Gazprom Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/gazprom/ geopolitica etc Mon, 14 Feb 2022 16:28:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Ucraina, frenetici dialoghi tra sordi https://ogzero.org/ucraina-frenetici-dialoghi-tra-sordi/ Fri, 28 Jan 2022 22:50:01 +0000 https://ogzero.org/?p=5994 Pubblichiamo il primo di due interventi di Yurii Colombo volti ad analizzare dal punto di vista geopolitico giochi di guerra e trattative in corso tra le varie diplomazie per la situazione in Ucraina: frenetici dialoghi tra sordi, ovvero silenzi prolungati nel secondo articolo. Un vecchio proverbio ucraino (conosciuto anche in Russia) dice che  “C’è un […]

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Pubblichiamo il primo di due interventi di Yurii Colombo volti ad analizzare dal punto di vista geopolitico giochi di guerra e trattative in corso tra le varie diplomazie per la situazione in Ucraina: frenetici dialoghi tra sordi, ovvero silenzi prolungati nel secondo articolo.


Un vecchio proverbio ucraino (conosciuto anche in Russia) dice che  “C’è un sambuco in giardino e uno zio a Kiev” per indicare quando tra due interlocutori non c’è nulla in comune, ognuno dice la sua e non ascolta l’altro. Un dialogo tra sordi, potremmo tradurre in italiano. Sarebbe questo il consuntivo di frenetiche settimane di incontri bilaterali, messaggi diffusi sulla stampa in codice agli avversari, scambi di accuse e naturalmente ammassamenti di truppe e war games tra Russia e Nato con al centro l’Ucraina e per certi versi il destino del vecchio (e malandato) continente.

La vecchia “dottrina Breznev”

Mercoledì 26 gennaio 2022, dopo i round di trattative dei primi giorni dell’anno a Ginevra, gli Usa hanno consegnato la risposta alla proposta di accordo fatta circolare pubblicamente dalla Russia già il 17 dicembre scorso e leggibile qui. Nella “bozza” del ministero degli Esteri russi si sosteneva che «La Russia e gli Usa […] non dovrebbero dispiegare le loro forze armate e armi in aree in cui tale dispiegamento sarebbe percepito dall’altra parte come una minaccia alla loro sicurezza nazionale» ma soprattutto si chiedeva alla Nato di escludere l’ipotesi un’ulteriore espansione verso Est. Si tratterebbe di una versione rivista e corretta della vecchia “dottrina Breznev” che prevedeva il riconoscimento di un’area di “influenza russa” nell’Est-Europa dopo l’invasione della Cecoslovacchia nel fatidico 1968. Ma se negli anni Settanta ciò implicava il riconoscimento del controllo degli stati d’oltre cortina da parte sovietica, ora a Mosca ci si accontenterebbe di impedire a Kiev e Tblisi di allearsi militarmente all’Occidente.

Per Putin l’Ucraina rappresenterebbe quella linea rossa da non superare che l’Alleanza Atlantica non dovrebbe varcare, pena la «rottura verticale delle relazioni».

Visto dalla Moscova il ragionamento non fa una grinza: negli ultimi 24 anni, 14 stati dell’Europa orientale hanno aderito alla Nato in barba alle promesse (a parole) che erano state fatte a Gorbačëv ai tempi dell’unificazione tedesca, e questa non solo bussa ora sul fronte occidentale ma rischia – in prospettiva – di infettare il Centro-Asia in particolare il Turkmenistan e l’Uzbekistan che dopo il disfacimento del Patto di Varsavia non hanno aderito all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva.

La risposta americana – per ora non pubblicata dal Cremlino – è stata interlocutoria. Il “New York Times” sostiene che gli Stati Uniti hanno proposto di rilanciare il Trattato sulle forze nucleari a medio raggio (Trattato Inf), dal quale si sono ritirati nel 2019. La pubblicazione dell’East Coast riporta la risposta degli Stati Uniti la quale «afferma chiaramente che la Russia non avrà potere di veto sulla presenza di armi nucleari, truppe o armi convenzionali nei paesi della Nato», ma «apre le porte a negoziati sulle restrizioni reciproche per quelle a corto e medio raggio». Il piano sarebbe quello di giungere ad accordi “realistici” compreso quello sui “cieli aperti” che con una certa leggerezza erano stati lasciati scadere dall’amministrazione Trump e che invece Joe Biden considererebbe imprescindibili per evitare crisi impreviste dell’ordine globale.

L’espansione della Nato verso est

Ma la trattativa in realtà è ancora più ampia. Andrey Kortunov, direttore generale del Consiglio per gli affari internazionali della Russia (Inac) ha sottolineato che un’altra componente necessaria degli attuali negoziati tra Russia e Occidente sulle garanzie di sicurezza dovrebbe essere il rinnovo del Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa (Cfe). «Dovremo sviluppare una nuova versione del Trattato Cfe, che dovrebbe certamente contenere la tesi di limitare l’espansione verso est della Nato. La nuova versione del Cfe dovrebbe contenere anche clausole relative ai droni e una serie di altri nuovi tipi di armi che non erano nel precedente trattato, firmato nel 1990», sostiene Kortunov.

Che questo sia il canovaccio – e buona sostanza della vera trattativa in corso tra le due potenze – lo si desume anche dalle parole di Sergey Lavrov, ministro degli Esteri russo, il quale ha stigmatizzato Washington sostenendo che sulla “ciccia” (ovvero lo stop all’espansione della Nato) non c’è “nessuna risposta positiva”. Allo stesso tempo però, il diplomatico russo, ha osservato che il contenuto della risposta degli Stati Uniti ci consente di contare su una discussione seria, ma su questioni secondarie. La decisione sugli ulteriori passi della Russia sarà presa da Vladimir Putin, ha precisato il ministro degli Esteri. E anche il Consiglio della Federazione ritiene che la risposta degli Stati Uniti contenga una volontà di compromesso in alcune aree. La replica americana in sostanza si condenserebbe in ciò che aveva affermato Jens Stoltemberg qualche ora prima e che era stato letto negativamente dalla City russa provocando una caduta poco piacevole del mercato azionario e del rublo. Era del resto anche quanto affermato da Biden il 20 gennaio: «L’adesione dell’Ucraina alla Nato è improbabile nel prossimo futuro. Per unirsi all’Alleanza, l’Ucraina deve fare molto lavoro dal punto di vista della democrazia e di una serie di altre cose». In linguaggio corrente significa che l’Ucraina dovrebbe abbandonare ogni richiamo alle ideologie neofasciste di Stepan Bandera sui cui tristemente in parte poggia oggi (invise alla Polonia e alla lobby ebraica a Washington) ma garantire la possibilità di un accesso limpido al suo mercato per gli occidentali, riducendo il tasso di corruzione interna.

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Armi Nato in arrivo in Ucraina.

Le minacce “ibride” di Putin

Come ha segnalato correttamente il politologo ucraino Volodmyr Ishchienko, lo stesso “Center of Defense Strategies”, un think tank ucraino guidato da un ex ministro della Difesa, «aveva affermato in modo persuasivo che qualsiasi invasione russa di massa con l’occupazione di grandi territori e grandi città ucraine è molto improbabile non solo nelle prossime settimane ma anche durante il 2022». Secondo Ishchienko «l’accumulo di truppe russe alle frontiere non è superiore a quello della primavera del 2021 e i preparativi logistici non sono nemmeno lontanamente al livello di sostenere un’operazione militare di questa portata. In tali condizioni tale operazione sarebbe semplicemente suicida per Putin, le minacce più realistiche dalla Russia nel breve termine sono di natura “ibrida”», come per esempio la ripresa in grande stile delle scaramucce nel Donbass.

L’obiettivo primario della campagna mediatica non sarebbe quindi probabilmente nemmeno l’Ucraina, ma la Germania e non solo.

Ci raccontano di questo del resto anche le dimissioni imposte al comandante della Marina tedesca Kay-Achim Schönbach dopo che aveva fatto coming out la settimana precedente sostenendo che «la penisola di Crimea non tornerà ai suoi legittimi proprietari». Aveva anche definito «una sciocchezza» che Mosca possa presumibilmente pianificare di destabilizzare l’Ucraina. Secondo lui, India e Germania hanno bisogno della Russia per contrastare la Cina. Schoenbach aveva chiosato persino affermando che il presidente russo Vladimir Putin vuole «rispetto alla pari» dall’Occidente, ed «è facile dargli il rispetto che chiede – e probabilmente – merita». La stampa tedesca più attenta ha commentato che il generale sarebbe caduto in un “trappolone”. Infatti le dichiarazioni “bomba” erano state rilasciate durante un discorso all’Istituto indiano per gli Studi e l’Analisi della Difesa intitolato a Manohar Parrikar (Idsa) a Nuova Delhi, cioè in uno dei paesi più interessati a mantenere una politica di appeasement tra Mosca e Washington.

Del resto forse basta uscire dall’Europa per percepire la crisi intorno all’Ucraina con tutt’altre lenti più segnate dalla Realpolitik e meno dalle ideologie correnti.

Tuttavia le affermazioni del capo della Marina tedesca – benché pronunciate a migliaia di chilometri da casa e proprio in quei giorni – non potevano non produrre reazioni forti e ciò rimanda alle contraddizioni presenti dentro la cancelleria tedesca e più in generale nei circoli teutonici del business. In primo luogo ovviamente la questione delle rotte energetiche di cui anche cittadini e imprese tedesche quest’inverno hanno potuto constatare l’importanza con il salasso dovuto all’aumento delle bollette del gas (+69% nel giro di un anno). Gazprom controlla una serie di impianti di stoccaggio del gas in Germania e in Europa. Naturalmente, in Europa, soprattutto nella sua parte orientale e centrale, temono che in caso di guerra in Ucraina e con l’imposizione di sanzioni “infernali” contro la Russia, Mosca possa chiudere completamente la valvola del gas come risposta. Come annota il moscovita “Expert” nel numero in edicola, «Berlino ha fatto investimenti molto cospicui nell’energia pulita, ma la transizione dai combustibili fossili alle rinnovabili è lenta e irregolare. Il gas nel bilancio energetico della Germania rappresenta ora circa il 25%. Con la chiusura delle centrali nucleari e delle centrali a carbone, questa quota aumenterà. La quota di gas nella produzione di elettricità lo scorso anno ha già superato la quota del 1990. Al gas russo oggi non c’è alcuna alternativa».

Mosca, l’insegna della Gazprom svetta sui palazzi governativi russi (foto Aleksey H / Shutterstock).

Alleati e rivali europei

Ma non si tratta solo di “North Stream 2” a cui a Berlino in fin dei conti non vorrebbe rinunciare, ma anche del ruolo dell’Europa in una trattativa in cui il pallino sembra finito in mano americana. Qui però la Germania trova un alleato – ma anche rivale – nella Francia, che in questi giorni ha esibito iniziative autonome in incontri bilaterali con Putin. Andrey Kortunov, direttore generale del Consiglio per gli Affari internazionali della Russia è convinto che «la questione ucraina va considerata principalmente nel contesto delle elezioni presidenziali di aprile in Francia. Macron, nell’ambito della campagna elettorale, convincerà tutti che può diventare il leader d’Europa, avendo uno scenario per risolvere i problemi con l’Ucraina. Dirà che Parigi ha il diritto di guidare il dialogo con Mosca e che queste tradizioni sono state stabilite sotto De Gaulle». Non è solo la vecchia idea dell’Europa da Vladivostock a Lisbona che trovò proseliti anche nella destra neonazista europea degli anni Sessanta a tornare in auge, ma anche un rilancio del confronto tra locomotiva franco-tedesca e carro di Visegrad sull’approccio da tenere con Putin. Il Formato Normandia probabilmente ripartirà anche se i russi si sono convinti che senza l’adesione formale anche degli Usa (a cui si sono detti favorevoli) non si faranno dei grandi passi avanti.

La Croazia fuori dal coro

Che non tutta l’Unione europea si pronta a mettersi in fila indiana dietro Biden è saltato all’occhio con la posizione assunta durante la crisi dalla Croazia.Il presidente Zoran Milanović ha sostenuto che se il conflitto tra Russia e Ucraina crescerà, il paese ritirerà i suoi militari dal contingente Nato nella regione. Ha sottolineato anche che la Croazia non ha nulla a che fare con ciò che sta accadendo tra i due paesi slavi, e ha collegato la situazione stessa al rinnovato attivismo dell’amministrazione statunitense in chiave elettorale visto che inesorabilmente si avvicinano le elezioni di mid-term. Ciò che sta succedendo per Zagabria «non ha niente a che fare con l’Ucraina o la Russia, ha a che fare con le dinamiche della politica interna americana… nelle questioni di sicurezza internazionale vedo un comportamento pericoloso. Non solo la Croazia non invierà, ma in caso di escalation richiamerà fino all’ultimo soldato croato. Fino all’ultimo!».

Il presidente croato ha avuto parole di duro rimprovero anche per Bruxelles: «L’Ucraina è ancora uno dei paesi più corrotti, l’UE non ha dato nulla all’Ucraina». Si tratta, in linea di massima, della stessa posizione di tutti i paesi ex jugoslavi e balcanici e probabilmente malgrado il superatlantista Draghi anche dei facitori della politica estera alla Farnesina che devono dare da un lato un colpo al cerchio russofobo ma anche uno alla botte dei pur cospicui interessi commerciali italiani in Russia.

Rulli di tamburi o partite a scacchi?

Insomma tanto rullare di tamburi di guerra delle scorse settimane si sarebbe trasformato in una sorta di partita a scacchi stile Fischer-Spassky. Tutto bene quindi? Per nulla, anche perché la scintilla di un conflitto in piena Europa resta sempre dietro l’angolo, vuoi per caso, vuoi per provocazione, ma soprattutto perché la crisi ucraina resta aperta, come resta aperta la questione della sistemazione complessiva della “frontiera naturale” russa che va dalla Transnistria fino alla Bielorussia, passando per l’Armenia.

Sarà quindi importante fare un passo indietro per farne due avanti ed evitare una lettura appiattita sulle tattiche delle diplomazie. Lo faremo tra qualche giorno proprio qui su Ogzero per meglio inquadrare la crisi ucraina e i potenziali pericoli per la pace e la stabilità internazionale nei prossimi mesi e anni che restano squadernati sotto i nostri occhi.

Qui un approfondimento dell’autore in un intervento ai microfoni di “Bastioni di Orione” sulle frequenze di Radio Blackout:

Ascolta “L’Ukraina rimane un pendolo tra Est e Ovest?” su Spreaker.

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Destini dirottati: equilibri in bilico nella Federazione russa https://ogzero.org/destini-dirottati-gli-equilibri-della-federazione-russa-in-bilico/ Fri, 28 May 2021 17:40:35 +0000 https://ogzero.org/?p=3678 La vicenda del “dirottamento” del volo Ryanair sui cieli della Bielorussia ha riportato in auge il tema del destino del piccolo paese slavo, dopo i tumultuosi mesi seguiti alle presidenziali del 9 agosto scorso che hanno riconfermato – tra violenze della polizia e manifestazioni oceaniche dell’opposizione – Alexander Lukashenko alla presidenza della Repubblica. Il tema […]

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La vicenda del “dirottamento” del volo Ryanair sui cieli della Bielorussia ha riportato in auge il tema del destino del piccolo paese slavo, dopo i tumultuosi mesi seguiti alle presidenziali del 9 agosto scorso che hanno riconfermato – tra violenze della polizia e manifestazioni oceaniche dell’opposizione – Alexander Lukashenko alla presidenza della Repubblica. Il tema è scottante perché già come scrivemmo nel giugno scorso, rimanda alle prospettive non solo per la Bielorussia e per tutte quelle realtà che un tempo si definivano il “Vicino estero” russo ma soprattutto del destino della Federazione russa stessa, ovvero del vero oggetto del contendere.

Il traghettatore filoccidentale o il golpe soft?

Per lungo tempo – almeno dal 2018 – Vladimir Putin è stato tentato da un soft putsch a Minsk che portasse ai vertici dello stato bielorusso Victor Babariko, esperto banchiere con molti agganci a Mosca, soprattutto a Gazprom. Un’incertezza durata fino a dopo il 20 agosto 2020 quando dopo l’avvelenamento di Alexey Navalny, lo “Zar” ha sentito “odore di bruciato” (cioè si è convinto che ci fosse un tentativo dei paesi baltici e della Polonia di imporre una transizione filoccidentale alla Bielorussia, via manifestazioni di massa) e ha riconfermato il pieno endorsement al governo di Minsk, non solo a parole, ma nei fatti, tanto è vero che la stessa operazione dell’arresto del fondatore di “Nexta” sarebbe stata gestita tra Atene e Minsk proprio dai servizi russi. Dopo lo sgonfiamento delle manifestazioni antiregime (in larga parte determinate dall’insipienza del gruppo dirigente dell’opposizione ancor prima che dalla repressione) l’ipotesi di “golpe soft” che porti al governo di Minsk un traghettatore del paese verso una “Nuova Bielorussia” continua a circolare all’interno di molte cancellerie europee come ci ha confermato una nostra autorevole fonte dell’opposizione bielorussa oggi in esilio a Londra. L’idea che circola insistentemente sarebbe quella di proporre un uomo dell’esercito “rinnovatore e filoccidentale” che però non sia inviso (se non addirittura gradito) a Mosca. Si riproporrebbe così – seppur in un contesto diverso – l’accordo sottobanco sulla Polonia post-1981 quando il generale Wojciech Jaruzelski pilotò il colpo di stato del 13 dicembre. Come diventò evidente in seguito la mossa sovietica fu realizzata tenendo conto delle esigenze occidentali e rappresentò il punto di equilibrio tra la Dottrina Breznev e la conferma dell’impegno da parte di Varsavia con il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale a pagare i debiti contratti negli anni Settanta.

Il North Stream 2 a rischio

Una variabile che difficilmente oggi potrebbe andare in porto sia perché Lukashenko non sembra disposto a farsi deporre, sia perché Putin potrebbe accettare di valutare tale possibilità solo nel quadro di una trattativa globale che tenga insieme perlomeno la questione del Donbass ma soprattutto il destino dei gasdotti russi in Europa (e in questo senso andrebbe la disponibilità Usa a congelare le sanzioni contro North Stream 2). Secondo Sofia Solomofova del sempre ben informato portale Vzgljad in questi giorni soprattutto Londra starebbe lavorando per far saltare definitivamente il completamento di North Stream 2. Ma soprattutto Boris Johnson punterebbe a bloccare l’altro grande progetto russo: il gasdotto (che attraverserebbe inevitabilmente la Bielorussia e quindi fonte di finanziamento per il regime di Lukashenko), che dovrebbe portare in Germania dalla Siberia Occidentale materia prima per un volume complessivo di 33 miliardi di metri cubi di gas entro il 2022.

La posa della pipeline del Nord Stream 2 nel Mar Baltico (foto Axel Schmidt / © Nord Stream 2).

L’Europa è alla svolta green: o meglio, cambia fornitori…

Schierata ormai apertamente contro la collaborazione energetica tra Russia e UE c’è ora anche il capo della Commissione europea Ursula von der Leyen la quale in questa fase non vorrebbe dare nessuna boccata di respiro all’economia russa. Quello che sarebbe assolutamente da evitare per von der Leyen è che «la Russia tenti di modernizzare la sua economia con i proventi del settore del petrolio e del gas». L’Unione Europea del resto, nel quadro della svolta verso la green economy ha già dichiarato che smetterà di consumare idrocarburi entro il 2050 e nel frattempo potrebbe fare sempre più a meno dell’energia russa puntando non tanto sul gas americano trasportato via mare (che costa davvero troppo) quanto piuttosto sui giacimenti in Algeria e sulle enormi riserve dell’Azerbaigian.

… e la Russia cambia clienti

Igor Yushkov, esperto dell’Università della Finanza del governo della Federazione russa e del Fondo nazionale per la Sicurezza energetica ritiene che ormai Mosca dovrebbe pensare seriamente ad abbandonare l’idea di restare semplicemente una potenza energetica (che rappresenta ancora oggi il 35% del suo Pil) per puntare a una diversificazione della propria economia che guardi all’Asia. Un processo che sarebbe, seppur forse troppo lentamente, già in corso: la Banca mondiale – non a caso – ha rivisto al rialzo le stime per la crescita economica russa che grazie alla scelta “no-lockdown” durante la pandemia dovrebbe crescere con una media del 2,5%-3,5% malgrado i ricavi russi sugli idrocarburi si siano ridotti del 30% nel  2020, l’annus horribilis per eccellenza dell’economia mondiale del Secondo dopoguerra.

Parola d’ordine: diversificare

Sia chiaro, mancando la Russia di una mercato finanziario adeguato alle sue pretese di potenza regionale petrolio e gas restano per ora, come già successe dopo il crack del 1998  (sperando che il prezzo del petrolio continui a restare stabilmente oltre i 40 dollari al barile) la base per qualsiasi ipotesi di differenziazione della propria economia, ma alcune dinamiche sembrano comunque già visibili. In due settori principalmente: agricoltura e industria metallurgica.

1) Agricoltura

Già da qualche anno la Russia sta conoscendo un vero e proprio boom dell’agricoltura dovuto alla modernizzazione delle aziende agricole che l’hanno riportata a vertici mondiali tra gli esportatori di grano (era stato il grande punto di forza dell’economia zarista e la principale debolezza di tutta l’economia sovietica dopo le collettivizzazioni forzate dell’era staliniana). Ma non solo. La Russia putiniana è diventata autosufficiente dal punto di vista delle esigenze del mercato interno nella produzione di carne di manzo (limitando le importazioni a quote provenienti dall’America Latina) e addirittura ha iniziato a inondare i mercati asiatici di proprio pollame e carne suina. E successi significativi il mondo agricolo russo li sta ottenendo anche nella produzione di zucchero, olio di semi e, parzialmente, anche nella produzione di frutta bio.

2) Industria metallurgica

Negli ultimi anni la Rust Belt russa è stata completamente modernizzata. Un esempio lampante dello sviluppo delle industrie ad alta tecnologia russa è la cantieristica (la Russia è leader nella produzione di navi rompighiaccio) e la costruzione di aeromobili. Stiamo parlando principalmente del progetto All Siberian (progettazione e produzione sono stati realizzati a Irkutsk) dell’innovativo aereo civile di linea Irkut Ms-21 a fusoliera stretta, un bireattore monoplano ad ala bassa che non solo dovrebbe sostituire già quest’anno i desueti Tupolev Tu-154 e Tu-204/2014, ma pure altamente concorrenziale rispetto a Airubus e Boeing (e non a caso tale progetto è finito sotto sanzione Usa già da tempo) sul mercato mondiale.

destini dirottati

Il nuovo velivolo di produzione All Siberian.

Business as usual: la resa dei conti tra Bielorussia e Ucraina

La nuova crisi  tra Russia  e Occidente nella variante bielorussa sarebbe quindi una faccenda di business as usual e di rotte energetiche, e assai meno una “querelle antifascista”.  Solo degli inguaribili ingenui come alcuni rossobruni di casa nostra del resto sono riusciti a vedere dietro l’operazione di pirateria aerea di Lukashenko una “svolta antifascista” di Minsk (il suo appello contro una fantomatica ondata “neonazista” in Bielorussia è apparsa davvero bizzarra) e che avrà come ricaduta inevitabile una resa dei conti, a questo punto definitiva, tra Bielorussia e Ucraina. Non che Roman Protasevich e la sua fidanzata non siano stati realmente in prima fila prima nella fase finale delle manifestazioni armate dell’estrema destra in Piazza Maidan e poi  a combattere nel Battaglione Azov in Ucraina orientale sette anni fa, ma la faccenda – per quanto grave – risale a quando Protasevich aveva poco più di 18 anni e successivamente egli ha ripetutamente affermato di aver rotto ogni relazione con il mondo dell’estrema destra. L’ex neofascista preoccupava Lukashenko per altri motivi. In primo luogo per i suoi rapporti con la Cia, da cui nel 2017 ha ottenuto i finanziamenti per aprire il suo fortunato canale telegram “Nexta (oltre un milione di iscritti) – una vera e propria spina nel fianco per Lukashenko – che ha avuto un ruolo non del tutto marginale nelle mobilitazioni dello scorso autunno.

Roman Protasevich

Giochi regionali

Per capire cosa significa la rottura definitiva tra Zelensky e Lukashenko oggi in corso basterà ricordare due aspetti significativi nelle relazioni tra i due paesi slavi. Dopo il cessate il fuoco del 2014 nel Donbass fu proprio il presidente bielorusso a proporsi come mediatore tra Putin e l’allora presidente ucraino Petr Poroshenko, e non a caso la Bielorussia, in quel contesto, non riconobbe l’annessione russa della Crimea (anche se poi non votò le risoluzioni Onu di condanna della Federazione russa). Ora Minsk non potrà più giocare il ruolo dell’ago della bilancia su questo terreno e ciò implica la rottura verticale delle relazioni anche con Ankara che ancora qualche settimana fa ha dichiarato apertamente di voler essere l’alfiere degli interessi di Kiev nella regione, a prescindere dal ruolo che gli Usa vogliano giocare in Ucraina (dove Monsanto ha messo gli occhi sulle fertilissime terre nere).

Mini-Urss: la svolta occidentale rimarrà una chimera?

L’isolamento internazionale di Lukashenko è ormai pressoché totale  e ciò potrebbe far rinascere le aspirazioni mai sopite di Mosca alla formazione di una Confederazione panrussa (una mini-Urss di cui farebbero sostanzialmente parte solo Russia e Bielorussia), e di conseguenza Lukashenko diverrebbe solo un leader regionale. Se l’operazione andasse in porto ciò dovrà avvenire forzatamente entro il 2024, in occasione della rielezione di Putin alla presidenza fino al 2030 e blinderebbe dal punto di vista politico-militare la Bielorussia. A questo punto la svolta filoccidentale di Minsk diverrebbe una chimera e questo spiega perché Polonia e paesi Baltici insistano per un rapido cambio nei rapporti di forza tra Russia e paesi Nato a Est.

A restare schiacciato in un gioco ormai apertamente geopolitico rischia di restare l’ampio movimento democratico e femminista bielorusso dei mesi scorsi che aveva con intelligenza tentato di sottrarsi dalla scelta di schierarsi al di qua o al di là di quella invisibile cortina di ferro che divide ancora l’Europa nel 2021.

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Minsk: perché l’opposizione non ha rovesciato il regime? https://ogzero.org/minsk-perche-lopposizione-non-ha-rovesciato-il-regime/ Fri, 08 Jan 2021 12:49:46 +0000 http://ogzero.org/?p=2187 In Bielorussia proseguono le manifestazioni di protesta contro il regime di Alexander Lukashenko anche in questo gelido inverno. I riflettori dei media occidentali si sono andati via via spegnendo sulla tragedia di un popolo imprigionato da un bizzarro dittatore e con l’avanzare della stagione fredda anche le mobilitazioni autorganizzate in molte città si sono rarefatte. […]

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In Bielorussia proseguono le manifestazioni di protesta contro il regime di Alexander Lukashenko anche in questo gelido inverno. I riflettori dei media occidentali si sono andati via via spegnendo sulla tragedia di un popolo imprigionato da un bizzarro dittatore e con l’avanzare della stagione fredda anche le mobilitazioni autorganizzate in molte città si sono rarefatte. Da più di un mese i gruppi dell’opposizione e i collettivi informali di caseggiato a Minsk hanno deciso di evitare l’organizzazione di manifestazioni centrali che aveva punteggiato la straordinaria estate bielorussa, e si sono concentrati su iniziative di quartiere. Per far “passare ’a nuttata”, ma soprattutto per evitare un impietoso confronto tra le mobilitazioni oceaniche di qualche mese fa e quelle che l’opposizione sarebbe in grado di mettere in campo ora.

proteste a Minsk

Proteste oceaniche a Minsk in agosto 2020 (foto di Ruslan Kalnitsky)

Dunque a cinque mesi dall’inizio delle proteste seguite alle presidenziali, elezioni-farsa del 9 agosto scorso, la prospettiva di un cambio di regime appare oggi meno probabile, almeno a breve termine. E molti si chiedono: perché l’opposizione non è riuscita a rovesciare il Conducator di Minsk? Quali sono stati i suoi limiti? E, soprattutto, quali sono le prospettive?

Per rispondere a queste domande varrà la pena fare un passo indietro, anzi due.

Perché non hanno rovesciato il Conducator?

La società bielorussa già da anni appare divisa. Da una parte ci sono i settori più dinamici della società, raccolti intorno alla nuovissima industria hi-tech, al commercio al minuto, a un crescente movimento femminista (non tout court riconducibile per tematiche e radicalità a quello occidentale), alla gioventù delle aree metropolitane che richiedono a gran voce allentamento dell’autoritarismo, della grettezza misogina, un nuovo ascensore sociale che permetta l’ascesa non solo per chi è legato all’apparato presidenziale o alla filiera dell’industria statale. Si tratta di settori sociali urbani e metropolitani solo parzialmente riconducibili a una tendenza verso l’integrazione con il mercato dell’Unione Europea e ai suoi “valori”.

L’economia bielorussa è rimasta dall’epoca sovietica profondamente integrata a quella sovietica e la sua industria continua ad avere come mercato di sbocco (per il 60%) il mercato russo. La Russia volente o nolente, anche per i profondi legami culturali, resta un fattore della chiave per la Bielorussia, e lo resterà verosimilmente anche nel futuro. Non è un caso che solo raramente – e solo dopo che Putin ha chiaramente espresso il suo endorsement per Lukashenko – sono apparsi dei cartelli antirussi durante le manifestazioni dell’opposizione. Dall’altra parte, il regime continua a raccogliere un certo consenso – seppur passivo – nel vasto mondo agricolo bielorusso, il cui export è praticamente solo in direzione di Mosca e dell’apparato amministrativo. Un primo errore dell’opposizione è stato sottovalutare questa parte della società.

Il ruolo della classe operaia: la vendita della pelle dell’orso bielorusso

L’irrisione di “Sasha 3%” dopo un improbabile sondaggio che dava il presidente in carica una popolarità ridottissima se è servita inizialmente a dar coraggio a una opposizione marginalizzata, ha finito per diventare un boomerang quando una parte del movimento antiregime ha iniziato a credere che Lukashenko avesse perso completamente contatto con la società civile. Non essendoci elezioni libere e non manipolate nel paese è difficile valutare il grado di consenso attuale di Lukashenko ma è immaginabile pensare che possa godere ancora del 40-50% di sostegno. Ripetiamo, passivo ma sufficientemente ampio. In mezzo ai due schieramenti, c’è essenzialmente, la classe operaia. Una vasta working class composta di tradizionalissime tute blu, per nulla postfordista, che rappresenta ancora oggi nel paese slavo la metà della popolazione attiva.

Negli anni Novanta del secolo scorso e nel primo decennio del nuovo millennio questa classe operaia fu la spina dorsale del regime bielorusso. A differenza degli altri paesi ex sovietici infatti Lukashenko aveva impedito la privatizzazione di buona parte delle imprese e, malgrado i bassi salari, la piena occupazione era stata garantita assieme al mantenimento del welfare seppur in salsa sovietica. Ma le cose sono iniziate a cambiare negli ultimi anni quando i salari reali hanno cominciato a ridursi, è stata avviata la “riforma” del sistema previdenziale con l’aumento dell’età pensionabile e sono state introdotte forme di lavoro precario e tra le tute blu è iniziata a serpeggiare l’inquietudine. Si può ritenere che la maggioranza dei lavoratori delle grandi impresi delle grandi città il 9 agosto 2020 abbiano votato per la candidata unitaria dell’opposizione Svetlana Tichanovskaya, seppur con qualche perplessità.

opposizione

Svetlana Tichanovskaya, leader dell’opposizione al regime, con le sue collaboratrici (foto di Svetlana Turchenick)

Il malumore latente degli operai nei confronti del regime è poi venuto fuori in modo ancora più evidente dopo la mattanza di stile cileno contro i manifestanti seguita alle poderose manifestazioni della prima settimana dopo le elezioni-farsa che portarono alla morte di 4 persone, a decine di feriti gravi, a migliaia di arresti e alle torture in carcere. Nel giro di pochi giorni, in quel frangente, gli operai scesero in sciopero e in assemblea e misero di fatto la parola fine alle violenze più efferate degli Omon e delle forze dell’ordine. Ma non si spinsero oltre, non abbatterono il regime con lo sciopero generale. Non solo, e non soprattutto perché, la macchina repressivo-paternalistica dei “direttori rossi” si mise in moto per far rientrare gli scioperi, ma in particolare perché non si fidarono di un’ipotesi – quella propugnata dalla “direzione” del movimento di opposizione – che allude a privatizzazione e turbo-neoliberismo per la Bielorussia di domani.

La sottile linea rossa: limite invalicabile per il Cremlino

D’altro canto la presunta “direzione” del movimento si è squagliata o è stata repressa rapidamente. Ciò che è rimasto in campo è un vasto movimento semispontaneo articolato e ramificato di comitati di quartiere, studenteschi e collettivi femministi difficilmente riconducibile a ipotesi politiche definite. Un elemento di ricchezza che rappresenta al contempo un elemento di debolezza di fronte a un sistema repressivo che non ha subito defezioni e fratture particolari. Allo stesso tempo il sostegno di Putin a Lukashenko è stato in grado di stabilizzare negli ultimi mesi la situazione interna.

La traiettoria della crisi bielorussa resta una pedina decisiva nella scacchiera politica estera russa. Dmitry Peskov, il portavoce di Putin, ha sostenuto in una recente intervista televisiva, che la Bielorussia “resta una linea rossa” da non superare per i paesi occidentali e lo stesso vale per la Moldavia, o meglio ancora per la Transnistria: lo sgretolamento delle ultime cittadelle ex sovietiche alleate di Mosca rende agitati, inevitabilmente, i sonni al Cremlino.

Il livello di benessere dei cittadini bielorussi ha continuato a contrarsi, lentamente ma inesorabilmente, negli ultimi anni. Dopo aver raggiunto il suo apice nel 2014 quando, secondo la Banca mondiale, il Pil pro capite aveva raggiunto gli 8300 dollari al tasso attuale di cambio, nel 2019 si è attestato a 6700 dollari. Il confronto con la vicina Polonia dove è quasi il triplo, continua a essere, da questo punto di vista, impietoso. La gestione – disastrosa, in tutta una prima fase da parte di Lukashenko – della pandemia è stata corretta in una posizione non apertamente “negazionista” anche se di lockdown non si è mai parlato e Mosca ora sta mandando a Minsk già decine di migliaia di dosi di vaccino anti-Covid19. Mosca ha teso una mano alla repubblica bielorussa già da settembre: durante un incontro ai massimi vertici a Soci il presidente russo non è stato prodigo solo di un sostegno formale a Lukashenko, ma ha concordato un prestito a Minsk per un importo di 1,5 miliardi di dollari.

Il dispendioso paternalismo energetico russo potrà contenere il malcontento?

In precedenza Mosca aveva sovvenzionato una media del 10% del Pil bielorusso attraverso prestiti, sconti sul petrolio e gas, altre regalie. La stessa centrale nucleare appena costruita da Rosatom sul territorio del piccolo paese slavo è stata di fatto completamente finanziata da Mosca e non verrà, verosimilmente, mai ripagata. Si tratta di una politica di patronato che un alleato come la Russia, anche in epoca sovietica, ha sempre tradizionalmente sviluppato, per tenere al guinzaglio i paesi delle allora “democrazie popolari”, però costosa e non priva di rischi.

Riprenderanno dunque vigore le manifestazioni con i primi tepori primaverili? C’è da ritenere di sì. La società bielorussa appare ormai frantumata e le contraddizioni apertesi non appaiono più ricomponibili. L’ipotesi che si vada verso uno scenario polacco appare verosimile. Dopo l’esplosione di Solidarność il generale Yaruzelski, negli anni Ottanta del XX secolo, riuscì a mantenere a galla il paese con l’aiuto del “grande fratello” russo per qualche anno, ma non riuscì mai a stabilizzare definitivamente la situazione. Per Lukashenko si tratta di un incubo, ma le alternative per lui non sono molte. Un effetto di trascinamento della crisi, allo stesso tempo, spingerebbe il movimento democratico sempre più nelle braccia dei paesi occidentali come già successe a Varsavia, i quali anelano a trasformare la Bielorussia in una sorta di Svizzera tax-free con forza-lavoro a basso prezzo. Una soluzione a cui guardano con particolare interesse i paesi del gruppo di Visegrád e i baltici. In questo contesto la Bielorussia rischierebbe di trasformarsi in un altro tassello di quella filiera di paesi dell’Unione Europea, politicamente reazionari soprattutto per quanto riguarda i diritti civili e dei lavoratori.

Boiardi bielorussi in orbita moscovita: disperati epigoni di Sasha

Una prospettiva che i facitori della politica estera del Cremlino vogliono disperatamente evitare. Per mantenere la sua influenza in Bielorussia, Mosca intende creare una rete di leader politici, strutture, think tank e anche una rete informativa. A questo proposito, si sta sviluppando la cosiddetta “Strategia di lavoro nella Repubblica di Bielorussia”, per giungere alla formazione di un partito di opposizione moderato filorusso, che secondo il portale “The Insider”, dovrebbe denominarsi “Diritto del popolo”. Già da settembre-ottobre si starebbe alacremente lavorando a questa soluzione dopo che Lukashenko si è rifiutato di scarcerare Viktor Babariko, il candidato più moderato tra quelli non ammessi al voto di quest’estate e legato a doppio filo con il colosso del gas russo Gazprom.

Tra gli uomini che dovrebbero far salpare a breve il “partito russo” ci sarebbero il presidente del consiglio di amministrazione dell’associazione Assistenza e sviluppo Maxim Leonenkov, il fondatore della Ferment Valery Bestolkov, il presidente del consiglio di amministrazione di Farmland Ivan Logovoy, il direttore del Centro per la trasformazione digitale Maxim Tarasevich, il presidente di Confindustria bielorussa Alexander Shvets, il cofondatore della Ipm Business School, Pavel Daneiko. Un pacchetto di mischia di tecnocrati pronto a gestire l’addio di Lukashenko senza allentare gli storici legami con Mosca. L’obiettivo sarebbe quello di trovare consenso nella “classe media” bielorussa con un programma ben calibrato di privatizzazioni di piccole e medie imprese e un ampliamento e modernizzazione del sistema distributivo. Che l’operazione possa riuscire è dubbio, anche perché rischia di essere una gara contro il tempo. E il tempo a Minsk rischia di scadere, se non è già scaduto.

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La Siberia tra il Dragone e il Sultano https://ogzero.org/la-luna-di-miele-turco-russa-e-finita/ Sat, 14 Nov 2020 19:09:43 +0000 http://ogzero.org/?p=1765 La luna di miele turco-russa è finita La linea di faglia apertasi nel Nagorno-Karabakh ha dimostrato, se ce ne era ancora bisogno, che la luna di miele tra Turchia e Russia è ormai archiviata malgrado proprio sull’enclave a etnia armena Putin sia stato costretto – con gli accordi del 9 novembre – a un nuovo […]

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La luna di miele turco-russa è finita

La linea di faglia apertasi nel Nagorno-Karabakh ha dimostrato, se ce ne era ancora bisogno, che la luna di miele tra Turchia e Russia è ormai archiviata malgrado proprio sull’enclave a etnia armena Putin sia stato costretto – con gli accordi del 9 novembre – a un nuovo compromesso tattico per impedire il completo collasso del fronte. L’intraprendenza di quello che alcuni osservatori già chiamano “imperialismo ottomano” è sotto gli occhi di tutti e a Oriente i danni maggiori di tale intraprendenza li potrebbe subire proprio la Federazione. Non a caso sulla Moscova hanno da tempo iniziato a ricalibrare la politica nei confronti di Ankara: Sergej Lavrov, il ministro degli esteri russo, ha recentemente sostenuto di non aver mai considerato la Turchia “un alleato” ma solo un “partner”.  Il massiccio bombardamento russo a Idlib contro la guerriglia filoturca in Siria della fine di ottobre 2020, da questo punto di vista, è probabilmente stato un parlare a moglie perché suocera intenda. Ma la Transcaucasia è solo la punta dell’iceberg di uno scontro ben più ampio che parte dalla Crimea e si estende fino all’estremo Oriente russo ai confini con la Cina.

L’intelligence turca a caccia di spie

Il 16 ottobre scorso nell’incontro tra Volodomyr  Zelenskij e Recep Erdoğan non solo quest’ultimo ha dato il suo via libera alla cosiddetta “piattaforma di Crimea” promossa dal governo di Kiev (un’offensiva diplomatica volta al recupero della penisola annessa dalla Russia nel 2014, a cui guarda caso aderisce anche l’Azerbaijan) ma ha anche siglato degli accordi di collaborazione commerciali con l’Ucraina nel settore degli armamenti. La settimana successiva poi esplodeva una vera e propria spy-story tra Turchia e Russia. L’intelligence turca annunciava di aver arrestato il vicedirettore delegato di Bosphorus Gaz Emel Oztürk e altri quattro suoi collaboratori, che da tempo, secondo l’accusa, passavano informazioni riservate a un agente di Gazprom. Il gigante russo dell’energia avrebbe ottenute notizie sui volumi di acquisti di gas non russo della Turchia e dati sui giacimenti scoperti dalla Turchia nel Mar Nero quest’estate.

La guerra del gas

Al momento Putin fornisce a Erdoğan – via Turkish Stream – 7,75 miliardi di metri cubi all’anno di gas ma è chiaro che “l’indipendenza energetica” anelata da Erdoğan – se divenisse realtà – potrebbe rappresentare un duro colpo ai volumi di esportazioni russe, già in forse in Europa dopo che il progetto di North Stream 2 è entrato in stand-by in seguito al “caso Navalny”. Per tutta risposta la Duma russa ha fatto baluginare il blocco del turismo russo verso la Turchia, un business da qualche miliardo di dollari annuo. Più che punzecchiature tra i due eterni rivali con possibili conseguenze geopolitiche più vaste. La leva di un nuovo fondamentalismo islamico, di un califfato sui generis in cui la Turchia diventi la “protettrice di tutti i sunniti nel mondo”, potrebbe produrre una divisione insanabile tra i due stati. Si tratta di suggestioni – quelle dell’“imperialismo ottomano” – che vengono confermate negli ambienti diplomatici dei paesi balcanici anch’essi preoccupati dell’incipiente aggressività turca: «Indubbiamente, se analizziamo ciò che leggiamo e vediamo oggi, diventa chiaro che in alcuni circoli islamici radicali e organizzazioni religiose vaga l’idea che l’Europa dovrebbe essere un califfato islamico. Ciò che sta accadendo oggi in Francia, in Svezia, in altri stati dell’Europa occidentale, mi sembra che dovrebbe destare grande preoccupazione tra questi stati. Non mi occupo di attività di spionaggio in particolare, ma di tanto in tanto leggo in note analitiche che i servizi speciali turchi sono molto attivi», ha sostenuto l’ex ambasciatore serbo a Mosca, Slavenko Terzič.

Il Caucaso e il “laicismo irresponsabile dell’Occidente”

Il riflesso dello scontro con la Francia sulla questione dei limiti del laicismo si è subito sentito a Mosca dove la preservazione degli equilibri, faticosamente costruiti dal regime di Putin, in una federazione multiconfessionale, sono considerati intangibili. Le manifestazioni antifrancesi guidate prima di tutto dai migranti azeri nella capitale russa sono state sì stroncate con durezza dalla polizia sul nascere, ma Putin ha voluto al contempo anche denunciare il “laicismo irresponsabile dell’Occidente”. Il terrorista che ha ucciso a Parigi l’insegnante francese faceva parte della diaspora cecena, e quindi formalmente antirussa, ma la reazione del presidente della Repubblica cecena Rusman Kadyrov, scagliatosi con forza contro Macron nei giorni successivi all’attentato, dimostra quanto gli umori dei musulmani del Caucaso restino antioccidentali: non è un caso che nel Caucaso russo furono migliaia i reclutati dall’Isis per la guerra in Siria. Del resto, non si soffia sulla “guerra di civiltà” solo da una parte: anche il primo ministro armeno Nikol Pashinyan aveva invitato gli stati europei a sostenere l’Armenia cristiana nel Nagorno-Karabakh in funzione antiturca, anche se sia Macron sia Trump hanno preferito fare orecchie da mercante.

Lo sguardo russo verso lo Xinjiang

Dmitry Ruschin, Professore Associato del Dipartimento di Teoria e Storia delle Relazioni Internazionali all’Università di San Pietroburgo sostiene che “l’internazionalismo sunnita” di Ankara è veramente su scala globale: «Erdoğan sta perfino interessandosi della regione autonoma uigura dello Xinjiang dove Xi ha più di un problema. È del tutto possibile che in questo modo voglia diventare un unificatore dei popoli turchi e un leader islamico su scala globale. Curiosamente, lo scontro della Turchia con la Cina significa supporto automatico per Ankara da Washington perlomeno in quel contesto». E a medio termine ciò potrebbe condurre a un confronto diretto tra Russia e Turchia.

Siberia: la protesta anticentralista

In questo quadro la Siberia può diventare uno dei teatri più importanti. Dallo scorso luglio Khabarovsk, la più grande città dell’Estremo oriente russo, a un paio di centinaia di chilometri da Vladivostok, “porta bianca” ai mercati orientali, sono in corso delle manifestazioni di massa dopo che Sergej Furgal il governatore della provincia, outsider e antiPutin, è stato arrestato con l’accusa di essere il mandante di alcuni omicidi risalenti a un’epoca in cui non aveva ancora in carico l’amministrazione. Il protrarsi e le dimensioni del movimento di protesta segnala però in maniera evidente che le sventure del governatore sono state solo la miccia dietro cui covano a livello di massa spinte anticentraliste (oblastničestvo) nei confronti di Mosca se non apertamente secessioniste. “The Diplomat” ha riassunto così la situazione: «Sin dai tempi della Russia imperiale, i suoi paesi e città sono stati visti come una semplice estensione della nazione europea, una frontiera asiatica da colonizzare e domare. Come parte dell’Unione Sovietica, le deportazioni di massa verso est e il suo status di destinazione per i prigionieri dei GULag hanno rafforzato questa nozione. Ma ora, come dimostrano i manifestanti a Khabarovsk, l’estremo Oriente russo potrebbe formare la propria identità».

proteste pro-Furgal in Siberia

Un punto importante della contesa è che, mentre la Russia orientale detiene gran parte delle risorse naturali del paese – inclusi petrolio, gas e metalli preziosi – i proventi della loro estrazione sono ampiamente usati per rimpolpare i forzieri di Mosca piuttosto che arricchire le comunità locali.

E la terra va ai cinesi

Che la Cina sicuramente sia interessata a sfruttare a suo vantaggio la situazione che sta montando nell’estremo Oriente russo non è un segreto. In questa zona della Siberia gli investimenti del Dragone sono massicci e alla fine del 2018, proprio a Khabarovsk, un’azienda russa ha annunciato l’intenzione di affittare ben 100.000 ettari di terreno paludoso coltivabile a soia e affittarlo a imprese cinesi. Alexander Bortnikov, il presidente del Fsb, ha più volte segnalato l’attivismo di servizi di molti paesi in tutta la Siberia. E se il nome della Cina non è stato fatto ufficialmente, la presenza discreta di informatori cinesi nelle zona è stata più volte confermata da più parti.

Dietro la provocazione, la mano dei turchi

Chi invece sicuramente opera in quell’area è l’intelligence turca. Questa può fare affidamento su un vasto retroterra di gruppi fondamentalisti islamici nel Centro Asia allo sbando dopo il crollo dell’Isis. L’Fsb (Federal’naja služba bezopasnosti – Agenzia federale per la sicurezza interna) nell’ultimo anno ha contato ben 22 tentativi di organizzare azioni terroristiche e diversive in Siberia. Si tratta per lo più di incidenti provocati da foreign-fighters di ritorno ai confini del Tagikistan e del Kazakhstan collegati a contingenti più folti del fondamentalismo islamico afgano. Ma alcune di queste avrebbero segni e obiettivi diversi e rimanderebbero a un inedito protagonismo turco. In particolare parliamo di una fallita provocazione organizzata proprio a Khabarovsk questa estate nel momento più caldo delle dimostrazioni di strada, il cui mandante sarebbe da ricercarsi proprio ad Ankara. Secondo quanto riportato da Semyon Pegov – un reporter russo di guerra che da molti anni gravita tra il Medio Oriente e la Siberia – quest’estate l’organizzazione terroristica siriana Hayat Tahrir Al-Sham, supervisionata dai servizi speciali turchi, aveva reclutato due residenti di Khabarovsk, guarda caso di origine uzbeka e di fede musulmana, per organizzare il lancio di bottiglie molotov contro la manifestazione a sostegno di Furgal, al fine di far ricadere poi la responsabilità sul governo russo e rendere ancora più incandescente di quanto non sia la situazione nella provincia. Un’azione diversiva fallita in seguito all’arresto dei due provocatori prezzolati da parte della polizia russa, ma che dimostrerebbe quanto la Turchia intenda sfruttare le contraddizioni interne russe.

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