hotspot Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/hotspot/ geopolitica etc Mon, 14 Nov 2022 10:05:34 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 n. 22 – Regolamento sullo screening: il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (II) https://ogzero.org/n-22-regolamento-sullo-screening-il-patto-europeo-sulla-migrazione-e-lasilo-ii/ Mon, 14 Nov 2022 10:05:34 +0000 https://ogzero.org/?p=9491 Lo studio e l’esposizione delle proposte di regolamento europeo che fanno da corollario al nuovo patto sulla migrazione, se possibile, ancora più restrittivo e rappresentante di chiusure all’accoglienza, completa e integra le speculazioni dell’articolo precedente. Qui si leggono disposizioni “disumanitarie”, che inaspriscono con fantasie al limite della tortura psicologica, che rispondono evidentemente a criteri puramente […]

L'articolo n. 22 – Regolamento sullo screening: il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (II) proviene da OGzero.

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Lo studio e l’esposizione delle proposte di regolamento europeo che fanno da corollario al nuovo patto sulla migrazione, se possibile, ancora più restrittivo e rappresentante di chiusure all’accoglienza, completa e integra le speculazioni dell’articolo precedente. Qui si leggono disposizioni “disumanitarie”, che inaspriscono con fantasie al limite della tortura psicologica, che rispondono evidentemente a criteri puramente disincentivanti. Nelle pieghe delle modifiche, delle proposte, dei regolamenti che l’UE targata Von Der Layen si rintracciano tentativi di blindare le frontiere, ma anche di demandare ai paesi di prima accoglienza la solidarietà a cui persino Fortress Europe non può sottrarsi, né esternalizzare. Quindi è impossibile riformare come vorrebbero i paesi del blocco Sud, ed è per questo che si creano casi come quelli della Ocean Viking, o si minacciano altre infamità per giungere a una trattativa giocata sui destini delle persone in movimento (Pom). Allora si riprendono slogan come “taxi del mare” (riprendendo un’improvvida uscita di Di Maio) per definire l’azione di vascelli solidali, denunciando ideologicamente l’operato delle ong; o si invita a portare i salvati in Tunisia, guarda caso proprio dove si vuole implementare il sistema di hotspot esternalizzati per impedire l’arrivo in Europa, o retrivi scontri fondati su cifre – anche malamente – taroccate. 

Con questa documentata appendice, fondata sulla lettura dei documenti giuridici e su dati reali, Fabiana intendeva conferire un sostegno all’articolo dedicato alle conseguenze delle proposte di modifica al Regolamento europeo per il riconoscimento dell’asilo e protezione, ne ha ottenuto un contributo autonomo che travalica il tecnicismo analizzato e disinnescato, andando a scoperchiare motivi e strategie sottesi a rendere impossibile il Diritto internazionale che a buon senso darebbe scampo in Europa a chi fugge dai danni che l’Europa produce nei paesi di provenienza. Ma la strategia prevede che il Diritto sia affossato, anzi sommerso…


Procediamo con lo screening a casa loro

Due delle cinque proposte che accompagnano il patto sulla migrazione e l’asilo – presentato dalla Commissione europea il 23 settembre del 2020 – sono la Proposta di regolamento sullo screening e appunto quella relativa alla modifica della procedura di riconoscimento e di revoca della protezione internazionale. In particolare, con la Proposta di regolamento sullo screening dei migranti si prevede una procedura “preingresso di accertamento” lo screening appunto – in merito all’identità, alla nazionalità, allo stato di salute, alla vulnerabilità e alla pericolosità sociale del migrante finalizzata – come candidamente dichiarato nella sua presentazione dalla Commissione europea – a individuare «il prima possibile i cittadini dei paesi terzi che abbiano scarsa possibilità di ottenere protezione internazionale all’interno dell’UE». Alla registrazione dell’identità quindi si accompagna in questa fase l’inserimento dei dati biometrici dei migranti mediante le banche dati pertinenti.

 

regolamento sullo screening

Truccare le regole fingendo una terra di nessuno

La procedura però viene svolta non solo interamente in frontiera ma anche in una condizione di trattenimento del migrante e in modo rapido (la procedura di accertamento può durare fino a un massimo di 5 giorni).

L’intento della proposta è dunque quello di creare uno strumento idoneo a decidere già in frontiera a chi possa essere “consentito” di presentare domanda di protezione internazionale e chi invece “debba” essere rimpatriato immediatamente dalla “frontiera”.

Rispetto al luogo nel quale dovrebbero avvenire tali operazioni di accertamento, si precisa che quanto orchestrato dalla Commissione altro non è che una fictio iuris.
Il migrante sottoposto a tali procedure in realtà già si trova sul territorio dell’Unione e come tale sarebbe titolare di tutta una serie di diritti, sanciti dal diritto europeo oltre che dal diritto internazionale, ma affinché tale titolarità non venga attivata si opera appunto “una finzione giuridica”: si finge ovverosia che il migrante si trovi a una frontiera esterna dell’Unione altrimenti tale meccanismo sarebbe evidentemente illegittimo. Sicuramente infatti alcune persone soggette alla procedura di screening sono già alle frontiere interne. Si pensi che alcuni dei destinatari dell’ambito di applicazione di tale normativa sono persone entrate nel territorio europeo a tutti gli effetti perché attraverso operazioni di Search and Rescue (Sar)! Altri destinatari sono invece coloro che sono presenti alla frontiera esterna ma non soddisfano le condizioni di ingresso – come nel caso della mancanza del visto – e che presentano domanda di protezione internazionale.

Si precisa però che anche con riferimento a tali soggetti gli stati membri, in base al regolamento Eurodac, sarebbero chiamati a registrare le impronte e quindi si attiverebbe il regolamento “Dublino” per l’individuazione dello stato membro competente: una situazione tutt’altro che esterna all’Unione!

L’intero impianto rientra nel consueto meccanismo di rafforzare le frontiere esterne per proteggere quelle interne dell’area Schengen dai movimenti secondari dei migranti ossia quelli compiuti mediante il transito da uno stato all’altro dell’Unione.

La detenzione negli hotspot è illegittima, per ora

È previsto in questa fase un sistema di monitoraggio indipendente di dubbia efficacia visto che non prevede neanche l’accesso dell’Agenzia europea sulla tutela dei diritti umani oltre a quella dei membri e degli operatori delle ong o dei rappresentanti della società civile.

È prevista inoltre l’impugnazione del provvedimento di accertamento che abbia un esito negativo per l’accesso alla procedura d’asilo ma in questo caso è stabilito il rimpatrio immediato e il ricorso non ha effetto sospensivo.

Tale impianto giuridico richiama immediatamente l’approccio degli hotspot in Italia come quello di Lampedusa. Anche negli hotspot infatti, per prassi, vi è una fase di preidentificazione che si caratterizza dalla compilazione del cosiddetto foglio notizie – non previsto da alcuna normativa italiana – davanti alle autorità di pubblica sicurezza. Il modulo prescreening previsto nel Patto ricalcherebbe proprio il foglio notizie italiano (!) che contiene sì le generalità del migrante ma che non possiede alcun contenuto informativo sulla procedura di protezione internazionale. Inoltre, come nella procedura prescreening anche negli hotspot vi è una condizione di detenzione dei migranti. Al riguardo si precisa che qualora il regolamento in questione venisse approvato tali prassi degli hotspot diventerebbero legittime e quindi non solo lo stesso foglio notizie diverrebbe obbligatorio – proprio mediante il suo omologo ossia il “modulo preescreening” – ma il trattenimento del migrante sarebbe previsto per legge nonostante l’Italia sia già stata condannata per detenzione illegittima dei migranti negli hotspot dalla Corte di Strasburgo – sentenza Khlaifia – per aver agito in violazione dell’art. 5 della Cedu.

Proposta di modifica del regolamento procedure 2016

Dopo le procedure di preingresso – procedura di screening è prevista nella modifica anche una procedura di frontiera per il riconoscimento della protezione internazionale sempre in una condizione di trattenimento del migrante. Infatti, secondo l’art. 41 paragrafo 6, i richiedenti sottoposti alla procedura di asilo alla frontiera non sono autorizzati a entrare nel territorio dello stato membro.

Si precisa, più in generale,

che la procedura di esame alla frontiera deve essere attuata ogni qualvolta la persona è entrata irregolarmente – e chi richiede la protezione lo è nella quasi totalità dei casi perché in fuga dal proprio paese d’origine – o se ha fatto ingresso con sbarco dopo operazioni di ricerca e soccorso (Sar – Search and Rescue) o ancora nell’ipotesi in cui il migrante non sia irregolare ma comunque sia destinatario di un provvedimento di ricollocamento (art. 41).

Persecuzione preventiva di innocenti incarcerati. Disincentivazione

Ciò che risulta particolarmente assurdo è che dal momento dell’approvazione di tale norma ogni richiedente asilo dovrebbe subire 12 settimane di detenzione e di isolamento per completare non solo la procedura di riconoscimento della protezione internazionale ma – nell’ipotesi di rigetto della domanda – anche per presentare il ricorso che nella quasi totalità dei casi non ha effetto sospensivo automatico (art. 54) – e per essere sottoposto a rimpatrio forzato (art. 41 bis).

Si ricorda che ai sensi dell’art. 35 bis della proposta la decisione di rimpatrio è emanata

nell’ambito della decisione di rigetto della protezione internazionale o, nel caso sia contenuta in un atto distinto dal provvedimento di rigetto, è comunque contestuale a esso.

Se lo stato tuttavia non riesce a organizzare il rimpatrio alla frontiera nell’arco delle 12 settimane, il migrante potrà entrare finalmente nel territorio dell’Unione ma sempre con il trattamento previsto per legge per le persone in condizione di irregolarità. Inoltre, la cosiddetta “procedura accelerata”, con la proposta di regolamento in oggetto, non rappresenta più un’eccezione ma diviene «obbligatoria e sistemica» (art. 40) e al suo termine si può già decidere in frontiera per l’ammissibilità o meno della domanda.

Infatti, alle ipotesi già previste per l’applicazione della procedura accelerata – come quella in cui il richiedente tenta di eludere o elude i controlli alle frontiere o quella secondo la quale rappresenta un pericolo per la sicurezza pubblica interna – si aggiunge quella in cui

il richiedente appartenga a una nazionalità che registri un tasso di riconoscimento della protezione internazionale inferiore al 20 %

come per esempio potrebbe essere nell’ipotesi di un richiedente asilo proveniente dalla Nigeria o addirittura dall’Egitto! Si sottolinea la standardizzazione di tale valutazione che oltretutto si applica anche ai minori stranieri non accompagnati!!

La provenienza da un “paese di primo asilo” inficia la protezione

Il giudizio preliminare sull’ammissibilità o meno della domanda di protezione internazionale in frontiera è inoltre previsto anche nei casi in cui

il richiedente provenga da un «paese di primo asilo» (art. 44): ossia un paese in cui il richiedente ha già goduto e può continuare ad avvalersi non solo di una protezione ai sensi della condizione di Ginevra ma anche semplicemente di «una protezione sufficiente».

Motivo per il quale, se durante l’esame, le autorità ritengono che

il richiedente provenga da un paese in cui anche se non si applica la Convenzione di Ginevra non sussistono minacce per i motivi di cui alla Convenzione stessa, il richiedente non rischi di subire un danno grave e ancora venga rispettato il principio di non-refoulement e garantito il godimento di alcuni diritti – quali la possibilità di soggiornare o di lavorare – allora la sua domanda di protezione internazionale verrà dichiarata inammissibile.

Il potere discrezionale del funzionario. La sindrome Eichmann

Si osservi al riguardo l’enorme discrezionalità da parte delle autorità competenti nella valutazione della sussistenza di tali elementi, anche perché la qualifica di paese di primo asilo è decisa ogni anno proprio da ciascuno degli stessi paesi dell’UE con la predisposizione di specifiche liste. Il giudizio preliminare di ammissibilità si applica infine anche nell’ipotesi in cui

il richiedente provenga da un paese terzo sicuro (art. 45)

ossia un paese nel quale il richiedente può anche essere soltanto transitato ma che venga considerato sicuro non solo in quanto firmatario della Convenzione di Ginevra. E pure nell’ipotesi in cui sia semplicemente idoneo a garantire – come abbiamo visto nel caso del paese di primo asilo – una protezione sufficiente.

L’impianto supportato dagli accordi bilaterali…

In questo caso però la qualifica del paese terzo sicuro non è da rinvenirsi nelle liste predisposte dal paese membro annualmente ma viene considerato tale con una decisione della stessa Unione Europea ossia presumibilmente in base anche agli accordi informali tra questa e i paesi terzi. Tale decisione unilaterale dell’Unione viene operata anche con riferimento alla

qualifica di «paese di origine sicuro» (art. 47), nozione in cui oggi – è bene ricordarlo – si fregia la Turchia e in conseguenza della quale è sempre prevista l’applicazione della procedura accelerata.

Qualora quindi ricorresse una delle succitate condizioni le autorità competenti in frontiera dovrebbero concludere sempre per una dichiarazione preliminare di inammissibilità della domanda di protezione internazionale, in caso contrario invece si potrebbe finalmente accedere alla procedura per il riconoscimento della medesima.

L’intero impianto riporta alle prassi già consolidate nella rotta dell’Egeo: la Turchia infatti per i siriani è già stata considerata di fatto “paese terzo sicuro” perché rispettava (a fronte dei 6 miliardi di euro donati dall’Unione) il principio di non refoulment e perché dava la possibilità a questi di soggiornare legalmente sul territorio a disprezzo e in completo svuotamento di ogni norma del diritto europeo e internazionale che consentirebbe loro di beneficiare di una “forma di protezione” che si ricorda – e non ci dovrebbe essere neanche il bisogno di dirlo – è un diritto ben diverso da quello di consentire semplicemente a un individuo di lavorare nel proprio territorio!

… e da nuovi enormi Lager

Si ricorda che la Turchia – pur essendo firmataria della Convenzione di Ginevra – ha mantenuto la riserva territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato: ciò vuol dire che esso può essere riconosciuto in Turchia solo ai cittadini provenienti dai paesi dell’Unione europea. Sempre con riferimento alla rotta dell’Egeo è chiaro che una previsione della procedura d’asilo strutturata totalmente in frontiera implicherebbe la creazione di enormi campi di detenzione nei paesi di primo arrivo – compreso il nostro – come già avvenuto in Grecia a Leros, Lesbos, SamosKos Chios. Ci si chiede quindi se gli stati membri di primo ingresso e l’Unione stessa siano in grado di sostenere le spese finanziarie derivanti dalla creazione di tali centri considerato il numero dei migranti che dovrebbero essere “contenuti” in regime di detenzione.

Il contrasto degli “irregolari” eccita la Destra nostrana

È facile notare come i nazionalismi di destra al potere attualmente in diversi stati membri dell’Ue compreso il nostro – così contrari alle politiche delle istituzioni europee in particolare a quelle della Commissione – si ritrovino invece perfettamente allineati alle sue decisioni in ambito migratorio quando si tratta di ostacolare l’accesso dei migranti con l’inevitabile compressione dei loro diritti come nel caso dei due regolamenti “procedure” e “screening”.

Sarà pertanto interessante vedere se quegli stessi nazionalismi di destra che rappresentano il nuovo trend politico europeo saranno così d’accordo tra di loro, come negli alti lai per ottenere il riconoscimento della pressione migratoria insopportabile a cui sono sottosti, quando si tratterà di approvare le ulteriori proposte di regolamento che accompagnano il nuovo patto sulla migrazione e l’asilo in primo luogo la già citata Proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione, dove si prevede una «solidarietà obbligatoria».

 

(fonte voxeurope / Tjeerd Royaards)

Solidarietà obbligatoria, ma ordinaria

La proposta di regolamento in esame prevede meccanismi di “solidarietà” volontaria ma obbligatoria da parte di tutti i paesi membri nei casi di sbarchi Sar o pressione migratoria messi in atto quindi soprattutto nei confronti di paesi di primo arrivo come l’Italia. I meccanismi di solidarietà si distinguono tra ordinari e meccanismi di solidarietà speciali/straordinari. I primi rappresentano la solidarietà post sbarchi – operazioni SAR – mentre i secondi sono quelli che si applicano nelle ipotesi di pressione migratoria (art. 50 e seguenti) (oltre che nelle condizioni di crisi e di forza maggiore che vedremo in seguito nello specifico regolamento). I meccanismi ordinari di solidarietà (art. 45, 1) più nello specifico sono:

il ricollocamento delle persone non soggette e trattenute nel corso di procedure di frontiera; la “sponsorizzazione” di cittadini di paesi terzi in condizioni di soggiorno irregolare; il ricollocamento di beneficiari di protezione internazionale entro 3 anni dall’ottenimento della stessa; l’aiuto in termini di “Capacity bulding measures”- ossia il supporto di uno stato membro ad un altro – con riferimento alle misure di sviluppo delle capacità in materia di asilo, accoglienza, rimpatrio.

Con «misure straordinarie di solidarietà» (art. 45,2) che come detto si applicano alla pressione migratoria si intendono invece due sole misure:

il ricollocamento di richiedenti asilo soggetti questa volta alla procedura di frontiera e il ricollocamento di cittadini di paesi terzi in ipotesi di soggiorno irregolare.

Procedimentalizzare la solidarietà ordinaria

Per quanto attiene alla procedura nell’ipotesi di pressione migratoria lo stato membro richiede il riconoscimento alla Commissione di tale situazione. La Commissione in questo caso deve adottare un report finalizzato a condurre una conseguente attivazione degli altri stati membri. Come visto nel caso di pressione migratoria si allarga lo spettro dei destinatari dei ricollocamenti e sono previsti tempi ridotti per la loro attuazione.

Esclusione di Sar e ingressi non autorizzati per procedura

Tutto ciò premesso è chiaro come si escludano dai candidati ai ricollocamenti – previsti nelle procedure ordinarie – i soggetti arrivati a seguito di operazioni di ricerca e soccorso perché sottoposti alla procedura di frontiera (e i soggetti arrivati tramite ingressi non autorizzati). Più in generale il tentativo di questo regolamento è quello di procedimentalizzare la solidarietà ordinaria (artt.47-49). La procedura in primo luogo prevede che la Commissione emani un report annuale nel quale dichiari se uno stato membro dell’Unione sia soggetto ad arrivi ricorrenti e determina ciò che serve a tale stato.
Tale report viene notificato poi agli altri stati con l’invito a contribuire. Gli stati a loro volta notificano alla Commissione i contributi con un piano di risposta indicando, o i ricollocamenti o le misure di sviluppo e capacità o i ricollocamenti di vulnerabili. Una di queste tre misure è necessariamente obbligatoria ma ogni stato liberamente può scegliere.

Solidarietà corretta in salsa ricollocamenti e rimpatri

In seguito la Commissione, con una valutazione discrezionale, se ritiene che le offerte degli altri stati sono sufficienti per la creazione di una “riserva di solidarietà” con un atto di esecuzione ratifica le offerte degli stati (art. 48). Tuttavia, se le offerte non sono sufficienti o meglio sono significativamente inferiori rispetto alle necessità dello stato, la Commissione convoca il “Forum di solidarietà”: gli stati a questo punto possono adottare i piani di aiuto rivisti dalla Commissione che in questo caso vengono messi in un atto di esecuzione.
Invece, se gli stati si rifiutano di rivedere i propri piani di aiuto, la Commissione stessa adotterà un atto di esecuzione nel quale deciderà cosa devono fare gli stati che si sono mostrati “poco generosi”; in particolare, se la discrepanza totale tra quanto offerto e quanto necessario allo stato è maggiore del 30 per cento, ogni altro stato membro sarà obbligato a versare il 50 per cento di una quota minima di solidarietà da intendersi in termini di numero di ricollocamenti, di sponsorizzazione dei rimpatri o di entrambe le misure (meccanismo correttivo della solidarietà).

In particolare, con sponsorizzazione di rimpatri si intende il meccanismo mediante il quale uno stato che non ha nel proprio territorio migranti in condizione di irregolarità da rimpatriare sostenga il rimpatrio di cittadini di paesi terzi irregolari che si trovano in un altro stato membro. Il sistema non appare invero immediatamente efficace considerando che per i primi 8 mesi comunque lo stato membro beneficiario della sponsorizzazione mantiene la responsabilità giuridico-amministrativa del cittadino del paese terzo da rimpatriare mentre lo stato cosiddetto sponsor si impegna piuttosto a un’assistenza da remoto di tipo materiale, logistico e finanziario, mentre nell’ipotesi di rimpatri volontari si occupa della policy dialogue con il paese terzo e offre assistenza durante il viaggio o sull’esecuzione. Se trascorso tale periodo lo stato sponsor non assicura le misure di rimpatrio di cui sopra il rimpatrio diventa ricollocamento: si procede non più al rimpatrio del cittadino del paese terzo ma al ricollocamento del migrante dello stato terzo nel territorio dello stato sponsor. Anche qui tuttavia potrebbe essere sufficiente la mera segnalazione dello stato sponsor che il cittadino del paese terzo potrebbe rappresentare un pericolo per la sicurezza interna per potersi rifiutare di eseguire il ricollocamento. È opportuno dunque analizzare ora più nello specifico la Proposta di regolamento concernente le situazioni di crisi e di forza maggiore.

 

regolamento sullo screening

Ma cos’è questa “crisi”?

Con la nozione di crisi si intende l’esistenza di una situazione eccezionale di afflusso massiccio di cittadini di paesi terzi arrivati in uno stato membro oppure un numero elevato di sbarchi che interessa uno stato UE in esito ad operazioni SAR – Search and Rescue – la cui entità in proporzione all’indice demografico e al prodotto interno lordo di quello stato rende inefficace il suo sistema di asilo e di accoglienza e potrebbe implicare gravi conseguenze sul funzionamento del sistema comune d’asilo in ambito europeo.

Va preliminarmente sottolineato che non vi è nel testo del regolamento alcun riferimento circa le misure che lo stato membro abbia messo effettivamente in campo per gestire i flussi migratori e per prevenire la situazione di crisi. Tale omissione come è facile intuire lascerebbe un ampio margine alla possibilità degli stati membri di strumentalizzare l’attivazione dei meccanismi che discendono dalla situazione di crisi con il chiaro intento di impedire l’ingresso dei migranti nel proprio territorio.
Nel caso di crisi la procedura si struttura in tal modo: lo stato membro presenta una richiesta motivata alla Commissione che – in base alle informazioni che essa stessa provvede a raccogliere, alle informazioni raccolte dall’Eauu e ovviamente a quelle di Frontex – valuta se la richiesta dello stato di crisi sia fondata. Qualora venga ritenuta tale la Commissione emana un atto di esecuzione dello stato di crisi senza che però alcun soggetto esterno e indipendente possa compiere attività di monitoraggio o contestazione in riferimento a tale decisione.

In concreto con l’atto di esecuzione la Commissione autorizza lo stato membro all’applicazione di particolari misure relative alle procedure d’asilo e di rimpatrio per un periodo di 6 mesi estendibile a 1 anno. Infatti il termine per la sola registrazione delle domande d’asilo in caso di crisi potrà essere esteso fino a 4 settimane e prorogato fino a 12 settimane! Il sistema è alquanto pericoloso poiché inevitabilmente vi sarebbero garanzie più limitate in merito ai diritti dei richiedenti asilo considerato che tutta la procedura della richiesta d’asilo in situazione di crisi verrebbe comunque svolta in frontiera e in una condizione di privazione della libertà per tutti i cittadini la cui nazionalità in questo caso vede un tasso di riconoscimento della protezione pari o inferiore al 75 per cento.

Inoltre, anche il rimpatrio sarebbe previsto in frontiera: in questo caso i tempi dell’intera procedura che prevede sempre una condizione di trattenimento dell’individuo – data anche la novità dell’introduzione della presunzione del rischio di fuga del migrante – potrebbero ulteriormente estendersi a livello temporale. Se a fronte di tale svuotamento dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo tuttavia ci si vuole davvero impegnare a trovare degli aspetti positivi di tale procedura – che comunque non bilanciano tale compressione delle tutele giuridiche dell’individuo – questi possono ravvisarsi nella previsione della concessione di una nuova forma di protezione: ossia la cosiddetta “protezione immediata” e nel «rafforzamento dei meccanismi di solidarietà» (art. 2) ma solo se la crisi è in atto e non se vi è un rischio imminente di crisi, nonostante anche il rischio sia compreso nell’art. 1 che definisce l’ambito di applicazione del regolamento. Rispetto al rafforzamento dei meccanismi di solidarietà: i ricollocamenti in questo caso verrebbero previsti

«anche se i richiedenti asilo sono sottoposti alla procedura di frontiera; ai migranti irregolari; a coloro ai quali è concessa la protezione immediata e infine alle persone sottoposte a misure di rimpatrio sponsorizzate da un altro stato membro».

La protezione immediata invece è concessa agli sfollati esposti a un rischio eccezionalmente alto di subire violenza indiscriminata nel proprio paese e se non possono farvi ritorno. Dopo che la Commissione infatti – per mezzo di una decisione di esecuzione – dichiara l’esistenza di una situazione di crisi sulla base degli elementi di cui all’art. 3 stabilisce la necessità di sospendere le domande di protezione internazionale – definendo il periodo di tale sospensione – e di concedere la protezione immediata.

Rispetto alla condizione di forza maggiore, al Considerando 7 del regolamento, si fa riferimento all’«esistenza di circostanze “anormali ed imprevedibiliin ambito migratorio che sfuggono al controllo degli stati membri e le cui conseguenze non avrebbero potuto essere evitate neanche con l’impiego di tutta la dovuta diligenza». (La Commissione come esempi cita l’ipotesi dell’emergenza epidemiologica da Covid 19 e la crisi al confine tra Grecia e Turchia nel 2020).

Nel caso di “forza maggiore” tuttavia diversamente dallo stato di crisi la procedura non si attiva con una richiesta dello stato membro che deve passare al vaglio della Commissione bensì con una semplice «dichiarazione unilaterale dello stato» per cui appaiono ancora più evidenti i margini di discrezionalità che possono insinuarsi in tale procedura. Con la dichiarazione di una situazione di “forza maggiore” infatti lo stato dichiara che

«non sarà in grado di rispettare i termini per la procedura di richiesta asilo per cui potranno essere estesi fino a quattro settimane».

Non solo, rispetto al diritto del richiedente a una risposta in merito alla propria domanda d’asilo, lo stato

«dichiara che non sarà possibile rispettare i termini della procedura in termini di “presa (e ripresa) in carico” del richiedente e i limiti previsti per il trasferimento del medesimo verso lo stato competente in base al regolamento Dublino. Infine, lo stato dichiara che non sarà possibile rispettare neanche l’obbligo dell’attuazione delle misure di solidarietà che quindi potranno essere sospese fino a 6 mesi».

Anche in questo caso l’unico aspetto positivo è la previsione della concessione al migrante della protezione immediata – già menzionata con riferimento alla situazione di crisi – che deve essere concessa

«nell’evenienza della sospensione della domanda di protezione internazionale e sulla base della quale il cittadino del paese terzo possederà gli stessi diritti sociali ed economici del titolare di protezione sussidiaria».

In ogni caso al termine del periodo di sospensione gli stati dovranno valutare nel merito la domanda di protezione internazionale.

In conclusione, dall’analisi di tali proposte di regolamento sorprende non solo la mancanza, ancora una volta, di qualsiasi previsione di vie legali per l’accesso al territorio dell’Unione che non siano legate alla domanda di protezione internazionale – visto che in molti casi si presuppone la sua inammissibilità – ma quanti sforzi, e quali elucubrazioni ed acrobazie giuridiche si riescano a ideare pur di non rispettare principi fondamentali sui diritti degli individui che – prima ancora che nelle Convenzioni internazionali e nel diritto europeo – sono sanciti all’interno di ordinamenti nazionali come il nostro in particolare nella Costituzione all’art. 10 co. 3 e che i partiti nazionalisti qualificandosi come tali dovrebbero per coerenza rispettare e fare rispettare senza alcuna condizione di sorta in quanto principio immodificabile come deciso dai nostri padri costituenti.

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n. 15 – Rotta atlantica: patti scellerati e muri invalicabili https://ogzero.org/rotta-atlantica-patti-scellerati-e-muri-invalicabili/ Thu, 18 Nov 2021 16:28:22 +0000 https://ogzero.org/?p=5362 Il Mediterraneo occidentale è il teatro naturale della rotta atlantica, via percorsa dai migranti obbligati a sfidare l’Oceano Atlantico invece del Mediterraneo per approdare alle sponde europee da accordi economico-politici tra l’Europa e i loro paesi. Dal Plan de Canarias agli Accordi di Abramo, sulla pelle dei migranti si consuma il crimine dei potenti che […]

L'articolo n. 15 – Rotta atlantica: patti scellerati e muri invalicabili proviene da OGzero.

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Il Mediterraneo occidentale è il teatro naturale della rotta atlantica, via percorsa dai migranti obbligati a sfidare l’Oceano Atlantico invece del Mediterraneo per approdare alle sponde europee da accordi economico-politici tra l’Europa e i loro paesi. Dal Plan de Canarias agli Accordi di Abramo, sulla pelle dei migranti si consuma il crimine dei potenti che erigono muri invalicabili e respingono, confinano e segregano, calpestando i diritti umani, approfittando della povertà e dell’instabilità politica dei paesi africani con cui stipulano scellerati trattati bilaterali.

Fabiana Triburgo analizza i meccanismi geopolitici alla base di questa rotta riaperta negli ultimi due anni prima di spostare lo sguardo, prossimamente, sull’ultimo percorso che riguarda le sponde europee, il Mediterraneo centrale.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Vecchi e nuovi approdi del Mediterraneo occidentale

L’espressione ripetuta più volte nel 2020 e nel 2021 “riapertura della rotta atlantica” nasconde fenomeni molto complessi sul piano geopolitico rispetto ai quali la questione migratoria è soltanto la loro inevitabile propagazione. Invero la riapertura di tale rotta non è semplicemente legata alle dinamiche politiche che hanno interessato negli ultimi anni le altre rotte, come quella dell’Egeo, del Mediterraneo centrale o ancor di più, come vedremo, quella del Mediterraneo occidentale, ma il gioco forza di rilievo internazionale, nel quale sono protagonisti Spagna, Marocco, Unione Europea, Algeria, Stati Uniti e diversi paesi dell’Africa subsahariana tra cui Senegal, Mauritania e Gambia, per citarne alcuni. La rotta venne attraversata per la prima volta nel 1994 da due migranti provenienti dal Sahara occidentale ma viene ricordata ancora oggi, negli ambienti competenti in materia di migrazione, per la grande crisi umanitaria dei “cayucos” –  le piccole imbarcazioni dei pescatori simili a canoe – a bordo delle quali, tra il 2005 e il 2006, circa 36.000 migranti provenienti dall’Africa, nello specifico dal Senegal e dalla Mauritania, cercarono di raggiungere le isole Canarie.

Le ragioni di ieri rispetto a tale flusso migratorio sono quelle di oggi, almeno in parte.

In quella circostanza le politiche nazionali, fortemente repressive rispetto al fenomeno migratorio – portate avanti all’inizio del 2000 tramite il Sive – ossia il Servizio Integrale di Vigilanza Esterna dell’esecutivo spagnolo dotato di radar e di strumenti tecnologici avanzati per l’identificazione dei migranti – vennero dispiegate soprattutto sulla rotta del Mediterraneo occidentale che ha ancora oggi come tappe di transizione/destinazione le enclavi spagnole di Ceuta e Melilla distanti rispettivamente 182 e 270 chilometri da Malaga, al confine con il Marocco. Esse sono le uniche frontiere terrestri dell’UE in Africa. Tra il 1995 e il 2005 di fatti si iniziò la progettazione delle prime due barriere terrestri, alte circa tre metri ciascuna a protezione delle due enclavi, finalizzate all’impedimento di ogni spinta migratoria indirizzata verso le medesime.

I primi muri

Tali barriere vennero successivamente innalzate fino a 7 metri grazie ai finanziamenti dell’Europa, sostituendo le lame alla sommità, con un’ulteriore barriera di cemento. Vale la pena sottolineare che i due muri furono i primi a essere eretti dopo la caduta del muro di Berlino, dimostrando come la storia spesso conceda spazi di regressione più avanzati di quelli di evoluzione che tra l’altro sembrano non avere argine, dato che nel 2020 si è giunti al terzo innalzamento dei muri fino a 10 metri ossia alla creazione della recinzione più alta al mondo che circonda Ceuta per 8 km e Melilla per 12 km ipocritamente annunciata come un mezzo per eliminare l’odioso filo spinato.

Peccato che al suo posto è stato previsto un cilindro di acciaio che rende impossibile la presa da parte dei migranti, il tutto costato soltanto 17 milioni di euro!

Proprio in tale ultimo dato è da rinvenirsi, come si accennava, una delle cause della cosiddetta riapertura della rotta atlantica: la decisione dei migranti di attraversare un’area marittima molto più pericolosa ossia quella dell’Oceano Atlantico – sottoposta a numerose quanto imponenti correnti – in luogo del Mar Mediterraneo, non è certo spontanea. Questa infatti è stata imposta dalla chiusura pericolosa talvolta mortifera, ostinata e triplicemente rinnovata, con l’innalzamento dei muri da gli anni Novanta del Novecento al 2020, in prossimità del percorso più sicuro al confine con il Marocco nel quale le enclavi di Ceuta e Melilla sarebbero più che luoghi di destinazione dei migranti – pur essendo territorio spagnolo a tutti gli effetti – meri punti di transito per accedere alla penisola iberica, mediante l’attraversamento dello stretto di Gibilterra.

Va registrato poi il fenomeno delle “porteadoras de Melilla” (le donne-mulo), che camminano per giorni e aspettano in fila con grosse merci caricate sulle spalle senza potersi sedere ne accedere ai servizi igienici e vengono fatte passare a Ceuta e Melilla in ragione delle merci che interessano alla Spagna

Patti scellerati

Da menzionare inoltre è anche la repressione attuata nella rotta denominata “El Corredor”, corridoio del Mar Mediterraneo tra l’Algeria occidentale e la penisola iberica, percorso prevalentemente da algerini nel quale si registra una attività di criminalizzazione del fenomeno migratorio e di intercettazione da parte delle autorità algerine. Non è solo questo tuttavia ad aver lasciato ai migranti come ultima sponda tra le rotte marittime quella più ad ovest per il raggiungimento dei confini europei ma anche la chiusura sancita nel 2016 della rotta dell’Egeo e soprattutto quella del Mediterraneo centrale bloccata dall’accordo Italia-Libia del 2017.

Anche la rotta del Mediterraneo occidentale tuttavia, in una logica di pericolosa emulazione, registra un’importante recente chiusura, come se già non fosse stata sufficientemente blindata – determinata da un ulteriore accordo, uno dei tanti presumibilmente siglato a dicembre del 2020 tra Marocco e Spagna, in base al quale la monarchia magrebina di Mohamed VI si sarebbe impegnata a riammettere dalla Spagna circa 80 persone a settimana tramite l’Air Maroc Royal. A tale accordo vanno aggiunti quelli siglati con la Mauritania disposta ad accogliere i migranti rimpatriati dalla Spagna non solo mauritani ma cittadini di qualsiasi altro paese dell’Africa subsahariana e occidentale. Infine, si registrano accordi bilaterali tra Spagna e Senegal. Come è facilmente intuibile anche in questo caso le riammissioni vengono implicitamente legittimate sulla base della nozione di paese terzo sicuro assegnata ai paesi africani come lo stesso Marocco.

Tale importante e “prestigioso” titolo di riconoscimento assegnato alla Libia per il Mediterraneo centrale e alla Turchia per l’Egeo è solo uno stratagemma politico per non entrare in contrasto con la propria coscienza almeno davanti all’opinione pubblica.

Un po’ di numeri

Si arriva così all’impressionante numero di 23.000 persone che tentano di raggiungere le isole Canarie nel 2020 rispetto ai 2557 arrivi registrati nel 2019. Per il 2021 i dati sono in ulteriore peggioramento: nei primi 6 mesi sono circa 7000 le persone che hanno già tentato di raggiungere le Canarie e 50 i morti ufficiali, con un gran numero di dispersi senza nome ottenibile soltanto grazie alle testimonianze dei familiari dei naufraghi. Occorre inoltre tener presente che, secondo i dati relativi al 2020 e al 2021, la rotta presenta specifiche caratteristiche: è percorsa da uomini, adulti o minori stranieri non accompagnati principalmente provenienti da Marocco, Mauritania, Senegal, Gambia.

Dai molteplici punti di partenza si riesce dunque a intuire come il viaggio lungo l’oceano Atlantico possa durare 24 ore come 10 giorni.

Oltre tuttavia alla blindatura delle rotte del Mediterraneo occidentale e del Mediterraneo centrale, in ragione della quale i migranti pur di non soffocare nelle sabbie del deserto del Sahara in Niger o per non finire nei lager libici, sono stati costretti a deviare verso le coste del Senegal o della Mauritania, nelle quali è comunque quasi sempre presente Frontex accanto alla Guardia Civil, vi è un’ulteriore concausa della riapertura della rotta atlantica ossia quella della pandemia. Con la diffusione del virus da Covid-19 è stata adottata da quasi ogni paese la chiusura delle frontiere terrestri, marittime e aeroportuali per cui i migranti si sono diretti dove minori erano i controlli ossia verso le coste dei paesi dell’Africa occidentale dai quali con delle imbarcazioni di fortuna hanno cercato di raggiungere le isole Canarie. A ciò deve essere aggiunto l’effetto collaterale della crisi economica determinata dalla pandemia – in ragione delle misure di lockdown e di distanziamento sociale – che ha messo ulteriormente in ginocchio paesi africani già a basso reddito e caratterizzati da una forte instabilità politica che hanno subito anche il forte crollo delle rimesse provenienti dall’estero. Infine, non si può ignorare l’accordo sulla pesca tra Senegal e Unione europea in vigore dal 1979 e costantemente rinnovato che ha tolto ancor di più lo scorso anno un mezzo di sussistenza essenziale, quale quello del mercato ittico, al paese già in una drammatica situazione di indigenza economica. Alla depredazione delle risorse derivanti dalla pesca nelle acque e dei fondali senegalesi si ricorda anche la partecipazione della Cina.

Punto d’arrivo: il molo di Arguineguìn

A partire da agosto fino a novembre del 2020, la situazione degli sbarchi nelle isole Canarie diventa esponenziale: nello specifico nel molo di Arguineguìn, nell’Isola di Gran Canaria, nell’estate del 2020 sono giunti in un campo allestito dalla Croce Rossa, destinato ad accogliere 400 persone, 2600 migranti senza l’applicazione di alcuna forma di distanziamento sociale o di controllo dell’eventuale trasmissibilità del virus mediante tamponi.

Successivamente i migranti sono stati trasferiti in strutture alberghiere preesistenti e ivi trattenuti per oltre 72 ore contrariamente a qualsiasi normativa nazionale, europea e internazionale, in merito alla libera circolazione delle persone.

La risposta dell’esecutivo spagnolo in conseguenza di tale scenario è stata, oltre come detto alla sigla di un accordo a fine dicembre dello scorso anno con il Marocco, il dispiegamento del Plan Canarias il terzo piano di accoglienza applicato nel contesto della migrazione attraverso l’Atlantico da parte della Spagna. Ecco che in tale sistema organizzato, ritroviamo il medesimo approccio riscontrato nella rotta dell’Egeo con un confinamento illegittimo dei migranti nelle isole e con la conseguente impossibilità di giungere alla piattaforma continentale, in quel caso quella ellenica in questo quella iberica.

Hotspot = centri detentivi

Come se ciò non bastasse si sono messe in atto vere e proprie politiche discriminatorie nella zona di transito aeroportuale dell’isola di Gran Canaria con impedimento a raggiungere la Spagna continentale per coloro che non fossero turisti o comunque dotati di un passaporto comunitario. Ciò sarebbe avvenuto in conseguenza di un’istruzione da parte del ministero degli Interni spagnolo che ha stabilito che nessuna persona migrante, anche dotata di passaporto, presente nell’isola potesse proseguire il proprio viaggio liberamente verso altre città spagnole. Con il Plan Canarias del 2020 dunque si conferma la politica sistemica dell’Unione e dei paesi che ne fanno parte della creazione di grandi hotspot nelle isole europee che, per modalità assomigliano a veri e propri centri detentivi, schermati dietro la dizione di “Centri temporanei di accoglienza” e strategicamente accompagnati all’intenzione, semplicemente dichiarata e mai attuata, di trasformarli in “Centri di integrazione”. Tali centri – in spagnolo detti Cate – previsti dal Plan Canarias, sono come al solito sottoposti a un costante controllo poliziesco, situati in luoghi di difficile accesso, con limitazione della libertà di movimento e dei diritti di assistenza legale e sanitaria, in ambienti gravemente insalubri come ha testimoniato Human Rights Watch in un recente rapporto. I centri a Gran Canaria quasi tutti ricavati da ex strutture carcerarie o da basi militari e riconvertiti in centri di accoglienza sono: il “Canaria 50”, il “Collegio Leon”, il Cate di “Barranco Seco” e quello di “Bankia” ricavato da un ex poligono. Per quanto riguarda Tenerife invece i Cate sono quello di “Las Raíces” e “Las Canteras” mentre a Fuerteventura si registra la presenza di un solo Cate quello di “El Matorral”.

Al proposito una testimonianza di Mirca Leccese, attivista di Un ponte per Moria, in questo novembre 2021 complice proprio a Tenerife delle persone “custodite” nei campi delle Canarie:

“Lo snodo di Tenerife sulla rotta atlantica”.

Soccorso in mare militarizzato

A peggiorare ulteriormente la situazione in tale rotta è il mutamento del sistema di salvataggio in mare nel 2018, anno in cui con l’istituzione del comando unico in Spagna sì è passati a una militarizzazione del soccorso in mare. Infatti, prima del 2018 l’attività di soccorso marino veniva ordinata da un pubblico impiegato o da un vice delegato del governo ossia da un civile, mentre con l’istituzione del comando unico al vertice delle attività di salvataggio vi è un organismo che dipende dalla Guardia Civil che è un corpo militarizzato dipendente a sua volta dal ministero degli Interni che coordina tutte le operazioni di soccorso in mare. Tale comando unico pur includendo al di sotto, come con il comando civile – secondo un ordine gerarchico il capitano di marina, una torre di controllo e l’imbarcazione di salvataggio – non prevede più la localizzazione fisica del barcone sul quale transitano i migranti e quindi, l’attività di salvataggio non parte secondo gli stessi tempi di allora.

Attualmente infatti, occorrono circa quattro ore per raggiungere i migranti in mare quando prima invece si riusciva a raggiungere i naufraghi in 30/40 minuti: è agevole intuire come il tempo abbia un ruolo determinante in tale attività rappresentando la maggiore rapidità dei soccorsi una maggiore probabilità che delle vite vengano salvate.

Occorre dunque ora analizzare alcuni aspetti geopolitici alla base della dura repressione della rotta del Mediterraneo occidentale che, come detto, impone ai migranti di optare per la mortifera rotta atlantica. il Marocco infatti viene comunemente definito il gendarme di Europa per l’impedimento imposto ai migranti dell’Africa occidentale e subsahariana ad accedere al territorio delle enclavi di Ceuta e Melilla ma non possiamo ignorare l’evento eccezionale avvenuto a Ceuta nel maggio scorso, quando circa 8000 migranti sono stati fatti passare nel territorio spagnolo dell’enclave senza alcuna forma di controllo da parte delle forze di polizia marocchina.

Il dossier del Sahara occidentale

Per capire le ragioni di tale insolito approccio della monarchia è necessario far riferimento al dossier del Sahara occidentale: su tale territorio dopo il cessate il fuoco del 1991 il Marocco ha sempre rivendicato la propria autorità nazionale, mentre il Fronte Polisario che invece rivendica con la Rasd l’indipendenza della Repubblica araba democratica dei Sahrawi, appoggiata dall’Algeria e sostenuta dalle risoluzioni delle Nazioni Unite si oppone a tale posizione di forza da parte del Marocco.

Le terre del Sahara occidentale interessano al Marocco perché il territorio è ricco di fosfati allo stesso tempo per l’Algeria l’alleanza con il Fronte Polisario garantisce quell’eventuale sbocco sull’oceano Atlantico che geograficamente, diversamente dal Marocco, non detiene.

Quando dunque la monarchia di Mohamed VI è venuta a conoscenza che la Spagna ad aprile del 2021, su pressione dell’Algeria, suo principale fornitore di gas, ha accolto il leader del Fronte Polisario Ghali “per ragioni umanitarie”, in quanto malato di cancro e contagiato dal Covid-19 in una forma grave, il Marocco per ritorsione ha deciso di aprire il “rubinetto dei migranti”.  Va specificato in ogni caso che la pretesa di un riconoscimento da parte della Spagna e dell’Europa tutta della propria sovranità da parte del Marocco sui territori del Sahara occidentale, giunge all’indomani del riconoscimento concesso in tal senso da parte dell’amministrazione Trump, in esito alla firma degli Accordi di Abramo nel 2020, con i quali Rabat ha sancito il proprio sostegno allo Stato di Israele. La questione migratoria è stata rapidamente risolta come al solito con un accordo tra Marocco e Spagna nel 2021 con il quale si è stabilito il rimpatrio di circa 40 migranti stranieri ogni due ore al giorno, per cui nei giorni successivi allo sbarco degli 8.000 migranti, 5.000 già erano stati rimpatri in Marocco.

Madrid. Manifestazioni in favore del popolo saharawi (foto Valentin Sama-Rojo / Shutterstock)

Marocco: il ricatto sulla pelle dei migranti

Tuttavia, anche nel 2018 il Marocco – che in realtà vorrebbe la sovranità sulle due enclavi o comunque una cogestione delle stesse con la Spagna – ha fatto pressione strumentalizzando i migranti facendo salire il numero degli sbarchi nella penisola iberica a circa 56.000 mediante proprio il passaggio nelle due enclavi. In quel caso infatti la Monarchia marocchina consapevole dell’accordo UE-Turchia e del pagamento a favore di quest’ultima di 3 miliardi di euro per la gestione dei flussi migratori del levante e dei circa 130 milioni elargiti alla Libia nell’anno successivo da parte dell’UE (per la gestione di quelli del Mediterraneo centrale) ha preteso, alla stregua di un ricatto, un ingente finanziamento dall’Europa che non ha tardato ad arrivare:

il Marocco si è aggiudicato così la cifra di 140 milioni di euro nel 2018 per il confinamento e la segregazione dei migranti perfino di quelli con cittadinanza marocchina.

È facile dunque intuire come il Marocco in Africa rispetto alla questione migratoria si stia atteggiando come la Turchia in Medio Oriente, facendo leva però sull’appoggio degli Stati Uniti e sugli ottimi rapporti di partenariato con quasi tutti i paesi dell’Africa subsahriana, nonché del ruolo fondamentale che detiene, data la propria posizione geopolitica come potenziale freno degli intenti terroristici provenienti dalla parte sud del continente africano. Tutto ciò fa emergere come l’area del Maghreb sia tutt’altro che unita, se si fa riferimento al rapporto di forte opposizione che intercorre tra Marocco e Algeria, dovuto non solo al dossier del Sahara occidentale ma anche al ruolo delle due potenze rispetto al Mediterraneo. Si ricorda in tal senso che, con la recente rivendicazione unilaterale della propria Zee nel Mediterraneo, l’Algeria è arrivata a sfiorare anche le coste marocchine. Vale la pena inoltre ricordare che lo scorso 3 novembre vi è stato un presunto assalto delle autorità marocchine a mezzi di trasporto algerini che transitavano in Mauritania dopo che, qualche mese prima, l’Algeria aveva dichiarato ufficialmente e unilateralmente chiusi i rapporti diplomatici con il Marocco.

Il rapporto Algeria-Libia

Ciò è particolarmente rilevante rispetto al conflitto libico – momentaneamente sospeso – e dagli effetti che esso propaga sulla questione migratoria, con i lager e le morti nel Mediterraneo centrale. Vale la pena ricordare come l’Algeria infatti si sia sempre posta, rispetto al conflitto libico, come paese non allineato astenendosi innanzitutto dall’appoggio all’intervento Nato che ha portato alla caduta del regime di Gheddafi. D’altra parte l’Algeria che confina con la Libia rappresenta la prima potenza militare africana, armata dalla Russia che invece in Libia ha un ruolo rilevante nella regione della Cirenaica in cui da anni – come già analizzato in precedenza – foraggia la presa di potere sull’intero territorio libico da parte di Haftar. Analizzeremo come tutto ciò abbia un effetto sull’(in)stabilità del governo ad interim libico e sulla questione migratoria addentrandoci nell’ultima delle rotte marittime che coinvolgono il territorio dell’Unione.

L'articolo n. 15 – Rotta atlantica: patti scellerati e muri invalicabili proviene da OGzero.

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n. 13 – Rotta balcanica: il Game, simbolo del fallimento europeo https://ogzero.org/il-fallimento-delle-politiche-migratorie-la-rotta-balcanica/ Thu, 16 Sep 2021 09:45:18 +0000 https://ogzero.org/?p=4908 Se esiste una rotta migratoria che simboleggia il fallimento delle politiche migratorie europee è quella balcanica, un percorso che cambia direttrici adeguando il passo, la resistenza al clima, alla fame e alle malattie, al disastro umanitario del momento. Il Game (non a caso il termine significa in italiano anche “cacciagione”) è ormai un gioco violento, […]

L'articolo n. 13 – Rotta balcanica: il Game, simbolo del fallimento europeo proviene da OGzero.

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Se esiste una rotta migratoria che simboleggia il fallimento delle politiche migratorie europee è quella balcanica, un percorso che cambia direttrici adeguando il passo, la resistenza al clima, alla fame e alle malattie, al disastro umanitario del momento. Il Game (non a caso il termine significa in italiano anche “cacciagione”) è ormai un gioco violento, perpetrato dalla fortezza Europa che i migranti tentano di vincere valicando muri, superando respingimenti illeciti, subendo accordi disumani tra paesi non sicuri e tornando e ritornando sui loro passi per anni.

Fabiana Triburgo qui delinea gli errori strategici sostanziali dell’Unione, che sfociano in una vera e propria violazione dei diritti umani.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Il transito dei migranti lungo la cosiddetta rotta balcanica non è certo semplicemente un fenomeno relativo alla mobilità umana che riguarda una specifica area geopolitica ma l’espressione di una politica migratoria che, al di là degli orientamenti, non può essere ignorata poiché gravissima è la violazione dei diritti umani perpetrati sulla stessa. È necessario prendere coscienza di quanto sta avvenendo e di quanto è accaduto perché l’omertà e la volontà di confinare e segregare per non rendere visibili i migranti non potrà mai essere una soluzione autentica e sicuramente non rende giustizia ai tanti individui che migrano da un paese all’altro della rotta –  europeo o non – e che, nelle migliori delle ipotesi una volta respinti, vengono derubati, picchiati, umiliati, derisi.

Ciò avviene contrariamente a qualsiasi disposizione normativa in materia sia essa nazionale, sovranazionale, internazionale. La strategia di rendere i migranti folli attraverso il Game –  così viene denominato questo orrendo e assurdo gioco –  respingendoli sistematicamente da un paese all’altro lungo la rotta, costringendoli a ripartire dopo i respingimenti dal “punto zero”, venti, trenta, cinquanta volte continua tuttavia spesso a non funzionare: grande la soddisfazione e l’ammirazione di chi scrive nel momento in cui alcuni di questi individui comunque riescono ad entrare in Europa, non per l’impiego di reinsediamenti dai paesi terzi a paesi dell’Unione, ma grazie solo alle loro forze.

Nessuna politica illogica, assurda, strategicamente programmata e attuata da chi è in una posizione di potere può contrastare la forza umana di chi lotta perché non ha alternative. E fintanto che vi è qualcuno che lotta il minimo è che ci sia qualcuno che scriva con profondo rispetto.

Vecchia rotta, nuova rotta

Iniziamo pertanto a dare alcuni riferimenti temporali rispetto alla mobilità dei migranti in tale area che non è una recente emergenza umanitaria riguardante i cosiddetti Balcani occidentali a meno che non la si consideri volutamente indotta. Il primo passo per accostarsi alla comprensione del fenomeno richiede “un salto” all’indietro di almeno cinque-sei anni. Con rotta balcanica si intende invero quel percorso che i migranti compiono passando attraverso il Nord della Grecia, Macedonia del Nord, Bulgaria, Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia. Dapprima era “legalizzata”: nel 2015 e nei primi mesi del 2016 circa un milione di persone, per lo più siriani, attraversarono a piedi tale area senza quasi alcun impedimento degli stati al passaggio dei migranti alle frontiere nei paesi UE ed extra UE che sono parte del percorso. Per alcuni anni la migrazione nei Balcani ebbe infatti come tappe Turchia, Grecia, Macedonia del Nord, Serbia e Ungheria nell’evidente tentativo dei migranti di arrivare prevalentemente verso Germania e Francia. Tuttavia, la rotta a oggi continua ad essere percorsa da un rilevante numero di individui nonostante tutti gli strumenti di deterrenza impiegati nei loro confronti nel corso degli anni.

Migranti in Ungheria, vicino al confine con la Serbia (foto Gémes Sándor/SzomSzed).

Chi passa e dove

I migranti sono prevalentemente afghani, siriani, iracheni, pakistani e iraniani rispetto ai quali in parte abbiamo già analizzato le situazioni dei paesi d’origine che danno luogo alle migrazioni forzate. Nel 2015 dunque la Turchia fu interessata dal passaggio di un rilevante numero di profughi che confluirono verso l’Egeo e verso i paesi dei Balcani per raggiungere l’Europa occidentale, ma i mezzi adottati in seguito da questi e dall’UE – finalizzati all’impedimento dell’ingresso alle frontiere – determinarono un mutamento nel 2018 dell’originario percorso che oggi registra nella Bosnia ed Erzegovina il maggior numero di presenze di migranti sul percorso, in particolare nel cantone di Una Sana al confine con la Croazia.

Da campi emergenziali a campi di confinamento

Dopo la chiusura del Campo di Bira nel settembre 2020 nel cantone se ne è costruito un altro nel maggio dello stesso anno, quello di Lipa (a cui si riferisce il video) la cui gestione era stata affidata all’Oim che a dicembre 2020 ha lasciato il campo a causa delle condizioni disumane nelle quali erano trattenuti i migranti, sprovvisti di acqua e di corrente elettrica. All’abbandono del campo dell’organizzazione internazionale ne è seguito l’incendio ma attualmente sopra le macerie della vecchia tendopoli si stanno costruendo dei container: da campo emergenziale Lipa sta divenendo campo temporaneo di confinamento dei migranti che consente l’accoglienza di sole 1.500 persone strategicamente posizionato su un altopiano, lontano 25 chilometri dal primo centro abitato ossia dalla città di Bihać.

La polizia bosniaca trasferisce nel campo di Lipa centinaia di migranti (aprile 2020, foto Ajdin Kamber / Shutterstock).

Muri e liste di ammissione

Appare evidente che stia divenendo prassi consolidata la creazione di hotspot ai confini delle frontiere dell’Unione, come emerge anche dalla lettura del nuovo patto sulla migrazione e l’asilo. Non si può in tale ricostruzione quindi ignorare quali siano stati i più gravi espedienti utilizzati per la compressione dell’applicazione del diritto d’asilo che hanno contribuito al cambiamento delle correnti migratorie. A partire dal luglio 2015 l’Ungheria iniziò a costruire un muro costituito da una barriera metallica al confine con la Serbia lungo 175 chilometri e successivamente un altro al confine con la Croazia; a tali imponenti barriere fisiche si aggiunsero – in una logica di pericolosa emulazione – le recinzioni della Slovenia al confine con la Croazia e della Macedonia del Nord al confine con la Grecia. Belgrado, che era uno degli snodi fondamentali della Rotta confinando con Ungheria, Croazia e Romania cominciò negli anni successivi la gestione dei flussi migratori in collaborazione con il governo ungherese mediante liste di ammissione dei migranti.

Il famigerato accordo UE-Turchia

Si arrivò dunque a quel famigerato quanto costoso accordo – ossequiosamente rinnovato – tra Unione Europea e Turchia del marzo del 2016 per il successivo triennio, con impegno di bonifico di 6 miliardi di euro entro il 2018 da parte della prima a quest’ultima, secondo il quale «tutti i nuovi migranti che hanno compiuto la traversata dalla Turchia alle isole greche a decorrere dal 20 marzo 2016 saranno rimpatriati in Turchia» e chiaramente sottolineando che ciò sarebbe avvenuto «nel rispetto del diritto dell’Unione e internazionale escludendo le espulsioni collettive» e che «una volta fermati o per lo meno drasticamente e sensibilmente  ridotti gli attraversamenti irregolari tra Turchia e UE» sarebbe stato attivato «un programma  volontario di ammissione umanitaria degli stati membri dell’Ue».

Il coivolgimento della Grecia il collegamento alla rotta dell’Egeo

Al di là dei discorsi di facciata – utili quando bisogna nascondere altre intenzioni – sembra che di fatto non sia andata esattamente così. Chiudendo quel flusso migratorio tra Grecia e Turchia se ne generò un altro verso il confine terreste turco-bulgaro che poi è sfociato nuovamente in Grecia. Rispetto alla rotta dell’Egeo, la cui analisi è collegata a quella balcanica, all’accordo del 2016 seguì la creazione di fatto di “hotspot” mediante la restrizione geografica operata, nei confronti dei migranti, nelle cinque isole greche – prima di accedere alla Grecia continentale – nelle quali si istituirono centri di accoglienza e di identificazione volti al contenimento dei flussi migratori e con essi anche delle domande d’asilo.

Se tale politica in un primo periodo ha determinato una sensibile diminuzione degli ingressi dei migranti, non ha evitato che la Grecia dal 2017 al 2019 fosse comunque la prima frontiera tra i paesi UE a essere attraversata.

La registrazione nel Paese di 121.000 persone nel 2020, anno che ha visto l’esasperazione delle condizioni nei centri nelle isole greche, come avvenuto in quello di Moira a Lesbo, non ci consente di soprassedere rispetto al fatto che i migranti appartenenti alle nazionalità succitate non solo non si sono mai fermati in conseguenza dell’accordo, dei muri e delle recinzioni ma molti di loro hanno continuato a optare oltre che per l’altra rotta marittima, ossia verso le principali città dell’Adriatico, nascosti nei tir diretti in Italia, per la percorrenza della via terrestre in prossimità del fiume Evros, al confine greco-turco, andando a confluire nuovamente nella rotta balcanica.

Il campo di Moira devastato dall’incendio.

Torna lo snodo di Idomeni

Oggi l’ex campo di Idomeni, il primo campo della rotta balcanica, costruito sul confine tra Macedonia del Nord e Grecia (sgombrato nel 2016) è nuovamente il simbolo di uno snodo principale per chi tenta di raggiungere attraverso i Balcani l’Europa centrale: la Grecia – così come la Bulgaria, la Croazia, la Slovenia e l’Ungheria, ma di recente anche l’Albania e la Romania – non sono certamente paesi di destinazione dei migranti, ma di transito, sebbene facciano parte dell’Unione, e considerati i trattamenti, ai quali sono sottoposti in essi se ne intuisce anche il motivo.

Immagine da un video di Bledar Hasko, campo di Idomeni.

Divieto di respingimento: riconosciuto e poi violato

Come noto lungo la rotta balcanica si attuarono e si attuano numerosi respingimenti: con tale espressione ci si riferisce a quegli atti coercitivi messi in atto da parte delle autorità di pubblica sicurezza di uno stato mediante l’impedimento all’ingresso nel proprio territorio di cittadini stranieri privi del titolo per l’ingresso o attraverso il rinvio verso un altro stato di individui che già sono presenti nel territorio. Tali atti – legittimi in quanto basati sul principio della sovranità nazionale riconosciuto agli stati secondo il diritto internazionale – trovano tuttavia il proprio limite nel rispetto dei diritti umani e di altri principi internazionali come quello sancito dal divieto di respingimento (non refoulement) considerata norma accettata e riconosciuta dalla Comunità internazionale della cui violazione da parte degli stati dell’UE si è già precedentemente argomentato nell’introduzione di questa sezione del saggio dedicata alle rotte migratorie. Si aggiunge che spesso i respingimenti lungo la rotta balcanica sono collettivi e come tali vietati secondo quanto stabilito dall’art.4 del quarto protocollo addizionale della Cedu.

Il confine croato respinge “a catena”

Ciò che rileva è che una buona parte degli individui che sono attualmente confinati nella rotta riferisce di essere stata respinta “a catena” dall’Italia o dalla Slovenia fino alla Croazia, paese dal quale poi sono stati ulteriormente respinti violentemente in Bosnia ossia fuori dalle frontiere dell’Unione: secondo il Danish Refugee Council da maggio del 2019 a novembre del 2020 circa 22.550 sono stati i respingimenti sommari dalla Croazia alla Bosnia.

In tale ambito dei respingimenti a catena per lo più collettivi, l’elemento sul quale è necessario soffermarsi è quello delle riammissioni “informali” dei migranti, non solo di quelle attuate dalla Croazia relativamente ai migranti respinti dalla Slovenia, ma anche di quelle della Slovenia in conseguenza degli accompagnamenti forzati alla frontiera da parte dell’Italia.

L’Italia e le riammissioni informali

La questione assume una particolare rilevanza se si considera che la Slovenia dal primo luglio ha assunto la presidenza del Consiglio dell’Unione fino al 31 dicembre e che perciò nei prossimi mesi avrà un ruolo strategico per quanto riguarda il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo proposto dalla Commissione UE. Si ricorda che il governo italiano ha ammesso nel 2020 di aver collaborato con la Slovenia alle riammissioni informali, in esito ad un’interrogazione urgente dell’onorevole Riccardo Magi del luglio del 2020 che chiedeva di far chiarezza in merito alle operazioni di Polizia al confine italo-sloveno. L’Italia ha collaborato a tali riammissioni con la Slovenia all’incirca da maggio del 2020 fino almeno a gennaio del 2021: con l’ordinanza del Tribunale di Roma del 18 gennaio 2021 è stato accolto il ricorso d’urgenza presentato da un cittadino pakistano che dichiarava di essere stato ricondotto dall’Italia alla Slovenia, quindi in Croazia e infine in Bosnia. All’uomo assistito da Asgi è stata concessa la riammissione in Italia con un visto umanitario.

E l’Europa?

Per quanto attiene gli aspetti giuridici – nelle ipotesi di accompagnamenti forzati da un paese dell’Unione, nei confronti di un altro paese dell’Unione che effettua le riammissioni – occorre argomentare sul diritto d’asilo, inteso come diritto d’accesso alla domanda di protezione internazionale, nonché sul concetto di individuazione del paese UE competente a trattare in merito alla domanda d’asilo.

Il diritto d’asilo nel nostro ordinamento nazionale è disciplinato dall’art. 10 co. 3 della Costituzione ed è un pilastro di questa essendo inserito in quei primi 12 articoli immodificabili: secondo il nostro ordinamento esso non può quindi in alcun modo subire limitazioni o deroghe.

 

D’alta parte anche diritto dell’Unione Europea stabilisce che le autorità dei paesi membri debbano rispettare la manifestazione di volontà del cittadino di un paese terzo che intenda chiedere asilo alla frontiera o sul territorio di un paese dell’Unione. Riguardo a ciò si vedano l’art. 3 del Regolamento Shenghen ossia il n.399 del 2016, la direttiva 32/2013/UE  – cosiddetta Direttiva procedure agli artt. 3 e 9 –, nonché il regolamento n. 604 del 2013, denominato comunemente Dublino III – che all’art. 3 paragrafo 1 stabilisce che gli stati membri esaminano qualsiasi domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide sul territorio o alla frontiera dell’Unione, e nelle zone di transito.

È stabilito inoltre che lo straniero che ha manifestato la volontà di chiedere asilo debba essere sempre trattato come un richiedente protezione internazionale e come tale è fatto obbligo allo stato che ha registrato la domanda, di collocare il richiedente in uno specifico centro secondo quanto stabilito dall’art. 3 della direttiva accoglienza. Inoltre, nel caso in cui si ritenga che lo stato competente non sia quello in cui è stata presentata la domanda di protezione internazionale si deve attivare il procedimento di accertamento del paese competente. Al riguardo si rammenta che in base all’art. 4 del Regolamento di Dublino lo stato nel quale è stata presentata la domanda ha l’obbligo di informare il richiedente che è stata attivata tale procedura e di attivare un colloquio relativamente alla medesima in una lingua da lui comprensibile nonché di fornirgli copia del verbale del colloquio. Solo infatti una volta che il paese dell’Unione accerti che la responsabilità sia di un altro stato, in base ai criteri enunciati al Capo III del Regolamento di Dublino, si potrà procedere al trasferimento in esso. L’art. 27 del Regolamento stabilisce inoltre che il richiedente ha diritto a un ricorso effettivo avverso la decisione di trasferimento o alla revisione della medesima mediante un organo giurisdizionale:

nessun trasferimento di un richiedente asilo da uno stato all’altro dell’Unione quindi può avvenire in violazione di tale regolamento.

Si aggiunge che in base all’art. 3 paragrafo 2 del Regolamento Dublino qualora sussistano carenze sistemiche nella procedura d’asilo e nelle condizioni di accoglienza dello stato membro in cui la persona verrebbe rinviata, il rinvio non è possibile e la competenza a trattare della domanda di protezione internazionale rimane quella dello stato in cui la domanda è stata presentata. Si veda al riguardo la sentenza del 21 gennaio del 2011 della Corte di Strasburgo M.S.S. contro Belgio e Grecia.

Ne discende che ogni trasferimento di un richiedente asilo verso un altro stato dell’Unione non possa essere mai automatico ma debba necessariamente essere valutato individualmente e concretamente rispetto alla persona che ha presentato domanda di protezione internazionale e che non possono esservi degli stati che vengano considerati aprioristicamente sicuri come invece è stato dichiarato con riferimento alla Slovenia e alla Croazia semplicemente perché facenti parte del territorio dell’Unione.

Ogni trasferimento del richiedente infatti deve essere valutato solo in base alla domanda d’asilo registrata e ulteriori accordi bilaterali e multilaterali non possono essere applicati in violazione del regolamento n. 604 del 2013. Ulteriori riflessioni giuridiche si sviluppano poi rispetto dell’accordo intergovernativo tra Italia e Slovenia del 1996 questa volta con riferimento a tutti i migranti siano o meno richiedenti asilo. L’accordo riesumato per legittimare le riammissioni informali di cui sopra è entrato in vigore il primo settembre 1997.

Rispetto all’accordo va detto che non è stato mai ratificato dal Parlamento italiano secondo quanto stabilito dall’art. 80 della Costituzione.

L’accordo essendo dunque di natura politica non può certamente modificare o derogare alle leggi ordinarie vigenti nel nostro ordinamento e tanto meno alla normativa europea. Inoltre, l’art. 2 dell’accordo sancisce che esso non sia applicabile ai rifugiati ma si ritiene che tale espressione attui una discriminazione tra rifugiati e richiedenti asilo che hanno il diritto di far ingresso in un paese UE altrimenti non sarebbe possibile l’esperimento del procedimento amministrativo necessario per dichiarare lo status di rifugiato. Sempre nel testo dell’accordo, più specificatamente all’articolo 6, si fa riferimento al carattere di informalità delle riammissioni dei cittadini di uno dei due paesi Ue o di cittadini terzi. Tuttavia, l’espressione “senza formalità” contenuta nell’accordo non può essere riferita all’atto della riammissione in senso stretto: in quanto sono atti amministrativi che incidono sui diritti soggettivi dello straniero e come tali devono essere disposti dalla Pubblica amministrazione con un provvedimento motivato in fatto e in diritto e notificato alla persona destinataria del provvedimento secondo quanto stabilito dalla Legge 241/1990. Pur potendo assumere una forma semplificata-succinta e immediatamente esecutiva rimane il fatto che per ogni atto di rinvio/ammissione o trasferimento debba essere comunque presente un atto che lo disponga e che sia impugnabile a livello giurisdizionale diversamente da quanto è avvenuto con le riammissioni tra Italia e Slovenia: il rischio è quello della violazione dell’articolo 24 della Costituzione sul diritto di difesa e dell’articolo 13 della CEDU nonché dell’art. 47 della Carta fondamentale dell’Unione Europea.

«La libertà personale è inviolabile»

Poiché inoltre la riammissione comporta l’accompagnamento forzato alla frontiera anche nel caso in cui sia eseguito nell’ambito di frontiere interne dell’Unione è un’attività che incide comunque sulla libertà personale dell’individuo e per questo motivo deve essere sottoposto a convalida dell’autorità giudiziaria secondo l’art. 13 della Costituzione. La stessa Direttiva rimpatri 115/2008/CE all’art. 6 par. 3 – che stabilisce la riammissione di un cittadino terzo irregolare anche senza l’emissione di una decisione sul rimpatrio – non esonera però lo stato che effettua la riammissione ad adottare una decisione sulla riammissione stessa: ossia un provvedimento scritto e notificato alla persona interessata e sottoponibile al controllo di un organo giurisdizionale.

Senza formalità = rapidità

Si può affermare in conclusione che il termine “senza formalità” non si debba interpretare acconsentendo all’attività di riammissione in assenza di un provvedimento, quanto piuttosto nel senso della speditezza e della forma succinta dell’atto amministrativo di riammissione.

Pattugliamenti congiunti vs indagini

Ad ogni modo con una nota stampa del 14 giugno del 2021 è stata resa pubblica la decisione del Ministero degli interni di nuovi pattugliamenti congiunti con forze di Polizia italo-slovene nelle frontiere Trieste/Koper e Gorizia/Nova Gorica in seguito all’incontro dei ministri degli Interni dei due paesi, al fine di sgominare le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico dei migranti su tale area della rotta balcanica. I pattugliamenti congiunti sono frutto di un accordo sottoscritto alcuni mesi fa dalle autorità di Polizia di Roma e di Lubiana ma sebbene se ne condividano gli intenti è stato sottolineato che tale accordo non è sicuramente lo strumento migliore per contrastare il traffico di esseri umani riservato piuttosto a un’attività di intelligence o a una di inchiesta con il  coordinamento delle diverse autorità giudiziarie:

sembra piuttosto che l’intento sia nuovamente di contrastare l’ingresso dei migranti al confine italo-sloveno.

Si ricorda che il Tribunale amministrativo di Lubiana ha stabilito che con il respingimento di un cittadino camerunense in Croazia e da qui inviato in Bosnia, da parte della polizia slovena, dopo essere stato trattenuto dalla stessa per due giorni, è stata violata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La sentenza si affianca alle pronunce di Tribunali italiani e austriaci (Tribunale di Stiria, 1 luglio 2021) a favore dei migranti respinti oltre i confini esterni dell’Unione.

Il fallimento delle politiche dell’Unione

S’intuisce quindi il colossale fallimento di tali politiche che se si vuole essere cinici, non hanno raggiunto l’obiettivo sperato, visto che la rotta continua comunque a essere percorsa e – se si considera che la proposta di ricollocamento automatico in tutti i paesi dell’Unione dei migranti che hanno presentato domanda d’asilo, in proporzione al Pil e all’assetto demografico di ciascuno da anni – è pressoché ignorata e allo stesso tempo non viene modificato il regolamento Dublino: tale parziale soluzione avrebbe permesso quanto meno di evitare non solo l’erogazione da parte dell’UE di ingenti finanziamenti a Frontex nonché alla Bosnia per “l’accoglienza” di migranti respinti evitando la catastrofe umanitaria nel cantone verificatasi nel 2019, nel 2020 e ancora oggi nel 2021.

Operazioni di “sicurezza” marittima di Frontex, sovvenzionate da finanziamenti europei.

In tale situazione, dinanzi all’emergenza umanitaria che sta attraversando l’Afghanistan e che inevitabilmente dispiegherà i suoi effetti sulla rotta con un aumento sostanziale del transito dei migranti provenienti da tale area dell’Asia centrale, l’unico timore dell’Europa è che non si riviva “un nuovo 2015”. Un’altra occasione persa per rivedere l’intero impianto di un sistema farraginoso e disumano cui l’unico scopo e alzare i muri – in qualunque modo siano intesi – della fortezza Europa.

L'articolo n. 13 – Rotta balcanica: il Game, simbolo del fallimento europeo proviene da OGzero.

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