e ospedali per i contadini. Una rivoluzione di stampo sovietico. Il Frelimo sostenne le forze rivoluzionarie in Rhodesia e Sudafrica. I governi di questi paesi, appartenenti al blocco occidentale, risposero sostenendo i ribelli mozambicani della Renamo. Ne scaturì un’atroce guerra civile che terminò con gli accordi di pace di Roma del 1992 da cui nacque una nuova costituzione di stampo multipartitico. Il Frelimo, nelle elezioni libere tenute negli anni successivi si confermò sempre il primo partito del Mozambico.

Mpla/Unita

In Angola la situazione era abbastanza simile. Il Movimento per la liberazione dell’Angola, che lottò con determinazione contro i colonizzatori portoghesi, ottenendo l’indipendenza nel 1975, portò il paese nell’orbita sovietica e instaurò un regime totalitario. Di contro il blocco occidentale, per far valere i suoi interessi, sosteneva un gruppo di ribelli sotto il nome di Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola.
Da questo scontro iniziò una guerra civile durata oltre un ventennio al termine della quale vennero firmati gli accordi di pace che portarono alle prime elezioni nel 1992. Le ostilità, tuttavia, continuarono e terminarono solo dopo l’uccisione del leader dell’Unita, Jonas Savimbi, nel 2002. Il paese, dall’indipendenza è sempre stato governato dall’Mpla e l’Unita ha sempre svolto un ruolo di opposizione. Ma il padre della patria, Eduardo dos Santos, si è trasformato presto in un cleptocrate, governando il paese con pugno di ferro fino al 2017.

Il passaggio dalla geopolitica alla geoeconomia

In Mozambico e Angola i regimi, riformati, sono sopravvissuti, mentre in Etiopia, nel 1991, Menghistu, soprannominato il “Negus rosso”, viene estromesso dal potere.

Mandela/Mobutu

Proprio in quegli anni anche il Sudafrica è costretto a riformarsi ed è nel contesto della fine della Guerra Fredda che cade l’apartheid, che porta alle prime elezioni multirazziali del 1994 e la Namibia trova l’indipendenza. Anche gli interessi degli Stati Uniti per l’Africa cambiano di conseguenza, meno legati alla geopolitica e più all’economia. Il loro grande alleato nell’Africa centrale, Mobuto Sese Seko, dittatore dello Zaire, è costretto ad aprire il sistema politico e cedere, su pressione degli Stati Uniti, al multipartitismo. Soluzione che non porta alcun beneficio al paese, perché è sempre il dittatore che muove i fili, ma il paese crolla nel giro di pochi anni e si apre una fase di guerra permanente.

La perestroika africana

Benin, Congo, Mali, Niger…

Nel mondo francofono, sempre in quegli anni, soffia un vento di libertà. Era l’epoca delle Conferenze nazionali che avevano lo scopo di creare un clima democratico con la partecipazione di tutti. Il Benin fu il precursore nel 1990, il marxista Mathieu Keredoku fu sconfitto alle elezioni e si ritirò. Ma non andò così nella Repubblica del Congo, dove il presidente di allora, Denis Sassou Nguesso, continua a governare il paese. Fasi alterne vivono i paesi come il Mali, il Niger. Ma hanno una caratteristica comune: sono regimi poco democratici e accentratori del potere. La “perestrojka africana” che si poteva leggere tra le righe delle Conferenze nazionali non ha mai attecchito, anche se aveva suscitato molte speranze nelle popolazioni di questi paesi.

Rimane, tuttavia, il fatto che Gorbačëv si era adoperato per porre fine al mondo bipolare in cui l’Africa era alla mercè del gioco strategico di Washington e Mosca.

Secondo lo scrittore Vladimir Fedorovski, molto vicino all’ultimo leader sovietico, ai paesi africani mancherà il suo messaggio a favore di un mondo equilibrato: «Aveva un grande rispetto per il continente africano, che considerava il continente del futuro. Gorbačëv diceva che bisognava tener conto degli interessi delle diverse nazioni e trovare equilibri, e anche e forse essere prima di tutto africani. Sprecheremo somme da capogiro per la guerra, dimenticando che l’Africa è minacciata dalla carestia».

I primi a dimenticarsi delle parole di Gorbačëv sono stati proprio quei presidenti africani che si ispiravano all’Unione Sovietica. La Guerra Fredda non c’era più, ma le contrapposizioni rimangono e diventano sempre più complesse. Da una parte il mondo occidentale che cerca di frenare le aspirazioni di Mosca che, piano piano, sta rosicchiando pezzi di influenza occidentale. Il messaggio di Gorbačëv vale ancora oggi.

Dal 24 al 27 luglio, il ministro degli Esteri della Federazione russa, Sergej Lavrov, ha visitato quattro stati africani: Egitto, Repubblica del Congo, Uganda ed Etiopia. Non ha parlato di progetti o interventi. La sua missione era chiedere agli africani di schierarsi con la Russia contro l’Occidente, con un unico argomento: l’Occidente ha un passato coloniale e ha tuttora delle mire coloniali e imperiali.

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