Gheddafi Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/gheddafi/ geopolitica etc Sat, 03 Sep 2022 12:35:48 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Brecce nei modelli dello status quo https://ogzero.org/brecce-nei-modelli-dello-status-quo/ Fri, 12 Aug 2022 08:53:28 +0000 https://ogzero.org/?p=8520 Si stanno indubbiamente aprendo brecce nell’equilibrio mondiale a cui s’ispira il modello che ha consentito finora all’Occidente di imporre la propria impronta sul mondo. Il multilateralismo faceva perno su una potenza globale come quella americana che assicurava la possibilità di intessere relazioni multilaterali, ora quel sistema vede erodere la propria incontrastata egemonia in particolare dalla […]

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Si stanno indubbiamente aprendo brecce nell’equilibrio mondiale a cui s’ispira il modello che ha consentito finora all’Occidente di imporre la propria impronta sul mondo. Il multilateralismo faceva perno su una potenza globale come quella americana che assicurava la possibilità di intessere relazioni multilaterali, ora quel sistema vede erodere la propria incontrastata egemonia in particolare dalla Cina e dal corredo di potenze locali in grado di portare sfide in aree specifiche. Nell’ultimo anno, dopo la caduta di Kabul il 15 agosto 2021, si è assistito a un’accelerazione inarrestabile della messa in discussione della globalizzazione e alla proposta di modelli socio-politici autocratici che si contrappongono alla “rassicurante” liberal-democrazia.
Era un sogno della sinistra libertaria aprire brecce nel capitalismo liberal-democratico per scardinarne il sistema, e ora chi metterebbe al centro l’emancipazione antitotalitaria dei popoli non riesce a interpretare l’attacco allo strapotere americano come una rivoluzione imposta dall’alto e realizzata dal nazionalismo autoritario, militarista e tecno-finanziario come quello statunitense. Infatti non sortisce di meglio che accettare la narrazione che vede ancora due blocchi contrapposti, da cui non si riesce a prescindere… né a evitare di schierarsi, non riconoscendo che si tratta della riproposta di schieramenti ottocenteschi: il superamento del “secolo breve” sta avvenendo, sì… ma in senso contrario, nel passato di oligarchie imperiali ottocentesche che controllano i propri territori, rinverdendo tradizioni culturali che si appropriano della critica alla globalizzazione.

Dopo un anno il regime talebano consegue il riconoscimento da parte di Cina e Russia. Quella capitolazione di Kabul alla più vieta e arcaica concezione religiosa e culturale locale del Waziristan ha dato la stura alla spartizione del mondo in aree di riferimento. OGzero ha pensato che ci fosse la necessità di ipotizzare e far dialogare processi in corso e possibili strategie adottate dai protagonisti del rivolgimento epocale, sperando così di avviare un dibattito che descriva la situazione prescindendo dalla versione parziale che scaturisce da un sistema in mutazione e quindi non in grado di fotografare il cambiamento che sta subendo.


Sostituzioni di modelli

Nelle infinite analisi del ribaltamento in corso di quell’equilibrato sistema di relazioni internazionali sancito da Yalta – e mantenuto invariato perché a nessuna delle potenze andava stretto o non avevano l’opportunità di imporre finora alcun rilievo – esistono un paio di elementi che sembrano non venir evidenziati a sufficienza nelle disamine della situazione geopolitica attuale: la rivoluzione è imposta dall’alto, è un pranzo di gala esclusivo dove gli invitati giocano a Risiko – e infatti si punta su una comunicazione che fondi la legittimità delle mosse sul confronto nazionalista; e al contrario di quel che avviene di solito in caso di conflitti, il contenzioso non coinvolge il Sud del mondo, sconvolgendolo. Le popolazioni alle quali ci si riferiva come Terzo mondo, ai tempi in cui lo spunto per molte speculazioni proveniva dall’internazionalismo non solo ora non si schierano a favore della “democrazia”, ma cominciano a considerare l’occasione ghiotta per ridimensionare la presenza e il condizionamento di un sistema, forgiato su un modello culturale ed economico sviluppato da una cultura estranea come quella europea, esportato in forma coloniale.

«Noi giovani abbiamo organizzato questa manifestazione per il ritiro delle forze armate francesi dal territorio nazionale del Mali. Vogliamo dare un contributo alla soluzione definitiva della crisi e ripristinare i valori della sovranità della nostra nazione. Non nascondiamo e riaffermiamo la nostra comune disponibilità con le nuove autorità di transizione a dare priorità alla cooperazione militare con la Russia per il rapido ripristino della Repubblica, in modo da poter lottare per la stabilità a lungo termine, che porterà alla nostra sovranità assoluta» (appello ad Assimi Goita pubblicato dalla piattaforma Debout sur les remparts, Yerewolo: giovani maliani, settembre 2021)

Ecco: un primo errore nella narrazione e nell’approccio al rivolgimento epocale sta nel vizio occidentale di voler imporre il proprio sguardo etico-politico anche sull’interpretazione dei conflitti globali, senza considerare le narrazioni sviluppate da altre tradizioni politico-culturali. Geopolitica chiederebbe di attenersi all’analisi di strategie messe in atto a seguito di bisogni e presunta potenza; invece la propaganda sia dal punto di vista liberal-capitalista, sia nell’ambito autocratico-capitalista sfrutta le spinte nazionaliste identitarie, inanellando tutti i più vieti luoghi comuni per salvaguardare la propria sussistenza entro i confini di riferimento di stati consorziati militarmente a fare da scudo al proprio ordine socio-culturale. Persino l’internazionalismo era caduto nella stessa trappola di avanzare una filosofia di emancipazione comunque sviluppata all’interno della cultura occidentale, nonostante l’intento meritevole di liberazione dell’Altro.

Vecchi sogni antimperialisti offuscati da modelli di imperialismi contrapposti

Infatti la sfida in corso al predominio americano e al suo sistema di sfruttamento mondiale era il sogno di ogni rivoluzionario degli anni Sessanta-Ottanta. Al contrario vediamo i regimi autocratici intenti a scalfire il potere americano, avendo ipotizzato, dopo la disfatta di Kabul, che si sia avviato allo stesso declino subito dall’Urss dopo il pantano afgano. Ma forse si tratta soltanto di una speculare reazione al pressing statunitense sui russi, volto a togliere alla potenza locale il terreno sotto i piedi; e questo cominciò con l’amministrazione Obama. In particolare l’esecuzione di Gheddafi ha suggestionato il capo del Cremlino: infatti dal 2011 Putin ha cambiato strategia geopolitica, convinto nel suo sospetto dalla costante cooptazione nel campo filoamericano di molte nazioni ex sovietiche, sottratte alla influenza russa; questo ha giocato un ruolo rilevante di intenzionale provocazione per la potenza militare moscovita.

Un po’ tutti hanno impugnato quelle forbici, che hanno innescato il cambiamento, tagliando i fili del multilateralismo che erano in tensione già da tempo.
Putin è stato forse indotto a credere nella possibilità di costituire un fronte antiamericano sufficientemente ampio e militarmente sostenibile: potrebbe essere credibile una sorta di accordo tacito di non belligeranza se non di reciproco sostegno con altre grandi potenze, come la Cina che invece – a cominciare dall’amministrazione Trump – è stata messa sotto pressione dal punto di vista economico. Si potrebbe adottare uno sguardo capace di spiegare le indubbie provocazioni americane (l’ultimo episodio è quello che ha visto protagonista Pelosi a Taiwan, imbarazzante per gli alleati coreano e giapponese, come si è visto nelle tappe successive del viaggio) per arrivare a un confronto di intensità variabile che consenta a Washington di ridimensionare gli sfidanti quando ancora gli Usa detengono la preminenza nei mezzi sia militari che economici (il “momento tucidideo” di cui parla Streeck su “New Left Review”, ripreso da “Internazionale”). I rivali non hanno potuto evitare di rispondere alle provocazioni e mettersi in gioco quando ancora gli Usa sono in grado di fronteggiarli.

«Gli Stati Uniti si stanno comportando da stupidi, ed effettivamente lo sono. Fingendo di esserlo significa che sanno quali sono gli interessi della Cina sulla questione di Taiwan e la sua linea rossa. Ma, nonostante questo, la calpestano ripetutamente» (Wang Wen dell’Università Renmin)

Si è arrivati alla guerra aperta perché a quel risultato erano improntati i piani strategici di tutti i protagonisti per rispondere all’esigenza da parte di potenze nucleari energivore di espandere il controllo di risorse e mercati e in nome di quelle dinamiche dominanti si sta tentando la scalata all’egemonia, la stessa che gli Usa intendono mantenere ancora per alcuni decenni, com’è avvenuto 30 anni fa quando a crescere al punto da sfidare la preminenza tecnologico-finanziaria fu il Giappone simboleggiato da Goldrake, allora detentore delle maggiori conoscenze sui semiconduttori e ora investito da Blinken del ruolo di gendarme del Pacifico; la sfida di Tokyo fu ridimensionata proprio con l’avvento della globalizzazione e agevolando la crescita della Cina ispirata a Deng in grado di eclissare prima e surclassare nel 2010 l’ascesa del Giappone – isolato e costituzionalmente privo di deterrenza militare; ora il conflitto appena scatenato rappresenta la fine della globalizzazione e l’industria nipponica torna a fare da testa di ponte per conservare al campo “occidentale” il controllo dei microchip, collaborando con le maggiori fabbriche di Taiwan. Premendo così in ambito tecnologico sulla possibilità di sviluppo dell’economia cinese, costretta a mostrare i muscoli a Nancy Pelosi (per uso interno, ma anche più pragmaticamente per salvaguardare le forniture tecnologiche di Formosa), come il pressing e la cooptazione degli stati satelliti dell’ex Urss lasciava poche chance alla sicurezza russa.

«Putin ha lanciato un’invasione per eliminare la minaccia che vedeva, perché la questione non è cosa dicono i leader occidentali sui propositi o le intenzioni della Nato: è come Mosca vede le azioni della Nato. la politica occidentale sta esacerbando i rischi di un conflitto allargato. Per i russi, l’Ucraina non è tanto importante perché ostacola le loro ambizioni imperiali, ma perché un suo distacco dalla sfera d’influenza di Mosca è “una minaccia diretta al futuro della Russia”» (John Mearsheimer da “The Economist”).
«Molti tendono a equiparare egemonia e imperialismo. In realtà imperialismo è una nazione che ne forza altre a entrare nella sua sfera, mentre egemonia è più una condizione che un proposito. Il problema di Putin e di coloro che sostengono l’esistenza di sfere d’influenza russa e cinese è che “tali sfere non sono ereditate, né sono create dalla geografia, dalla storia o dalla ‘tradizione’. Sono acquisite dal potere economico, politico e militare” che gli Stati Uniti possiedono più della Cina e che la Russia non ha» (Robert Kagan, “Foreign Affairs”).
(Ugo Tramballi, Ispi).

Conflitti collaterali e proxy wars

Ormai appare evidente che l’escalation di tensione costringe il mondo a uno stretto passaggio tramite il quale ogni area dello scacchiere internazionale è costretta a transitare, ovvero locali confronti tra protagonisti per definire gli schieramenti attraverso innumerevoli conflitti ristretti che ambiscono al controllo di territorio, risorse, commodities e mercati a cui attingere quando lo sforzo bellico sarà globale e a tutti i livelli.

Di tutti il confronto che maggiormente ha costituito la consapevolezza che si stava andando verso un rivolgimento globale è la crisi sarmatico-pontica, usata come grimaldello per coinvolgere anche l’Occidente europeo nel processo di trasformazione degli equilibri e delle supremazie su zone di influenza che si è innescato con l’attacco di Sarkozy a Gheddafi. Di lì discende la nuova strategia russa da un lato (innescata come già spiegò Bagnoli dalla paura di Putin di fare la stessa fine) e dall’altro la pulsione all’affrancamento nel Mediterraneo dei satrapi che nel 2011 erano ancora al guinzaglio di potenze globali e da allora invece sempre più autonomi e spregiudicati, come la Turchia, l’Arabia Saudita, gli Emirati… che hanno cominciato a sgomitare perseguendo strategie, alleanze, riarmo, penetrazioni in territori colonizzati proprio da quell’Occidente europeo da cui gli Usa si allontanavano, non avendo più interesse energetico derivante dal Mena, essendo divenuto autosufficiente durante l’amministrazione Obama con lo shale oil, e che ha optato in quel quadrante per la delega alle autocrazie locali. Si è venuta così a creare una pulsione all’autodeterminazione, all’affrancamento e all’autoaffermazione che passa attraverso un forte impulso al nazionalismo e al militarismo. Altra benzina sul fuoco.

Modelli sovranisti stanziano ad Astana

In questo quadro van rivisti a livello di potenze locali, tendenzialmente non più tali, la guerra siriana e i conseguenti accordi di Astana… Si sono svolti nelle ultime due settimane due atti di questo canovaccio, uno a Tehran e uno a Soci, di quest’ultimo Yurii Colombo ha parlato nel suo canale telegram Matrioska.info, sottolineando i due aspetti richiamati dal viceprimoministro Alexander Novak che rinsaldano i legami tra i due autocrati: le forniture di 26 miliardi di metri cubi annui di gas alla Turchia – il cui Turkish Stream diviene un hub del gas russo ad aggirare gli embarghi – e gli scambi in valuta nazionale: lira e rubli, entrambe in sofferenza. L’incontro in Iran è stato affiancato dall’Ispi agli sviluppi dell’attività diplomatica di Lavrov:

«A pochi giorni dall’incontro del terzetto di Astana dove oltre a Ebrahim Reisi Putin ha incontrato anche l’omologo turco Recep Tayyip Erdoğan, la visita di Lavrov sembra anche voler ribadire che la Russia non è isolata sulla scena internazionale. Al termine dell’incontro con il presidente egiziano Abdelfattah al Sisi e con il segretario generale della Lega araba, Ahmed Aboul Gheit, il ministro ha esortato il mondo arabo a sostenere la Russia “contro i tentativi palesi degli Stati Uniti e dei loro satelliti europei di prendere il sopravvento e di imporre un ordine mondiale unipolare”. Non è detto che in paesi in cui il sentimento antiamericano è forte (corroborato dall’invasione in Afghanistan e Iraq e dal sostegno storico a Israele) i suoi argomenti non facciano presa» (Alessia De Luca, Ispi).

Mosca è tutt’altro che isolata, se si ripensa al voto di marzo all’Onu sulla risoluzione di condanna dell’invasione ucraina.

Tutti contro tutti appassionatamente insieme

Ankara contemporaneamente è un nodo della gestione per procura americana del Medio Oriente insieme a Tel Aviv (il giorno dopo l’incontro con Herzog, Hamas è stato cacciato da Ankara, come avvenne ad Arafat a Beirut) – però Israele è schierato con Egitto, Cipro e Grecia per controllare il Mediterraneo orientale in contrasto con Ankara – e Riad, gradualmente disciogliendo il contenzioso yemenita come il corpo di Kasshoggi nell’abbraccio tra Erdoğan e Mbs (con sullo sfondo gli Accordi di Abramo voluti da Kushner e proseguiti da Blinken).  A maggio persino sauditi e iraniani hanno ripreso relazioni diplomatiche. Evoluzioni tutte previste da Antonella De Biasi in Astana e i 7 mari.

“Astana prepara crepe nell’asse mondiale sparigliando le polarità”.

Risulta sempre più importante districarsi tra alleanze interstatali, che in ogni caso – siano regimi liberal-democratici o democrature rette da autocrati e oligarchi, dinastie, latifondi o gruppi economico-industriali – soffocano le libertà civili e il controllo dei media impedisce ai sudditi di riconoscersi come tali e proporre una coalizione dei sottomessi che si sottraggano e levino il consenso alle istituzioni militari assassine.

Questa ricostruzione permane all’interno di un quadro a blocchi, ma lo fa diversamente dal rimpianto che si affaccia presso alcuni vecchi rivoluzionari per quella condizione semplice da leggere costituita da due imperi anche geograficamente divisi per blocchi contigui. Invece in realtà lo sconquasso operato con l’invasione ucraina ha sconvolto ogni possibile lettura di strategie e mosse sullo scacchiere internazionale, che va componendosi all’interno di quel quadro in una serie di alleanze militari (Quad, Aukus), cooptazioni (gli stati africani controllati da Wagner e quelli inseriti negli accordi di Abramo), scelte di campo fondate sui nemici dei nemici (Etiopia), attendismo neutralista (eclatante in questo senso la posizione dell’India), ambigue mediazioni (il ruolo che si è conferito Erdoğan).

Il rivolgimento globale registra soprattutto in Mena e in Europa (e nelle sue colonie africane) il rimescolamento di alleanze, controllo di risorse e sfere di influenza, mentre nell’Indopacifico si assiste a viaggi diplomatici che si inseguono per creare coalizioni in vista del confronto.

Orizzonti senza gloria

Però quei vecchi rivoluzionari ormai incanutiti dovrebbero leggere il presente con occhiali diversi da quelli adottati negli anni Settanta e proporre un pensiero estraneo all’ottica meramente mercantile di un capitalismo ancora più feroce di allora che permea tutte le innumerevoli parti in causa, le quali infatti si confrontano con i mezzi previsti dal Finanzcapitalismo (non a caso Gallino lo scrisse nel 2011, l’anno del tracollo libico, durante le Primavere arabe).

Un modello che sconfigga il sovranismo neototalitario non può certo affidarsi al nazionalismo dell’imperialismo di stampo americano in contrapposizione a quelli irricevibili di stampo cinese o russo o neo-ottomano o saudita, o viceversa: rispondono tutti ai medesimi criteri ed è come rivelare l’acqua calda la denuncia che la barbarie dell’esercito russo è identica a quella delle invasioni americane di Vietnam, Somalia, Iraq… Afghanistan. Quest’ultima, emblematicamente comune a quella sovietica, dovrebbe anche simbolicamente chiudere il cerchio e l’epoca.

Allora bisognerebbe riuscire a fabbricare una chiave per attribuire il fulcro delle strategie che regolano i rapporti nel mondo a valori diversi, esterni al capitalismo – o alla identità nazionale o religiosa. Per farlo andrebbe forse messa al centro della proposta di ricostruzione dei modelli mondiali l’emancipazione dei popoli e la loro difesa dagli imperi sovranisti che non solo ripropongono l’idea degli imperi ma anche la loro considerazione della carne da cannone, contrapponendogli quel ripudio delle guerre, militari o economiche che siano, sicuramente diffuso come all’inizio della Prima guerra mondiale su cui potrebbe costruirsi un modello che si sottrae agli interessi imperialistici.

Quindi innanzitutto vanno smontati i meccanismi e gli interessi militari che stanno informando le cancellerie del mondo. E per farlo vanno individuati e descritti nei particolari quegli stessi meccanismi per disinnescarli, come la bomba che gli imperialismi, cambiando gli equilibri di sistema dall’interno e ponendosi fuori dai blocchi, stanno preparando, intessendo l’ordito di trame e temporanei accordi che sfoceranno in nuovi focolai di guerra funzionali a uno di quei modello di mondo.

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n. 16 – Rotta del Mediterraneo centrale: lo sbocco marino delle piste libiche https://ogzero.org/il-mediterraneo-centrale-la-rotta-delle-piste-libiche/ Wed, 22 Dec 2021 23:02:41 +0000 https://ogzero.org/?p=5605 Il Mediterraneo centrale è il palcoscenico che maggiormente è stato emblematico del fenomeno migratorio per l’Europa. Fabiana Triburgo prende spunto per occuparsi di Libia dalla evanescenza della data delle elezioni fissate un anno fa al 24 dicembre destinata a venire disattesa, poiché non è in agenda delle potenze locali, né per Mosca, né per Ankara […]

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Il Mediterraneo centrale è il palcoscenico che maggiormente è stato emblematico del fenomeno migratorio per l’Europa.

Fabiana Triburgo prende spunto per occuparsi di Libia dalla evanescenza della data delle elezioni fissate un anno fa al 24 dicembre destinata a venire disattesa, poiché non è in agenda delle potenze locali, né per Mosca, né per Ankara che occupano militarmente il territorio. Ma la situazione viene dipanata nel suo articolo cercando di cogliere le pieghe giuridiche che potranno impostare rapporti con la futura entità istituzionale libica, se mai ci potrà essere; e dunque anche dalla sua esperienza personale si analizzano i meccanismi geopolitici alla base di questa rotta aperta con il crollo del regime di Gheddafi.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


La costa dell’insieme di regioni composite chiamato Libia

Nell’imminenza del rinvio delle elezioni previste in Libia – se e quando riusciranno a tenersi – sembra inevitabile chiedersi se (quando si formeranno i nuovi assetti istituzionali) saranno in grado di fare emergere figure con le quali l’Unione europea e in particolare l’Italia saranno in grado di improntare rapporti diplomatici diversi rispetto alla questione migratoria, svincolati dai concetti di invasione e di sicurezza di cui ormai sembra intrisa tutta la narrazione della politica estera dei paesi europei, gli stessi che hanno disegnato a forza confini reali solo nell’immaginario occidentale.

L’area libica: risorse, campi, infrastrutture, pozzi, etnie

Protagonisti in campo

Necessario tra tutti un superamento di patti, intese e accordi bilaterali, finora strumenti per mezzo dei quali si è realizzato un sistema aberrante nel quale in un’ottica di contenimento dei flussi migratori gli individui vengono utilizzati come merce di scambio per la soddisfazione degli interessi economici, in Libia principalmente legati all’estrazione del greggio.

Turchia, Russia, Cina

Molteplici sono infatti gli attori regionali e internazionali in gioco in questa porzione di area del mondo chiamata Mediterraneo centrale nella quale tutti i “partecipanti” vogliono ritagliarsi un ruolo: dalla Turchia che cerca di affermare la proiezione del proprio espansionismo geopolitico in queste acque, poiché ostili risultano quelle dell’ Egeo – blindate dagli accordi internazionali – che pongono la Grecia in una posizione di sovranità marittima nella quale difficilmente riesce a dimenarsi; alla Russia che cerca di recuperare in quest’area una contropartita per contrastare l’avanzamento delle forze Nato verso quella “nuova Cortina di ferro” rispetto alla quale gli stati-cuscinetto (Ucraina e Bielorussia) destano maggiori preoccupazioni che l’inserirsi di paesi baltici, Polonia e Romania; alla Cina che tenta di crearsi uno sbocco commerciale rilevante attraverso “le nuove vie della seta”.

Stati Uniti, Unione europea

Ancora: gli Stati Uniti che si sono ben resi conto di essersi disinteressati troppo a lungo di questa porzione di mare, chiamata non semplicemente Mediterraneo centrale, ma Medio Oceano. Infatti è posto nel mezzo tra Pacifico e Atlantico nei quali gli Stati Uniti hanno molto da perdere se continua ad affermarsi la posizione di Cina e Russia – ossia dei loro antagonisti per antonomasia – facendo stridere quell’immagine di baluardo di potenza egemone indiscussa sul piano militare e geopolitico alla quale gli Usa tengono molto.

Sono inoltre da non sottovalutare anche le potenze europee, prime tra tutte Italia e Francia, che a causa degli interessi confliggenti legati alle compagnie petrolifere Eni e Total hanno impedito la determinazione di una politica estera comune dell’Unione nel conflitto libico per molto tempo.

Potenze regionali: Tunisia, Algeria

Occorre infine citare le potenze regionali quali Tunisia e Algeria che al momento sono in una tensione diplomatica senza precedenti e che hanno risentito molto della prossimità geografica rispetto alla Libia.

Già, perché è proprio la Libia a rappresentare la sintesi di questo caleidoscopio marittimo di strategie e di tattiche regionali e non, ma di queste – già analizzate in parte negli approfondimenti precedenti relativi ai paesi del Nordafrica – quello che interessa in questo articolo è la questione giuridica al fine di comprendere con serietà come si sia arrivati a questa tragedia migratoria e soprattutto cosa si possa fare in concreto per cambiare queste dinamiche politiche malate.

Riflettori improvvisati spenti sui morti di Guerre ibridate

La questione non ha necessità di essere trattata perché fa tendenza come sta avvenendo negli ultimi mesi per la crisi migratoria al confine polacco/bielorusso o lungo la rotta balcanica, anche perché in questa logica come abbiamo visto per la situazione in Afghanistan i riflettori si spengono velocemente, ma perché invece questi scenari sono gravemente mortiferi: si parla di individui deceduti ogni giorno in mare e in terra (più specificatamente nel deserto del Sahara, nel caso di questa rotta) a causa di politiche assurde.

 

Si ricorda che nella prima parte del 2021 circa 1146 persone sono morte nel mar Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa, un numero molto più elevato di quello registrato nei due anni precedenti.

Libia 2011

Intorno al 2011 in prossimità della caduta del regime di Gheddafi quello che mi sorprendeva durante gli ascolti legali dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana, transitati in Libia prima di arrivare in Italia, era il fatto che si trovassero in questo paese del Nordafrica da molti anni e in conseguenza del conflitto libico avevano dovuto lasciare un impiego stabile in Libia – spesso nell’edilizia – che fino a quel momento gli aveva consentito di condurre una vita dignitosa e di mantenere il proprio nucleo familiare. La Libia per molto tempo aveva rappresentato per i profughi provenienti principalmente dall’Africa subsahariana e dal Corno d’Africa una sorta di vicino Eldorado nel quale avevano trovato “rifugio” rispetto alle situazioni di conflitto o di instabilità nel proprio paese di origine.

Quindi molti di loro erano in realtà migranti forzati anche se apparentemente economici poiché avevano da tempo un lavoro in Libia ma non avevano potuto beneficiare dello status di rifugiato in quanto la Libia non è firmataria della Convenzione di Ginevra.

Protezione per i migranti sostenitori  di Gheddafi

Va precisato che Gheddafi aprì, durante la ribellione, le carceri nelle quali erano stati rinchiusi i passeur e offrì loro denaro per fare arrivare i migranti in Europa, considerata – non a torto – responsabile del capovolgimento della dittatura. Le ragioni di tutto questo vanno ricercate nelle radici storiche della politica panafricana di Gheddafi che dalla fine degli anni Novanta fino ai primi anni 2000 aveva creato un paese di accoglienza, aprendo le frontiere principalmente a chi proveniva dal resto del continente, in quanto l’offerta di mano d’opera straniera era molto elevata nel paese grazie soprattutto alla presenza di giacimenti petroliferi e anche perché i cittadini libici potevano contare su stipendi pubblici. Tra i migranti che arrivavano in Libia solo una parte più esigua proseguiva il proprio viaggio verso l’Italia.

La “formidabile” idea di cambiare questa politica di integrazione arrivò al dittatore libico soprattutto grazie al trattato di amicizia Gheddafi-Berlusconi del 2008 quando si registrò un “picco di arrivi” nel nostro Paese, ossia circa 37.000 migranti. L’Italia berlusconiana ha la colpa di aver fatto da apripista alla logica delle politiche di esternalizzazione: in quel caso la cooperazione, oltre al miraggio di avere un canale privilegiato al petrolio legittimato dalle ancestrali quanto disastrose radici coloniali che legano Tripoli a Roma, ebbe come snodo centrale la necessità che il governo libico respingesse verso le coste i migranti che tentavano di attraversare il Mediterraneo centrale.

Cadaveri sulle coste libiche (fonte Adif, 2018)

Così alla stregua della legge Bossi-Fini ossia la n. 94 del 2009, la Libia nel 2010 approvò una legge che criminalizzava l’immigrazione clandestina prevedendo la detenzione per tale reato.

È importante scrivere ciò perché è proprio sulla base di questi accordi che si cominciarono a creare i centri detentivi libici, quei famigerati Lager che oggi rappresentano il simbolo più crudele di quanto l’essere umano possa macchiarsi di comportamenti atroci. Anche in questo caso vennero trasferiti fondi alla dittatura libica (5 miliardi di dollari in venti anni come risarcimento per gli orrori del colonialismo), insieme a quattro motovedette italiane per il pattugliamento delle coste libiche in collaborazione con la Guardia costiera italiana nei respingimenti collettivi dei migranti vietati, come già detto, secondo l’art. 4 del Protocollo n. 4 della Cedu. Così nel 2010 gli arrivi in Italia calarono del 90 per cento.

I respingimenti sono a priori illegali

Questa attività deplorevole come noto andò avanti per anni fino a che intervenne la cosiddetta sentenza Hirsi Jamaa e altri contro Italia. Con tale sentenza l’Italia venne condannata nel 2012 dalla Corte di Strasburgo per essersi resa responsabile del respingimento collettivo di alcuni migranti nel 2009: in quella circostanza i migranti intercettati dal personale delle imbarcazioni italiane vennero trasferiti su queste per essere riportati in Libia e consegnati alle autorità libiche.

Ecco, forse quello era il momento di fermarsi ma non è stato così vedendo cosa è accaduto qualche anno dopo, a parte la breve parentesi dell’operazione Mare Nostrum, con il Memorandum d’intesa Italia-Libia del febbraio del 2 febbraio 2017 – che richiama nel testo proprio il precedente trattato di amicizia italo-libico firmato a Bengasi nel 2008 – redatto su iniziativa dell’ex ministro dell’Interno Minniti e siglato dall’allora primo ministro Gentiloni e dal presidente libico al-Serraj, all’epoca a capo del governo di Unità nazionale sostenuto dall’Italia e, ironia della sorte, dalle Nazioni Unite.

Il problema era questo: come si potevano respingere i migranti senza essere responsabili legalmente in modo da non essere condannati di nuovo? Semplice, delegando il “lavoro sporco”, ossia i respingimenti collettivi, direttamente ai libici previo pagamento, e ovviamente sempre nel perseguimento di fini umanitari (!?) per contrastare “il traffico di esseri umani” e garantire “la riduzione dei flussi migratori illegali”, addestrando la guardia costiera libica e fornendole armamenti e di nuovo motovedette italiane.

Vacanza governativa: accordi capestro e respingimenti illegali

Non essendoci più un governo unitario in Libia al momento dell’accordo del 2017 la sedicente guardia costiera libica era soltanto espressione di una delle tante milizie armate presenti nel paese e capeggiata oltretutto da un ricercato dal Tribunale penale Internazionale, tale Bija (nome d’arte o meglio di guerra) sulla cui vicenda si richiama il lavoro eccellente svolto dal giornalista di “Avvenire” Nello Scavo autore di un’attività giornalistica di inchiesta che è riuscita a far luce su questioni completamente nascoste all’opinione pubblica italiana.

Secondo Idos nei primi mesi del 2021 la guardia costiera libica ha intercettato in mare 11.891 migranti riportandoli indietro sulle spiagge libiche e sottoponendoli – secondo Amnesty International – a sparizioni, detenzioni arbitrarie indefinite in luoghi ufficiali e non, a torture, a lavoro forzato ed estorsione, nonché a violenza sessuale. Soffermiamoci dunque sull’aspetto legale perché è sempre da lì che si deve partire per non portare avanti discussioni fini a sé stesse: l’accordo del 2017 è un accordo da considerarsi illegittimo.

La Open Arms lascia il porto di Barcellona diretta in Libia (2018, foto Marco Pachiega / Shutterstock)

Gli accordi internazionali, come già sottolineato nell’articolo giuridico sulla rotta balcanica di questa serie con riferimento al discusso accordo posto alla base delle riammissioni della Slovenia dall’Italia, devono essere presentati dal governo al parlamento italiano e approvati da parte di quest’ultimo tramite legge di ratifica ai sensi dell’art. 80 della Costituzione. A chi contesta che il memorandum del 2017 non si debba annoverare tra quelli previsti dall’articolo 80 basta leggerne il contenuto per rendersi conto che esso soddisfa già prima facie tutti i parametri definiti dal medesimo articolo che chiarisce la necessità di ratifica da parte delle Camere dei trattati di natura politica che “importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di legge”. È noto infatti che all’accordo del 2017 seguì la definizione di una zona SAR libica rispetto ad acque che prima erano definite internazionali e nelle quali quindi l’Italia era chiamata al soccorso e che sono stati stanziati milioni di euro dall’Italia alla Libia per finalizzare questo accordo influendo sul bilancio dello stato e che con questo sistema sono state violate indirettamente diverse normative. In particolare è opportuno citare l’art.10 della Costituzione italiana, la Convenzione di Ginevra e più specificatamente il principio contenuto all’art. 33 della Convenzione ossia il principio del non refoulement, le norme sul soccorso in mare, nonché quelle stabilite dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo. Inutile poi dire che la Libia, paese non sicuro dove stupri e torture sono sistemiche, non è firmataria della maggior parte delle Convenzioni internazionali, tra le quali come detto quella di Ginevra, quindi la garanzia della presenza di Organizzazioni Internazionali in questo accordo è irrilevante e le pone in una posizione di ambiguità. Rispetto ai respingimenti si segnala la recente sentenza emessa dalla VI sezione della Corte di Cassazione n. 12/2021. Qualche mese dopo la firma dell’accordo inoltre l’ex ministro Minniti negoziava un codice di condotta con le ong che prestavano soccorso in mare che provocava il rallentamento delle operazioni di soccorso.

Palesi violazioni

Giunti a questo punto appare necessario richiamare alcuni degli strumenti giuridici impiegati per contrastare tali politiche. In primo luogo, occorre menzionare, oltre alla Missione d’inchiesta delle Nazioni Unite sulla Libia, per la violazione del diritto internazionale e dei diritti umani, il caso della nave Asso 29 che si affianca alla recente condanna del Tribunale di Napoli nei confronti del comandante della nave Asso 28 per aver ricondotto in Libia centinaia di persone soccorse in mare: entrambe le navi sono appartenenti all’Augusta Off-Shore uno spedizioniere marittimo con sede a Napoli.

Il 13 ottobre il Tribunale di Napoli ha condannato il comandante di una nave privata, la Asso 28 della compagnia Augusta Offshore, per aver ricondotto in Libia oltre cento persone soccorse in mare.

Rispetto a tale vicenda risalente al 2018 cinque cittadini eritrei hanno presentato ricorso al Tribunale di Roma – ivi ancora pendente – chiamando in giudizio oltre alla nave Asso 29 – in servizio presso una piattaforma petrolifera di una società partecipata di Eni – anche lo stato italiano più specificatamente il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Mediante il ricorso, partendo dal caso specifico, viene ben delineato come si determina in concreto questo sistema dei respingimenti collettivi verso le coste libiche ossia attraverso l’attività di intercettazione dei migranti da parte della cosiddetta guardia costiera libica. Ciò che desta maggiore preoccupazione tuttavia è che la regia di questo sistema provenga dall’Unità centrale di soccorso di Roma, organo dipendente a sua volta dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti italiano e che nell’intercettazione dei migranti siano coinvolte delle navi legate a compagnie petrolifere.

Inutile dire quanto sia complicato l’accesso ad atti che potrebbero essere utili per la ricostruzione dei fatti avendo lo stato italiano posto su essi il segreto per motivi di sicurezza perché riguardanti operazioni militari o di politica estera, la cui rivelazione potrebbe essere pregiudizievole per le relazioni interazionali con Malta e con la Libia.

Inoltre, va ricordato tra gli strumenti giuridici l’esposto presentato da diverse associazioni – tra cui Arci – per l’accertamento delle responsabilità del naufragio del 22 aprile del 2021 nel quale sono morte 130 persone nel Mediterraneo centrale.

Come dunque si è arrivati a tutto ciò? È importante preliminarmente sottolineare che l’accordo del 2017 viene rinnovato tacitamente ogni tre anni come stabilito nello stesso testo, come è avvenuto nel 2020, e che il 15 luglio di quest’anno è stato rinnovato il rifinanziamento della guardia costiera libica con 361 voti a favore, 34 contrari e 22 astenuti.

Scarico di responsabilità

Un risultato agghiacciante essendo tutti ormai a conoscenza di quanto avviene nei centri detentivi libici grazie al denaro italiano ed europeo. L’unica modifica che si è riusciti ad approvare a luglio di quest’anno è che dal 2022 la missione in Libia dovrebbe passare sotto la diretta responsabilità dell’Unione Europea. Ciò, anche se appare come un modo per lavarsene le mani – finché ancora si può –, ha un senso dato che tutto è iniziato dagli accordi della Valletta del 2015 e dall’Agenda Europea dello stesso anno in occasione della quale l’Unione si è concentrata sul ruolo strategico dei paesi terzi-con i quali poi ha stretto accordi sul rafforzamento delle frontiere dell’Unione e fuori dall’Unione – vedi Frontex – nonché sulla necessità di aumentare il numero dei rimpatri. In seguito, si è aggiunto l’ormai noto accordo Ue-Turchia del 2016, all’indomani del quale le milizie libiche si sono adoperate per mostrare la capacità di imprigionare i profughi, speranzose di ottenere anche loro un lauto riconoscimento economico per il loro “lavoro” come la creazione del nuovo Centro di detenzione libico di Tarik Al Sikka.

La campagna #notonourborderwatch lanciata dal Consiglio Olandese per i Rifugiati, BKB, Sea-Watch Legal Aid Fund, Jungle Minds e Prakken D’Oliveira Human Rights Lawyers, sostenuta dall’ASGI assieme ad altre ONG di tutta Europa

Detto fatto: è stato stanziato denaro dall’UE attraverso il fondo Africa – circa 140 milioni di euro – che solo in minima parte ha sovvenzionato i progetti di cooperazione allo sviluppo (5 %) poiché destinato prevalentemente al controllo e alla gestione delle frontiere per opera dei paesi terzi (61 %).

Tuttavia, anche relativamente a tale Fondo, la questione è stata riportata puntualmente sul piano giuridico per cui sia Arci che Asgi nel 2020 hanno presentato un esposto alla procura presso la Corte dei Conti europea.

Il ruolo del Niger

Sempre per comprendere come le norme siano in grado di cambiare le rotte migratorie occorre ricordare il ruolo fondamentale del Niger nel mutamento della rotta terrestre per arrivare in Libia al fine di attraversare il Mediterraneo centrale. Il Niger infatti è stato uno dei primi paesi beneficiari di un altro fondo, il Fondo Fiduciario europeo di emergenza per L’Africa, avendo presentato all’Unione già nel 2015 un piano d’azione per attrarre gli investimenti europei. All’epoca il paese, uno dei più poveri al mondo, si trovava in piena campagna elettorale all’esito della quale nel 2016 era stato rieletto Mahamadou Issoufou (presidente del Niger in carica dal 2011 al 2021) importante interlocutore per l’Unione rispetto ai flussi migratori verso le sponde del Mediterraneo centrale, nel momento in cui la Libia non solo non aveva più un unico leader ma oltretutto si trovava in una situazione di conflitto civile con presenze regionali e internazionali a complicare lo scenario. Va precisato che in seguito ai conflitti etnici civili in Niger negli anni Novanta e negli anni Duemila si tentò il reinserimento dei tuareg nella società nigerina e più nello specifico nell’apparato militare. Un’altra parte di loro, tuttavia, cominciò a svolgere – con il bene placido delle autorità nigerine – l’attività di passeur attraverso il deserto del Sahara del quale sono i principali conoscitori.

Nella maggior parte dei colloqui legali i migranti provenienti dall’Africa subsahariana riferivano di essere giunti in Libia passando attraverso il Niger in particolare per Agadez attraversando il deserto a bordo di pick-up nei quali venivano stipate decine di persone con due tre corse al giorno.

Tuttavia in Niger sulla base di tali concertazioni con i paesi dell’Ue, con la legge 2015/36 è stato introdotto per la prima volta nell’ordinamento giuridico nigerino il reato di attraversamento irregolare delle frontiere (Relative au trafic illicite de migrants) che entrò in vigore solo all’inizio del 2016 con la rielezione di Issoufou: da quel momento vennero arrestati gli ex combattenti tuareg che prima agevolavano il transito dei migranti e dei quali vennero confiscati anche i mezzi di trasporto. In seguito alla criminalizzazione di tale attività i dati del flusso dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana e diretti dal Niger alla Libia dal 2017 al 2019 si riducevano dunque in modo drastico.

Profughi iniziano il loro viaggio nel Deserto del Sahara dalla città di Agadez in Niger per giungere in Libia fe poi in Europa (2019, Catay / Shutterstock)

In conseguenza di tale norma, solo tra il 2016 e il 2017, l’Oim ha registrato una diminuzione dei flussi in uscita dal Niger equivalente a meno del 70% rispetto al 2015. Quindi il blocco dei migranti in Niger, in prossimità di Agadez e Seguedine, e quello determinato con il memorandum italo-libico del 2017 hanno spinto i migranti subsahariani a optare negli ultimi anni per altre rotte marittime ossia principalmente attraversando l’Atlantico per raggiungere le isole Canarie, rotta della quale si è già ampiamente discusso nella parte precedente di questo saggio. I dati ufficiali del Ministero dell’Interno rivelano che nel 2020, le persone sbarcate dopo aver attraversato il Mediterraneo centrale provenivano principalmente dalla Tunisia, tanto che nello stesso anno l’attuale Ministro degli Esteri ha dichiarato – constatando un aumento dei flussi migratori in tale area – che se la Tunisia non avesse bloccato le partenze avrebbe tagliato i fondi della cooperazione stanziati a favore del paese nordafricano.

La professionalizzazione dei trafficanti in Libia e Niger

La gravità di tali politiche sta nel fatto che anche in Libia, così come in Niger, prima del 2017 vi era un rapporto di reciproca consensualità tra il migrante e i passeurs mentre oggi questi sono divenuti tutti trafficanti di professione. Quindi il paradosso è che gli ufficiali della guardia costiera libica che sulla base del Memorandum avrebbero dovuto combattere il traffico dei migranti sono divenuti loro stessi trafficanti. Inoltre, nelle maglie di un sistema sprovvisto di un governo stabile e unitario da più di dieci anni, quale quello libico, si è inserita la criminalità organizzata di Sudan e Nigeria personalmente riscontrata nei colloqui legali tenuti con le donne vittime di tratta detenute e abusate in Libia nelle Connection Houses simbolo della mafia nigeriana che tra l’altro propaga i suoi effetti fino in Italia attraverso i canali della prostituzione.

Tutto ciò finora esposto lascia intendere quanto sia pericoloso continuare con tali tipi di politiche il cui intento è apparso indiscusso con il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, sul quale ci soffermeremo in seguito, solo dopo aver analizzato le soluzioni emergenziali e – come tali limitate – che si stanno strutturando nel mentre della sua approvazione, ossia i corridoi umanitari e le molteplici attività di soccorso dei migranti per opera della società civile, spesso sottoposte a procedimenti penali.

L'articolo n. 16 – Rotta del Mediterraneo centrale: lo sbocco marino delle piste libiche proviene da OGzero.

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n. 11 – Cosa può fermare il caos libico? https://ogzero.org/la-soluzione-del-caos-libico-e-ancora-lontana/ Mon, 26 Jul 2021 15:26:28 +0000 https://ogzero.org/?p=4430 Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: proseguiamo con la Libia, giungendo – attraverso l’analisi della situazione politica ed etnica interna e degli interessi internazionali che non aiutano l’unificazione e la pacificazione del paese. Campi di detenzione, respingimenti e schiavitù rendono difficile la […]

L'articolo n. 11 – Cosa può fermare il caos libico? proviene da OGzero.

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Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: proseguiamo con la Libia, giungendo – attraverso l’analisi della situazione politica ed etnica interna e degli interessi internazionali che non aiutano l’unificazione e la pacificazione del paese. Campi di detenzione, respingimenti e schiavitù rendono difficile la soluzione del caos libico: a quando i corridoi umanitari?


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Etnie, tribù e clan nel puzzle libico

La Libia o piuttosto le “Libie” – Cirenaica, Fezzan e Tripolitania – da sempre si è distinta per la pluralità, all’interno del suo territorio, di differenti identità etniche e tribali, tra cui arabi, arabo-berberi, tuareg e berberi-amazigh, appartenenti ai clan o alle realtà cittadine e rispetto alle quali la popolazione libica avverte ancora oggi un forte senso di appartenenza superiore a un sentimento unitario di identità nazionale.

Ciò era valido tanto con Gheddafi quanto ancora oggi e rappresenta una delle prime questioni da prendere in considerazione se si vuole portare a compimento un effettivo processo di pacificazione del paese al di là delle dimensioni istituzionali create ad hoc per dare una parvenza di democratizzazione della Libia, come è avvenuto mediante  la formazione di un governo ad interim – istituito a Ginevra nel febbraio 2021 – approvato nel mese successivo dal parlamento di Tobruk riunitosi a Sirte e finalizzato a condurre il paese verso un trasparente e sicuro processo elettorale previsto il  prossimo 24 dicembre.

Mappa elaborata da OGzero e Chiara Alessio, dal volume di Alfredo Venturi, Il casco di sughero (Rosenberg & Sellier, 2020)

Dopo la caduta di Gheddafi, nessuna unità nazionale

Tali diverse realtà etniche rette all’epoca di Gheddafi da un sistema clientelare consolidato da quarant’anni che prometteva vantaggi all’una o all’altra tribù, in concorrenza tra loro, volto ad assicurare un consenso politico a favore dell’allora dittatura, emersero in tutta la loro irruenza con la caduta del regime – sull’onda delle rivolte tunisine ed egiziane – nel 2011. Da allora il conflitto civile ha provocato un sistema di anarchia caratterizzato dalle violenze e dagli scontri tra le diverse milizie legate all’una o all’altra realtà etnica – con sporadici tentativi di istituzionalizzazione del paese – quando i diversi clan hanno avuto accesso agli armamenti del regime ai quali si sono aggiunti quelli delle forze regionali e di quelle internazionali che sono oggi le vere protagoniste dello scenario libico. I precedenti round elettorali nel 2012 e nel 2014 infatti non hanno portato mai alla creazione di uno stato libico unitario sia per la presenza nell’esecutivo legittimamente eletto, con riferimento al 2012, della componente islamista dei Fratelli Musulmani – ricordiamo che nel 2013 il Parlamento dichiarò la volontà dell’applicazione della legge islamica nei confronti della popolazione libica – sia nel 2014, quando il governo eletto, con un’esigua partecipazione alle urne, è stato fortemente contestato dalle milizie islamiche che hanno acquisito il potere sulla città di Tripoli.

I due governi: Giano bifronte

Più specificatamente nel 2014 il precedente Congresso all’esecutivo si trasformò, senza cedere il potere, in un nuovo Congresso di Unità Nazionale e si contrappose alla Camera dei Rappresentanti e al nuovo governo legittimamente eletti che furono costretti a rifugiarsi nell’est del paese nella città di Tobruk mentre Tripoli finì nelle mani delle milizie musulmane. Venne creandosi così quel “Giano bifronte” del potere libico che vide contrapporsi la parte Est a quella Ovest: in questo contesto si impose il generale Haftar – ritornato nel 2011 dall’esilio negli Stati Uniti dopo l’estromissione dal regime a opera di Gheddafi – mostrandosi come unico uomo forte in grado di scacciare la componente estremista islamica dell’Isis e delle milizie islamiche, cominciando ad acquisire il controllo di un numero sempre maggiore di aree del territorio libico, in particolare in Cirenaica e nel Fezzan, a sud del paese, ponendosi a capo dell’Esercito di Liberazione nazionale.

L’appoggio internazionale diviso e divisivo

Successivamente in Tripolitania nacque – su sostegno della comunità internazionale oltre a quello dell’Italia e della Turchia – un Governo di Accordo nazionale guidato da Fayiz al-Serraj. Tuttavia, la situazione così determinatasi si rivelò da subito fallimentare: Haftar appoggiato da Francia, Russia, Emirati Arabi, Egitto non volle mai riconoscere il nuovo governo, per cui la comunità internazionale avviò senza successo un’opera di riconciliazione, fino a che nell’aprile del 2019 Haftar tentò il secondo colpo di stato, dopo quello del 2014 con “ l’operazione dignità”,  assediando la città di Tripoli – sostenuto dalle potenze di cui sopra – che venne scongiurato, non a caso, soltanto mediante l’intervento della Turchia.

Gli interessi geopolitici

Queste fasi del conflitto libico, essenziali per capire la situazione attuale nel paese, già fanno emergere quel ruolo fondamentale delle potenze internazionali che fin dall’inizio proiettarono nello scenario libico i propri interessi geopolitici ed economici: basti pensare all’intervento Nato con la Francia, gli Usa e la Gran Bretagna nel 2011 e  l’influenza politica delle potenze regionali dispiegata fin da subito in Libia da un lato dalla Turchia e dal Qatar, paesi vicini a un islam politico, ed Emirati arabi ed Egitto dall’altro a sostegno di una stabilizzazione del paese attraverso un processo di militarizzazione. Con il passare del tempo questo ruolo delle potenze internazionali e regionali si è talmente acuito che nei punti all’ordine del giorno della Conferenza di Berlino sulla Libia – in particolare della seconda tenutasi il 23 giugno 2021 – vi è tra i principali obiettivi posti al governo ad interim l’eliminazione delle presenze internazionali nel conflitto. Non sono stati sufficienti infatti né la prima conferenza di Berlino a gennaio del 2020, né la tregua dell’agosto dello stesso anno, né il cessate il fuoco permanente dell’ottobre del 2020 e da ultimo il Governo di Unità Nazionale di Ginevra – istituito grazie al Forum internazionale di dialogo sulla Libia – a concretizzare tale obiettivo. Si ricorda in particolare che al secondo appuntamento del giugno scorso alla Conferenza di Berlino nel quale hanno partecipato 17 stati tra cui Russia, Usa, Francia, Italia ed Egitto, la Turchia ha posto la riserva proprio sul punto riguardante il ritiro dei propri militari dalla Libia.

La Turchia non leva i “boots on the ground”

La Turchia nel paese nordafricano ha mosso le proprie fila non solo per interessi economici-commerciali legati ai giacimenti petroliferi e alla ricostruzione del paese, ma soprattutto per il perseguimento del proprio espansionismo nel Mediterraneo.

Infatti, con il precedente governo di accordo nazionale libico la Turchia ha stretto un patto che legittima la Zee turca da sempre osteggiata dalla comunità internazionale schierata a favore delle rivendicazioni marittime della Grecia e di Cipro. La Turchia inoltre – che ricordiamo aver avuto il “merito” di aver provocato l’ingresso in Libia di migliaia di mercenari siriani che si sono aggiunti a quelli ciadiani e sudanesi – ritiene che la permanenza del proprio potere militare nel paese sia in qualche modo autorizzata dal precedente patto sottoscritto con il governo di accordo nazionale di al-Serraj. Si ricorda che l’attuale primo ministro Dbeibah dall’inizio del suo mandato ha ricevuto in Libia diverse diplomazie internazionali ma il primo paese nel quale si è recato personalmente con 14 membri del nuovo governo è la Turchia.

Inoltre, sia l’attuale primo ministro – ex imprenditore ed ex capo del fondo “Lybian Local Investment and Development Company” varato da Gheddafi nel 2007 – sia il presidente del Consiglio presidenziale Mohammed Yunus al Manfi – ex ambasciatore libico in Grecia– sono figure vicine ideologicamente alla Turchia. Intanto gli altri stati, in particolare i paesi dell’UE e gli Stati Uniti, pur opponendosi alla reticenza turca sul ritiro delle proprie forze militari spesso sono troppo intimoriti da una possibile stabile quanto strategica presenza nel Mediterraneo della Russia. Russia e Turchia schierate rispettivamente a sostegno della parte est e della parte ovest del paese sono rivali nello scenario libico ma questo è solo uno dei contesti internazionali in cui i due paesi, pur essendo in contrapposizione tra loro, non arrivano mai allo scontro diretto condividendo troppi interessi comuni come quelli sul turismo, sul piano energetico, sul nucleare e sugli armamenti militari.

Milizie e contractors russi: il ritiro è lontano (nonostante l’accordo)

Non si dimentichi il ruolo delle due potenze nel conflitto riguardante il Nagorno Karabakh, la Siria e la Georgia. Quindi anche nel corso della seconda Conferenza di Berlino, Russia e Turchia hanno trovato un accordo convenendo sul ritiro di 300 tra mercenari siriani e contractors delle milizie Wagner, la Società russa di sicurezza paramilitare privata vicina al presidente Putin. Si ricorda tuttavia che l’ultimatum per il ritiro delle forze internazionali era previsto per il 23 gennaio del 2021 e che secondo le Nazioni Unite al momento vi sono ancora circa 20.000 mercenari sul territorio libico.

E la nuova Costituzione?

Non solo, oltre al progressivo allontanamento delle potenze estere dal conflitto libico, il Governo di Unità Nazionale deve portare a compimento alcuni altri importanti obiettivi in vista dell’appuntamento di dicembre per il ritorno della popolazione civile alle urne: l’approvazione di una nuova Costituzione, di una legge elettorale e la riforma del sistema di sicurezza nel paese con la creazione di un esercito nazionale libico unito che rappresenta il presupposto fondamentale per un corretto svolgimento delle elezioni e l’unico strumento che possa scongiurare che esse non vengano inficiate da una spirale di violenza determinata dalle milizie appartenenti alle diverse fazioni. Proprio per tale ragione è necessario che l’approvazione della nuova Costituzione prima delle votazioni sia il più possibile inclusiva delle minoranze etniche – alle quali spesso corrispondono altrettante milizie – attraverso il loro riconoscimento all’interno della costituente ma ciò non è un processo di facile attuazione, basti pensare che la componente amazigh-berbera ha già rifiutato un referendum di ratifica di un trattato costituzionale.

 

Se tali questioni non vengono risolte prime delle elezioni il rischio è che un nuovo governo eletto, pur se legittimo, si ritrovi dinanzi le stesse tare dei precedenti governi. Si rammenta a tal fine che l’approvazione del governo tecnico ad interim, di cui il primo ministro è Dbeibah, accolta con un plauso internazionale condiviso si deve leggere attraverso la lente di un alleggerimento delle tensioni tra Turchia ed Emirati, Egitto e Francia e soprattutto in ragione del fatto che tale governo è provvisorio per definizione in quanto gli attuali membri che ne fanno parte non potranno candidarsi alle prossime elezioni. Qualche dubbio che ciò non sarà così emerge sia dal comportamento del primo ministro rispetto alle cancellerie internazionali, sia dai processi di riforma finora attuati, essendo alquanto improbabile che nell’arco di sei mesi possano realizzarsi i succitati obiettivi, anche perché attualmente il governo ad interim sembra aver altri intenti soprattutto di carattere economico, stringendo accordi commerciali con ogni paese con cui può incontrarsi a livello diplomatico.

Europa e Stati Uniti: è davvero pacificazione e ricostruzione?

Cosa può dirsi quindi cambiato in esito a queste tappe politiche e militari così importanti che hanno interessato il paese nel 2020 e nel 2021?

Poco, come detto, sotto il profilo sostanziale per il rafforzamento delle istituzioni rispetto al passato, in un’ottica di una Libia unita pur essendo chiaramente da non sottovalutare la condizione attuale di distensione e di unicità della rappresentanza governativa. Si può però affermare che oggi l’Unione Europea abbia una politica comune in Libia, dato il momentaneo superamento delle contrapposizioni dell’Italia e della Francia nel paese e che gli Stati Uniti, governati dall’amministrazione Biden, anche se mantengono comunque in Libia una posizione non interventista – la stessa che ha caratterizzato le precedenti amministrazioni – con il loro sostegno verbale al processo di democratizzazione del paese hanno indirettamente accelerato la spinta internazionale comune alla ricostruzione dello scenario libico, anche se non sappiamo ancora quanto questo sarà effettivamente determinante per la pacificazione della Libia.

Ciò che sicuramente non è cambiato è l’attenzione al tema delle migrazioni soltanto sfiorato nella recente conferenza di Berlino e delle gravissime violazioni dei diritti umani che continuano a compiersi in Libia. Quello che preoccupa fortemente e che ogni potenza internazionale, impegnata in questa svolta del processo di pacificazione, sembra far finta di non vedere, sono i centri detentivi libici dei quali ventiquattro sono ufficiali mentre trentuno risulterebbero quelli non ufficiali. Alcuni dati possono sicuramente aiutare a comprendere meglio la situazione anche se non danno la reale e drammatica portata umana del fenomeno: più di 700.000 sono i potenziali richiedenti asilo presenti nel paese, 200.000 gli sfollati interni, 5.000 i potenziali richiedenti asilo presenti nei centri detentivi ufficiali, due dei quali Medici Senza Frontiere è stata costretta recentemente ad abbandonare e circa 10.000 quelli stimati presenti nei centri non ufficiali.

Detenzioni e schiavitù

Nei centri i migranti vengono torturati e sono vittime di violenti abusi e gravi sfruttamenti sia sessuali che lavorativi fino spesso alla riduzione in una condizione di schiavitù. Quello che è importante avere in mente è che le persone detenute in questi centri non sono protagonisti di attuali ondate migratorie provenienti dall’Africa Subsahariana transitanti per Agadez come un tempo – essendo stato bloccato il transito dei migranti negli ultimi anni dal Niger alla Libia con la Legge nigerina 36-2015 che criminalizza il traffico umano in accordo con le politiche di esternalizzazione europee – ma persone che sono presenti in Libia in uno stato di detenzione da almeno cinque anni.

Oggi i migranti che passano per il Niger vengono fermati e abbandonati in quel “mare di sabbia” del deserto del Sahara contiguo al Fezzan libico, pericoloso nel suo attraversamento quanto il Mediterraneo centrale.

Rifugiati attraversano il deserto da Agadez in Niger alla Libia, per arrivare in Europa (foto Catay / Shutterstock)

Attualmente inoltre occorre segnalare che l’Unhcr sta cercando di compiere un’attività di evacuazione dei migranti dai centri detentivi libici al Niger, attraverso delle domande di reinsediamento di questi soprattutto in Canada negli Stati Uniti e in alcuni paesi dell’UE. Si rammenta tuttavia che questa procedura non consente garanzie ferme e ufficiali in ordine alla tutela dei richiedenti asilo non essendo né il Niger né la Libia firmatari della Convenzione di Ginevra.

La situazione assume i caratteri della catastrofe umanitaria se analizziamo le attività di respingimento soprattutto a opera della cosiddetta “guardia costiera libica” per cui i migranti detenuti, dopo aver pagato attraverso i propri familiari il prezzo della propria libertà, vengono intercettati e riportati nelle coste libiche e successivamente reinseriti nei centri, in questo caso quasi esclusivamente in quelli detentivi non ufficiali, chiamati più notoriamente Safe House o Connection House.

A quando i corridoi umanitari?

Da quanto sinora esposto sotto profili diversi è chiaro dunque che la Libia non possa ritenersi un paese sicuro, per il quale sarebbe opportuno implementare sistematicamente le pratiche dei corridoi umanitari tenendo conto delle continue notizie delle morti in mare, consentendo lo svuotamento completo dei lager libici, e bloccando subito le pratiche dei respingimenti collettivi delegati e dei finanziamenti europei a esse finalizzati che interessano le attuali  rotte migratorie tra cui quella del Mediterraneo centrale di cui si tratterà immediatamente di seguito.

L'articolo n. 11 – Cosa può fermare il caos libico? proviene da OGzero.

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