Georgia Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/georgia/ geopolitica etc Wed, 01 Dec 2021 22:24:08 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Stabilizzare Eurasia passando da Erevan https://ogzero.org/tenere-fuori-dal-gioco-washington-e-stabilizzare-l-eurasia/ Sun, 27 Jun 2021 10:00:23 +0000 https://ogzero.org/?p=4050 Sembra che ci sia ancora qualche sparuto paese al mondo in cui la dittatura delle società che realizzano i sondaggi elettorali non spadroneggi: tra questi c’è sicuramente l’Armenia. Nelle settimane precedenti alle elezioni legislative anticipate del 20 giugno, resesi non più procrastinabili dopo la disfatta nella guerra nel Nagorno Karabakh, il premier Nikol Pashinyan era […]

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Sembra che ci sia ancora qualche sparuto paese al mondo in cui la dittatura delle società che realizzano i sondaggi elettorali non spadroneggi: tra questi c’è sicuramente l’Armenia.

Nelle settimane precedenti alle elezioni legislative anticipate del 20 giugno, resesi non più procrastinabili dopo la disfatta nella guerra nel Nagorno Karabakh, il premier Nikol Pashinyan era infatti dato perdente da tutte le rilevazioni delle principali società demoscopiche. Il partner della prestigiosa Gallup International in Armenia – la società Mpg – prevedeva una corsa sul filo di lana di Pashinyan con il suo avversario, l’ex presidente del paese e capo del Blocco Armeno, Robert Kocharian è l’agenzia Ria Novosti, che aveva condotto una rilevazione solo 6 giorni prima del voto, aveva perfino stimato per Kocharyan il 32% delle preferenze contro il 24% di Pashinyan. Inaspettatamente invece il Contratto Civile guidato proprio dal primo ministro Nikol Pashinyan ha fatto saltare il banco ed è decollato al 53,92% dei voti espressi, detronizzando il suo rivale che pur chiamando alla rivalsa contro il disprezzato nemico azero, si è fermato al 21,04%. La terza forza a entrare in parlamento è stata quella guidata dall’ex capo del servizio di sicurezza nazionale del paese Artur Vanetsyan che pur non avendo superato lo sbarramento del 7% (come altri 22 partiti che avevano partecipato alla campagna elettorale) dato che per legge il numero di partiti rappresentati non può essere meno di tre, con il suo 5,2% farà parte lo stesso del consesso legislativo.

Robert Kocharian, lo sconfitto leader del Blocco armeno

Il Blocco armeno ha denunciato brogli ma non è stato preso sul serio neppure dai suoi sostenitori e nessuno è sceso in piazza a protestare a Erevan come invece era successo massicciamente dopo la cocente sconfitta militare dello scorso autunno.

Sviluppi internazionali dopo la sorpresa elettorale

Cosa dunque è successo nelle settimane precedenti al voto da rendere inefficaci le interviste delle società di sondaggio?

Ipotesi sull’incidenza dell’armistizio sul voto

Le elezioni erano in primo luogo un plebiscito sull’armistizio che ha fatto perdere all’Armenia tre quarti del territorio conteso con l’Azerbaijan. La maggioranza degli elettori da questo punto di vista non ha probabilmente cambiato opinione e continua a considerare ancora oggi una “capitolazione” l’accordo di pace firmato sotto l’egida di Mosca, tuttavia è cambiata con il raffreddarsi delle emozioni del momento, la sua percezione della dinamica politica in corso.

«Le elezioni si sono concluse inaspettatamente per molti in Russia, ma questa sorpresa è stata dovuta a sondaggi dubbi o alle valutazioni di alcuni esperti che si sono schierati piuttosto con una delle forze politiche e non hanno fornito un’analisi obiettiva della situazione», ha affermato il ricercatore presso l’Istituto di studi postsovietici e interregionali (Riac) Alexander Gushchin. «Le elezioni hanno dimostrato che la vecchia élite e i suoi leader non sono stati in grado di consolidare attorno a sé la quota principale dell’opinione pubblica armena nemmeno sull’onda dell’insoddisfazione per la sconfitta militare nella seconda guerra del Karabakh. La scia di pubblica negatività verso l’“ex” si è rivelata troppo grande, mentre l’elettorato di Pashinyan è stato mobilitato al massimo» ha osservato ancora Gushchin.

«Le elezioni in Armenia hanno confermato il sostegno alla formula per la futura pace nella regione, elaborata con la mediazione di Mosca lo scorso novembre», sostiene inoltre Andrej Fedorov, direttore del Centro russo per la ricerca politica, su “Kommersant” del 22 giugno 2021. «Se il corso verso la normalizzazione continuerà, per la Russia significherà la possibilità di neutralizzare ai suoi confini meridionali un focolaio di instabilità a lungo termine potenzialmente pericoloso. Allo stesso tempo, il percorso per ridurre il confronto tra Armenia e Azerbaijan dovrebbe facilitare il compito di coinvolgere Baku nei processi di integrazione in Eurasia». Pertanto secondo Fedorov «dopo le elezioni in Armenia, nella nuova fase, la crescente influenza della Russia può essere determinata sia dal mantenimento della pace sia da un ruolo più attivo nella costruzione di nuove relazioni tra le parti coinvolte nel conflitto del Karabakh».

L’emotività dei sondaggi seppellita dalla Realpolitik nelle urne

Ciò che non è risultato credibile – soprattutto ai cittadini armeni che vivono nelle campagne e proverbialmente più saggi e moderati di quelli urbani – è che si possa rimettere in discussione l’accordo raggiunto con il cessate il fuoco o persino riprendere la guerra. Il fatto che Pashinyan, nato e divenuto celebre come attivista dei diritti umani filoccidentale e sostenitore delle esigenze degli strati del lavoro intellettuale, abbia potuto attecchire nell’Armenia profonda e perfino trasformarsi in un politico che guarda a Mosca come ciambella di salvataggio anche nel futuro, è interessante per capire come opinione pubblica e leader possano cambiare pelle rapidamente nel mondo attuale, ma ciò ancora non spiega lo iato tra i polls virtuali che lo davano al 20% e il più del 50% di voti veri ottenuti nei seggi. In realtà – come ha sottolineato Gevorg Mirzayan, professore di Scienze politiche all’Università di Mosca – la maggior parte degli oppositori di Pashinyan è rimasta a casa, e sarebbero loro in maggioranza a formare l’esercito costituito da 1,2 milioni di elettori armeni che non si sono presentati al voto, a cui di fatto va aggiunto quel 17% che ha votato per liste che non avevano alcuna possibilità di entrare in parlamento: due modi di protestare contro la scarsa concretezza di Kocharian piuttosto che un sostegno al premier uscente.

Strategia russa di stabilizzazione e controllo

Questo quadro darebbe qualche chance a Putin di giocare il ruolo di facilitatore del coinvolgimento di Baku nei processi di integrazione in Eurasia e in misura minore di stabilizzazione dei difficili rapporti con la Turchia.

Il fattore più importante del voto, è che la “sacralizzazione” del problema del Karabakh e l’idea di vendetta nazionale non sono già più in cima ai pensieri di ampi strati della società armena, che hanno già altre priorità, in primo luogo la ripresa economica.

Tenere fuori dal gioco Washington

Ad aprile era stata annunciata la costruzione congiunta di una centrale nucleare russo-armena, ulteriore segnale dell’abbraccio economico-energetico russo

Inoltre, la maggioranza degli armeni si è dimostrata più realista del re, comprendendo che nelle condizioni attuali nel Caucaso meridionale e intorno al Artsakh, i partiti “bellicisti” armeni, anche se avessero vinto le elezioni, difficilmente sarebbero stati in grado di capovolgere la situazione a loro favore.

Mosca ha effettivamente tirato un sospiro di sollievo dal voto a Erevan perché garantisce la road-map tripartita definita in autunno e soprattutto la presenza di proprie truppe nella regione per anni. Non è un caso che il giorno dopo il voto senza attendere la conferenza stampa dell’opposizione, il Cremlino ha annunciato il suo «sostegno alla scelta del popolo armeno». Del resto Mosca non solo ha visto quanto Pashinyan nei suoi confronti abbia abbandonato i modi del bizzoso destriero e ora vada al passo come un ubbidiente pony, ma si sia dimostrato negli ultimi mesi un politico accorto. Infatti mentre la diaspora di Parigi e New York si batteva il petto per il Karabakh perduto e l’orgoglio nazionale infranto ma restava a osservare da lontano le vicende patrie, il popolo armeno dimostrava nell’urna più voglia di “normalità” e “pace”, se non proprio con gli invisi azeri almeno con gli altri popoli della regione, russi compresi.

Pashinyan allineato e coperto con il Cremlino

È interessante notare che nel suo primo discorso alla nazione dopo le elezioni, Nikol Pashinyan, da parte sua ha fatto un bel po’ più che un gesto dimostrativo nei confronti della leadership russa. «Esprimo la mia gratitudine alla Federazione Russa, al presidente russo Vladimir Putin e al primo ministro Mikhail Mishustin per il sostegno che hanno fornito all’Armenia e al popolo armeno in questa situazione», ha affermato Pashinyan in Tv. «L’Armenia dovrà approfondire seriamente la cooperazione militare e strategica con la Russia – ha aggiunto il leader armeno – a fronte della politica aggressiva dell’Azerbaijan», ha perfino aggiunto.

Su scala regionale il ruolo di Erevan del resto visto lo stato in cui versa la sua economia e il suo esercito, si riduce a cercare di contrastare l’alleanza sempre più stretta tra Ankara e Baku brandendo come può l’arma del genocidio turco.

Strategia turca di stabilizzazione e controllo

Le cose dalla parte della barricata turcofona si stanno muovendo rapidissimamente. Mentre in Armenia si chiudeva la campagna elettorale, il 15 giugno, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan giungeva a Şuşa, città simbolo della vittoria militare azera di qualche mese fa, dove con Ilham Aliyev, ha firmato una dichiarazione di Alleanza che d’ora in poi per i contraenti si chiamerà “Storica Dichiarazione di Şuşa”. Dietro ai titoli pomposi, a Şuşa si sono fatti comunque dei concreti passi avanti per quanto riguarda la cooperazione bilaterale nel campo della sicurezza, accordandosi perché l’Azerbaijan crei un «modello ridotto dell’esercito turco». Ankara e Baku conducono regolarmente e già da tempo esercitazioni militari congiunte e operazioni antiterrorismo ma per ora Baku non ha dato alcun segno di voler aderire alla Nato, segno che Ankara potrebbe desiderare avere nelle proprie disponibilità un arsenale e delle truppe autonome e fuori dal controllo Usa.

Allargamento di Astana?

In questa occasione il leader turco ha voluto anche mostrare la sua versione dialogante, diventata la sua postura dominante dell’ultimo periodo: ha chiesto ad Aliyev la normalizzazione delle relazioni con Erevan e ha proposto un format di cooperazione a sei nel Caucaso meridionale, che veda la partecipazione di Turchia, Russia, Azerbaijan, Armenia, Georgia e Iran. L’aver aggiunto nel menù anche l’Iran è un gesto di non poco conto che al Cremlino hanno preso in seria considerazione non solo in vista dei nuovi passi americani di apertura nei confronti del paese islamico ma soprattutto del realismo e del gradualismo con cui la Turchia voglia sviluppare la sua politica egemonica nella regione.

Qualche ora prima, del resto, Erdoğan aveva incontrato il presidente Usa Biden e si era dimostrato anche in questo caso assai disponibile e quasi remissivo malgrado lo “sgambettino stellestrisce” del riconoscimento ufficiale dell’“Olocausto armeno”. Il presidente turco ha promesso a Biden di restare “alleato sincero della Nato” ma non ha ceduto di un palmo né sulla questione del suo ruolo in Siria e Libia né sull’acquisto di sistemi missilistici antiaerei russi S-400.

Biden era venuto in Europa anche per verificare lo stato delle relazioni con Georgia e Ucraina in vista di una loro futura adesione alla Nato ma anche su questo terreno, dovrà tenere conto delle mosse bilaterali degli attori regionali.

Fatale attrazione caucasica per Erdoğan

Recentemente il primo ministro di Tblisi, Irakli Garibashvili, ha visitato Ankara proponendosi ai turchi come potenziale secondo alleato regionale, malgrado la Georgia sia un paese cristiano: una eventualità che sembra piacere ad Erdoğan proprio in vista dell’ingresso del paese ex sovietico nella Alleanza atlantica.

Tenere fuori dal gioco Washington

Ma la Georgia è attiva anche in direzione di un altro paese chiave della zona e cioè l’Ucraina anch’essa predestinata a diventare membro della Nato nonché dell’Unione europea. Tblisi è più avanti nel processo di adesione ma grazie al “fattore Donbass” che potrebbe tornare a essere dirimente in Europa in qualsiasi momento, Kiev potrebbe superarla al fotofinish, malgrado la Georgia abbia anch’essa in Abkhazia e Ossezia del Sud dei contenziosi aperti con la Russia e proprio la comune avversione a essa è il mastice che tiene insieme i due paesi ex sovietici.

Siamo a un passaggio fondamentale. L’ascendente di Ankara cerca di emarginare la declinante Mosca nella regione senza però per il momento farsela nemica come invece è nelle corde di Ucraina e Georgia: tenere fuori dal gioco Washington è nel loro comune interesse.

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Popoli oppressi vs cinismo tattico: quale soluzione? https://ogzero.org/il-diritto-dei-popoli-all-autodeterminazione-le-lotte-comuni/ Fri, 26 Feb 2021 12:26:50 +0000 https://ogzero.org/?p=2482 Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Sartori pubblicato il 31 agosto 2014 dalla rivista “Etnie” (dove trovate, l’articolo in versione integrale) con il titolo “Indipendentismo e anarchismo: relazione impossibile?”. Ne riportiamo qui alcuni brani che danno un senso compiuto al concetto di autodeterminazione che ci interessa particolarmente quando riferito a popoli che lottano […]

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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Sartori pubblicato il 31 agosto 2014 dalla rivista “Etnie” (dove trovate, l’articolo in versione integrale) con il titolo “Indipendentismo e anarchismo: relazione impossibile?”. Ne riportiamo qui alcuni brani che danno un senso compiuto al concetto di autodeterminazione che ci interessa particolarmente quando riferito a popoli che lottano – al di là delle istanze religiose o nazionaliste – per la propria identità, con la volontà di liberare dal controllo dall’esterno di un territorio e delle genti che lo abitano.


Una premessa. Personalmente considero l’indipendentismo come uno degli aspetti assunti dalle lotte per i diritti e per l’autodeterminazione dei popoli. E l’indipendenza uno sbocco possibile, non un destino necessario.

Alla richiesta di analizzare la possibilità di un rapporto organico, stabile e strutturale tra anarchismo e indipendentismo di sinistra, ho sempre risposto con una buona dose di scetticismo.
Tuttavia, dato che le circostanze e le scelte mi avevano portato a solidarizzare con irlandesi, baschi, corsi, curdi e altri (in quanto vittime di una forma di oppressione, una delle tante che devastano questa “valle di lacrime”), senza mai rinnegare i miei trascorsi giovanili inequivocabilmente libertari, ho cercato di vivere dentro questa contraddizione. Per quanto mi è stato possibile, in base al principio della makhnovsina: «Con gli oppressi contro gli oppressori, sempre».
Che poi ci sia anche riuscito, questo è un altro paio di maniche.

L’apparato statale è indispensabile?

In una fase precedente, evidentemente in preda all’ecumenismo, mi ero spinto oltre, scrivendo che «lottare per il superamento della forma-stato a favore dell’autorganizzazione totale delle classi subalterne deriva da una concezione del mondo non dissimile da quella di chi teorizza il superamento dello stato-nazione per l’autorganizzazione della comunità popolare» 1). E mi salvavo l’anima aggiungendo un indispensabile “Forse”. Del resto le “nazioni senza stato” che hanno saputo sopravvivere, conservare tradizioni e linguaggi, combattere l’oppressione e lo sfruttamento e talvolta anche difendere la propria terra dal degrado, non dimostrano, magari senza volerlo, che l’apparato statale non è poi così indispensabile?
Penso quindi che tra libertari e indipendentisti di sinistra (“nazionalisti”? “nazionalitari”? “abertzale”?) ci si possa comunque sopportare, si possa convivere. E talvolta, di fronte al comune nemico del momento, solidarizzare, lottare insieme 2).

Lotte comuni e condivisione

La Storia infatti ha registrato lotte comuni contro capitalismo, fascismo e imperialismo, contro il nucleare e in difesa dell’ambiente, dei diritti umani e dei prigionieri…. Oltre naturalmente alla condivisione di repressione, galera, esilio. Non sono poi mancate reciproche contaminazioni, biografie familiari e personali che si sovrappongono, osmosi tra gruppi libertari e indipendentisti di sinistra.

[…]

Popoli manovrati

Ma negli ultimi anni lo scenario sembra essersi ulteriormente complicato. Non tanto per la possibilità, comunque scarse, di coniugare in maniera duratura le istanze libertarie con quelle indipendentiste. E nemmeno perché questi “nazionalisti” siano cambiati in peggio. Da parte mia mantengo un profondo rispetto per tutti quei militanti baschi, catalani, irlandesi o curdi (da Bobby Sands al Txiki) che hanno perso la vita cercando di coniugare liberazione nazionale e sociale.

Quello che è cambiato, sicuramente in peggio, è l’accresciuta capacità del sistema tecno-industriale-militare dominante (il “caro”, vecchio imperialismo, fase suprema eccetera eccetera) di strumentalizzare i movimenti di liberazione. Anche questo un “effetto collaterale” della globalizzazione? L’autodeterminazione rischia davvero di ridursi, come avvertiva il sociologo catalano Manuel Castells, a una variabile che si usa o si getta a seconda del caso?
Una questione che ovviamente non riguarda soltanto gli anarchici, ma tutta quella sinistra antagonista, non omologata e non addomesticata che ancora si confronta con il diritto dei popoli all’autodeterminazione.
Certo, per i colonizzatori il divide et impera non è una novità. Viene praticato con successo almeno dai tempi di Giulio Cesare.
Le milizie curde alleate della Turchia che (come ha riconosciuto il Parlamento curdo in esilio) parteciparono al massacro degli armeni durante il genocidio del 1915 possono aver fornito un protocollo per l’utilizzo da parte della Francia, e in seguito degli Usa, di alcune minoranze indocinesi contro la resistenza vietnamita. In Irlanda del Nord era il proletariato protestante, maggiormente garantito, a condurre la “guerra sporca” (omicidi settari, spesso indiscriminati) contro gli abitanti dei ghetti cattolici. Da sottolineare che entrambi, indigeni irlandesi e coloni scozzesi, erano di origine celtica (non germanica, come gli inglesi, angli e sassoni). Un elemento in più per sottolineare l’artificiosità e la strumentalità, a tutto vantaggio dell’imperialismo di Londra, della divisione in due comunità reciprocamente ostili.
Putin ha potuto “pacificare” la Cecenia con il ferro e con il fuoco, utilizzando anche bande di ex guerriglieri indipendentisti divenuti collaborazionisti. Sul piano religioso, sciiti e sunniti, a fasi alterne, vengono strumentalizzati in Medio Oriente. Lo stesso avviene con le popolazioni minorizzate – curdi, beluci, turcomanni – alimentando e armando le loro aspirazioni a una maggiore autonomia o all’indipendenza.

Contraddizioni e guerre tra poveri

Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e al-Da’wa, notoriamente filoiraniani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente gli Usa avrebbero utilizzato in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad al-Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?
Anche le “guerre tra poveri” che hanno insanguinato il subcontinente indiano danno l’impressione di essere state in parte manovrate. Nel 2007 alcuni gravi attentati compiuti in occasione di feste nazionali e anniversari dell’India, vennero inizialmente attribuiti ai gruppi islamici. Successivamente emerse la pista dei separatisti del nord-est (bodo, naga…). Nel secolo scorso lo scontro era stato particolarmente duro nell’Assam, dove la maggioranza della popolazione è induista. Dal 1989 al 1996 la guerriglia dei bodo (in maggioranza cristiani) avrebbe causato la morte di migliaia di persone. Nel dicembre 1996 un attentato al Brahamaputra Express, mentre attraversava l’Assam, provocò più di trecento morti. Ancora prima delle rivendicazioni, l’atto terroristico venne attribuito ai bodo che due giorni prima avevano fatto saltare un ponte ferroviario.

Strategia della tensione mascherata da lotta per l’autodeterminazione?

Molto probabilmente in alto loco qualcuno pensa che è “sempre meglio che si ammazzino tra di loro”, purché il controllo del territorio e delle risorse rimanga saldamente nelle mani di chi detiene il potere. Si tratti di un esercito di occupazione, di una multinazionale o di criminalità organizzata come nei pogrom di Ponticelli. E naturalmente anche l’oppresso, il diseredato di turno ci metterà “del suo”.
Un caso limite, a mio avviso, quello dei karen, in perenne fuga tra Birmania e Thailandia e che da qualche tempo verrebbero sostenuti da gruppi neofascisti europei.
Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale e di quelli autonomistici non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Non a caso Manuel Castells ha parlato di «indipendenze a geometria variabile», denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese «a seconda di chi, del come e del quando». Ricordava che osseti e abkhazi si erano ribellati contro la Georgia nello stesso periodo in cui i ceceni si sollevavano contro la Russia. Inizialmente gli Usa appoggiarono l’insurrezione cecena, ma tollerarono facilmente la repressione da parte della Georgia. Analogamente nel caso del Kosovo (dove è stata poi costruita un’immensa base statunitense) si è invocato il diritto all’autodeterminazione, mentre per il Tibet non si va oltre qualche protesta simbolica. Quanto agli uiguri, sembra quasi che non esistano come popolo.

Il cinismo tattico caso per caso

«Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione – ha scritto il sociologo catalano – sono frutto di un cinismo tattico» e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno «strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente». Gli esempi si sprecano. Pensiamo al diverso trattamento riservato ai curdi in Iraq, già praticamente autonomi (e alleati degli Usa a cui hanno consentito di installare alcune basi militari), mentre quelli della Turchia continuavano a essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, grande alleato degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. Nel 2010, dopo una serie di impiccagioni di militanti curdi che l’opinione pubblica mondiale aveva completamente ignorato, i curdi dell’Iran (Partito per una vita libera in Kurdistan, Pjak, considerato il ramo iraniano del Pkk attivo in Turchia) sembravano essersi rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva rivelato “Le Monde”, ma poi la situazione sembra essere cambiata).
Nel caso di Timor Est, la popolazione subì per anni un vero e proprio genocidio nell’indifferenza dell’opinione pubblica. Tra le poche eccezioni, negli anni Settanta, Noam Chomski e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip). Solo di fronte al rischio concreto di una dissoluzione dell’Indonesia intervennero le forze internazionali, ripescando l’ex guerrigliero Gusmão, leader del Frente revolucionària de Timor-Leste independente (Fretilin) per farne il presidente. Pare che inizialmente non ne fosse particolarmente entusiasta, dato che aspirava a ritirarsi dalla vita politica e darsi all’agricoltura. Paradossale che per garantire l’indipendenza di Timor Est venissero impiegati anche soldati inglesi provenienti dalle caserme di Belfast.
E a proposito di Belfast, due situazioni molto simili come l’Irlanda del Nord e il Paese basco negli ultimi anni sembravano aver imboccato strade antitetiche. Soluzione politica, abbandono della lotta armata da parte di Ira, Inla e delle principali milizie lealiste, liberazione dei prigionieri politici e cogestione del governo locale a Belfast e Derry.

Repressione, ancora casi di tortura, tregue effimere, illegalizzazione di partiti (Herri Batasuna, Batasuna, Bildu, Sortu…), associazioni ( Jarrai, Haika, Segi, Gestoras pro Amnistia, Askatasuna…) e giornali (“Egin”, “Egunkaria”) a Bilbo, Donosti e Gasteiz. Solo nel 2012, con la definitiva rinuncia alle armi di Eta e la possibilità per la “sinistra abertzale” di partecipare alle elezioni (con Sortu), si è riaperta la possibilità di una soluzione politica del conflitto. Ma al momento Arnaldo Otegi e altri esponenti indipendentisti rimangono ancora in galera (come se durante le trattative Blair avesse fatto arrestare Gerry Adams) e per i prigionieri politici baschi, in particolare per gli etarras, la situazione rimane molto difficile 3).
La mia ipotesi è che negli anni Novanta il «grande laboratorio a cielo aperto per la controinsurrezione» dell’Irlanda del Nord dovesse chiudere in vista della partecipazione britannica alle guerre in Afghanistan-Iraq e del ruolo fondamentale assunto da Londra. Meno convincente la tesi della conversione di Blair al cattolicesimo, anche se non si può mai dire. Quanto agli Usa, Clinton avrebbe agito per conservare il voto dei cittadini statunitensi di origine irlandese che solitamente votano per i Democratici.

L’ombra dei poteri globali

È ipotizzabile che in Irlanda del Nord la stessa Cia abbia dato una mano per togliere di mezzo qualche capo delle milizie lealiste (filobritanniche) che non aveva compreso la nuova situazione. Ipotesi formulata anche dal compianto Stefano Chiarini. Al contrario, già negli anni Novanta Washington inviava agenti della Cia nel Paese basco per coadiuvare l’apparato repressivo.
Il problema di “quale autodeterminazione” si pone soprattutto nel caso di stati nati dalla colonizzazione, dato che le loro frontiere sono state stabilite in base a trattati europei con cui si decideva arbitrariamente il destino delle popolazioni. I poteri globali reali (economici, militari, tecnologici) stabiliscono caso per caso, di volta in volta, se appoggiare una lotta di liberazione, legittimarne la repressione o anche inventarne una di sana pianta. Al limite della farsa l’episodio che ha visto un gruppo di aspiranti golpisti (quasi tutti membri di una loggia massonica) arruolare mercenari per sobillare la rivolta secessionista nel Cabinda, regione angolana ricca di petrolio. Episodio da segnalare per l’uso spregiudicato di due onlus (Freedom for Cabinda e Freedom for Cabinda Confederation) create appositamente per ricevere donazioni.

Alcuni casi esemplari, storici, di separatismo a puro uso e consumo di qualche potenza coloniale (come il Katanga di Tshombe nell’ex Congo belga) potrebbero tornare di attualità. Per esempio in Bolivia con Santa Cruz, capoluogo di una regione ricca, abitata prevalentemente da discendenti dei colonizzatori, che ha spinto per l’indipendenza. Chissà? Forse Evo Morales (il presidente boliviano esponente del Ma, Movimento al socialismo) ha rischiato davvero di finire come Lumumba, il presidente progressista del Congo, assassinato nel 1961 dagli sgherri di Tshombe al servizio dell’imperialismo belga.
E forse non è un caso che nel 2008, dopo anni di impegno a fianco dei popoli oppressi, la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip), riconosciuta dall’Onu e dall’Unesco, abbia definitivamente sospeso le sue attività. Fondata da Lelio Basso, la Lidlip è stata per trent’anni portavoce delle minoranze, delle popolazioni perseguitate, dei movimenti di liberazione dal colonialismo.

 

NOTE

1) Gianni Sartori, Catalogna – Storia di una nazione senza stato, ed. Scantabauchi, 2007.
2) Ovviamente mi riferisco all’indipendenza come sbocco di una lotta di liberazione, dall’oppressione coloniale classica, “da manuale”. Come nel caso di Algeria, Guinea Bissau, Mozambico, Angola, Irlanda… o dal “colonialismo interno” come potrebbe essere per i Paesi baschi, il Tibet e la Cecenia. A mio avviso si può legittimamente parlare di movimenti di liberazione quando la lotta è anche contro il sistema economico responsabile dell’oppressione (capitalismo, neoliberismo, capitalismo di stato…). Escludendo, per quanto mi riguarda, dall’interessante dibattito partiti come l’Adsav bretone, la Lega Nord o alcuni indipendentisti fiamminghi nostalgici del nazismo.
3) Ma l’auspicata soluzione politica del conflitto è tornata nuovamente al palo dopo la retata del 1° ottobre 2013 contro 18 esponenti di Herrira (tra cui il portavoce Benat Zarrabeitia). Il giudice Eloy Velasco ha accusato l’associazione basca per i diritti umani dei prigionieri politici di essere “un tentacolo di Eta” in quanto avrebbe organizzato manifestazioni di “esaltazione” dei prigionieri baschi.

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Astana agli sgoccioli. Chi ha più filo da filare tra Mosca e Ankara? https://ogzero.org/astana-agli-sgoccioli-chi-ha-piu-filo-da-filare-tra-mosca-e-ankara/ Thu, 22 Oct 2020 08:38:32 +0000 http://ogzero.org/?p=1563 Traiettorie diverse di attraversamento transcaucasico-mediorientale L’alleanza tra Vladimir Putin e Recep Erdoğan è sempre stata a tempo e i due contraenti non ne hanno fatto mai mistero. Isolati e osservati con diffidenza da buona parte della comunità internazionale, strategicamente concorrenti e avversari in Medio Oriente, hanno fatto di necessità virtù per cinque anni ma ora […]

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Traiettorie diverse di attraversamento transcaucasico-mediorientale

L’alleanza tra Vladimir Putin e Recep Erdoğan è sempre stata a tempo e i due contraenti non ne hanno fatto mai mistero. Isolati e osservati con diffidenza da buona parte della comunità internazionale, strategicamente concorrenti e avversari in Medio Oriente, hanno fatto di necessità virtù per cinque anni ma ora la politica di appeasement tra i due paesi seguita alle scuse del presidente turco per l’abbattimento del Su-24 russo sui cieli siriani nel 2015, potrebbe essere agli sgoccioli.

Il ritorno di fiamma della guerra in Nagorno-Karabach lo dimostra con evidenza. Non a caso in una recente intervista il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha voluto sottolineare di considerare la Turchia «non un alleato ma un interlocutore stretto».

Mosca e Ankara sono le due principali potenze regionali nell’area che va dal mar Nero al Medio Oriente, passa per la Transcaucasia e lambisce la Persia. Con due traiettorie però assai diverse.

Ascolta “La Russia è solo una potenza regionale” su Spreaker.

 

Confrontando le parabole di Turchia e Russia

L’economia turca a partire dall’inizio del nuovo millennio è cresciuta costantemente, triplicando il proprio Pil. Un decollo economico accompagnato da un potente incremento demografico che ha fatto passare la sua popolazione complessiva da 67 a 83 milioni (a cui va aggiunta la diaspora). Il “neoimperialismo ottomano”, in questo quadro, è il prodotto di una crisi di crescita del paese a cui ormai vanno stretti i confini definiti nel primo Dopoguerra.

La Russia invece, dopo il boom del primo decennio del XXI secolo basato essenzialmente sugli alti prezzi degli idrocarburi sul mercato mondiale e la stabilizzazione sociale interna, vede da molti anni la propria economia stagnare. Dal 2018 la sua popolazione è tornata a contrarsi malgrado milioni di ucraini e centroasiatici abbiano acquisito il passaporto della Federazione: la Banca Mondiale stima che se non ci sarà una svolta, la Russia passerà dagli attuali 145 milioni di abitanti a 131 nel 2050. Dopo la facile vittoria nella guerra con la Georgia del 2008 – che aveva mostrato però dei limiti soprattutto logistico-satellitari – dagli anni Dieci in poi il declino dell’egemonia strategico-militare di Putin sul vicino estero ex sovietico è continuata con la perdita definitiva dell’Ucraina (compensata solo in parte dall’annessione della Crimea) e ora esiste il rischio concreto – a seguito dello sviluppo del movimento di opposizione in Bielorussia – di perdere un altro alleato fondamentale proprio laddove la Nato, grazie all’integrazione di Polonia e paesi baltici, è più aggressiva.

La partnership economica tra le due potenze locali (turismo, abbigliamento, prodotti alimentari e soprattutto forniture di gas russo attraverso Turkish Stream) ha reso più fluide anche le relazioni diplomatiche. La luna di miele tra i due paesi ha raggiunto il suo zenit nel periodo che va dall’acquisto da parte turca del sistema difensivo antiaereo russo S-400 (preferito ai Patriot americani con gran dispetto di Washington) e il sostegno convinto di Erdoğan a Nicolas Maduro nella crisi venezuelana del 2019 e suggellato dagli accordi di Astana per la sistemazione della matassa siriana. Dopo di allora però, lentamente ma inesorabilmente, il corso delle relazioni turco-russe è andato via via peggiorando e la guerra nel Nagorno-Karabach, qualunque sarà il suo esito, marcherà il passaggio in una fase che potremmo definire “postAstana”, foriera di nuove tempeste e procelle nella regione.

In quali intrecci si sta azzoppando Astana?

Le prime avvisaglie che si stava entrando in una fase nuova emerse a inizio 2020 quando ci fu più di una scaramuccia tra Siria e Turchia che vide coinvolto il contingente russo. Qualche mese dopo i due paesi si trovavano a confrontarsi ancora su fronti avversi in Libia. La Turchia sostiene da sempre il governo libico riconosciuto dalle Nazioni Unite, guidato da Fayez al-Serraj, che sta lottando da più di un anno per resistere a un assalto alla capitale Tripoli da parte del comandante ribelle Khalifa Haftar. Quest’ultimo è sostenuto, anche se non formalmente, dalla Russia grazie alla penetrazione dei suoi gruppi di foreign fighters organizzati nell’ormai celebre agenzia dei “wagneriani”, già presente in vari teatri, non ultimi quelli africani. Un modo per la Russia, quello dell’uso di compagnie di ventura, per giocare un ruolo di ago della bilancia in diverse crisi senza esporsi direttamente e soprattutto dai costi economici relativi.

Sia la Russia che la Turchia hanno investito molto in Libia: la Federazione in termini di reputazione, influenza e potenziali accordi petroliferi e la Turchia con interessi commerciali ed energetici ancora più ampi, ma hanno evitato in ogni modo di confrontarsi direttamente. «Quella libica potrebbe essere la loro più grande divergenza, ma ce ne sono altre. Sono a disagio per il ruolo crescente dell’Iran nella regione, che Putin generalmente sostiene fintanto che infastidisce gli Stati Uniti. I turchi odiano il regime di al-Sisi in Egitto che Putin giudica invece positivamente. E sono da sempre ai ferri corti anche con gli israeliani, con i quali Putin ha un solido rapporto di partnership», sostiene Jonathan Schanzer della Foundation for Defense of Democracies, un think tank con sede a Washington.

Presenze strategiche dei due contendenti sullo scacchiere internazionale

Ma nel complesso la partnership rischia di crollare a causa dell’inconciliabilità delle ambizioni geopolitiche. Schanzer, a tale proposito, segnala la grandiosa visione ottomana delineata da uno dei massimi consiglieri di Erdoğan, il generale in pensione Adnan Tanrıverdi, che interpreta la Turchia emergente come una superpotenza islamica con capacità di esercitare autorità e influenza su 61 paesi musulmani con Istanbul a capitale di un inedito califfato.

Putin ha forse obiettivi meno ambiziosi – più tattico che stratega è abituato a misurare ogni passo di politica estera – ma non meno importanti per gli equilibri internazionali. A fronte dell’ulteriore sgretolamento dell’influenza nell’area ex sovietica, Mosca è interessata a inserire dei cunei di propria presenza su scala globale che le permettano di restare al centro di quanto si va definendo nei diversi scacchieri. Un approccio parzialmente diverso da quello del tradizionale contenimento sviluppato dal Cremlino fino a qualche anno fa e che poggiava in gran parte sul suo ruolo di potenza nucleare. La ripresa della guerra in Nagorno-Karabach non sta facendo che accelerare, da questo punto di vista, delle tendenze già in atto.

Un Anschluss turco-azero?

Ma se le scaramucce tra Armenia e Azerbaigian del luglio potevano lasciare presagire che lo scontro ruotasse intorno ai gasdotti azeri Baku-Tbilisi-Ceyhan e quello nel Caucaso meridionale ovvero sulle rotte del reperimento di risorse energetiche alternative a quelle russe nella regione, la guerra iniziata il 27 settembre 2020 dall’alleanza turco-azera ha ben altri obiettivi, in primo luogo di ridefinizione complessiva degli equilibri nella regione. Evidentemente, Erdoğan intende saggiare la reazione russa e dei paesi Nato a fronte di un chiaro tentativo espansionista: in questo senso l’alleanza turco-azera basata sulla teoria “un popolo, due stati” sta realizzando seppur in trentaduesimi, la stessa politica che la Germania negli anni Trenta del XX secolo portò avanti con l’Anschluss e l’occupazione della Cecoslovacchia. Da questo punto di vista Erdoğan ha ricevuto segnali positivi riuscendo a mettere sotto scacco l’Europa con il ricatto dell’ondata migratoria dalla Siria e paralizzando una Russia già alle prese con la crisi in Bielorussia e la querelle di Navalny. Malgrado Francia, Usa e Russia abbiano chiesto con due dichiarazioni comuni il cessate il fuoco, malgrado siano arrivati segnali di inquietudine da parte di molti altri stati, la macchina bellica turco-azera non si è fermata.

Valore “locale” del conflitto caucasico

Allo stesso tempo non va però dimenticato che l’offensiva in Nagorno-Karabach ha obiettivi tutti interni al quadro transcaucasico. Sin dall’inizio del conflitto, malgrado l’Armenia sia parte integrante del Trattato di sicurezza collettiva (l’alleanza militare guidata dalla Russia dopo la fine del Patto di Varsavia), a differenza che in Bielorussia, la Federazione non ha minacciato interventi a fianco di Erevan se non nel caso estremo di aggressione diretta dentro i confini armeni. Una postura che non è certo piaciuta a Nikol Pashinyan, il premier armeno asceso al potere dopo la Rivoluzione di Velluto del 2018. Pashynian è un ex difensore dei diritti civili che guarda per sua formazione e cultura a Occidente. Tuttavia in nome della Realpolitik e delle forniture di idrocarburi a prezzi low-cost è restato legato finora a Mosca, ma l’evidente neutralità assunta dalla Russia nel conflitto nel Nagorno-Karabach potrebbe fargli riconsiderare – a medio termine – il legame con Mosca, ripiegando su una posizione di neutralità. Non è un caso che tutti i suoi sforzi per giungere al cessate il fuoco nelle prime settimane del conflitto abbiano cercato di far leva sui timori della UE (e di Merkel in particolare) per la crescente aggressività turca, anche se Berlino in realtà ha le mani legate perché – piaccia o no – la Turchia resta un membro imprescindibile della Nato.

In questo quadro proprio l’Alleanza Atlantica sta accelerando il suo programma di allargamento a Est. Due settimane dopo l’inizio del conflitto, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha invitato apertamente la Georgia ad aderire al sistema difensivo occidentale: «Siamo concentrati sulla regione del Mar Nero, stiamo sviluppando le nostre capacità marittime, la difesa costiera della Georgia e stiamo conducendo visite di navi Nato nei porti georgiani. Nei nostri negoziati sottolineiamo l’importanza strategica della regione del Mar Nero sia per la Georgia che per gli stati della Nato e siamo pronti ad accoglierla nell’alleanza», ha affermato il segretario generale. Un quadro fosco per la Russia soprattutto in caso di sgancio della Bielorussia e dell’Armenia.

Si tratta ora di capire se il punto di caduta dello scontro nel Nagorno-Karabakh, escludendo la catastrofe di un confronto diretto tra Russia e Turchia, sarà una vittoria completa azera o se, come continuano ad affermare gli esperti di strategia russi, Ilham Aliyev si accontenterà di sedersi al tavolo della trattativa dopo essersi ripreso i corridoi che collegano il Nagorno-Karabakh all’Armenia. In entrambi i casi, Mosca ne uscirà indebolita e dovrà ripensare seriamente ai suoi rapporti con Ankara. A settembre Erdoğan ha annunciato di aver trovato giacimenti di gas nel Mar Nero che dovrebbero garantire entro il 2023 l’autonomia energetica al suo paese. A quel punto allora, i buoni rapporti con Putin, potrebbero per lui essere solo un intralcio.

I timori dell’Occidente per l’attivismo turco

L’Azerbaijan ha fatto intendere che non vuole iniziare alcuna trattativa per risolvere la contesa sull’enclave etnico armeno, senza che vi partecipi direttamente la Turchia. Una posizione che manderebbe in soffitta definitivamente il format del “gruppo di Minsk” a cui partecipano, oltre ai paesi coinvolti nel conflitto, la Francia, gli Usa e la Russia. Un Diktat a cui è seguito l’inevitabile stop di Erevan mentre il segretario di stato Mike Pompeo esortava Erdoğan «a evitare di interferire nel conflitto». La presa di posizione dell’Eliseo, seppur non ufficiale, è stata particolarmente dura. «Il presidente francese ha già espresso preoccupazione per il ruolo della Turchia nel conflitto in Nagorno-Karabach. È motivo di preoccupazione che Erdoğan stia moltiplicando le sue avventure, non tenendo conto della necessità di garantire una sicurezza comune», si legge in un comunicato fatto circolare dalla diplomazia francese nella giornata del 18 ottobre. Macron teme che Erdoğan voglia tastare il polso alla Comunità europea per capire fino a che punto possa spingersi nella propria impunità.

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