Francia Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/francia/ geopolitica etc Sun, 15 Sep 2024 22:17:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Annessione perpetua https://ogzero.org/studium/annessione-perpetua/ Wed, 28 Aug 2024 06:40:17 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=13120 L'articolo Annessione perpetua proviene da OGzero.

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Tutto inizia a Saint-Louis

Già all’inizio del 1600 i francesi arrivarono nel nord dell’attuale Senegal, colonizzando un’isola che venne chiamata Saint Louis. Sulla stessa isola venne costruita più tardi una base commerciale di rilievo (1659) e nel 1673, su ordine del Re Sole, venne costituita la Compagnie du Senegal. Una compagnia coloniale che doveva dedicarsi all’amministrazione del fiorente commercio di schiavi africani (traite négrière in francese) e che seguiva le orme dell’inglese Royal African Company, fondata nel 1660 (con licenza di monopolio per il traffico di schiavi a partire dal 1663). L’espansione francese portò all’occupazione dell’isola di Gorée nel 1677 e a un commercio che già all’epoca si differenziava tra oro, gomma arabica e tratta di persone. L’anno successivo, nel 1678, ebbe termine la guerra franco-olandese (iniziata nel 1672) con una vittoria della Francia che manifestò la sua supremazia militare sul continente europeo. Una supremazia che si vedeva riflessa anche in Africa occidentale, dove nel 1696 venne creata una nuova compagnia, questa volta chiamata Compagnie Royale de Senegal, Cap-Verd et côtes d’Affrique.

Carta ideale della Concessione ottenuta dalla Compagnie Royale du Sénégal consegnata il 31 dicembre 1719 al signor de St Robert dal signor Brüe. Va da Cap-blanc a Bissaux, sancendo fin da allora i confini di un territorio che ha condiviso il medesimo destino

 

Due secoli di scontro anglo-francese per l’affaire mercantilista della storia moderna

Eliminati dunque dalla competizione per il Senegal, sia il Portogallo, che la Spagna, che la Repubblica delle Sette Province Unite, per l’impero francese rimaneva un solo grande avversario, l’Inghilterra, che dal canto suo stava provando a consolidare la sua presenza in Africa. Già dalla metà del Seicento infatti gli inglesi penetrarono lungo la valle del fiume Gambia, iniziando un fiorente commercio che portò nel secolo successivo a uno scontro aperto e costante con la Francia. Il Diciottesimo secolo fu infatti segnato da continue guerre tra Francia e Inghilterra e precisamente alle fine di una di queste, la guerra dei sette anni (1756-1763), la Francia sconfitta dovette rinunciare a tutte le basi che possedeva in Senegal. Solo vent’anni dopo però la partecipazione delle truppe francesi a sostegno degli insorti durante la rivoluzione americana (1776) consentì al governo di Parigi di sedere al tavolo della pace. Con il trattato di Versailles (3 settembre 1783) l’impero inglese, sconfitto, riconosceva l’indipendenza degli Stati Uniti d’America e restituiva alla Francia i porti senegalesi occupati due decenni prima.

Senegambia in una mappa del 1707 intitolata Carte de la Barbarie de la Nigritie et de La Guinee. Il destino di quel territorio e dell’incremento della tratta schiavista è condizionato dallo scontro tra Francia e Inghilterra – e di nuovo diventa centrale la sponda atlantica dell’America – con la parentesi delle Rivoluzioni di fine Settecento

Sospensione rivoluzionaria e Restaurazione coloniale

Pochi anni dopo però arrivò la rivoluzione francese, iniziata con la presa della Bastiglia il 14 luglio 1789 e seguita dalle guerre napoleoniche. Eventi che frenarono (se non proprio interruppero) la politica coloniale della Francia, facendo passare di nuovo i possedimenti francesi in Senegal, sotto il controllo inglese. Per il ritorno della Francia in Senegal bisognerà aspettare il 1816, dopo il crollo dell’impero Napoleonico e la “restaurazione” figlia del Congresso di Vienna (1° novembre 1814 – 9 giugno 1815).

☞Porti e mari “britannici”

Gorée – St-Louis: basi schiavistiche del colonialismo della Françafrique

Pax coloniale francese

Con la Restaurazione postbonapartista la Francia rientrò in possesso delle sue basi coloniali, iniziando un’opera espansiva di sistematica conquista di tutto il territorio, creando un tessuto amministrativo e di “sviluppo” per la creazione di una vera e propria colonia. Nel 1816, Luigi XVIII, appena ritornato sul trono di Francia, nominò il colonnello Julien-Désiré Schmaltz come amministratore dei possedimenti francesi sulla costa senegalese, con il compito di dare il via alla conquista dell’interno del territorio. Tra il 1817 e il 1845 le truppe francesi occuparono la regione di Waalo (ex provincia del regno Djolof) annientando il fragile regime teocratico instaurato nel 1830 dal marabut Diile. Nel 1854, Napoleone III incaricò un intraprendente ufficiale francese, Louis Faidherbe (che all’epoca aveva solo 36 anni), di governare ed espandere il mercato coloniale e di modernizzare l’economia del Senegal. Faidherbe costruì una serie di forti lungo il fiume Senegal, formò alleanze con i leader dell’interno del paese e inviò spedizioni contro coloro che resistevano al dominio francese. Nel 1857 fondo la città di Dakar, costruendo un nuovo porto, installando linee telegrafiche, costruendo strade, e propiziando quella che successivamente sarebbe stata la linea ferroviaria tra la capitale Dakar con il primo insediamento francese nel Nord, Saint Louis. L’opera di Faidherbe, ingegnere militare che fu impegnato anche in Algeria, era impregnata di quella che lui considerava una missione civilizzatrice e per questo costruì scuole, ponti (il ponte principale di St-Louis porta oggi il suo nome) e sistemi per fornire acqua potabile alle città. A livello agricolo introdusse la coltivazione su larga scala di arachidi, espandendo i possedimenti francesi. fino alla Valle del Niger e facendo diventare il Senegal (e la sua nuova capitale Dakar) la principale base nell’Africa Occidentale Francese (Aof). Rimase in carica fino al 1865 (gli succedette come governatore l’ammiraglio Jauréguiberry) e nel 1889 (anno della sua morte) venne pubblicato il suo libro dal titolo Le Sénégal: la France dans l’Afrique occidental (Il Senegal, la Francia nell’Africa Occidentale).

Foto di Diego Battistessa

L’annessione

I governatori che succedettero a Faidherbe conquistarono i regni di Fouta Toro, del Baol, del Kaydor e del Saloum e nel 1889 si arrese ai francesi anche Ali Bouri, l’ultimo sovrano wolof. Mentre venne annessa solo nel 1896 la regione meridionale del Casamance che fino a quel momento era rimasta sotto il controllo del Portogallo. A quel punto la Francia considerò il Senegal come un territorio “pacificato” e nel 1904 venne nominato il primo governatore civile dell’Aof, una federazione fondata nel 1895 con capitale Dakar e che comprendeva Senegal, Niger, Costa d’Avorio, Ciad, Dahomey, Guinea, Alto Volta (attuale Burkina Faso) e Mauritania.

Egalité eurocentrica nella Françafrique

Come ci spiega Papa Saer Sako, nel suo libro Senegal (edizioni Pendragon): «La filosofia coloniale francese si ispirava agli ideali della rivoluzione del 1789, condizionati però da un radicale eurocentrismo, il cui presupposto poggiava sulla convinzione che i popoli colonizzati avrebbero potuto accedere a un superiore grado di civiltà solo adottando i fondamenti della cultura europea. Le autorità coloniali, dunque, si ritennero investite della missione di civilizzare popolazioni considerate ancora immerse nella barbarie, riconoscendo loro una potenziale eguaglianza di diritti in quanto esseri umani, ma rigettando e soffocando ogni aspetto della cultura africana».

Nonostante il forte controllo culturale ed economico francese, su una società complessa e multietnica (composta dalle etnie Wolof, Sérère, Lébou, Peul o Foulbé, Toucouleur, Diola, Mandingo, Sarakholé e Bassari) tra il 1910 e il 1912 nacquero le organizzazioni dell’Aurora di St-Louise quella dei Giovani Senegalesi, le prime organizzazioni finalizzate a dar voce alle aspirazioni dei nativi. Solo due anni dopo, per la prima volta nella storia, un deputato di origine africana, Blaise Diagne, sedette nell’Assemblea Nazionale di Parigi. Ci vorranno però ancora 15 anni di costruzione del tessuto politico senegalese perché nel 1929, prenda vita il Partito della Solidarietà Senegalese, tra i cui membri troviamo Lamine Gueye e soprattutto Sédar Senghor. Quest’ultimo verrà eletto nel 1945 come rappresentante del Senegal nel parlamento francese e tra il 1959 e il 1960 il Senegal e il Sudan francese si unirono nella Federazione del Mali, con Senghor come presidente della nuova Repubblica.

In questo 2024 si è assistito a molte rivolte di giovani africani colti e consapevoli del condizionamento coloniale ancora perdurante: in Kenya contro il presidente Ruto, in Sahel con la presa di potere di giovani militari che hanno espulso l’esercito francese “diversamente occupante”… il Senegal ha tradizioni saldamente democratiche e la comunità si è liberata del burattino francese Macky Sall, completando una presa di coscienza dell’intera comunità, costituita da una ventina di realtà culturali e linguistiche diverse, che attingono alle radici precoloniali; un percorso interno all’Africa che può essere paragonato alla riappropriazione parallela a quella che guarda alle componenti afrodiscendenti in America, come superamento del male coloniale che ha però trasferito in America una cultura, la cui componente si chiede venga riconosciuta nella costituzione delle inter comunità oltreatlantico.

☞Un ponte tra Bahia e Benin

Per i francesi però tutto ebbe inizio a Saint-Louis

«Immense barche (Cayucos), molte volte policromate dai toni accesi e sempre ricche di bandiere e simboli, preghiere e auguri: ciascuna affidata al rispettivo marabù (leader religioso) e/o a Mame Coumba Bang, lo spirito femminile che li protegge dall’ira dell’oceano e, quindi per estensione, protettore anche delle città evitando che vengano fatte scomparire dalle inondazioni. Barche realizzate artigianalmente partendo da un unico pezzo di albero, che trasportano ogni giorno centinaia di pescatori…

Foto di Diego Battistessa

Il fiume Senegal si butta in mare avidamente, dopo aver attraversato altri tre paesi e circa 1700 chilometri, in questo angolo peculiare del pianeta. L’Oceano Atlantico attacca con furia eterna questa lingua di sabbia e dune lunga una trentina di chilometri e larga appena 500 metri, e punisce tutto ciò che incontra sul suo cammino (oggi ancor più a causa dell’impatto dei cambiamenti climatici e della mano artificiale dell’uomo manifestatasi con l’apertura di una breccia nel 2003 nella zona, che ha diviso in due la lingua aumentando l’ansia dominatrice del mare) … Gli autoctoni dicono che nessuno è come i pescatori di queste acque, che lottano per emergere vittoriosi contro le mortali onde oceaniche che già tanti naufragi hanno causato. Nessuno. E attenzione, non solo l’uscita in mare è pericolosa, ma anche il ritorno, “perché sbarcare a St-Louisnon è una cosa qualunque”, sottolineano.
Il sociale, l’economico, il politico, il culturale, il gastronomico, il festivo, l’ambientale… Tutto ruota attorno alla pesca a St-Louis(circa 250.000 abitanti), un tempo capitale dell’Africa occidentale francese e del Senegal e della Mauritania; la seconda città del Paese da quando Dakar divenne capitale nel 1857. Basta guardare una mappa per apprezzare la sua peculiarità geografica, il suo valore strategico nel Nord del Paese. St-Louisè il confine con la Mauritania, per alcuni è il punto finale del deserto del Sahara, per altri ne è la porta d’ingresso…
Città creata dai francesi nel 1659 come primo insediamento europeo nell’Africa occidentale, ma prima di loro la storia qui già cresceva, proprio come crescono i baobab…»

Queste parole, che travolgono come fossero colori di un dipinto su tela, sono della giornalista Lola Huete Machado, che nel 2019 pubblicò sul “El Páis” un articolo che coglieva l’anima di Saint-Louis. E chiunque l’abbia visitata non può non sentire vibrare quelle parole, sovrapponendole alle immagini di una città i cui tratti coloniali sono ancora ben visibili, sia nell’architettura ma anche nell’economia che vede nel turismo (maggioritariamente europeo e specialmente francese) una fonte importante di ingresso.

Foto di Diego Battistessa

Una città dalle molte sfaccettature, con hotel di lusso a pochi metri da una linea di costa dove l’impoverimento e l’economia di sussistenza scandiscono il tempo marcato dall’andare e venire dalle onde. Sulla spiaggia, piena di rifiuti dove deambulano in cerca di cibo capre, pecore e cavalli (spesso di una magrezza non compatibile con la vita), ci sono decine di cayucos, descritti magistralmente da Lola Huete Machado. Accanto a loro un uomo anziano che ha voglia di parlare, lui li ripara i cayucos, mi spiega in francese. Oramai è troppo vecchio per salire su uno di quelli che vanno verso un futuro possibile, verso l’Europa.

Mi indica un’ombra nell’orizzonte, una lingua di terra nascosta dalla foschia che si crea per il troppo calore: «Quella è la Mauritania», mi dice. E poi, spostando il dito un po’ più in là, verso l’oceano, verso la vastità dell’azzurro orizzonte mi dice con fermezza. «Quella invece è l’Europa, tu non la vedi, ma in quella direzione ci sono le Canarie, c’è la Spagna, c’è la speranza».

Foto di Diego Battistessa

Ma se un da lato l’isola di Saint Louis, chiamata anche la “Venezia africana”, è parte di una rotta che da anni è percorsa da migliaia di persone che cercano un miglior futuro, dall’altra è anche (dal 2000) annoverata dall’Unesco come patrimonio dell’umanità.  Un riconoscimento che ha portato a un programma di rinnovamento e riqualificazione di vecchi edifici coloniali, trasformando molti di questi in ristoranti e hotel (gestiti spesso da europei).

Città del Mercantilismo Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù
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Fatale attrazione schiavista tra iberici e mauritani

Ancora adesso in Mauritania – paese che ha contribuito alla presenza di un’ultima colonia sul suolo africano: il Sahara occidentale – vige una legislazione che prevede lo schiavismo, una pratica – denunciata soprattutto dal movimento abolizionista fondato da Biram Dah Abeid, ex schiavo – perpetrata dalla minoranza “bianca” berbera, discendente da antichi nobili beydens, che vessano da secoli la maggioranza nera haratine, piantando in antichità semi panafricani per quello sfruttamento europeo della schiavitù su scala globale benedetto da bolle papali ancora precedenti l’impulso alla tratta derivante dalla spedizione di Cristobal Colon: Niccolò V prendeva semplicemente atto degli enormi interessi e ricchezze provenienti dalla deportazione e dal colonialismo, dunque lo benediva.
Come si legge in questo estratto dal volume di Diego Battistessa America Latina Afrodiscendente: una storia di (R)esistenza, esistono porte che mettono in comunicazione mondi diversi, in cui lo schiavismo si incista perfettamente sugli affari dei rispettivi gruppi dominanti su sistemi diversi tra loro ma complementari nello sfruttamento.

L’impero portoghese (l’ultimo impero a sciogliersi dopo la Rivoluzione dei Garofani, 1415 -1975) è stato indissolubilmente caratterizzato dalla tratta degli schiavi che divenne la colonna portante delle attività economiche d’oltremare. Il Portogallo in Africa si occupò di istituzionalizzare la pratica della schiavitù (già operata in diverse forme dai regni locali) e di darle un apparato legale e amministrativo. Non a caso la cittadina di Lagos, in Algarve, nel sud del Portogallo è conosciuta come la porta europea della tratta degli schiavi africani. Nel 1444, in un giorno infausto, arrivarono in quel porto 200 schiavi africani sequestrati in una retata partita da un porto commerciale che il Principe Enrique (conosciuto come El Navegante) aveva stabilito sulle coste dell’attuale Mauritania.

Cronologia e rotte dei principali movimenti della tratta degli schiavi. Mappa: NGM-P. Fonte: An Atlas of the Transatlantic Slave Trade, di David Eltis e David Richardson, riprodotto con il permesso della Yale University Press.

I profitti della vendita di quegli esseri umani spinsero molti altri a cercare fortuna con spedizioni verso le coste africane. Nei dieci anni successivi centinaia di africani arrivarono al porto di Lagos che si trasformò in breve tempo nel primo mercato europeo di vendita di schiavi provenienti dall’Africa. Questo è il punto di inizio dell’industrializzazione della tratta di esseri umani che portò più di 12 milioni di persone a essere “trafficate” verso le Americhe (oggi a Lagos esiste il Museo della Schiavitù, monito di quel passato di infamia e terrore diffuso ormai nei luoghi topici dello schiavismo: Gorée, Bahia, Liverpool, Amsterdam).

Foto di Diego Battistessa

Solo 8 anni dopo l’arrivo dei primi schiavi a Lagos, venne concessa la benedizione papale al re del Portogallo Alfonso V per legalizzare, agli occhi della comunità cristiana, quell’abominevole pratica. Il commercio di esseri umani fioriva, il centro delle operazioni si era spostato da Lagos alla capitale Lisbona e si cominciavano a stabilire regole e tariffe standard per normare la tratta e la vendita di esseri umani provenienti dall’Africa.

Dum diversas

Il papa Niccolò V (Tommaso Parentucelli) con la bolla Dum diversas del 16 giugno 1452 (quindi ben quarant’anni prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo nelle Americhe) legalizzava per volere di Dio la schiavitù e concedeva al re del Portogallo Alfonso V di «ridurre in perpetua schiavitù saraceni, pagani, infedeli e nemici di Cristo». Qui un estratto della bolla papale:

«Noi, rafforzati dall’amore divino, spinti dalla carità cristiana, e costretti dagli obblighi nel nostro ufficio pastorale, desideriamo, come si conviene, incoraggiare ciò che è pertinente all’integrità e alla crescita della Fede, per la quale Cristo, nostro Dio, ha versato il suo sangue, e sostenere in questa santissima impresa il vigore delle anime di coloro che sono fedeli a noi e alla vostra Maestà Reale. Quindi, in forza dell’autorità apostolica, col contenuto di questa lettera, noi vi concediamo la piena e libera facoltà di catturare e soggiogare Saraceni e pagani, come pure altri non credenti e nemici di Cristo, chiunque essi siano e dovunque abitino; di prendere ogni tipo di beni, mobili o immobili, che si trovino in possesso di questi stessi Saraceni, pagani, non credenti e nemici di Cristo; di invadere e conquistare regni, ducati, contee, principati; come pure altri domini, terre, luoghi, villaggi, campi, possedimenti e beni di questo genere a qualunque re o principe essi appartengano e di ridurre in sudditanza i loro abitanti; di appropriarvi per sempre, per voi e i vostri successori, i re del Portogallo, dei regni, ducati, contee, principati; come pure altri domini, terre, luoghi, villaggi, campi, possedimenti e beni di questo genere, destinandoli a vostro uso e vantaggio, e a quelli dei vostri successori…» (Niccolò V, Dum diversas)

Mexico, Distrito Federal, Palazzo Nazionale, murales di Diego Rivera dipinti sulla civiltà precolombiana

☞Conseguenze misericordiose del possesso di uomini

L’asse lusitano Gorée-Lagos diventa commercio transoceanico con Bahia

Nel 1536 dunque i portoghesi stabilirono una redditizia base commerciale sull’isola di Gorée ma le vicende del continente africano (e in questo caso la colonizzazione del Senegal) sono sempre state strettamente legate alle vicende interne del continente europeo. Nel 1580 infatti, con l’annessione del Portogallo alla corona di Spagna, la corte di Madrid prese possesso anche di tutti i territori che fino a quel momento erano stati sotto il dominio portoghese in Africa; e non solo…

L’unione iberica tra Spagna e Portogallo, tra il 1580 e il 1640, sotto l’egida della casa reale degli Asburgo dette origine a un conglomerato territoriale che comprendeva possedimenti in tutto il mondo: Messico, gli attuali Stati Uniti occidentali e meridionali, America centrale, Caraibi, Sud America, Filippine, Timor orientale, Paesi Bassi spagnoli (eccetto Paesi Bassi), nonché nuclei costieri e diverse enclave in Barberia (termine utilizzato per riferirsi alle zone costiere di Marocco, Algeria, Tunisia e Libia), Guinea, Angola, Mozambico e altre basi in Africa orientale, Golfo Persico, India, regni e ducati territoriali in Francia e in Italia e nel Sudest asiatico, (Macao, Molucche e Formosa).

Infatti il commercio portoghese non entrerà mai nello schema della Triangolazione: contando direttamente sui possedimenti intermedi di Capo Verde, San Paulo, Fernando de Nouronha tra Guinea, Angola, Mozambico e coste del “vicino Brasile (Salvador de Bahia)”, finché la tratta degli schiavi fu un affare iberico non transitò dall’Europa, ma andò direttamente dal Golfo di Guinea al Pernambuco.

Nonostante ciò però, la priorità che la Spagna dava allo sfruttamento delle enormi ricchezze delle colonie del “Nuovo Mondo” e la lunga e logorante guerra navale con l’Inghilterra (scoppiata proprio perché lo schiavismo industriale inglese andava a collidere su zone di influenza spagnole) fece passare in secondo piano il progetto di espansione nel continente africano, aprendo la porta all’arrivo di nuove potenze coloniali europee, come la Repubblica delle Sette Province Unite (1581-1795, territori calvinisti che oggi costituiscono i Paesi Bassi renani dalla Frisia a Rotterdam, in contrapposizione alle 8 province meridionali cattoliche, corrispondenti alle Fiandre, Artois, Brabante e Lussemburgo) che presto stabilì una base proprio sull’isola di Gorèe.

La piazza della borsa di Amsterdam come simbolo del nascente capitalismo, che si sviluppò soprattutto in Olanda e Inghilterra (alleate contro Luigi XIV). Capitale economica d’Europa nel Seicento, Amsterdam basò la sua fortuna soprattutto sull’attività commerciale e finanziaria; nella borsa venivano trattati i prezzi di tutte le merci e vi investivano anche i piccoli agricoltori e gli artigiani. Dipinto del 1659 (Rotterdam, Museum Boymans – Van Beuningen)

Arrivo in Senegal della Repubblica delle Sette Province Unite

Il settore tessile era alla base dell’economia olandese e inglese; il cotone ovviamente proveniva dal commercio della triangolazione schiavista. La tratta degli schiavi olandesi – avvenuta tra il XVII e il XIX secolo – è stata determinante per lo sviluppo economico e sociale del paese. Dipinto di Isaac Claesz van Swanenburgh in cui si vede il momento della filatura, che veniva eseguita prevalentemente dalle donne. (Leida, Stedelijk Museum de Lakenhal)


Stampa custodita nel National Museum of World Cultures in Amsterdam, Netherlands. Il Museo Nazionale della Schiavitù, un progetto a lungo atteso dai discendenti delle comunità africane delle ex colonie olandesi in Suriname (Sud America) e nelle Antille Olandesi (Caraibi), sta finalmente prendendo forma e l’apertura è prevista per il 2030

L’arrivo dei commercianti della Repubblica delle Sette Province Unite in quello che oggi è il Senegal (per gli olandesi Senegambia, o in dutch Bovenkust), ha coinciso con la progressiva perdita di controllo del territorio da parte del Portogallo. Le prime basi commerciali della Dutch West India Company furono stabilite sull’isola tra il 1588 e il 1617, periodo nel quale l’isola assunse il suo nome attuale partendo dal Goede Reede olandese e derivato poi nel francese Gorée. In quest’epoca vennero costruiti la maggior parte dei forti e dei magazzini che furono successivamente utilizzati per il massivo “stoccaggio” e commercio delle persone schiavizzate, mentre la prima base commerciale permanente fu installata solo nel 1621 (quando l’isola venne annessa alla Repubblica delle Sette Province Unite, comprandola dal Portogallo). Nel giugno di quell’anno infatti, venne fondata dai fiamminghi Willem Usselincx e Joannes de Laet, la Compagnia delle Indie Occidentali (Geoctroyeerde West-Indische Compagnie – WIC): una compagnia della marina mercantile olandese che rimase operativa fino al 1792. La sua sede si trovava ad Amsterdam e nel 1621, la Repubblica delle Sette Province Unite gli concesse una licenza per un monopolio commerciale nelle Antille olandesi, autorizzando la partecipazione olandese alla tratta degli schiavi atlantica, brasiliana, caraibica e del Nordamerica. L’area in cui la compagnia poteva operare era costituita dall’Africa occidentale (tra il Tropico del Cancro e il Capo di Buona Speranza) e dalle Americhe, inclusi l’Oceano Pacifico e la Nuova Guinea orientale. Lo scopo della licenza era eliminare la concorrenza, in particolare spagnola e portoghese, tra le varie stazioni commerciali.

☞La Casa degli schiavi inaugurata dagli olandesi

L’importanza dei porti atlantici nel Mercantilismo

La Repubblica delle Sette Province Unite non riuscì a mantenere però per molto tempo il controllo totale dell’isola anche perché proprio nella seconda metà del Diciassettesimo secolo si consumò una sfibrante lotta tra l’Olanda e la Francia di Luigi XIV (il Re Sole), confronto che portò a un progressivo tramonto del dominio olandese sui mari, a favore della già citata Francia (i porti atlantici di Nantes innanzi a tutti, e poi La Rochelle, Le Havre e Bordeaux in particolare) e dell’Inghilterra con i suoi porti (Liverpool soprattutto, e poi Londra, Bristol).

Una nota importante quando parliamo di commercio di persone e di Africa è data dalla comprensione del tipo di scambio che veniva proposto dalle potenze coloniali europee ai regni africani, che erano i principali “fornitori” di schiavi. I trafficanti europei intercambiavano diversi tipi di mercanzie nelle coste africane per l’acquisto di schiavi: tessuti, alcool, armi, diversi tipi di utensili e anche un particolare tipo di conchiglia molto ricercata e ambita dai nobili, sacerdoti e guerrieri locali, chiamata cauri. Il cauri è una piccola conchiglia che possiede una spiccata lucentezza, tanto da farla assomigliare alla porcellana e per questo in passato è stata utilizzata alla stregua di una pietra preziosa, assumendo un valore commerciale molto alto.

Una stampa del 1845 che mostra come le conchiglie cowry venissero usate come moneta corrente da un commerciante arabo. Il Ghana ha adottato l’immagine della conchiglia come moneta aggiungendo per antifrasi “Libertà e Giustizia”

Queste conchiglie sono “la casa” di un mollusco della famiglia Cypraeidae, che si ritiene essere originario delle Maldive, sebbene si trovi anche in diverse aree non solo nell’Oceano Indiano, ma anche nel Pacifico. I grandi imperi coloniali erano gli unici che potevano acquisire grosse quantità di cauri, che veniva poi scambiato con persone, sulle coste occidentali dell’Africa. In questo senso, un altro elemento da sottolineare (e molto spesso poco considerato), era la dinamica attraverso la quale gli schiavi venivano catturati e posteriormente venduti ai commercianti europei.

 

Le tratte dello schiavismo nell’interno africano

Questi ultimi infatti non si addentravano nel cuore del continente africano per ridurre in schiavitù le popolazioni native, ma promuovevano quest’attività tra i regni locali.

Così il compito di catturare e schiavizzare uomini e donne africane ricadeva sui sovrani delle tribù locali che dominavano le relazioni commerciali nel continente, lasciando agli europei la parte della navigazione e della distribuzione degli schiavi nei territori coloniali oltre oceano. Gli schiavizzati venivano catturati durante i conflitti tra le popolazioni locali, portati fino alla costa e poi venduti ai trafficanti europei. Non mancavano però casi di persone, appartenenti alle stesse comunità che commerciavano con gli europei che, o per aver commesso un crimine o semplicemente per essere caduti in disgrazia agli occhi del sovrano, venivano venduti come schiavi. Questo ci permette di poter affermare che in sostanza gli europei controllavano solo la parte costiera oceanica del traffico degli schiavi africano, che vedeva nello stesso continente un forte protagonismo dei sovrani locali, veri signori e padroni del commercio di esseri umani nel continente.

☞ La cattura degli africani sugli africani

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Nhara lusitana – signare francese: tenutarie amministrative

La più grande Casa degli Schiavi dell’isola di Gorée (e ultima) fu aperta dagli olandesi nel 1776. Questa “casa degli orrori” era amministrata da Anna Colas Pépin e oggi è stata convertita dall’Unesco in un museo della memoria e santuario per la riconciliazione.  La stessa Unesco che dichiarò nel 1978 patrimonio dell’umanità questa isola di soli 17 ettari che si trova a 15 minuti di traghetto dal porto di Dakar.

Edouard-Auguste Nousveaux, Il principe di Joinville assiste a un ballo sull’isola di Gorée, dicembre 1842 – Collezioni del castello di Versailles – (Tra le persone che lo ricevono si può vedere la figura di quella che potrebbe essere Anna Colas Pépin)

Anna Colas Pépin era una signare che gestì nel Diciannovesimo secolo quella che oggi è la casa museo sull’isola di Gorée. “Annacolas” Pépin (1787-1872), ostentò il prestigioso ruolo di signare, nome dato alle donne mulatte franco-africane dell’isola di Gorée e della città di Saint-Louis nel Senegal coloniale francese tra il Settecento e l’Ottocento, diventando una delle persone più rilevanti nel commercio dell’isola. Esisteva una parola anche in portoghese per definire lo stesso ruolo, nhara, che identificava le donne d’affari afro-portoghesi che hanno svolto un ruolo importante come agenti d’affari attraverso i loro legami con le popolazioni portoghesi e africane.

Belle vite tra mito e romanzo storico su sfondo schiavista

Il ruolo delle signare era importantissimo e spesso fungeva anche da vincolo sociale e culturale con le amministrazioni coloniali dei territori sotto il controllo delle potenze europee. Queste relazioni non si limitavano allo spazio commerciale e al traffico di influenze ma spesso includevano anche relazioni amorose più o meno ufficiali, con alti rappresentanti della colonia. Il loro mito e la loro influenza hanno attraversato varie generazioni e le troviamo anche in opere letterarie di enorme spessore, come nel romanzo storico Segu (1988), della recentemente scomparsa scrittrice e giornalista dell’arcipelago della Guadalupa (Caraibi), Marise Liliane Appoline Boucolon (Maryse Condé). In questa magnifica e già immortale opera, Maryse Condé, ci parla nella prima parte del capitolo 9, di Anna Pépin (zia di Anna Colas Pépin).

 

La memoria controversa in epoca contemporanea

Il diverso significato museale

Ciascuno dei vertici del triangolo mercantilista propone un suo approccio alla memoria, museificando gli aspetti con cui si trova a fare maggiormente i conti dal proprio punto di vista della tratta: a Bahia il museo della coscienza nera, a Liverpool quello delle scuse vergognose, in Algarve quello della memoria rimossa delle deportazioni portoghesi da Gorée, tanto poco riconosciuto da essere in madrepatria lusitana.

Il Museo della memoria e la Maison des Esclaves

«Sdraiata su una stuoia sul balcone della sua casa sull’isola di Gorée, Anne Pépin si annoiava. Si annoiava da dieci anni, da quando il suo amante, il gentiluomo di Boufflers, che era stato governatore dell’isola, era tornato in Francia. Aveva messo da parte abbastanza soldi per sposare la sua bella amica, la contessa di Sabran. Anne restava sveglia la notte pensando alla sua ingratitudine. Non aveva potuto dimenticare che per alcuni mesi aveva organizzato feste di alta classe e balli in maschera, intrattenimenti teatrali come quelli della corte del re di Francia. Ma ormai tutto era finito e lei era lì, abbandonata nel suo pezzo di basalto gettato in mare davanti a Capo Verde, unico insediamento francese in Africa, a parte Saint-Louis alla foce del fiume Senegal» (Maryse Condé, Segu).

Per un approfondimento sulla storia e creazione di questa casa museo, possiamo fare riferimento a un articolo della Ph.D Deborah L. Mack, pubblicato dall’American Alliance of Museums (AAM) – un’associazione senza scopo di lucro che si occupa di riunire i musei degli Stati Uniti sin dalla sua fondazione nel 1906.

Mack ci spiega come che nel Novecento i membri della famiglia di Boubacar Joseph Ndiaye (nativo di Gorée) acquisirono una residenza del Diciottesimo secolo che fu la casa di una ricca imprenditrice senegalese e signare di nome Anna Colas Pépin. Ndiaye passò diversi anni della sua infanzia in questa residenza e dopo l’indipendenza del Senegal dalla Francia, con l’incoraggiamento personale di Léopold Sédar Senghor (illustre poeta e primo presidente del Senegal indipendente dal 1960 al 1980), Ndiaye iniziò la sua ricerca storica sull’edificio. Investendo in proprio tempo e risorse economiche, Ndiaye “scavò” nel passato sociale e architettonico della residenza Pépin. scoprendo un infame passato che lo portò a ribattezzare la casa come Maison des Esclaves (la Casa degli Schiavi). Il lavoro di Ndiaye come curatore prima e fondatore del museo poi, è durato fino alla data della sua morte, avvenuta nel 2008.

Foto di Diego Battistessa

Dall’industria schiavistica a quella turistica

Con l’abolizione della schiavitù finì l’epoca di splendore di Gorée che doveva la sua fama e la sua ricchezza al commercio di quello che all’epoca veniva chiamato “avorio nero”, una forma mercantilista e disumanizzante di chiamare le persone vittime della tratta.

Di fronte alle sue coste nacque Dakar, la futura capitale del Senegal, e Gorée si svuotò progressivamente. Dei 5000 abitanti che contava alla fine dell’Ottocento, oggi se ne contano poco più di 1000. L’isola divenne un luogo di riposo e svago per le famiglie benestanti dei politici coloniali in cerca di tranquillità e oggi, anche grazie al lavoro svolto dall’Unesco, è un luogo che riceve un flusso importante di turisti internazionali.

L’orrore dello schiavismo in epoca moderna

Per le strade dell’isola, dove non circolano automobili e il tempo sembra essersi fermato, le costruzioni color pastello si alternano a edifici in rovina che ricordano antichi fasti del tempo che fu. Una ricchezza che nascondeva un orrore senza pari, perché mentre al secondo piano di queste mansioni si consumava la vita in stile “europeo” con cerimonie, balli e riunioni d’affari, al piano terra “vivevano” un vero e proprio inferno le persone “ammassate” in attesa di essere vendute: infatti mentre al piano superiore viveva il proprietario della Masion des Esclaves, al piano inferiore tutto era stato costruito nei minimi dettagli per il commercio umano. Un’architettura della tortura con celle anguste dove venivano divisi uomini, donne e bambini; ma esistevano anche prigioni (luoghi ancora più angusti e claustrofobici), dove annientare la resistenza psicologica dei più ribelli, oltre a una stanza utilizzata per l’alimentazione. In quest’ultimo spazio venivano “ingrassati” gli schiavi prima di essere venduti, secondo dei protocolli che prevedevano di raggiungere un certo peso prima delle trattative con i proprietari delle navi negriere.  Si creava volontariamente anche una separazione fisica tra i bambini (da 4 a 12 anni) e le loro madri, per impedire a queste ultime di udire il pianto dei figli, e preservare così la loro “salute” e quindi il prezzo di vendita della “merce”. La Casa Museo dell’isola di Gorée è il perfetto esempio di queste costruzioni del terrore. Il pianoterra di questo edificio poteva arrivare a contenere fino a 200 persone, divise in celle di poco più di 2 metri quadrati, dove erano costrette a rimanere in piedi ed espletare i loro bisogni nella stessa posizione. All’arrivo i prigionieri passavano la prima ispezione dove si controllava la dentatura, si cercavano segni di malattie, cicatrici, qualsiasi indizio che potesse diminuire il prezzo. Gli uomini, in forza, che pesavano almeno 60 kg erano destinati immediatamente alla vendita. Tra il primo e il secondo piano della mansione, due scale semicurve, venivano esposte le persone sequestrate e schiavizzate per essere mostrate e negoziarne il prezzo con i potenziali acquirenti.

Foto di Diego Battistessa

Una volta acquistati, non veniva dato il loro tempo di dire addio a nessuno, venivano fatti passare per un angusto corridoio nella cui parte finale si trovava una porta affacciata sul mare: il luogo tristemente noto come la porta del non ritorno. L’ultimo punto di contatto fisico con il proprio continente, la propria terra, il proprio universo: il primo passo nella tratta oceanica che li avrebbe portati vero il “Nuovo Mondo“.

Ile de Goré

Una simbolica porta sull’isola di Gorée, da dove le imbarcazioni schiaviste salpavano verso il continente americano, trasportando nelle stive gli schiavi catturati come manodopera nei campi oltreatlantico. Foto di Adriano Boano

Merce all’ingrasso

Chi però non pesava almeno 60 kg e non dimostrava di essere sufficientemente in forza, veniva obbligato a mangiare, secondo le stesse pratiche usate per ingrassare il bestiame. Catene, ceppi e pesanti palle di ferro logoravano polsi, collo e caviglie, impedendo ogni tentativo di fuga, rompendo la resistenza psicologica e facendo piombare queste persone nella più totale rassegnazione. L’incapacità di comunicare tra loro (spesso venivano da luoghi, etnie e culture diverse) aumentava il sentimento di solitudine, portando alcuni di loro a tentare il suicido. Morirono a migliaia, in queste e nelle altre case degli schiavi dell’isola. Morirono di malattie, morirono di botte, morirono di paura, violentati in ogni modo possibile e immaginabile, abusati in ogni aspetto della dignità umana: morirono anche quelli che restarono vivi.

☞e continuarono a morire in catene oltreatlantico

Edifici tra le rovine: la riconciliazione impossibile

Sull’isola sono presenti oggi altri luoghi simbolo che rendono testimonianza di un passato lontano dall’abbandono del presente. Arrivando dal mare, con La Chaloupe de Gorée (barca Gorée) che parte dal Porto di Dakar (Terminal dei Traghetti), la prima cosa che si vede è il Fort d’Estrées. Un forte con una importante batteria di cannoni, costruito dai francesi tra il 1852 e il 1856 per proteggere l’ingresso del porto della recentemente fondata Dakar. Oggi questo spazio ospita un museo, gestito dall’Institut fondamental d’Afrique noire (Ifan), dedicato alla memoria africana. Nella stessa zona trovavamo anche un simbolo che voleva essere di riconciliazione ma che ha acceso più di una controversia. Proprio di fronte al museo si trovava infatti la piazza Europa, per celebrare gli aiuti che l’Unione europea ha destinato per il ripristino dei valori storici dell’isola. Nel giugno 2020 però l’amministrazione locale ha deciso di ribattezzare il luogo come “Place de la Liberté et de la Dignité humaine”, così come spiegato in questo articolo di “Le Monde”.

Foto di Diego Battistessa

Lasciandosi alle spalle il forte-museo si può iniziare una passeggiata (tra le poche strade che intrecciano l’isola) circondati da baobab e rigogliose bouganville, antiche case coloniali, ristoranti, piccoli punti di vendita di prodotti artigianali, alcune pensioni per il pernottamento e alcuni edifici in rovina. Possiamo trovare anche una chiesa, una moschea, una scuola e una piccola spiaggia di sabbia dove spiccano i variopinti tipici cayucos senegalesi.

Foto di Adriano Boano

Una passeggiata obbligata è quella che porta dal Mercato dell’Artigianato attraverso il sentiero dei Baobab, poche centinaia di metri che aprono lo sguardo verso i resti del Fort Saint-Michel, costruito dagli olandesi dopo aver acquistato l’isola dai portoghesi. L’isola è inoltre oggi sede e musa ispiratrice di una grande comunità artistica, le cui opere sono ben visibili in ogni angolo di questo piccolo pezzo di terra circondato dal mare.

Approcci diversi tra afrorappresentanti di opposte provenienze

Foto di Diego Battistessa


Foto di Diego Battistessa

L’isola di Gorée è diventata con il tempo anche un luogo di pellegrinaggio e manifesto politico per grandi leader mondiali contemporanei, tra i quali spiccano sicuramente Nelson Mandela e Barack Obama. Il 25 novembre 1991 Mandela visitò Gorée e nello specifico il Museo della Casa degli Schiavi, entrando una delle anguste celle di punizione e rimanendoci per svariati minuti. Quando lasciò la cella si racconta che non poté trattenere l’emozione, spiegando come quel posto gli ricordava Robben Island, in Sudafrica, dove era stato prigioniero.

Ancora presenti sul web, sono invece le immagini del presidente degli Usa, Barack Obama, che nel giugno del 2013 visitò l’isola di Gorée: occasione sfruttata dai suoi detrattori per strumentalizzare revisionisticamente il dibattito sulla reale o presunta importanza dell’isola e sul suo reale impatto numerico nella tratta transatlantica di persone.

☞c’è toponomastica e toponomastica

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Prime contaminazioni europee

Tra il 1444 e il 1445 l’esploratore portoghese Dinis Dias fece rotta dal Portogallo verso sud, verso le coste occidentali dell’Africa. Nel suo viaggio non si applicò nella cattura di persone da schiavizzare e da poter rivendere nel nascente mercato di esseri umani di Lagos, bensì si concentrò nell’esplorazione di nuove terre e nuove rotte marittime. Dias giunse in quella che oggi è la penisola della regione di Dakar, battezzandola come penisola di Cabo Verde.

L’esploratore portoghese non sapeva di aver raggiunto la parte più occidentale del continente africano e di tutto il congiunto territoriale dell’Eurafrasia (Vecchio Mondo o Continente antico), quello che però vedeva era un eccellente porto naturale di fronte al quale si trovava un’isola che sarebbe diventata tristemente famosa in tutto il mondo: l’isola di Gorée (in francese, Île de Gorée; in portoghese, Ilha de Goreia) che fu per più di tre secoli uno dei mercati di persone che “rifornirono” le economie schiaviste di Stati Uniti d’America, Caraibi e Brasile. Dagli abitanti locali l’isola era chiamata Berzeguiche, però l’esploratore portoghese la battezzò come Ilha de Palma (l’isola delle Palme) e anche se non fu usata immediatamente come base permanente, il luogo venne utilizzato come punto di sbarco e commercio nella regione: cristianizzato nel 1481 con la costruzione di una cappella per i riti religiosi.

 

L’interesse delle potenze coloniali

Fu 84 anni dopo l’arrivo di Dinis Dias che i portoghesi costruirono sull’isola la prima Casa degli Schiavi, una data marcata a fuoco nella storia: il 1536 è l’anno che inaugurò uno dei processi più oscuri dell’umanità. L’isola passò di “mano in mano” più volte, giacché le potenze coloniali e marittime dell’epoca (Portogallo, Francia, Inghilterra e Paesi Bassi) a partire dal Sedicesimo secolo si dedicarono all’installazione di forti e insediamenti militari dal Senegambia (un’area geografica che corrisponde approssimativamente ai bacini dei fiumi Senegal e Gambia) fino al Golfo di Guinea. Fortezze che fungevano sia da scalo economico che come rifugio dalle aggressioni dalle potenze europee rivali e contro gli attacchi dei vicini stati africani.

Adolphe d’Hastrel, Casa della signara Anna Colas a Gorée, 1839

Dopo l’arrivo dei portoghesi giunsero sull’isola anche i naviganti della repubblica delle Sette Province Unite (attualmente Paesi Bassi) che nel 1588 ne iniziarono la colonizzazione, costruendo nel 1621 un insediamento per proteggere la loro attività di commercio di schiavi. Ed è proprio in riferimento al periodo di dominio dei Paesi Bassi che si fa risalire il nome dell’isola, giacché per la sua posizione strategica, questo piccolo pezzo di terra in mezzo al mare offriva un porto sicuro per l’ancoraggio delle navi, da qui perciò l’origine del suo nome: chiamata Goede Reede dagli olandesi (Baia buona). Nel 1677 arrivarono anche i francesi (dalla vicina e recentemente consolidata, nel 1659, base commerciale di Saint Louis), che assunsero il controllo e stabilirono una piccola base commerciale sull’isola. I francesi rimasero in possesso (in modo alterno) dell’isola fino al 4 aprile 1960 (data dell’indipendenza del Senegal) però a partire dall’abolizione della schiavitù in Francia e nelle colonie, avvenuta nel 1848, Gorée soffrì un enorme declino economico, che aumentò ancora di più con la fondazione della città di Dakar nel 1857 (attuale capitale del Senegal).

☞I francesi arrivano per rimanere

 

Destinazione d’uso schiavista

Fu così come questo piccolo lembo di terra si trasformò, secondo quanto riporta l’Unesco, in un quartier generale (prima legale e poi clandestino) della tratta di persone schiavizzate, dove arrivarono a operare contemporaneamente 28 Case di Schiavi, che “stipavano” in condizioni disumane (dentro veri e proprio ergastulum di romana memoria), persone rapite da varie parti dell’Africa occidentale. Persone schiavizzate (donne, uomini, bambini) che venivano imprigionati, incatenati e poi fatti salire su delle barche che li avrebbero portati (dopo orribili mesi di navigazione) a destinazione, in porti come quello di Salvador da Bahia, dove sarebbero stati marchiati a fuoco e venduti.

1. Le navi negriere

Vittime di una guerra etnica o del capriccio di un sovrano, catturati, fatti camminare incatenati per chilometri prima di raggiungere la costa africana dell’Oceano Atlantico. Lì, privati del loro nome, della loro identità, di tutti i diritti.

Vengono fatti salire su una nave: la prima che molte di quelle persone avessero mai visto. Di fronte a loro un viaggio di mesi attraversando l’Atlantico per raggiungere le piantagioni di canna da zucchero dove avrebbero lavorato fino a morire di stenti.

Una folla di neri di ogni tipo incatenati insieme, che a malapena hanno spazio per voltarsi, che viaggiano per mesi, storditi, circondati dalla sporcizia e da grandi contenitori pieni di vomito, in cui spesso cadono e muoiono soffocati i bambini. Le grida delle donne e il lamento dei morenti trasformano l’intera scena in un inconcepibile orrore. Morte e malattie sono ovunque e una persona su sei non sopravviverà a questo viaggio e al lavoro brutale ed estenuante che seguirà (Organizzazione delle Nazioni Unite – Onu)

Il “middle passage” (passaggio intermedio) era la parte del commercio triangolare che prevedeva un viaggio disumano (che durava dai due ai tre mesi) dai porti africani verso le coste del continente americano; questo commercio dalla rotta triangolare è il legame che tiene insieme il trittico proposto in questo dossier. Questa rotta stabilita nell’oceano Atlantico a partire dal Diciassettesimo secolo fino al Diciannovesimo secolo prevedeva l’acquisto di schiavi nei porti africani (specialmente nel Golfo di Guinea) per vendere le persone schiavizzate nei porti del “Nuovo Mondo”, dopo un lungo e penoso viaggio in mare di mesi (middle passage). Le barche quindi cariche di merci acquisite con la vendita degli schiavi, tornavano nei porti europei chiudendo il triangolo. Le barche destinate al trasporto di schiavi prendevano il nome di barche negriere. Le imbarcazioni venivano modificate dagli armatori in modo da poter contenere il maggior numero di persone possibile: il livello di sovraffollamento, mancanza di igiene e di qualsiasi minima considerazione umana, rendeva queste barche un vero inferno.

La storia infinita di abusi, sfruttamento, contenzione e scafisti

Il carico di persone schiavizzate (che in alcuni casi arrivò anche a 400 per una singola imbarcazione) veniva diviso tra uomini, adolescenti e donne insieme ai bambini. Le donne venivano costantemente stuprate dal capitano e dal resto dell’equipaggio, gli uomini venivano utilizzati per alcuni lavori minori e si cercava di tenerli in allenamento per mantenere la loro forza fisica. Alle donne venivano dati alcuni abiti per coprire i loro corpi mentre gli uomini spesso erano lasciati completamenti nudi. Le donne si occupavano anche di preparare il cibo per l’equipaggio e spesso agli schiavi veniva richiesto di intrattenere i marinai con balli e canti: negarsi voleva dire guadagnarsi una punizione fisica.

Domanda di merce abbondante e non avariata

Da un lato il capitano della barca negriera doveva assicurarsi di poter caricare quanti più schiavi possibile per massimizzare il suo guadagno, dall’altro però era necessario contenere le epidemie e le morti per denutrizione. Gli schiavi viaggiavano non solo in spazi angusti, senza luce, stipati come merce nella stiva o in sottocoperta ma anche incatenati. Durante la maggior parte delle infinte giornate di navigazione non potevano quasi muoversi. La dissenteria era la maggior causa di morte tra gli schiavizzati, che però molto spesso venivano colpiti anche dalla malaria, febbre gialla, scorbuto, problemi respiratori e infezioni. Non possiamo sapere per certo quali fossero le condizioni psicologiche delle persone che vivevano questa disumana situazione, né quanti casi di suicidio (o di tentato suicidio) ci siano stati: diventa però comprensibile immaginare che non fosse solo la dolenza fisica la causa di tante morti. La reale percentuale di morti, delle persone che dall’Africa venivano portate in schiavitù verso le Americhe è ancora fonte di dibattito, ma il punto di partenza comune degli storici è che si tratti di una cifra superiore al 15 per cento del totale.

I cimiteri nei mari

Quando una persona schiavizzata moriva sulla barca negriera non gli veniva concesso nessun rito funebre, veniva semplicemente gettata nell’oceano. Il compito dei marinai, spesso gente senza scrupoli e senza futuro (l’ultimo posto sul quale avrebbe voluto lavorare un marinaio bianco europeo dell’epoca, era una barca negriera), ero quello di prevenire le ribellioni, mantenere vivi gli schiavi e preparali (tagliare loro barba e capelli, curare le ferite superficiali, etc.…) per la vendita, prima di giungere a destinazione.

Una volta raggiunti i porti delle Americhe venivano fatti passare per un controllo sanitario e dopo il passaggio alla dogana venivano presi in carica dal commerciante locale autorizzato (che contava con una particolare licenza) che procedeva a marchiarli con un ferro incandescente per stabilirne la proprietà.

Estratto dal libro America Latina Afrodiscendente: una storia di (R)esistenza, di Diego Battistessa

Il Mercato e la Capoheira☜

 

Africa di David Diop

Difficile immaginare cosa abbia voluto dire, difficile provare a sentire quello che hanno sentito quelle persone, difficile se non impossibile immedesimarci in quel terrore, in quello spaesamento, in quella rabbia e in quell’angoscia. Lasciamo allora che siano le parole di David Mandessi Diop (9 luglio 1927 – 29 agosto 1960) un poeta senegalese (morto troppo giovane in un incidente aereo) che ha contribuito enormemente con il suo lavoro, che parte da un forte e convinta posizione anticoloniale, al movimento letterario della Négritude. In questa poesia Diop fa dialogare l’Africa con un discendente di quelle persone trafficate, che idealmente possiamo immaginare si trovi ora nel continente americano.

A mia madre

Africa, mia Africa

L’Africa e i fieri guerrieri negli antichi deserti

L’Africa cantata da mia nonna

Sul bordo del suo fiume lontano

Io non ti ho mai conosciuto

Ma il mio sguardo è pieno del tuo sangue

Il tuo buon sangue nero è stato versato sui campi

Il sangue del tuo sudore

Il sudore del tuo lavoro

L’opera della schiavitù

La schiavitù dei tuoi figli

Africa, dimmi Africa

Sei tu allora quella schiena che si curva

E che cade sotto il peso dell’umiliazione

Quella spada tremante, macchiata di rosso

Chi dice sì alla frusta nel lavoro di mezzogiorno

Ed ecco che gravemente, mi risponde una voce

Figlio impetuoso, quell’albero giovane e robusto

Quell’albero laggiù

Splendidamente solo tra i fiori appassiti

È l’Africa, la tua Africa che rinasce ancora

Che germoglia di nuovo con paziente ostinazione

I cui frutti acquisiscono a poco a poco

Il sapore amaro della libertà.

☞e una voce risponde oltreatlantico

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]]> Mercantilismo europeo https://ogzero.org/studium/mercantilismo-europeo/ Thu, 08 Aug 2024 22:43:25 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12904 L'articolo Mercantilismo europeo proviene da OGzero.

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Manchester al centro del vertice europeo

Nella storia della tratta transatlantica delle persone africane schiavizzate, la città di Liverpool (capitale della contea di Merseyside) ha svolto un ruolo di primo piano, insieme alla vicina Manchester (Cottonopolis). Un porto (Liverpool) che ha beneficiato direttamente del traffico di esseri umani, riuscendo ad accumulare enormi fortune e sviluppando la propria economia al costo della vita di milioni di persone.

Prima di parlare però di Liverpool, dobbiamo fare un passo indietro e cercare di capire come il Regno Unito abbia iniziato a giocare un ruolo determinante nel commercio triangolare, nome che storicamente viene dato alla rotta commerciale stabilita nell’Oceano Atlantico dal Diciasettesimo al Diciannovesimo secolo: una rotta che se vista sulla mappa, disegna una figura simile a un triangolo tra Africa, America e Europa.

Come per Gorée e Salvador de Bahia, i nuovi orizzonti geografici aperti dalle spedizioni marittime delle grandi potenze europee avevano stabilito nuove rotte, creando le basi per una fiorente rete di rapporti economici che vedeva l’Europa al centro. Gli apripista di questa nuova forma di espansione coloniale furono i portoghesi che crearono la loro base operativa in Brasile e che istituzionalizzarono il commercio di persone africane schiavizzate (in Portogallo a Lagos si istituì infatti il primo mercato europeo degli schiavi). Dopo i lusitani, fu la volta degli spagnoli e dei francesi che avevano già stabilito delle colonie in America continentale e nelle Antille, e che puntavano alla sostituzione della manodopera indigena (gli indigeni vennero sottoposti a un regime di tale sfruttamento che intere popolazioni vennero sterminate in pochi decenni) con quella dei neri africani schiavizzati. Infine dal Seicento, furono gli Inglesi, la Repubblica delle Sette Province Unite (Olanda, Zelanda, Utrecht, Gheldria, Overijssel, Frisia, e Groninga) e la Francia in piena auge, a togliere il monopolio del commercio schiavista al Portogallo, diventando così i nuovi protagonisti del commercio triangolare sull’Atlantico.

Le carte dilatano gli orizzonti… e moltiplicano le Compagnie

Da un lato, la scoperta della possibilità di poter circumnavigare l’Africa (l’arrivo al Capo di Buona Speranza da parte del portoghese Bartolomeu Dias il 12 marzo 1488) aveva aperto la “corsa” verso le ricchezze dell’India, provocando il fiorire di numerose Compagnie europee di navigazione e commerciali. Multinazionali dell’epoca che iniziarono a stabilire basi di scambio e rifornimento (e anche forti militari) lungo la costa africana, soprattutto in Africa occidentale. In questo caso, come già segnalato, l’apripista fu il Portogallo (con gli insediamenti a Sao Tomé e Principe, Fernão do Pó, l’isola di Gorée, Angola, Mozambico o Zanzibar), al quale si accodarono la Repubblica delle Sette Province Unite (Colonia del Capo, oggi in Sudafrica) e successivamente la Francia e il Regno Unito. Si trattava all’inizio di basi di appoggio, senza la pretesa di espandere il controllo delle potenze europee verso l’interno del continente africano (dove gli arabi da anni controllavano le rotte commerciali), espansione che arriverà solo in pieno 1800, ratificata posteriormente alla conferenza di Berlino del 1914, dove l’Africa venne spartita tra Francia, Regno Unito, Belgio, Portogallo, Spagna, Italia e Germania. In questo senso è importante ricordare che prima della Grande Guerra 1914-1918 (conosciuta successivamente come Prima guerra mondiale) esistevano solo due territori indipendenti in Africa: Etiopia e Liberia.

European colonial possessions in Africa, from 1600s to 1922. Figure provided by Kevin Tervala of Baltimore Museum of Art.

Dall’altro la rotta aperta da Cristoforo Colón verso il “Nuovo Mondo” nel 1492, una terra che il navigante genovese era convinto fossero le Indie e che cominciò a chiamarsi America (in onore del navigante Amerigo Vespucci) solo con la mappa del cartografo tedesco Martin Waldseemüller del 1507.

Fu in quel momento storico, con l’apertura di queste due rotte, che si posero le basi per il futuro commercio triangolare. Le stesse potenze che si disputavano le basi africane iniziarono la conquista del “Nuovo Mondo” dove però in questo caso l’apripista era stata la Spagna

Liverpool e Manchester: come la Gran Bretagna ha fondato il suo benessere sul traffico e sfruttamento degli schiavi

British delivery: le prime consegne di materiale umano

I primi africani ad arrivare nelle colonie che l’Inghilterra stava cercando di stabilire in Nordamerica, furono un gruppo di circa 20 persone schiavizzate che arrivarono nell’agosto del 1619 a Point Comfort, Virginia (vicino a Jamestown): persone (merce) sottratte da corsari britannici a una nave negriera portoghese. Fu l’inizio dell’orrore, il primo passo per la creazione della più grande e massiva impresa di disumanizzazione che la storia ricordi, operata dalla corona britannica e da uno stuolo di commercianti senza scrupoli.

The Maroons In Ambush On The Dromilly Estate In The Parish Of Trelawney, Jamaica (1810)

Un altro importante spartiacque storico si ebbe pochi anni dopo con la conquista della Giamaica da parte del Regno Unito ai danni della Spagna. Fu infatti nel 1655, quando una spedizione britannica guidata dall’ammiraglio Sir William Penn e dal generale Robert Venables riuscì a impossessarsi dell’isola, iniziando una guerra che in 5 anni eliminò ogni resistenza spagnola ancora presente (ma non quella degli schiavi liberti, chiamati Maroons, che dettero molto filo da torcere agli inglesi). La Giamaica iniziò a essere uno dei grandi “laboratori” britannici della sottomissione e sfruttamento delle persone schiavizzate dall’Africa, considerando che la popolazione dell’isola crebbe da poche migliaia al loro arrivo – alla metà del Diciassettesimo secolo – fino a 18.000 nel 1680: a quella data un abitante su due degli abitanti dell’isola erano persone schiavizzate.

 

Mare britannicum

In questo contesto venne redatto il Navigation Act del 1660, un documento che stabiliva che solo le navi di proprietà inglese potevano entrare nei porti coloniali della corona britannica. Sempre nel 1660 Carlo II concesse uno status speciale alla Company of Royal Adventurers Trading to Africa, compagnia guidata da suo fratello minore Giacomo, il duca di York (in seguito Giacomo II). Questa compagnia poteva contare sul monopolio del commercio britannico con l’Africa occidentale (che includeva oro, argento e schiavi) però fallì nel 1667 a causa di numerosi debiti accumulati. Nel 1672 tuttavia la compagnia venne ricreata, con un nuovo beneplacito reale e con il Royal African Company (Rac).

Possiamo vedere dunque che la monarchia britannica sostenne fin dall’inizio lo sfruttamento del continente africano e la tratta degli schiavi, molti dei quali venivano marchiati a fuoco con le lettere DOY, a significare “proprietà del duca di York”. Ma la responsabilità non era solo dei re e della loro corte, ma anche degli uomini d’affari e della classe mercantile di Liverpool e di Cottonopolis (Manchester ricevette questo nome per essere la capitale mondiale del commercio del cotone che proveniva dalle piantagioni del Sud degli Stati Uniti, paese nato dalle 13 colonie inglesi che nel 1776 dichiararono la loro indipendenza). Senza gli schiavi la rivoluzione industriale non sarebbe stata ciò che è stata, così come ci ricorda Eric Williams nel suo libro del 1944 Capitalismo e Schiavitù.

Un libro che spiega come la schiavitù abbia contribuito a finanziare la rivoluzione industriale in Inghilterra e di come proprietari di piantagioni, costruttori navali e mercanti legati alla tratta degli schiavi accumularono vaste fortune che permisero la fondazione di banche e di numerose industrie europee, che amplificarono la portata del capitalismo in tutto il mondo.

☞le basi dell’annessione perpetua

 

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Sfarzi coloniali e riappropriazione afro

Pelourinho e sullo sfondo Nossa Senhora do Rosario Foto di Diego Battistessa

Il centro della terribile pratica di mercificazione umana a Salvador de Bahia era proprio il quartiere di Pelourinho, nome che in portoghese richiama la gogna dove venivano legate e frustate le persone schiavizzate. Si tratta di un enorme complesso monumentale, arroccato su una collina di fronte al mare: un luogo scelto strategicamente dai portoghesi perché facile da fortificare e con la possibilità di vedere con largo anticipo possibili navi nemiche che si avvicinavano. Il quartiere raccoglie l’insieme più importante dell’architettura coloniale del Seicento e Settecento nella regione e tra le innumerevoli chiese che ne fanno un luogo unico nel mondo (come la famosa Chiesa di San Francesco), ospita anche la chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos (Nostra Signora del Rosario dei Neri): edificio di culto la cui costruzione durò quasi 100 anni e che è uno dei simboli della “rivalsa afro” nella città. L’elemento curioso e storico di questo edificio religioso, risiede nel fatto che durante gli anni della colonia portoghese, questa era l’unica chiesa della città che permetteva l’ingresso alle persone afrodiscendenti.

Chiesa di San Francesco. Foto di Diego Battistessa

 

Progressiva commistione di culture 

Proprio dal quartiere di Pelourinho e dalla chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos parte il 4 dicembre la celebrazione di Santa Barbara e dell’orixá Iansã. Un rituale sincretico, considerato patrimonio immateriale dal Governo dello Stato di Bahia dal 2008, che riunisce cattolici e religiosi di origine africana. Un atto di fede che da un lato omaggia una delle grandi Sante cristiane e dall’altro professa devozione a una delle entità divine che furono associate al cristianesimo in epoca coloniale da parte della popolazione nera africana schiavizzata, in un esercizio di resistenza e di preservazione delle proprie radici religiose e culturali: Iansã.

Statuetta yoruba della Sierra Leone: il sincretismo della santeria

Originaria delle popolazioni che occupavano il territorio subsahariano oggi corrispondente a Nigeria, Togo e Sierra Leone, Iansã fa parte del pantheon yoruba, una ricca tradizione religiosa che comprende diverse divinità legate agli aspetti naturali come vento e acqua. Conosciuta anche come Oiá o Oyá, è una delle principali orixá femminili, ampiamente venerata e celebrata in varie tradizioni religiose in Brasile, Africa occidentale e nei Caraibi.

Festa di Santa Barbara, appuntamento fisso del 4 dicembre Foto di Diego Battistessa

 

O Pagador de Promessas

Il film O Pagador de Promessas del 1962, diretto da Anselmo Duarte, che vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes dello stesso anno, diventando il primo film sudamericano nel conseguire tale distinzione è emblematico di questa convivenza di culture forzata dalla deportazione coloniale e che gradualmente attraverso scontri e rifiuti ha prodotto un sincretismo religioso e culturale. L’anno successivo divenne anche il primo film brasiliano e sudamericano nominato all’Oscar come miglior film straniero. Il film segue le vicende di Zé, un umile contadino che fa una promessa a Santa Barbara in un terreiro (luogo di culto del Candomblé e dell’Umbanda): se il suo asino si riprenderà dalla malattia, porterà una croce da casa sua alla chiesa di Santa Barbara, che si trova proprio nella città di Salvador, nel quartiere di Santo Antônio Além do Carmo. Ma quando il prete locale scopre che ha pregato secondo il rito delle religioni afrobrasiliane, rifiuta di lasciarlo entrare in chiesa, non permettendogli di mantenere così la sua promessa. Anche se contro la sua volontà, Zé diventa un martire religioso e un attivista politico per coloro che interpretano in modo ambiguo il suo messaggio, portando la storia a un epilogo fatale. Oggi però, rispetto all’epoca ritrattata nel film, la città è cambiata così come è cambiato il sentire di una Chiesa cattolica locale che sempre di più si è aperta alle professioni di fede sincretiche.

Per rimanere in tema cinema merita una menzione il Cinema Glauber Rocha, uno delle ultime sale di strada rimasti a Salvador de Bahia (i cinema di Rua di Salvador vertevano sull’idea che l’esperienza culturale cinematografica poteva andare ben oltre la visione di un film). Un cinema popolare, che è anche punto di ritrovo per il quartiere e che si trova a pochi passi dal Muncab e dal centro di Pelourinho. Un cinema che prende il nome da Glauber Pedro de Andrade Rocha (14 marzo 1938 – 22 agosto 1981), regista, attore e sceneggiatore brasiliano considerato come il principale rappresentante del Cinema Novo. Questo spazio fu inaugurato nel 1919 con il nome di Cine Guarany e fu per quasi 70 anni la principale sala cinematografica di Salvador de Bahia, essendo caratterizzato da elementi che lo rendevano modernissimo per la sua epoca. Nel 1955 fu rinnovato con le “nuove” attualizzazioni tecnologiche dell’epoca e dopo un periodo di “alti e bassi” con diverse opere di riqualificazione, fu riaperto nel 1982 con l’attuale nome di Glauber Rocha, diventando uno spazio di incontro, di cinema d’autore e di esposizioni artistiche (ospita oggi infatti anche dei pannelli dell’artista plastico Carybé, opera dal titolo Indios Guaranys).

Jorge Amado: l’impegno politico nel Novecento di Bahia

Tornando però al cuore di Pelourinho e alla sua architettura che rappresenta una viva testimonianza di un passato che si intreccia con forza al presente, in pieno Largo do Pelourinho troviamo l’edificio della Fundaçao – Casa di Jorge Amado, inaugurata nel 1987 dallo stesso famoso politico e scrittore brasiliano (pluripremiato però senza mai essere riuscito a ottenere il premio Nobel per la letteratura). Un luogo di “culto” per chi onora ancora oggi la memoria di questo illustre brasiliano e che ospita e conserva la sua collezione, promovendo tra l’altro, attraverso la fondazione, lo sviluppo delle attività culturali nello stato di Bahia. Lo scrittore brasiliano Jorge Amado (nato il 10 agosto 1912 a Itabuna) fu sicuramente uno dei grandi ambasciatori di Bahia e morì, solo quattro giorni prima di compiere 89 anni, proprio nella città di Salvador, il 6 agosto 2001.

Fundaçao – Casa di Jorge Amado, Largo Terreiro de Jesús. Foto di Diego Battistessa

Siamo di fronte a uno degli autori più letti al mondo, la cui vita però fu marcata dall’isolamento a causa della sua adesione al comunismo. Amado si dedicò infatti alla militanza politica (che gli costò anche il carcere) e nel 1945 fu deputato del Partito comunista brasiliano, lo stesso partito che solo cinque anni dopo fu messo al bando e considerato un partito illegale. L’esilio insieme alla famiglia, una vita rocambolesca in latitanza, l’abbandono della carriera politica e infine il ritorno nel suo Brasile solo nel 1955. Una vita di lotta, che si riflette nelle sue opere che spesso hanno trattato di temi sociali, scritti per la cui descrizione non basterebbe un libro. Pubblicò il suo primo romanzo all’età di 18 anni e già nel 1944 dette vita uno dei suoi capolavori Terras do Sem Fim (La terra senza fine), un libro che descrive con crudezza la dura vita dei lavoratori nelle piantagioni di cacao. Famoso tra i molti altri anche Gabriella, garofano e cannella, opera scritta in età più adulta (nel 1958) ma non può mancare un riferimento a un’opera che lo lega in modo particolare alla città di Salvador de Bahia. Un libro che si chiama appunto Bahia de Todos-os-Santos pubblicato nel 1945. Una specie di guida di una città che Amado ci aiuta a conoscere attraverso la sua gente e i suoi miracoli, i suoi angeli e i suoi demoni, la sua musica e gli amori incorniciati dal blu intenso dell’oceano. Tutto questo oggi è trasmesso e custodito dentro la Fundaçao – Casa di Jorge Amado, dove si trovano anche le quasi 100.000 pagine di lettere che lo scrittore ha ricevuto durante la sua vita, da persone di tutto il mondo.

Candomblé. Foto di Luciano Paiva, Flickr. CC BY-NC-ND 2.0

Adiacente alla casa di Jorge Amado si trova il Museu da Cidade, che oltre a un’ampia collezione di costumi candomblé – la tradizionale danza bahiana –, custodisce oggetti personali del poeta Castro Alves, l’autore di La nave degli schiavi annoverato tra i primi personaggi pubblici a schierarsi contro la schiavitù nell’Ottocento.

 

Flussi e riflussi tra Bahia e Benin

L’edificio della fondazione si trova a pochi metri dalla chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos e poco più in basso, troviamo un altro dei tesori storico-culturali di questo quartiere: la casa do Benin. Dal sito della prefettura di Bahia possiamo trovare più informazioni su questo centro culturale già diventato iconico, ideato dall’etnografo Pierre Verger e nato come risultato di un accordo bilaterale per unire i legami tra Salvador de Bahia e la Repubblica del Benin, luogo di origine della maggior parte delle persone schiavizzate arrivate a Salvador de Bahia.

Foto di Diego Battistessa

Inaugurato nel 1988, lo spazio si trova in un palazzo in Rua Padre Agostinho Gomes, vicino a Taboão, nel Pelourinho. Nel cuore del Centro Storico Casa do Benin rappresenta un pezzo di Africa, un luogo generatore di uno scambio culturale da e verso il continente africano. Questo spazio culturale possiede un importante patrimonio artistico e culturale afrobrasiliano ed è mantenuto dalla Fondazione Gregório de Mattos per migliorare le relazioni culturali tra le due sponde dell’Atlantico: all’interno è visibile una collezione composta da 200 pezzi provenienti dal Golfo del Benin, raccolti dal fotografo francese Pierre Verger, durante i suoi viaggi in Africa, per studiare i flussi e riflussi tra l’Africa e Bahia. Contiene anche pezzi legati alla cultura afrodiasporica, donati da artisti e istituzioni di tutto il mondo.

A donare un’atmosfera unica, il modo particolare nel quale vengono appesi dei tessuti colorati dell’artista plastico e designer Goya Lopes, che danno ancora più vita e movimento a un luogo che vuole anche promuovere la creatività artistica della moda afrobrasiliana.

Texture di Goya Lopez

Città del mercantilismo Salvador de Bahia Sincretismo Elevador Lacerda
Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester
Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

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]]> Niger: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace https://ogzero.org/niger-la-diplomazia-al-lavoro-mentre-niamey-tace/ Sat, 02 Sep 2023 22:17:57 +0000 https://ogzero.org/?p=11535 Niger, un aggiornamento: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace. Nelle ultime ore si sono accavallate numerose proposte di transizione rivolte al regime di Tchiani,. Un’azione diplomatica che, inoltre, ha il significato di scongiurare un intervento armato nel paese che infiammerebbe tutta l’Africa Occidentale. Di questo ne sono consapevoli sia i leader africani sia i […]

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Niger, un aggiornamento: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace. Nelle ultime ore si sono accavallate numerose proposte di transizione rivolte al regime di Tchiani,. Un’azione diplomatica che, inoltre, ha il significato di scongiurare un intervento armato nel paese che infiammerebbe tutta l’Africa Occidentale. Di questo ne sono consapevoli sia i leader africani sia i ministri degli Esteri dell’Unione europea che, infatti, invocano prudenza. Ma le proposte di transizione, formulate da Algeria e Nigeria, per ora rimangono lettera morta e quella nigeriana viene bollata dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas) come una fake news. Ecowas, infatti, ribadisce, che la soluzione è il ripristino dell’ordine costituzionale e la reintegrazione del deposto presidente Mohamed Bazoum, che diventa una figura simbolica, insieme all’ambasciatore francese: due paradigmi del sistema coloniale utili per aizzare contro la percezione di ogni grandeur (e saccheggio) francese. Poi è facile su questa ondata antifrancese trovare le corde giuste per rovesciare  gli amici dei francesi, ma una volta giunti al potere – a parte resistere alla stigmatizzazione internazionale – non ci sono piani per gestirlo al meglio. Si direbbe non sia chiaro in che direzione andare una volta rimossi i fantocci di poteri altri e le mosse per fare gli interessi della popolazione civile non siano state insegnate nelle scuole militari frequentate dai golpisti.


La proposta nigeriana

Il presidente nigeriano Bola Tinubu, che è anche l’attuale presidente dell’Ecowas, giovedì ha citato come esempio la transizione di nove mesi avvenuta nel suo paese nel 1999. «Il presidente non vede alcun motivo per cui ciò non possa accadere di nuovo in Niger, se le autorità militari sono sincere», si legge in un comunicato della presidenza nigeriana. Più che una proposta è un suggerimento e Tinubu l’avrebbe espresso ricevendo presso la State House di Abuja (capitale della Nigeria) una delegazione guidata dal sultano di Sokoto, Muhammad Sa’ad Abubakar III, personalità molto influente anche in Niger. «Il presidente Tinubu ha osservato che la Nigeria, sotto il generale Abdulsalami Abubakar, ha istituito un programma di transizione di nove mesi nel 1998, che si è rivelato un grande successo, portando il paese in una nuova era di governo democratico», si legge nella nota emessa dalla presidenza nigeriana al termine dell’incontro. Un suggerimento, quindi, non una proposta ufficiale da parte dell’Ecowas che comunque ha tenuto a chiarire la sua posizione, definendola una fake news e comunque non una posizione dell’organizzazione sovranazionale africana anche se Tinubu ne è il presidente di turno.

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La proposta algerina

All’inizio della settimana, l’Algeria, un altro influente vicino del Niger, è stata ancora più specifica nell’offrire al regime militare un “piano di transizione di sei mesi” sotto la supervisione di una “autorità civile”. Per il momento, i generali al potere a Niamey non hanno reagito a queste proposte e il loro unico intervento sull’argomento risale al 19 agosto, quando il nuovo uomo forte del paese, il generale Abdourahamane Tchiani, aveva indicato di volere una transizione da tre anni al massimo. Molti giudicano poco credibile, o troppo lungo, questo periodo di transizione e, dopo i colpi di stato in Mali e Burkina Faso, ma anche in Guinea, le transizioni annunciate, per arrivare a nuove elezioni e il ripristino di un governo democraticamente eletto si sono allungate nel tempo, allontanando il ritorno dell’ordine democratico.

Ultimatum e tensioni diplomatiche

Resta, poi, alta la tensione anche tra il regime di Nimaey e la Francia, ex potenza coloniale e partner del Niger soprattutto nella lotta antijihadista e con numerosi interessi economici nel paese. Le autorità hanno revocato l’immunità e il visto diplomatico all’ambasciatore francese e hanno annunciato l’intenzione di espellerlo in una lettera inviata martedì a Parigi. Venerdì scorso avevano inizialmente concesso 48 ore a Sylvain Itté per lasciare il territorio, ultimatum respinto da Parigi che ritiene questo governo illegittimo e quindi non ha l’autorità per fondare una simile richiesta. E la giunta militare sta facendo molta pressione sull’ambasciata, tanto che, secondo testimonianze raccolte sul luogo, le auto in uscita dall’ambasciata francese sono state perquisite sistematicamente dalla polizia. Un altro ultimatum potrebbe scadere nel finesettimana. Le autorità militari hanno minacciato di accompagnare l’ambasciatore in maniera coatta fuori dal paese.

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La piazza si muove

La tensione cresce anche nelle piazze. L’M62, una coalizione della società civile contraria alla presenza militare francese, ha lanciato un appello per un “sit-in popolare” nel centro di Niamey, già a partire da ieri e per tutto il finesettimana, per chiedere la “partenza delle forze francesi”. Un’altra organizzazione della società civile, il Fronte patriottico per la Sovranità del Niger (Fpsn), dal canto suo ha chiesto un “sit in permanente” da oggi “fino alla partenza di tutti i soldati francesi”. La presenza militare francese in Niger, infatti, è massiccia: 1500 militari, oltre a mezzi e intelligence. Senza contare la presenza americana e italiana, che vanno ad aggiungersi al contingente militare che ha come missione il contrasto al jihadismo e alla tratta di essere umani, per fermare le migrazioni verso il Mediterraneo. Da diversi anni il Niger si trova ad affrontare una violenza jihadista mortale che colpisce la parte sudoccidentale del paese, ai confini del Burkina Faso e del Mali – la cosiddetta area dei Tre Confini – e la sua parte sudorientale vicino al bacino del Lago Ciad e al confine con la Nigeria.

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Attività sospese e diplomazia al lavoro

Infine, le autorità hanno annunciato la sospensione delle attività delle Ong, delle organizzazioni internazionali e delle agenzie delle Nazioni Unite nelle aree delle operazioni militari «a causa dell’attuale situazione di sicurezza». Le zone interessate non sono state specificate, ma secondo l’ufficio locale dell’agenzia umanitaria dell’Onu (Ocha), sarebbero prese di mira le località attorno a Banibangou, Sanam, Anzourou e Bankilaré, tutte situate nella regione di Tillabéri (Sud-ovest), a causa la «recrudescenza della presenza e delle attività» dei gruppi jihadisti. Le Nazioni Unite hanno annunciato di voler contattare i militari dopo questa decisione per «comprendere meglio cosa significa e quali sono le conseguenze per l’attività umanitaria».

Insomma permane una situazione di stallo. Ma le diplomazie sono continuamente al lavoro per scongiurare ogni possibile innalzamento della tensione che potrebbe portare a un intervento armato che infiammerebbe tutta l’Africa occidentale, e non solo, e in prima linea su questo fronte diplomatico c’è la nuova ambasciatrice americana a Niamey che, pur non presentando le sue credenziali alla giunta perché Washington non la riconosce, ha presso possesso della rappresentanza diplomatica.

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Mediterranean Shield: espansione Nato a sud https://ogzero.org/mediterranean-shield-espansione-nato-a-sud/ Fri, 08 Jul 2022 08:05:03 +0000 https://ogzero.org/?p=8103 Riprendiamo due articoli scritti da Angelo Ferrari per l’agenzia Agi correlati alla corsa al controllo del territorio saheliano, a partire dall’esigenza di contrastare l’avanzata di potenze coloniali alternative a quelle occidentali con la perentoria reazione di un’espansione Nato in epoca globalizzata: la sua estensione oltre le sponde meridionali del Mediterraneo attraverso accordi con potenze locali […]

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Riprendiamo due articoli scritti da Angelo Ferrari per l’agenzia Agi correlati alla corsa al controllo del territorio saheliano, a partire dall’esigenza di contrastare l’avanzata di potenze coloniali alternative a quelle occidentali con la perentoria reazione di un’espansione Nato in epoca globalizzata: la sua estensione oltre le sponde meridionali del Mediterraneo attraverso accordi con potenze locali a fungere da satrapi ma sotto l’egida di un’alleanza che si estende sull’intero pianeta. Il vecchio approccio francese che fino a pochi mesi fa non poteva immaginare qualunque forma di autonomia locale va cestinato e ripensato completamente. Ma da nuovi protagonisti. 


Lo Scudo Nato a Sud

La Nato volge il suo sguardo anche a sud del Mediterraneo, in particolare verso il Sahel. E questa sembrerebbe una novità se non fosse che già nel passato la Nato è intervenuta nella gestione delle crisi su richiesta dell’Unione Africana (Ua). L’esordio è del 2005 quando, con l’acuirsi della crisi del Darfur, la Nato ha accolto la richiesta della Ua di supportare la sua missione di peacekeeping in Sudan. Poi nel 2009 la richiesta, sempre da parte della Ua di sostenere la missione in Somalia. Poi nel 2009 con l’operazione “Ocean Shield” per la lotta contro la pirateria nel Corno d’Africa. Per non dimenticare ciò che è successo in Libia a partire dal 2011. Sono solo alcuni esempi.

Con l’ultimo vertice della Nato a Madrid, che ha ridisegnato la postura dell’Allenza a livello globale puntando con più forza alla deterrenza e alla difesa collettiva, resta l’impegno verso la prevenzione e la gestione delle crisi con un focus significativo sul Nordafrica e il Sahel. Di sicuro l’Italia può dirsi soddisfatta del linguaggio usato nel nuovo Concetto strategico – come scrive su “Affarinternazionali.it”, Elio Calcagno – rispetto a una regione di primario interesse per il paese. Tuttavia il capitale politico, militare ed economico dell’Allenza verrà inevitabilmente incanalato verso est e verso la minaccia russa. L’Italia, dunque, dovrà giocare un ruolo più propositivo e concreto sul fianco sud in ambito Nato di quanto abbia fatto fino a oggi. Roma non può permettersi di stare a guardare e non può essere uno spettatore passivo come in Libia.

Necessari nuovi approcci alle crisi nelle marcoaree

La gestione e la prevenzione delle crisi, in particolare nel Sahel, dovranno necessariamente passare attraverso una “richiesta” dell’Unione africana e il consenso dei paesi coinvolti. E visto il clima antioccidentale che regna in questa regione dell’Africa è abbastanza complesso che i governi saheliani si affidino all’Alleanza per risolvere le crisi interne, senza dimenticare, poi, la forte presenza della Russia in quell’area.

Detta in parole povere la lotta al terrorismo nel Sahel non può essere camuffata come deterrenza nei confronti della minaccia russa. Insomma, i paesi dell’area saheliana hanno dimostrato, finora, di privilegiare il rapporto con Mosca. Un esempio eclatante è il ritiro dal Mali dei francesi con l’operazione Barkhane e di quella europea Takuba. Un bel rompicapo.

Soldati dell’operazione Barkhane in Mali (foto Fred Marie / Shutterstock)

Fino ad ora tutto è sulla carta ma alcune fughe in avanti di qualche ministro degli Esteri europeo, fanno già discutere nel Sahel. In particolare in Mali dove l’ambasciatore spagnolo a Bamako, Romero Gomez, è stato convocato dal ministro degli Esteri maliano, Abdoulaye Diop, dopo le parole del suo omologo spagnolo, Manuel Alvares che in una dichiarazione non escludeva un possibile intervento della Nato in Mali.

Diop non le ha mandate a dire e in un’intervista ha spiegato: «Oggi abbiamo convocato l’ambasciatore spagnolo per sollevare una forte protesta contro queste affermazioni. L’espansione del terrorismo nel Sahel è principalmente legata all’intervento della Nato in Libia, le cui conseguenze stiamo ancora pagando».

Parole dure, ma Diop non si ferma qui, ha infatti definito le affermazioni del suo omologo spagnolo “ostili, gravi e inaccettabili”, perché «tendono a incoraggiare l’aggressione contro un paese indipendente e sovrano». L’ambasciata spagnola, in un tweet, ha cercato di smorzare i toni spiegando che la «Spagna non ha richiesto, durante il vertice della Nato o in un qualsiasi altro momento, un intervento, una missione o qualsiasi azione dell’Alleanza in Mali». L’occidente dovrà abituarsi a questa ostilità che, in parte, è persino giustificata dalle missioni militari francesi ed europee nell’area.

Secondo il direttore del Centro studi sulla sicurezza dell’Istituto francese di relazioni internazionali (Ifri), Elie Tenenbaum, la Francia, ma anche l’Occidente nel suo insieme, deve “pensare” una nuova strategia, perché attualmente la «dinamica strategica produce l’opposto di ciò che si è prefissa». L’analista sostiene che i tentativi di entrare in partenariato con gli attori locali ha prodotto attriti – il Mali ne è un esempio –: i francesi hanno cercato di arginare il deterioramento della sicurezza in Sahel ma non ci sono riusciti. Nel difendere i propri interessi la Francia non ha fatto altro che alimentare un sentimento antifrancese.

Ma il problema su tutti è quello di avere trascurato le ambizioni russe, turche e cinesi

Attori nello scacchiere africano molto più spregiudicati e soprattutto meno interessati alle politiche interne dei paesi con cui diventano partner. La Francia, invece, non ha fatto altro che continuare, anche “sottobanco”, a determinare le politiche interne delle ex colonie, a “scegliere” chi di volta in volta avrebbe governato. Insomma, un’ingerenza inizialmente mal sopportata e ora totalmente avversata da buona parte delle popolazioni saheliane, certo con gradazioni diverse, ma pur sempre penetrante.

È chiaro che l’occidente dovrà ripensare completamente la sua strategia globale nel Sahel e nell’Africa occidentale se non vuole essere “sfrattato”. Ciò lo chiedono anche le opinioni pubbliche, in particolare quella francese, che cominciano a non capire più le politiche postcoloniali della Francia e quelle dell’Europa che sembra avere come unico obiettivo quello di spostare sempre più a sud il confine del Mediterraneo per arginare i flussi migratori.

Parigi vs Mosca in Françafrique

In Niger per rendere meno urticante la presenza francese in Sahel

La Francia cambia strategia nel Sahel, almeno ci prova. Dopo il ritiro dal Mali, che dovrebbe completarsi entro l’estate, Parigi trasferisce la sua presenza in Niger, paese diventato strategico per tutta la comunità occidentale. La sfida di Parigi è quella di mantenere una presenza nell’area per non vanificare la sua influenza storica, anche se è ormai messa a repentaglio da un sentimento antifrancese diffuso e alimentato ad arte dalla Russia, che esprime nella regione una politica molto aggressiva.

Dunque, un cambio di passo. L’esercito francese intende intervenire a “sostegno” e non più in sostituzione degli eserciti locali. Ma questo dipenderà, soprattutto, dalla volontà degli stati africani. Sono frenetiche le consultazioni e gli scambi tra capitali saheliane, Parigi e le capitali europee. Francesi ed europei si stanno muovendo in direzione di una maggiore cooperazione a seconda delle richieste dei paesi africani.

Dopo lo schiaffo maliano, Parigi intende operare non più da “protagonista” ma in seconda linea. Un modo per ridurre la visibilità della sua azione che finora ha dimostrato di essere un “irritante” per le opinioni pubbliche africane, ma di certo manterrà una presenza nella regione di influenza storica. L’attenzione si concentrerà in Niger, nuovo partner privilegiato, dove i francesi manterranno una presenza con circa mille uomini e capacità aeree. Quindi verrà avviato un partenariato strategico spiegato dal comandante del quartier generale, Hervé Pierre:

«Oggi invertiamo completamente il rapporto di partnership: è il partner che decide cosa vuole fare, le capacità di cui ha bisogno e controlla lui stesso le operazioni svolte con il nostro supporto. È il modo migliore per continuare ad agire efficacemente al loro fianco».

L’obiettivo di Parigi sarebbe quello di non irritare i partner e operare con discrezione, ma occorre anche sottolineare una mancanza di direttive chiare dell’esecutivo francese sulla prosecuzione delle operazioni. Si attendono “ordini” dalla politica in un quadro interno, dopo le legislative, molto complicato. L’opinione pubblica d’oltralpe non comprende più la politica postcoloniale della Francia.

Ciad, Burkina e sospettosamente il Golfo

Il quartier generale francese dell’operazione che succederà all’estinta Barkhane sarà mantenuto, per il momento, a N’Djamena, in Ciad, con cui la Francia ha un accordo di difesa. Ma la sua forza lavoro sarà ridotta. Per quando riguarda il Burkina Faso, dove altri civili sono stati uccisi per mano dei jihadisti nel fine settimana, sta ricevendo l’aiuto francese ma rimane perplesso sul fatto di una intensificazione della presenza sul terreno. Anche qui la propaganda antifrancese, ma soprattutto il sentimento che ne deriva, hanno attecchito molto bene.
Oltre a contribuire a contenere la violenza jihadista che minaccia di diffondersi nel Golfo di Guinea, la sfida per Parigi nel mantenere una sua presenza militare è quella di evitare un declassamento strategico, in un momento di accresciuta competizione sulla scena internazionale. In Africa occidentale i russi stanno perseguendo una strategia di influenza aggressiva, anche attraverso massicce campagne di disinformazione antifrancesi.

Le mosse Wagner

L’intelligence, infatti, sta monitorando gli attacchi compiuti da Wagner sui i social network che hanno superato i confini del Mali, e si stanno diffondendo in Africa. Un’ossessione francese? Non proprio, perché Mosca è riuscita a strappare all’impero d’oltralpe il Mali, si appresta a fare altrettanto in Burkina Faso, la Repubblica Centrafricana è saldamente nelle mani dei russi, e si stanno moltiplicando gli accordi militari con molti stati dell’area. Una penetrazione, tuttavia, che non è dell’ultima ora. È tempo che i russi stanno cercando di tornare ad avere un ruolo decisivo e strategico in Africa, dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda, consapevoli che non hanno molto da offrire sul piano commerciale ed economico, ma su quello militare e degli armamenti sì.

L’irritazione di Parigi è evidente. I nervi sono scoperti e lo chiarisce bene, in un’intervista a Radio France International, l’attuale comandante dell’operazione Barkhane, il generale Laurent Michon:

«La manipolazione della popolazione esiste, si diffondono enormi bugie sul fatto che armiamo gruppi terroristici, rapiamo bambini, lasciamo fosse comuni. È facile fare da capro espiatorio a persone che stanno attraversando situazioni umanitarie e di sicurezza estremamente difficili. C’è stata una manovra di disinformazione sulle reti, con mercenari Wagner che seppellivano cadaveri a Gossi, per accusare i francesi. Per la prima volta l’esercito francese ha deciso di spiegare come si fanno le cose nella vita reale, declassificando e mostrando le immagini dei droni. Vivono nel paese (i Wagner, N. d. A.), depredano, commettono abusi, hanno le mani sull’apparato di comando dell’esercito maliano e fanno le cose alle spalle dei leader. La reazione migliore è rispettare i nostri valori, essere chiari su ciò che stiamo facendo e lasciare che i giornalisti africani ed europei vengano a vedere, fare qualche verifica sui fatti. L’arma migliore è l’informazione verificata e sottoposta a controlli incrociati».

Approccio militare o cooperazione: il dilemma dell’Eliseo

La confusione regna sovrana e Parigi, anche senza ammetterlo, si rende conto che un declassamento strategico è in atto, ciò che si chiede è se è un fatto inesorabile oppure si possono, ancora, recuperare posizioni e, soprattutto mantenere una presenza che salvaguardi i propri interessi. L’operazione Barkhane, per essere gentili, è stata un fallimento. La Francia, invece, dovrebbe chiedersi se la strategia militare, che prevale su quella della cooperazione allo sviluppo, sia vincente.

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Le città visibili https://ogzero.org/studium/le-citta-visibili/ Fri, 29 Apr 2022 16:47:51 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7172 L'articolo Le città visibili proviene da OGzero.

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OGzero nelle città

È possibile individuare un genius loci che rappresenti una costante nel tempo e negli spazi urbani utilizzati? Nella collana “Le città visibili”, sì.

Città rese visibili attraverso la narrazione dell’esperienza personale degli autori, coadiuvati dalle voci dei testimoni e degli abitanti che forniranno un’interpretazione del territorio, della sua trasformazione e degli elementi alieni che proliferano tramite flussi di merci e di persone a provocare le contrazioni di spazi, come le loro estensioni, urbane e demografiche. Autori che esamineranno le strategie di conservazione monumentale e di “reinterpretazione delle rovine” viaggiando tra smart cities, improntate alla sicurezza digitale, che accentuano – costituendosi come ascensori e discensori sociali – la differenza nella struttura e nella mobilità urbana tra periferie e downtown. Esploreranno i luoghi di aggregazione attorno allo scambio di merci, come i mercati popolari e i centri della grande distribuzione, cercheranno di illustrare il cambio di destinazioni d’uso che prelude ai grandi progetti di infrastrutture e di conseguenza l’impatto sul tessuto urbano. Impossibile non collegare a tutto ciò i flussi migratori, con l’inclusione di nuovi arrivi e l’evoluzione della loro tipologia e l’eventuale marginalizzazione dei migranti – interni o esterni che siano; a cui si correlano anche l’esclusione di massa e lo svuotamento di aree, le ghost-town e i quartieri già progettati e costruiti come ghetti, o la gentrificazione causata da interessi immobiliari.
Gli autori di questa serie ci porteranno per mano nei loro luoghi del cuore, come guide capaci di farci sentire l’atmosfera delle città, permettendoci di intuirne realmente le attuali peculiarità senza dimenticare la Storia passata per quelle strade.

Clicca qui sotto sul nome della città per approfondire



Già Visibili in libreria


GERUSALEMME NAIROBI FREETOWN LUSAKA BANGKOK BRAZZAVILLE BOBO-DIOULASSO

In questa sezione venite indirizzati a materiali e indicazioni inerenti ai volumi già pubblicati nella collana dedicata alle città rese visibili attraverso la penna e gli occhi di autori che conoscono bene il genius loci di ciascuno di quei territori che han dato luogo a quella realtà urbana identificata dal nome della città in copertina.



Visibilità ancora in preparazione


ISTANBUL BEIRUT BUENOS AIRES BAMAKO PECHINO KIGALI PANAMÁ y COLÓN

La produzione di un libro proviene da un lungo percorso di individuazione della città che può suscitare interesse all’interno della collana, del suo potenziale autore e poi lo sviluppo del testo a seguito della raccolta degli argomenti e delle testimonianze, delle immagini e delle mappe da integrare. Ma anche del confronto e della elaborazione della sostanza che sta costituendo la base del futuro volume in via di realizzazione. Queste sono per ora le città su cui abbiamo cominciato a focalizzare la nostra attenzione e che sono già state affidate alla penna di esperti conoscitori di quelle comunità urbane.

Intanto traspaiono potenziali visibilità altrove…


Esistono poi situazioni urbanistiche e di agglomerazione umana particolarmente interessanti e che non riusciamo ancora a ricondurre a un formato editoriale di pubblicazione da proporre in libreria. Però assumono già una forma tale che… racchiudono già in embrione una… svolgono una narrazione riconducibile a… colgono una particolare situazione metropolitana che… riteniamo abbiano diritto a venire divulgate in questa sezione delle nostre proposte. Insomma finiscono con l’essere tutte collegate dal filo rosso della abitabilità di un territorio, dallo sviluppo della forma “città” e potrebbero contenere in sé un’idea che informa l’intera superficie metropolitana a cui ricondurre magari una nuova impresa libraria.

Per ora aggiungiamo queste suggestioni al dossier dedicato alle comunità urbane, come proposte di lettura collaterali ai volumi:

_ L’ultimo racconto di Diego Battistessa si dipana tra Savador de Bahia, Liverpool/Mancheser e prende spunto da Gorée/Saint-Louis. Il Triangolo del Mercantilismo

_ Avevamo cominciato con le favelas brasiliane. Il racconto di Diego Battistessa si dipana tra Rio de Janeiro, São Paulo e Brasilia

_ E proseguito con il 40ennale della costituzione di Yamoussoukro, la capitale della Costa d’Avorio, descritta da Angelo Ferrari e fortemente voluta da Boigny

400 anni di modello geopolitico schiavista

_ Per fondare un Capitalismo duraturo bisogna “scoprire” territori da “colonizzare” esterni al mondo regolato da diritti, i cui abitanti vanno deumanizzati per motivare la loro schiavizzazione.
E questo è stato perpetuato dal sistema negli ultimi secoli con poche varianti, dettate soprattutto dalle esigenze della tecnologia e dalle richieste di beni da depredare e di genti da sfruttare.

_ La terra dei caporali: dovunque lo schiavismo perpetua il suo orrore c’è un Eichmann che obbedisce?
Quando Diego ci ha proposto di analizzare questa triangolazione di porti nel colonialismo storico abbiamo pensato che poteva essere utile individuare in quali meccanismi il capitalismo si è andato perpetuando fin dalle sue basi date dall’allargamento dei potenziali mercati di merci e braccia con le scoperte geografiche della modernità (che non a caso viene datata da quel periodo di nuove tecnologie come la polvere da sparo, e le nuove rotte marittime più convenienti), adattandoli via-via alla “tecnologia” più attuale che sostiene la logistica da un lato – tracciando le rotte –, e quali organizzazioni possono sovrintendere all’approvvigionamento di manodopera schiavizzata nell’interno, che si avvale di percorsi paralleli o subalterni alle stesse vie battute da armi, droga, merci grezze dall’altro. Questi sono i meccanismi innaturali che tengono in piedi il capitalismo, senza i quali quel sistema energivoro e oligarchico non potrebbe reggersi. E l’operazione di Diego funge molto bene da memoria di quel che è stata la culla dell’attuale sfruttamento globale della migrazione, ma anche a rievocare quegli stessi meccanismi inventati con il mercantilismo e che regolano tutt’ora economia, politica e morale.
Ovviamente maggiore è l’investimento e la conseguente copertura degli stati-nazione, più ampi sono gli interessi e più si allarga il coinvolgimento finanziario, incontrastabile anche se nocivo quando la soglia del capitale profuso supera il livello di rischio di rientro qualora l’operazione fallisse: sia essa incentrata su estrazione, sfruttamento, riduzione in schiavitù, saccheggio e occupazione di territorio, ammantato da regole di controllo commerciale adattate agli stati più potenti. E tuttora diversamente – ma non meno ferocemente – coloniali, a cominciare dall’apartheid israeliano.

_ Saccheggio e debito infrastrutturale: le triangolazioni imperialiste descritte dal presidente del Burkina Faso Ibrahim Traoré sembrano – nel tentativo di collegarsi all’insegnamento anticoloniale di Sankara – ricalcare le stesse impronte triangolari su cui si fonda il capitalismo dal mercantilismo Secentesco in poi, che è l’argomento di questa serie di articoli di Diego Battistessa attorno a tre città: Salvador de Bahia, Gorée/Saint-Louis, Liverpool/Manchester.
La triangolazione si ripete identica con i medesimi meccanismi del mercantilismo emerso con la nascita dell’epoca industriale, perché il depauperamento dei territori di provenienza è prodotto dal saccheggio delle risorse da parte del capitalismo globale che attinge ai beni africani attraverso l’estrattivismo e impone infrastrutture che creano debito per paesi che sono così schiacciati dalla finanza mondiale; attraverso l’ipocrisia della Comunità europea che stanzia fondi contro la fame e poi sottrae ai pescatori proprio di Saint-Louis i prodotti dell’Oceano per farne mangimi per salmoni destinati a tavole non esattamente affamate (film di Francesco De Agustinis, Until the end of the world); lasciando “sgocciolare” soltanto la gestione della manodopera ai livelli inferiori di mera manovalanza mantenuta nella miseria e marginalità – e in alcuni casi nemmeno quella –, in modo da essere spinta a emigrare nella terra dei caporali dove il marchio “clandestino” cancella i diritti, riproponendo il modello dell’apartheid; e dovunque abbassa i livelli di contrattazione delle classi lavoratrici. Una migrazione gestita attraverso le organizzazioni di intermediazione che usano gommoni quando va bene, se non scafi assemblati con saldature di pezzi di acciaio, imbarcazioni assimilabili alle galere dello schiavismo seicentesco. Ma più pericolose.

_ Meglio le stive delle galere di quelle dei barconi? Una tratta gestita da scafisti africani, ma organizzata grazie alle leggi degli europei che realizzano le condizioni perché i padroni possano usufruire di manodopera schiava a basso o nullo costo, facendo finta di chiudere le frontiere per lasciar passare solo i sopravvissuti tra i disperati pronti a tutto e privi di diritti, senza documenti e quindi inesistenti come umani: non pesano in nessun bilancio di spesa e nella stessa condizione degli africani deportati in America sulle galere.

_ Capitali europei, merci esotiche… schiavi africani. Forse per seguire il bandolo storico della matassa ordita da Diego Battistessa si può partire da Liverpool, dove si sono stanziati i denari per armare i vascelli, usando i proventi derivanti dal commercio di schiavi – e, se ci si chiede ancora come sia stato possibile che una cultura come quella inglese (in grado di pensare di ripulirsi la coscienza riconoscendo in un museo le sue colpe, esibendole e così annientando nuovamente la cultura africana, collocata in bacheca e resa innocua) abbia potuto ordire una tratta così razzista, bastano le immagini di agosto 2024 che ritraggono i fanatici sovranisti britannici impegnati nel loro sport preferito, la caccia all’emigrato.


Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

Anche se, mettendo al centro la manovalanza, salpare da Gorée (o meglio Saint-Louis) è probabilmente il moto più immediato, perché viene umanamente spontaneo seguire il destino dei deportati africani.


Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

O piuttosto considerare centrale Bahia, dove si assorbiva la manodopera schiavizzata e si caricavano preziose merci per i porti occidentali… Liverpool/Manchester in testa, a chiudere il cerchio di The Birth of a Capitalism (per parafrasare il film di Griffith, forse il più nazionalista, e razzista, della storia del cinema).


Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda

Sta di fatto che l’importanza dei porti lievita con l’apertura di rotte commerciali globali che spostano sugli oceani gran parte del commercio dell’interno, che si configura come percorso per raggiungere il porto attrezzato più vicino e competitivo. Infatti questa triangolazione documentata da Diego Battistessa si inserisce in un sistema che creò molte altre triangolazioni e tutte si vanno conglobando all’interno di un unico sistema che sullo Schiavismo costituì (e continua a costituire) l’embrione dello sfruttamento globale chiamato Capitalismo.


Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda

Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

Le grandi capitali senza storia 

Capitali: sono le città che ospitano le sedi del governo di uno stato. Spesso sono rappresentative anche dello spirito del paese che le ospita, quando non capita è perché sono frutto di una operazione artificiale. Abbiamo già considerato l’atto di erigere capitali dal nulla, in particolare dando un quadro del sistema di potere militare birmano con la capitale Naypyidaw; oppure con la altrettanto spettacolare Brasilia –  comunque in questi 60 anni di “vita” maggiormente percorsa dalla Storia, non foss’altro perché il visionario che le ha insufflato lo spirito si chiamava Niemeyer.

Tutti esempi accomunati dalla pretesa di imporre una agglomerazione dove manca la comunità, tenuta insieme da cultura, storia, riconoscimento nazionale, riferimento amministrativo e commerciale, vie e snodo di traffici… tutte prerogative mancanti a Yamoussoukro

Tutto questo è sviluppato da Angelo Ferrari che coglie l’occasione del quarantesimo anniversario della hybris di Boigny, che volle far assurgere il suo villayet avito al rango di grande capitale. Ma ciò che non può vantare una grande tradizione, non è stata attraversata dalla storia o non può vantare grandi produzioni culturali è destinato a trasmettere un senso di vacuità, di artificioso e una freddezza che deriva dalla mancanza di sostrato culturale e di storie. Oltre che di Storia. Questa la descrizione di una capitale – Yamoussoukro – voluta dal dispotico padre della patria ivoriana.  


Yamoussoukro

Favelas nelle città

Favela: una parola brasiliana che oramai è entrata nel nostro lessico e nell’immaginario collettivo. Sei lettere che descrivono un luogo che abita una dimensione marginale, periferica e volontariamente dimenticata dallo stato. Favelado/a colui o colei che è costretto a una (non) vita nella favela.
La spinta all’industrializzazione dell’Estado Novo di Getúlio Vargas trascinò centinaia di migliaia di migranti nell’ex Distretto Federale all’interno del disegno del Estado Novo, creando un’esplosione delle baraccopoli, il cui nome istituzionale era ormai diventato favelas.

La sconfitta delle elite pauliste a livello nazionale con la dittatura di Getulio Vargas non portò però a uno stop di quell’impulso che trasformò completamente il volto urbano di São Paulo, coprendo i terreni delle vecchie fazendas con nuovi e moderni quartieri e proiettandosi verso un grande salto industriale che si sarebbe pienamente compiuto durante la Seconda guerra mondiale. São Paulo aveva già iniziato dunque quel cammino che l’ha portata oggi a essere la città più popolosa del Brasile e suo vero centro economico e finanziario. Negli stessi anni in cui a Rio de Janeiro, l’amministrazione pubblica istituzionalizzava le favelas, a São Paulo entrava in scena il futuro, sotto forma di un edificio oggi iconico, Esther…

Negli anni Quaranta su Rio si riversò un potente flusso migratorio. Su questi migranti stava però per abbattersi una nuova grande “disgrazia” economica, manifestatasi sotto il nome di Brasilia. Progettata infatti come una metropoli futuristica nel mezzo della pianura dello stato del Goiás, Brasilia fu inaugurata il 21 aprile 1960 dall’allora presidente Juscelino Kubitschek.

Un Brasile che viaggiava dunque a due velocità e che negli anni Settanta, con la dittatura militare, inaugurò un progetto politico di sradicamento della favela: furono cacciati fisicamente dalle loro case centinaia di migliaia di residenti. Durante l’amministrazione di Carlos Lacerda, molti furono trasferiti in progetti di edilizia popolare come Cidade de Deus.

Negli anni Ottanta si assistette invece allo scoppio della violenza associata al fiorente commercio di droga, che aveva fatto diventare le metropoli snodi logistici molto importanti per i carichi di cocaina destinati all’Europa. Le favelas, luoghi nei quali lo stato non esisteva, si riempirono di armi e lo spazio lasciato vuoto dalle istituzioni venne presto riempito da gruppi criminali.

Le favelas in Brasile, possono essere caratterizzate con ordini di grandezza diversi a seconda per esempio della densità demografica o dello sviluppo urbano delle stesse: in estensione verticale sulle colline (come quella di Vidigal a Rio de Janeiro) o in estensione orizzontale (come Cidade de Deus a Rio de Janeiro o Paraisópolis a São Paulo, in modo paradossale perché a ridosso di un’estensione verticale di un grattacielo di lusso al di là del muro – apparentando questo dossier con quello che OGzero va sviluppando sulle Barriere).

La tensione tra le due dimensioni abitative della città, quella delle favelas e quella “ordinata” del Brasile proiettato nel futuro, rimane alta. Un esempio di questo è il Parco Nazionale di Tijuca, situato nella zona Sud di Rio de Janeiro, considerato la più grande “foresta urbana” del mondo e dichiarata Riserva della Biosfera dall’Unesco nel 1991. L’integrità di quest’area è stata minacciata dall’avanzare degli insediamenti informali, che sono cresciuti esponenzialmente sulle pendici delle montagne e delle colline che formano il Parco Nazionale.

Il 19 novembre 2008 nella città di Rio de Janeiro venne installata la prima UPP – Unità di Polizia di Pacificazione, il germe di un nuovo paradigma di presenza militare del governo in aeree fino a quel momento completamente dimenticate. Da quella cultura repressiva sono usciti quelli che hanno ucciso Marielle Franco, filha da Maré (figlia carioca della favela Maré). Marielle come Carolina Maria de Jesús, voce afrobrasiliana delle favelas paulista che negli anni Sessanta prese letteralmente “a pugni” il Brasile e il mondo squarciando il velo che copriva le reali condizioni di vita dei favelados.

Tutto questo è sviluppato da Diego Battistessa in un flusso analitico e narrativo che abbiamo cadenzato nelle 6 pagine accessibili attraverso i pulsanti che trovate qui


RIO DE JANEIRO SÃO PAULO BRASILIA CIUDADE DE DEUS PARAISÓPOLIS ROCINHA MARÉ GÁVEA CANINDÉ RECIFE

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]]> n. 18 – Tra monti e boschi alpini. La frontiera che uccide (I) https://ogzero.org/la-frontiera-che-uccide-tra-monti-e-boschi-alpini/ Wed, 16 Mar 2022 12:40:27 +0000 https://ogzero.org/?p=6761 Movimenti secondari dei flussi migratori si riscontrano, oltre che tra Francia e Inghilterra, anche in prossimità dei confini italo-francesi, più specificatamente in Alta Val di Susa e a Ventimiglia. Nella frontiera Nordovest dell’Italia con la Francia si registra un’importante corrente migratoria che ogni anno nell’ultimo triennio ha visto il transito di circa 100.000 persone e […]

L'articolo n. 18 – Tra monti e boschi alpini. La frontiera che uccide (I) proviene da OGzero.

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Movimenti secondari dei flussi migratori si riscontrano, oltre che tra Francia e Inghilterra, anche in prossimità dei confini italo-francesi, più specificatamente in Alta Val di Susa e a Ventimiglia. Nella frontiera Nordovest dell’Italia con la Francia si registra un’importante corrente migratoria che ogni anno nell’ultimo triennio ha visto il transito di circa 100.000 persone e che si intensifica proprio in questo periodo dell’anno quando le temperature cominciano a essere meno rigide. All’atmosfera turistica incantata di chi ama sciare si sostituisce a partire dal tardo pomeriggio e per tutta la notte, la contrapposta quotidiana sofferenza e la fatica di migliaia di migranti – soprattutto famiglie – che percorrono gli stessi luoghi a piedi, sfiancati da temperature che in inverno toccano circa i 15 gradi sotto lo zero; privi d’equipaggiamento da montagna con abiti logori e indossati da giorni se non da mesi. Fabiana Triburgo e Matthias Canapini uniscono le loro competenze e i loro materiali in questo articolo, corredato dalle testimonianze raccolte da Matthias nella sua esperienza lungo il confine italo-francese.


 The Milky Way, per pochi

È il tentativo disperato di chi prova a raggiungere la Francia attraverso le località sciistiche italiane per evitare di essere intercettato e rimandato indietro dalla polizia italiana e francese. I due stati infatti, anche in questo caso – come già visto nei precedenti articoli riguardanti le attuali rotte migratorie – nel 1997 hanno siglato un importante accordo di cooperazione bilaterale, l’accordo di Chambery, sul quale ci soffermeremo in seguito, al fine di agevolare le riammissioni dalla Francia all’Italia. I migranti che attraversano tale rotta sono prevalentemente afgani, iraniani, pachistani e in piccola percentuale migranti provenienti dall’Africa subsahariana e arrivano, nella quasi totalità dei casi, dalla rotta balcanica: questo vuol dire che prima di raggiungere l’Alta Val di Susa i migranti possono aver attraversato circa otto diverse nazioni quasi esclusivamente a piedi.


Luigi D’Alife, regista di The Milky Way, lavoro che documenta e racconta
il passaggio della rotta migrante dalla Valsusa; Luigi ha fornito preziose
informazioni per l’estensione di questo saggio.

Spesso gli stessi nuclei familiari dei profughi si sono generati durante il transito di tali paesi essendo il loro precedente viaggio durato – nella migliore dell’ipotesi – almeno quattro anni, come narrano le testimonianze e le immagini del freelance Matthias Canapini che pubblichiamo in questo articolo.

Il principale snodo della cosiddetta “rotta alpina” si individua nella città di Oulx in provincia di Torino – raggiunta dai migranti per lo più con il treno – dalla quale poi si sviluppa un ulteriore bivio di transito per raggiungere la città francese di Briançon dalla quale dista circa 30 km. I profughi, infatti, dalla città di Oulx si dirigono a piedi o verso Bardonecchia, per poi attraversare il traforo del Frejus con filobus o con il treno – soprattutto quanti possiedono documenti di riconoscimento – oppure si dirigono verso Claviere sempre in provincia di Torino, a oggi il tratto maggiormente praticato dai migranti su tale rotta – per poi attraversare il Colle del Monginevro. Se dunque la destinazione di entrambi i percorsi è la città di Briançon è altrettanto vero che anche questa non è altro che una prima tappa, pur se finalmente in territorio francese, per raggiungere principalmente Lione o Calais con l’obiettivo rispetto a quest’ultima (come già riscontrato) di raggiungere la Gran Bretagna.

La casa cantoniera occupata e sgomberata più volte dagli sbirri italiani

Chez JesOulx era la casa cantoniera occupata (e poi sgomberata) dopo che l’accoglienza del rifugio autogestito era stata scacciata dai locali della curia occupata nel comune di Oulx

Va specificato che solo una parte dei migranti che transitano per Oulx ha come fine ultimo quello di stabilirsi in Francia perché nella maggior parte dei casi la meta finale è la Germania nella quale vivono stabilmente molti dei familiari dei profughi da diversi anni.

Il Colle dell’Agnello

Non è tuttavia da ignorare un altro percorso quello del Colle dell’Agnello, poco battuto per la sua elevata impraticabilità, ma in prossimità del quale le intercettazioni da parte della polizia francese, data proprio l’ostilità del territorio, sono molto sporadiche. La rotta nasce ufficialmente nel 2017, due anni dopo quella, sempre al confine italo-francese, che interessa la città di Ventimiglia. In realtà già nel 2016 alcuni migranti erano stati intercettati in prossimità del monte Chaberton in Francia e scambiati per turisti. Se dunque la rotta si delinea nel 2017 e nel 2018 raggiunge il suo apice – quando si “apre” la rotta balcanica e anche attraverso Trieste si arriva in Italia – in essa è altrettanto importante delineare una rilevante mutazione del suo originario tratto di percorrenza che a oggi non segue più l’originario pericoloso percorso di montagna del Colle della Scala (in prossimità della città di Bardonecchia) – in quanto soggetto a slavine e interamente  in salita – ma, come già detto, quello del Colle del Monginevro.

Rifugi e marauders

Nella rotta vi sono a ogni modo due importanti centri di accoglienza per i migranti in transito: nella città di Oulx il rifugio Fraternità Massi – Talita’ Kum aperto dalle 16 alle 10 del mattino con a disposizione circa 40 posti, e a Briançon, il Refuge Solidaire, rispetto al quale più volte è stato richiesto dalla municipalità lo sgombero. Invece è chiusa la casa cantoniera abbandonata e autogestita da volontari sempre nella città di Oulx che ospitava dai 30 agli 80 profughi al giorno e che da settembre a dicembre del 2020 ha accolto 3500 persone. Interessante capire come sia nato il Refuge Solidaire essendo il presente articolo immediatamente successivo a quello relativo alla rotta della Manica. I primi interventi di accoglienza dei migranti a Briançon sono infatti stati attivati nel 2015 proprio per i migranti di Calais quando il governo francese chiese alle altre città del paese di farsi carico della accoglienza in seguito allo smantellamento della Jungle. A Briançon quindi fino al 2017 stazionavano pochi profughi provenienti da Calais ma nello stesso anno con lo strutturarsi della rotta alpina nasce il Refuge Solidaire grazie anche all’intervento di Médicins du Monde che ancora oggi opera in loco insieme ad altre associazioni tra cui Rainbow for Africa. L’attività che si affianca all’accoglienza del Refuge Solidaire e che non può essere ignorata è quella svolta dai marauders: circa 200 volontari provenienti da tutta Europa che quotidianamente si occupano di prestare soccorso ai migranti che si perdono nei sentieri in montagna o riportano ferite gravi agli arti in seguito a cadute dovute al territorio impervio e che chiaramente non consentono loro di proseguire il viaggio rimanendo intrappolati nella rotta. Spesso i marauders, agevolando il transito dei migranti e soccorrendoli, sono sottoposti a comportamenti vessatori subendo multe, accuse e convocazioni a comparire davanti alle autorità francesi.

la frontiera che uccide

Claviere, protesta per Blessing, la giovane donna scomparsa dal 7 maggio nelle acque del fiume (foto Matthias Canapini).

Occorre, inoltre segnalare il lavoro della rete del progetto Cafi “Coordination d’actions aux frontièrs intérieures”, del quale fa parte anche Amnesty International e Médecin Sans Frontieres che da diversi anni svolge attività di osservatorio quotidiano permanente sul rispetto dei diritti dei migranti alle frontiere interne all’Unione in questo caso specifico in prossimità degli snodi Oulx-Monginevro-Briançon.

Accordi Italia-Francia

Tale attività risulta particolarmente importante perché documenta i respingimenti ossia il “Refus d’entrée” che viene notificato ai profughi dalla polizia francese (Paf) alla frontiera, sotto la direzione del ministero degli Interni. Risulta necessario quindi procedere all’analisi giuridica relativa ai motivi che sottendono alla cooperazione delle forze di polizia dei due paesi alla frontiera, alla militarizzazione della frontiera francese e alla sospensione dell’applicazione di alcuni articoli del Codice frontiere Shenghen – ossia del regolamento 2016/399 da parte della Francia. Come già accennato l’Italia e la Francia il 3 ottobre del 1997 hanno concluso l’Accordo bilaterale di Chambery, al fine di intensificare la cooperazione degli uffici di polizia e di dogana nelle rispettive zone di frontiera, garantendo comunque la libertà di circolazione sancita dal Codice Shengen ma non certamente per i cittadini dei paesi terzi anche nelle ipotesi in cui siano dotati di documenti.

Tale principio invece – è bene ricordarlo – ha valenza tanto per i cittadini europei che per i cittadini di paesi terzi dell’Unione ma comunque presenti sul territorio europeo.

Conformemente a tale intento sia da parte italiana che da quella francese sono stati costituiti dei Centri comuni di Cooperazione di polizia di frontiera e di dogana che realizzano la propria attività di diretta collaborazione mediante appositi uffici dislocati in prossimità dei luoghi di frontiera tra i due paesi e all’interno dei quali può essere chiesto da ciascuno dei due stati contraenti, l’ausilio delle forze di polizia dell’altro paese sul proprio territorio. È importante fin da subito precisare che la creazione di tali Centri di Cooperazione è prevista nel testo dell’accordo in due luoghi specifici: nella città di Ventimiglia e nella città francese di Modane vicina allo snodo migratorio proveniente da Bardonecchia.

Migranti risalgono i boschi al confine tra Francia e Italia (foto Matthias Canapini)

Uno dei punti maggiormente preoccupante del presente accordo è quello “nascosto” in modo subdolo nella lettera a) dell’art. 8

ossia che nei Centri di Cooperazione gli agenti di polizia di entrambi i paesi si impegnano «al compimento degli atti precari e alla consegna delle persone in situazione irregolare nel rispetto degli accordi vigenti». È evidente infatti come in questo passaggio si possa scorgere il “fondamento giuridico” (?!) sulla base del quale i due stati realizzano le cosiddette riammissioni con respingimenti dei migranti dalla Francia all’Italia che come noto si determinano a catena fino al confinamento dei migranti in stati terzi dell’Unione. Come al solito dietro l’enunciato «situazione irregolare» si è consapevoli che si nasconda la posizione dei richiedenti asilo che sono irregolari per definizione dovendo essere messi nella condizione – in base alle Convenzioni Internazionali come quella di Ginevra – di poter fare ingresso nel paese di destinazione per formalizzare la domanda di protezione internazionale mediante la quale quindi possono eventualmente ottenere un permesso che sancirebbe la propria regolarità di soggiorno, in questo caso uno stato membro dell’Unione. Come evidente, tale accordo riproduce quello che già è stato analizzato per l’accordo di cooperazione franco-britannico di Le Touquet in relazione alla rotta della Manica: anche in questo caso infatti si sancisce che la vigenza dell’accordo debba considerarsi a tempo indeterminato.

Controllo e sicurezza (!?)

L’art. 10 dell’Accordo di Chambery inoltre specifica che per la Repubblica Italiana sono considerate zone di frontiera le province di Aosta, Cuneo, Imperia e Torino mentre per la Repubblica francese le Alpi Marittime, dell’Alta Provenza, le Alpi Alte, quella della Savoia e dell’Alta Savoia. Ciò che è altrettanto destabilizzante è il binomio continuo nel testo tra le frasi “controllo delle frontiere” da parte delle due forze di Polizia e il termine “sicurezza”, come al solito. Non solo, nell’art. 8 lettera c) dell’Accordo di Chambery si fa puntualmente riferimento al «coordinamento delle misure congiunte di sorveglianza nelle rispettive zone di frontiera»: un enunciato che inevitabilmente si pone in contrasto con il Codice delle frontiere Shengen.

la frontiera che uccide

Claviere, posto di controllo della polizia italiana (foto Matthias Canapini).

Le frontiere interne infatti sono disciplinate al Titolo III – Capitolo I del Codice Shengen che secondo l’art. 22 «possono essere attraversate in qualsiasi punto senza che sia effettuata una verifica di frontiera sulle persone indipendentemente dalla loro nazionalità». Infatti, l’esercizio dei poteri di polizia da parte delle autorità competenti degli stati membri non viene considerato equivalente all’esercizio dei controlli di frontiera, solo ad alcune condizioni in particolare per esempio se «sono concepiti ed eseguiti in modo chiaramente distinto dai controlli sistematici sulle persone alle frontiere esterne» secondo l’art. 23 (iii). Nello specifico la reintroduzione temporanea del controllo di frontiera alle frontiere interne è disciplinata dagli artt. 25-35 contenuti nel Titolo III, Capitolo II del Codice Shengen. La Francia dal 2015 si è appellata alle «gravi minacce alla sicurezza interna» – citate nell’art. 25 – che hanno consentito il ripristino temporaneo dei controlli alle frontiere interne, dopo l’attentato terroristico al Bataclan nel 2015, e in seguito nel 2017 per lo choc di quello sulla Promenade des Anglais di Nizza e da ultimo per la diffusione del virus da Covid-19. Tuttavia, il Codice Shengen sancisce chiaramente all’art. 25, paragrafi 1, 2, 3, 4 che i controlli relativi alla libertà di movimento delle persone all’interno del territorio dell’Unione, debbano essere considerati un’extrema ratio ossia aventi caratteri di eccezionalità e pertanto devono essere attuati per un periodo iniziale di trenta giorni o della durata della minaccia, rinnovabile – «tenuto conto di eventuali novità» – per periodi di ulteriori 30 giorni ma per un periodo complessivo non superiore ai 6 mesi. Solo in circostanze di eccezionale gravità caratterizzate da una procedura specifica di cui all’art. 29 del Codice Shengen il ripristino dei controlli alle frontiere può arrivare a due anni. Tuttavia, come detto, la Francia ha ripristinato il controllo alle frontiere interne in particolare per quel che ci riguarda al confine italo-francese, da oltre 6 anni! È bene ricordare inoltre che l’adozione da parte di uno stato membro del ripristino del controllo alle frontiere interne debba essere notificato ai sensi dell’art. 27 del Codice Shengen agli altri stati membri e alla Commissione UE.

Tuttavia, come noto anche per altre questioni in ambito migratorio non solo le cattive prassi adottate superano le disposizioni legislative europee (e i trattati internazionali) senza che vi sia alcun richiamo di un organo istituzionale ufficiale dell’Unione al rispetto delle medesime, ma costituiscono addirittura “fonte di ispirazione” per nuove proposte di legislazione europea da parte della Commissione che hanno come obiettivo quello di rendere legittimo ciò che oggi è ancora illegittimo in modo da potere aggirare gli ostacoli dei ricorsi giurisdizionali dinanzi alle corti competenti.

Tutto ciò purtroppo è già realtà, considerato non solo il più volte citato nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, ma anche lo stesso Codice Shengen, dato che a dicembre del 2021 la Commissione Europea ha presentato una proposta di riforma del medesimo, adeguandosi alle pratiche illegittime (e se possibile, anche peggiorandole) adottate dagli stati membri per contrastare i flussi migratori attraverso i controlli ai confini.

la frontiera che uccide

«La frontiera uccide» (foto Matthias Canapini).

L’appello per la modifica delle politiche migratorie

Dell’analisi di tale proposta di riforma ci si soffermerà nel successivo articolo sulla rotta migratoria al confine italo-francese con la città di Ventimiglia; tuttavia va precisato che il fine di tali analisi giuridiche è soprattutto quello di non dimenticare le tragiche morti riportate anche su questa rotta come quella di Ullah Rezwan Sheyzad un ragazzo afghano di 15 anni trovato morto nei pressi dei binari della ferrovia di Oulx nel giugno del 2021 e di Fathallah Balafhail  un marocchino di 31 anni trovato senza vita non lontano da Modane, entrambi mentre tentavano di raggiungere Briançon.  La speranza è che la cieca politica della Commissione e degli stati membri non sia più complice di tali accadimenti: è necessario pertanto ribadire l’appello di diverse associazioni tra le quali AsgiMédicins du MondeDiaconia Valdese e Melting Pot Europa rivolto alle autorità italiane e francesi per la modifica delle politiche relative alla gestione delle frontiere interne e alle autorità locali dei due paesi affinché rispondano alle esigenze e ai bisogni dei migranti che transitano lungo i loro confini.

L'articolo n. 18 – Tra monti e boschi alpini. La frontiera che uccide (I) proviene da OGzero.

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n. 17 – Francia e Gran Bretagna: tra i due litiganti, il migrante muore https://ogzero.org/francia-e-gran-bretagna-tra-i-due-litiganti-il-migrante-muore/ Sun, 30 Jan 2022 18:08:12 +0000 https://ogzero.org/?p=6031 Prosegue la serie dedicata alle rotte dei migranti a cura di Fabiana Triburgo. Questo saggio evidenzia la natura fluida dei percorsi delle persone in movimento ed esamina una delle diramazioni battute, il Canale della Manica, dopo che hanno percorso le rotte principalmente attraversate, in arrivo da lontano, su una rete che si dipanerà sotto i […]

L'articolo n. 17 – Francia e Gran Bretagna: tra i due litiganti, il migrante muore proviene da OGzero.

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Prosegue la serie dedicata alle rotte dei migranti a cura di Fabiana Triburgo. Questo saggio evidenzia la natura fluida dei percorsi delle persone in movimento ed esamina una delle diramazioni battute, il Canale della Manica, dopo che hanno percorso le rotte principalmente attraversate, in arrivo da lontano, su una rete che si dipanerà sotto i nostri occhi e che dimostra quanto le politiche europee siano miopi rispetto ai meccanismi innescati da blocchi e respingimenti, e quanto siano pesanti le conseguenze, soprattutto tenendo conto – come sottolinea l’autrice – che questi eventi non si registrano nell’ambito di rapporti bilaterali tra una potenza occidentale europea e un paese terzo nel quale non viene di fatto assicurato il rispetto dei diritti fondamentali della persona, come la Libia o la Turchia, ma tra due potenze internazionali quali Francia e Gran Bretagna che da secoli si ergono a paladine della tutela dei diritti della persona, principio che hanno posto oltretutto come uno dei pilastri fondanti dei propri sistemi costituzionali.


La rotta migratoria, avente quale punto di partenza alcune città della Francia settentrionale, quali – per citare le più rilevanti – le aree intorno alla città di Calais, Boulogne e Dunkerque e come punto di arrivo la città di Dover nel Regno Unito è caratterizzata dalla presenza del canale della Manica che si frappone tra le località francesi e quella inglese che distano circa 40 chilometri tra loro o – se si considera la tratta marittima – circa 20 miglia. La rotta quindi se può essere indubbiamente definita “breve”, allo stesso tempo deve essere considerata altamente mortifera, non solo nell’ipotesi in cui venga percorsa mediante l’attraversamento marittimo, a causa delle forti correnti che contraddistinguono il canale della Manica, ma anche nel caso in cui i migranti optino per la percorrenza della via terrestre attraverso l’Eurotunnel. Molti infatti sono i migranti rimasti uccisi nel corso degli ultimi trent’anni nel tratto di autostrada che unisce Francia e Gran Bretagna, sia per asfissia nei tir, nei quali erano nascosti, sia per essere stati investiti dagli automobilisti nel disperato tentativo di chiedere un passaggio fino alla Gran Bretagna (come si legge su questo approfondimento di InfoMigrants).

È necessario pertanto soffermarsi su tale fenomeno per il dato – di non poco rilievo – secondo il quale lo scorso anno sono stati circa 28.000 i migranti arrivati nel Regno Unito percorrendo tale rotta, con un altrettanto elevato numero di dispersi al quale è doveroso aggiungere quello delle persone decedute durante l’attraversamento del canale.

Francia e Gran Breatagna

I resti di un naufragio nelle acque della Manica (fonte Notizie.it).

Francia e Gran Bretagna: la difesa di quali diritti?

Gli sbarchi nel solo 2021 sono triplicati rispetto all’anno precedente e pertanto occorre analizzare le ragioni sottese a tale mutamento. Ciò su cui occorre preliminarmente riflettere, con riferimento alla questione migratoria, è che in tale rotta – come vedremo – gli accordi, i milioni spesi per i finanziamenti per la “gestione” dei flussi migratori, i controlli alle frontiere, le violentissime repressioni perpetrate dalle forze di polizia e i respingimenti non si registrano nell’ambito di rapporti bilaterali tra una potenza occidentale europea e un paese terzo nel quale non viene di fatto assicurato il rispetto dei diritti fondamentali della persona, come la Libia o la Turchia, ma tra due potenze internazionali quali Francia e Gran Bretagna che da secoli si ergono a paladine della tutela dei diritti della persona, principio che hanno posto oltretutto come uno dei pilastri fondanti dei propri sistemi costituzionali.

La rotta per di più – è bene ricordarlo – non è da annoverarsi tra quelle di recente determinazione: essa nasce intorno agli anni ’90, più specificatamente durante la guerra nell’ex Jugoslavia.

Fino al 2015 Calais, la città francese contraddistinta ancora oggi da un basso tasso demografico e da un’alta percentuale di povertà tra i residenti, era l’unica città nella quale stazionava la quasi totalità dei migranti – centinaia ogni anno – che tentavano di raggiungere il Regno Unito e che venivano chiamati dalla popolazione locale “i kosovari”. Erano i tempi della cosiddetta Jungle di Calais, nella quale i migranti, stipati prevalentemente nei containers o nelle tende, “beneficiavano” comunque dell’accoglienza francese in attesa di compiere il tanto agognato viaggio verso la Gran Bretagna. Tra il 2015 e il 2016 la situazione cambiò repentinamente per cui, in esito allo scoppio della guerra in Siria e con la crescente instabilità politica di alcuni paesi del Medio Oriente e in ragione del peggioramento di alcuni scenari legati a perduranti conflitti in Africa, i migranti a Calais raggiunsero le oltre 10.000 unità. Per dirla secondo le parole del noto regista cinematografico e scrittore francese Emmanuel Carrère, autore del libro A Calais, uscito a seguito del reportage che realizzò recandosi personalmente nella cittadina francese nel 2016, la popolazione locale si preoccupò per l’ingente arrivo di quelli che definivano i “siberiani” – ossia, per dirlo in modo corretto, i siriani. Non è difficile immaginare la reazione di ostilità della popolazione locale rispetto a tale aumento dei migranti nella città che già versava in uno stato di sofferenza per la situazione economica e che– è giusto il caso di dirlo visto il richiamo a Carrère “come da copione”, cominciò a manifestare comportamenti fortemente razzisti e xenofobi, percependo l’aumento della presenza dei migranti come simbolo di un ormai precipitato dramma sociale locale.

 

È questo il periodo in cui la Jungle cominciò a essere smantellata attraverso gli sgombri violenti dei migranti da parte dei CRS, gli agenti antisommossa francesi, mediante la distruzione dei containers e delle tende (come riportato anche dai quotidiani italiani e da Amnesty International).

Vi è da questo momento in poi infatti una svolta tragica di questa rotta che finora non si è mai arrestata e rispetto alla quale si rimanda al recente rapporto di Human Rights Watch che analizza le condizioni in cui versano i migranti che stazionano nel nord della Francia e i trattamenti disumani ai quali sono sottoposti.

La Manica, la rotta secondaria

Gli agenti della polizia francese cominciarono dunque in questo periodo a impegnarsi costantemente nella distruzione degli accampamenti informali dei migranti, nella confisca delle tende, in retate notturne che li costringono ancora oggi a scappare più volte all’alba con le tende “sotto braccio”, al lancio di gas lacrimogeni e al disboscamento delle aree intorno a Dunkerque per impedire ai migranti di nascondersi, sottoponendoli così a una tortura psicologica assimilabile a quella già analizzata nell’articolo relativo alla rotta balcanica. Non è casuale tale richiamo poiché la rotta della Manica si contraddistingue per un altro aspetto ovverosia quello di essere una “rotta secondaria”. Infatti, prima di giungere nel Nord della Francia – essendo difficilmente la Francia un paese di primo arrivo – i migranti hanno già percorso altre rotte, prevalentemente quella del Mediterraneo centrale – recentemente analizzata su questo sito – e appunto quella balcanica, per cui arrivano in territorio francese in esito a viaggi estenuanti protratti per molti mesi, se non per anni, e molto tempo dopo aver lasciato il proprio paese di origine. In particolare, se la Francia, come visto, nel 2016 cominciò lo smantellamento dei campi governativi a Calais, dall’altra parte la Gran Bretagna nel 2018 – stanziando circa 2,7 milioni di euro – ha concluso la costruzione di un muro di cemento alto 4 metri e lungo 1 chilometro in prossimità dell’autostrada che unisce i due paesi (si occupò dell’argomento l’Atlante delle Guerre).

Francia e Gran Bretagna

Demolizione della Jungle di Calais nell’ottobre 2016 (foto Edward Crawford / Shutterstock).

Il Trattato di Le Touquet: durata illimitata

Come si registrò in molti altri paesi europei gli accordi per il contenimento dei flussi proliferarono dal 2015 e ciò avvenne anche per la corrente migratoria lungo la Manica ma in questo caso la sottoscrizione di un atto internazionale tra il paese di partenza, comunemente la Francia, e quello di arrivo, la Gran Bretagna, fu siglato già nel 2003 con il Trattato di Le Touquet (il testo, qui), a oggi ancora in vigore.

Prima di analizzare il trattato e gli effetti che su di esso ha avuto l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea mediante la Brexit, entrata in vigore il primo gennaio del 2021, è naturale interrogarsi su quale sia la ragione per la quale i migranti presenti in questa rotta, a oggi prevalentemente curdi iracheni, sudanesi ed eritrei, decidano in modo ostinato di rimanere sulle coste del Nord della Francia per giungere nel Regno Unito. I migranti invero prediligono tale destinazione poiché lì si trovano i familiari di precedenti generazioni a loro volta emigrate diversi anni fa: questo avviene soprattutto nel caso di migranti minori stranieri non accompagnati provenienti da paesi di origine interessati da conflitti di vecchia data. In altri casi la ragione è da rinvenirsi nel fatto che il migrante che risiede stabilmente in Gran Bretagna non ha comunque il reddito sufficiente per avanzare la domanda di ricongiungimento familiare, per cui l’unico modo per raggiungere il familiare è quello di tentare l’impresa lungo la Manica. Inoltre, non è da sottovalutare la conoscenza della lingua inglese che i migranti che transitano in tale rotta possiedono più di quella francese e infine la maggiore coesione tra i gruppi etnici nel Regno Unito rispetto alla Francia.

Il Trattato di Le Toquet del 4 febbraio 2003 tra Francia e Gran Bretagna costituisce la base normativa in conformità della quale sono state istituite strutture nazionali di controllo delle frontiere comuni ai due paesi nei porti marittimi della Manica e nel Mare del Nord destinate al transito delle persone oltre a quello dei veicoli e delle merci. Sono stati autorizzati pertanto gli agenti di polizia dei rispettivi paesi a svolgere le proprie funzioni in modo reciproco, ossia non solo nel territorio di propria appartenenza, ma anche sul territorio dell’altro stato. Il trattato è a favore prevalentemente del Regno Unito: più specificatamente con riferimento ai flussi migratori le norme dello stato di arrivo – principalmente la Gran Bretagna – relative ai controlli di frontiera, sono applicabili oltre che nel proprio territorio anche nelle zone di controllo di frontiera dell’altro stato. Ne discende che le violazioni delle medesime norme, pur se rilevate nel paese di partenza, vengono sanzionate ai sensi della legge dello stato di arrivo come se fossero commesse su tale territorio. È chiaro dunque che lo scopo del Trattato è quello di scoraggiare le partenze verso la Gran Bretagna. Oggetto delle verifiche effettuate da parte dello stato di arrivo nelle zone di frontiera istituite in Francia è la sussistenza, relativamente alle persone che vi transitano, delle condizioni e del rispetto degli obblighi previsti dallo stato di arrivo per il controllo delle frontiere. Gli agenti dello stato di arrivo infatti possono arrestare, trattenere e interrogare le persone che transitano nelle zone comuni debitamente preposte nello stato di partenza, prevalentemente la Francia, per effettuare controlli sull’immigrazione o nell’ipotesi in cui vi siano fondati motivi per ritenere che il migrante abbia violato una norma relativa ai controlli di frontiera.

La gestione del controllo

Nessun individuo tuttavia può essere trattenuto in tale aeree di controllo per un periodo superiore alle 24 ore prorogabile solo eccezionalmente per ulteriori 24. Tutti i controlli alla frontiera da parte dello stato di partenza normalmente devono essere effettuati sempre prima di quelli dello stato di arrivo. Per quanto attiene alla domanda di asilo o di altra forma di protezione internazionale il trattato stabilisce che, qualora venga presentata nel corso dei controlli effettuati dallo stato di arrivo ma nei luoghi di controllo delle frontiere dello stato di partenza, dovrà essere esaminata comunque dalle autorità di quest’ultimo, al quale oltretutto viene attribuita la responsabilità dell’allestimento delle strutture, degli alloggi di servizio e delle attrezzature per l’attuazione delle zone di controllo. Infine, è necessario sottolineare che il presente Trattato ha una durata illimitata con la facoltà per ciascuna delle parti di recedervi con notifica scritta all’altra parte in qualsiasi momento: in tal caso gli effetti del recesso decorreranno due anni dopo dalla data della notifica.

Dal 2021 con l’entrata in vigore del Brexit, in seguito al referendum del 2016 – a sua volta diretta conseguenza del referendum consultivo della Scozia del 2014 relativamente all’indipendenza dal Regno Unito – la maggiore preoccupazione del governo francese è che la dogana relativa all’attraversamento della Manica ritorni esclusivamente in territorio inglese lasciandolo da solo nella gestione dei controlli dei migranti presenti nel Nord del paese.

Allo stesso tempo la Gran Bretagna però, essendo uscita dall’Unione europea, non può più ricorrere al Regolamento Dublino (n. 604 del 2013). Il Regolamento – che come già detto fissa i criteri di individuazione dello stato membro competente a trattare le domande di protezione internazionale – è, secondo la gerarchia delle fonti (qui informazioni sull’ordinamento giuridico), norma di rango superiore rispetto alla legge interna di ratifica di un trattato internazionale, per cui fino al primo gennaio del 2021 le norme del Regolamento Dublino prevalevano su quelle del Trattato di Le Touquet, in special modo in merito alle richieste d’asilo. Sulla base di ciò la Gran Bretagna spesso ricorreva al Regolamento Dublino per rimandare indietro i migranti in Francia in virtù del presupposto che questi, prima di arrivare nel Regno Unito, avessero transitato sul territorio di un altro stato membro, ossia quello francese. Per questo motivo, sulla base del Trattato di Le Touquet, il Regno Unito nel 2021 una volta uscito dall’Unione ha promesso circa 62 milioni di euro alla Francia per il controllo dei flussi migratori lungo la Manica che tuttavia alla del fine 2021 non risultavano ancora versati. Quindi ad ottobre dello scorso anno il ministro degli Interni francese Darmanin ha invitato il Regno Unito a stanziare i fondi promessi e a negoziare con l’UE un trattato sull’immigrazione, appello che non ha avuto alcun seguito da ambo le parti (come si legge qui).

Infatti con la Brexit, oltre a essere aumentato notevolmente il costo del viaggio per i migranti, si sono inaspriti i rapporti tra i due paesi che si sono accusati reciprocamente: per quanto riguarda Il Regno Unito di non adempiere ai controlli dovuti e per quanto riguarda la Francia di procedere con i respingimenti senza valutare nel merito le domande d’asilo.

Fonte: Ispi.

Asilo impossibile

A peggiorare tale situazione è intervenuto il Sovereign Borders Bill, la proposta di legge sulla cittadinanza e sul diritto d’asilo nel Regno Unito, in conseguenza della Brexit, presentata dal ministro degli Interni britannico Priti Patel a luglio del 2021 dopo la concessione da parte di Westminster, nel novembre del 2020, di poteri legislativi eccezionalmente ampi al ministro degli Interni. Secondo tale proposta non solo l’ingresso nel territorio del Regno Unito – sprovvisti di documenti – integrerebbe una fattispecie di reato punita con la reclusione da 6 mesi a 4 anni, ma è previsto il maggior conferimento di poteri alla polizia di frontiera che potrà bloccare i migranti in mare e forzare i respingimenti – intensificando proprio quelli verso la Francia, qualora i migranti arrivino con barconi provenienti dalla Manica, nonché il rimpatrio per chi più genericamente arriva nel Regno Unito  transitando per paesi definiti “sicuri”. A tutto ciò va aggiunta la previsione del confinamento per i richiedenti asilo sprovvisti di documenti di ingresso nel Regno Unito su isole lontanissime come Ascension Island, a ben 6000 miglia da Londra o su piattaforme petrolifere fuori uso, in attesa che si decida in merito alla loro domanda d’asilo o sul loro respingimento. È chiaro quindi che se tale proposta di riforma venisse approvata dal Parlamento inglese diverrebbe quasi impossibile presentare la domanda d’asilo nel Regno Unito. Inoltre, la ministra degli Interni paradossalmente figlia di immigrati ma autrice di questo agghiacciante quadro normativo, si è spinta oltre prevedendo altresì la possibilità di creare centri di detenzione – sul modello australiano – in Papa Nuova Guinea, Marocco o Moldavia, ipotesi fortunatamente respinta dal ministro degli Esteri poiché ritenuta eccessivamente onerosa. Ciò che risulta oltremodo allarmante in ogni caso, anche se non stupisce particolarmente, è che tali politiche – pur essendo la Gran Bretagna uscita dall’Unione Europea – siano perfettamente in linea con quelle esplicitate nel nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo proposto della Commissione europea e con quelle di buona parte degli stati membri: in particolare vale la pena citare la Danimarca che, come noto, recentemente ha approvato una nuova legge che le consente di trattare le domande d’asilo fuori dal territorio dell’Unione (un approfondimento qui).

Benvenuti al Nord

Si arriva dunque al drammatico naufragio del 24 novembre 2021 che ha avuto un’eco internazionale (qui il report di Ispi) non soltanto per il numero dei migranti morti nella traversata nella Manica, 27 per la precisione con tre superstiti – tra le vittime sette donne, un adolescente e un bambino di sette anni – ma per le modalità del naufragio, essendo stati ritrovati i migranti a bordo di una piscina gonfiabile distrutta (dopo la lungimirante decisione di Decathlon, probabilmente su pressione del governo francese, di non vendere più le proprie canoe ai migranti) e per il comportamento probabilmente adottato dalle autorità di Francia e Gran Bretagna anche in questa circostanza come in passato che – quando contattate dai migranti nel Canale – hanno portato avanti un ridicolo e deplorevole teatrino di rimpallo di responsabilità.

Una volta arrivati al punto di non ritorno ossia alla strage di vite umane hanno dunque messo in atto la solita pantomima di cordoglio per quanto accaduto senza mancare anche in questa circostanza di sottolineare le responsabilità dell’altro stato. Francia e Gran Bretagna sono state prontamente richiamate per iscritto dal commissario del Consiglio d’Europa Mijatovic ma anche questo non ha impedito loro di continuare a battibeccare sulla questione migratoria.

Per cui dalle dichiarazioni sconcertanti del ministro degli Interni francese che ha sostenuto – rispetto a quanti hanno lamentato la presenza immobile dei soccorritori francesi mentre i migranti naufragavano – che i funzionari francesi in quel momento erano minacciati dagli stessi migranti di lanciare i bambini in mare se li avessero riportati indietro, si arriva alla “seria” comunicazione diplomatica su Twitter (?!) di rimprovero del presidente Boris Johnson – attualmente del tutto in panne a livello politico – rivolta al presidente Macron in merito all’accaduto.

Grazie a tale lettera “istituzionale” è stato ritirato dalla Francia l’invito alla ministra Patel al vertice con le istituzioni europee organizzato con alcuni paesi membri quali Belgio, Olanda e Germania per affrontare la questione dei flussi migratori nel canale della Manica e nel corso del quale c’è stata un’evidente sensibilizzazione sul tema, dato che è stata raggiunta la proposta “rivoluzionaria” di mandare quotidianamente dal 1 dicembre un aereo di Frontex a pattugliare giorno e notte il canale!

Inoltre, Londra a quel punto ha cercato e ottenuto un’intesa con il Belgio con il quale a fine novembre 2021 ha siglato un accordo di cooperazione con riferimento ai flussi migratori.

Quindi pur distaccandosi la Gran Bretagna dall’Unione ha portato comunque con sé la peggiore delle eredità delle sue politiche e qualora Westminster approvi il famigerato Bill di luglio si porrà in una posizione xenofoba in materia alla pari di alcuni dei paesi membri dell’UE appartenenti al gruppo di Visegrad. E la Francia? Purtroppo, nonostante i suoi ancestrali principi di libertà, fraternità, e uguaglianza difficilmente taglierà qualsiasi rapporto diplomatico con il Regno Unito per via della questione migratoria, rappresentando questo l’unico modo per controbilanciare nell’UE la posizione della Germania divenuta ancora maggiormente “ingombrante” dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea.

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Ucraina, frenetici dialoghi tra sordi https://ogzero.org/ucraina-frenetici-dialoghi-tra-sordi/ Fri, 28 Jan 2022 22:50:01 +0000 https://ogzero.org/?p=5994 Pubblichiamo il primo di due interventi di Yurii Colombo volti ad analizzare dal punto di vista geopolitico giochi di guerra e trattative in corso tra le varie diplomazie per la situazione in Ucraina: frenetici dialoghi tra sordi, ovvero silenzi prolungati nel secondo articolo. Un vecchio proverbio ucraino (conosciuto anche in Russia) dice che  “C’è un […]

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Pubblichiamo il primo di due interventi di Yurii Colombo volti ad analizzare dal punto di vista geopolitico giochi di guerra e trattative in corso tra le varie diplomazie per la situazione in Ucraina: frenetici dialoghi tra sordi, ovvero silenzi prolungati nel secondo articolo.


Un vecchio proverbio ucraino (conosciuto anche in Russia) dice che  “C’è un sambuco in giardino e uno zio a Kiev” per indicare quando tra due interlocutori non c’è nulla in comune, ognuno dice la sua e non ascolta l’altro. Un dialogo tra sordi, potremmo tradurre in italiano. Sarebbe questo il consuntivo di frenetiche settimane di incontri bilaterali, messaggi diffusi sulla stampa in codice agli avversari, scambi di accuse e naturalmente ammassamenti di truppe e war games tra Russia e Nato con al centro l’Ucraina e per certi versi il destino del vecchio (e malandato) continente.

La vecchia “dottrina Breznev”

Mercoledì 26 gennaio 2022, dopo i round di trattative dei primi giorni dell’anno a Ginevra, gli Usa hanno consegnato la risposta alla proposta di accordo fatta circolare pubblicamente dalla Russia già il 17 dicembre scorso e leggibile qui. Nella “bozza” del ministero degli Esteri russi si sosteneva che «La Russia e gli Usa […] non dovrebbero dispiegare le loro forze armate e armi in aree in cui tale dispiegamento sarebbe percepito dall’altra parte come una minaccia alla loro sicurezza nazionale» ma soprattutto si chiedeva alla Nato di escludere l’ipotesi un’ulteriore espansione verso Est. Si tratterebbe di una versione rivista e corretta della vecchia “dottrina Breznev” che prevedeva il riconoscimento di un’area di “influenza russa” nell’Est-Europa dopo l’invasione della Cecoslovacchia nel fatidico 1968. Ma se negli anni Settanta ciò implicava il riconoscimento del controllo degli stati d’oltre cortina da parte sovietica, ora a Mosca ci si accontenterebbe di impedire a Kiev e Tblisi di allearsi militarmente all’Occidente.

Per Putin l’Ucraina rappresenterebbe quella linea rossa da non superare che l’Alleanza Atlantica non dovrebbe varcare, pena la «rottura verticale delle relazioni».

Visto dalla Moscova il ragionamento non fa una grinza: negli ultimi 24 anni, 14 stati dell’Europa orientale hanno aderito alla Nato in barba alle promesse (a parole) che erano state fatte a Gorbačëv ai tempi dell’unificazione tedesca, e questa non solo bussa ora sul fronte occidentale ma rischia – in prospettiva – di infettare il Centro-Asia in particolare il Turkmenistan e l’Uzbekistan che dopo il disfacimento del Patto di Varsavia non hanno aderito all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva.

La risposta americana – per ora non pubblicata dal Cremlino – è stata interlocutoria. Il “New York Times” sostiene che gli Stati Uniti hanno proposto di rilanciare il Trattato sulle forze nucleari a medio raggio (Trattato Inf), dal quale si sono ritirati nel 2019. La pubblicazione dell’East Coast riporta la risposta degli Stati Uniti la quale «afferma chiaramente che la Russia non avrà potere di veto sulla presenza di armi nucleari, truppe o armi convenzionali nei paesi della Nato», ma «apre le porte a negoziati sulle restrizioni reciproche per quelle a corto e medio raggio». Il piano sarebbe quello di giungere ad accordi “realistici” compreso quello sui “cieli aperti” che con una certa leggerezza erano stati lasciati scadere dall’amministrazione Trump e che invece Joe Biden considererebbe imprescindibili per evitare crisi impreviste dell’ordine globale.

L’espansione della Nato verso est

Ma la trattativa in realtà è ancora più ampia. Andrey Kortunov, direttore generale del Consiglio per gli affari internazionali della Russia (Inac) ha sottolineato che un’altra componente necessaria degli attuali negoziati tra Russia e Occidente sulle garanzie di sicurezza dovrebbe essere il rinnovo del Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa (Cfe). «Dovremo sviluppare una nuova versione del Trattato Cfe, che dovrebbe certamente contenere la tesi di limitare l’espansione verso est della Nato. La nuova versione del Cfe dovrebbe contenere anche clausole relative ai droni e una serie di altri nuovi tipi di armi che non erano nel precedente trattato, firmato nel 1990», sostiene Kortunov.

Che questo sia il canovaccio – e buona sostanza della vera trattativa in corso tra le due potenze – lo si desume anche dalle parole di Sergey Lavrov, ministro degli Esteri russo, il quale ha stigmatizzato Washington sostenendo che sulla “ciccia” (ovvero lo stop all’espansione della Nato) non c’è “nessuna risposta positiva”. Allo stesso tempo però, il diplomatico russo, ha osservato che il contenuto della risposta degli Stati Uniti ci consente di contare su una discussione seria, ma su questioni secondarie. La decisione sugli ulteriori passi della Russia sarà presa da Vladimir Putin, ha precisato il ministro degli Esteri. E anche il Consiglio della Federazione ritiene che la risposta degli Stati Uniti contenga una volontà di compromesso in alcune aree. La replica americana in sostanza si condenserebbe in ciò che aveva affermato Jens Stoltemberg qualche ora prima e che era stato letto negativamente dalla City russa provocando una caduta poco piacevole del mercato azionario e del rublo. Era del resto anche quanto affermato da Biden il 20 gennaio: «L’adesione dell’Ucraina alla Nato è improbabile nel prossimo futuro. Per unirsi all’Alleanza, l’Ucraina deve fare molto lavoro dal punto di vista della democrazia e di una serie di altre cose». In linguaggio corrente significa che l’Ucraina dovrebbe abbandonare ogni richiamo alle ideologie neofasciste di Stepan Bandera sui cui tristemente in parte poggia oggi (invise alla Polonia e alla lobby ebraica a Washington) ma garantire la possibilità di un accesso limpido al suo mercato per gli occidentali, riducendo il tasso di corruzione interna.

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Armi Nato in arrivo in Ucraina.

Le minacce “ibride” di Putin

Come ha segnalato correttamente il politologo ucraino Volodmyr Ishchienko, lo stesso “Center of Defense Strategies”, un think tank ucraino guidato da un ex ministro della Difesa, «aveva affermato in modo persuasivo che qualsiasi invasione russa di massa con l’occupazione di grandi territori e grandi città ucraine è molto improbabile non solo nelle prossime settimane ma anche durante il 2022». Secondo Ishchienko «l’accumulo di truppe russe alle frontiere non è superiore a quello della primavera del 2021 e i preparativi logistici non sono nemmeno lontanamente al livello di sostenere un’operazione militare di questa portata. In tali condizioni tale operazione sarebbe semplicemente suicida per Putin, le minacce più realistiche dalla Russia nel breve termine sono di natura “ibrida”», come per esempio la ripresa in grande stile delle scaramucce nel Donbass.

L’obiettivo primario della campagna mediatica non sarebbe quindi probabilmente nemmeno l’Ucraina, ma la Germania e non solo.

Ci raccontano di questo del resto anche le dimissioni imposte al comandante della Marina tedesca Kay-Achim Schönbach dopo che aveva fatto coming out la settimana precedente sostenendo che «la penisola di Crimea non tornerà ai suoi legittimi proprietari». Aveva anche definito «una sciocchezza» che Mosca possa presumibilmente pianificare di destabilizzare l’Ucraina. Secondo lui, India e Germania hanno bisogno della Russia per contrastare la Cina. Schoenbach aveva chiosato persino affermando che il presidente russo Vladimir Putin vuole «rispetto alla pari» dall’Occidente, ed «è facile dargli il rispetto che chiede – e probabilmente – merita». La stampa tedesca più attenta ha commentato che il generale sarebbe caduto in un “trappolone”. Infatti le dichiarazioni “bomba” erano state rilasciate durante un discorso all’Istituto indiano per gli Studi e l’Analisi della Difesa intitolato a Manohar Parrikar (Idsa) a Nuova Delhi, cioè in uno dei paesi più interessati a mantenere una politica di appeasement tra Mosca e Washington.

Del resto forse basta uscire dall’Europa per percepire la crisi intorno all’Ucraina con tutt’altre lenti più segnate dalla Realpolitik e meno dalle ideologie correnti.

Tuttavia le affermazioni del capo della Marina tedesca – benché pronunciate a migliaia di chilometri da casa e proprio in quei giorni – non potevano non produrre reazioni forti e ciò rimanda alle contraddizioni presenti dentro la cancelleria tedesca e più in generale nei circoli teutonici del business. In primo luogo ovviamente la questione delle rotte energetiche di cui anche cittadini e imprese tedesche quest’inverno hanno potuto constatare l’importanza con il salasso dovuto all’aumento delle bollette del gas (+69% nel giro di un anno). Gazprom controlla una serie di impianti di stoccaggio del gas in Germania e in Europa. Naturalmente, in Europa, soprattutto nella sua parte orientale e centrale, temono che in caso di guerra in Ucraina e con l’imposizione di sanzioni “infernali” contro la Russia, Mosca possa chiudere completamente la valvola del gas come risposta. Come annota il moscovita “Expert” nel numero in edicola, «Berlino ha fatto investimenti molto cospicui nell’energia pulita, ma la transizione dai combustibili fossili alle rinnovabili è lenta e irregolare. Il gas nel bilancio energetico della Germania rappresenta ora circa il 25%. Con la chiusura delle centrali nucleari e delle centrali a carbone, questa quota aumenterà. La quota di gas nella produzione di elettricità lo scorso anno ha già superato la quota del 1990. Al gas russo oggi non c’è alcuna alternativa».

Mosca, l’insegna della Gazprom svetta sui palazzi governativi russi (foto Aleksey H / Shutterstock).

Alleati e rivali europei

Ma non si tratta solo di “North Stream 2” a cui a Berlino in fin dei conti non vorrebbe rinunciare, ma anche del ruolo dell’Europa in una trattativa in cui il pallino sembra finito in mano americana. Qui però la Germania trova un alleato – ma anche rivale – nella Francia, che in questi giorni ha esibito iniziative autonome in incontri bilaterali con Putin. Andrey Kortunov, direttore generale del Consiglio per gli Affari internazionali della Russia è convinto che «la questione ucraina va considerata principalmente nel contesto delle elezioni presidenziali di aprile in Francia. Macron, nell’ambito della campagna elettorale, convincerà tutti che può diventare il leader d’Europa, avendo uno scenario per risolvere i problemi con l’Ucraina. Dirà che Parigi ha il diritto di guidare il dialogo con Mosca e che queste tradizioni sono state stabilite sotto De Gaulle». Non è solo la vecchia idea dell’Europa da Vladivostock a Lisbona che trovò proseliti anche nella destra neonazista europea degli anni Sessanta a tornare in auge, ma anche un rilancio del confronto tra locomotiva franco-tedesca e carro di Visegrad sull’approccio da tenere con Putin. Il Formato Normandia probabilmente ripartirà anche se i russi si sono convinti che senza l’adesione formale anche degli Usa (a cui si sono detti favorevoli) non si faranno dei grandi passi avanti.

La Croazia fuori dal coro

Che non tutta l’Unione europea si pronta a mettersi in fila indiana dietro Biden è saltato all’occhio con la posizione assunta durante la crisi dalla Croazia.Il presidente Zoran Milanović ha sostenuto che se il conflitto tra Russia e Ucraina crescerà, il paese ritirerà i suoi militari dal contingente Nato nella regione. Ha sottolineato anche che la Croazia non ha nulla a che fare con ciò che sta accadendo tra i due paesi slavi, e ha collegato la situazione stessa al rinnovato attivismo dell’amministrazione statunitense in chiave elettorale visto che inesorabilmente si avvicinano le elezioni di mid-term. Ciò che sta succedendo per Zagabria «non ha niente a che fare con l’Ucraina o la Russia, ha a che fare con le dinamiche della politica interna americana… nelle questioni di sicurezza internazionale vedo un comportamento pericoloso. Non solo la Croazia non invierà, ma in caso di escalation richiamerà fino all’ultimo soldato croato. Fino all’ultimo!».

Il presidente croato ha avuto parole di duro rimprovero anche per Bruxelles: «L’Ucraina è ancora uno dei paesi più corrotti, l’UE non ha dato nulla all’Ucraina». Si tratta, in linea di massima, della stessa posizione di tutti i paesi ex jugoslavi e balcanici e probabilmente malgrado il superatlantista Draghi anche dei facitori della politica estera alla Farnesina che devono dare da un lato un colpo al cerchio russofobo ma anche uno alla botte dei pur cospicui interessi commerciali italiani in Russia.

Rulli di tamburi o partite a scacchi?

Insomma tanto rullare di tamburi di guerra delle scorse settimane si sarebbe trasformato in una sorta di partita a scacchi stile Fischer-Spassky. Tutto bene quindi? Per nulla, anche perché la scintilla di un conflitto in piena Europa resta sempre dietro l’angolo, vuoi per caso, vuoi per provocazione, ma soprattutto perché la crisi ucraina resta aperta, come resta aperta la questione della sistemazione complessiva della “frontiera naturale” russa che va dalla Transnistria fino alla Bielorussia, passando per l’Armenia.

Sarà quindi importante fare un passo indietro per farne due avanti ed evitare una lettura appiattita sulle tattiche delle diplomazie. Lo faremo tra qualche giorno proprio qui su Ogzero per meglio inquadrare la crisi ucraina e i potenziali pericoli per la pace e la stabilità internazionale nei prossimi mesi e anni che restano squadernati sotto i nostri occhi.

Qui un approfondimento dell’autore in un intervento ai microfoni di “Bastioni di Orione” sulle frequenze di Radio Blackout:

Ascolta “L’Ukraina rimane un pendolo tra Est e Ovest?” su Spreaker.

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Aukus: la Cina pesa pro e contro https://ogzero.org/loperazione-aukus-e-la-disputa-del-mar-cinese-meridionale/ Sat, 25 Sep 2021 08:30:51 +0000 https://ogzero.org/?p=4969 L’operazione Aukus è l’essenza della strategia geopolitica di questo biennio, che rivendica postuma la capacità americana di impostare alleanze volte ad assediare il nemico, al punto di fare figure barbine a Kabul, pur di affrontare la Cina assicurandosi la piena potenza di fuoco per presidiare il Pacifico; anche a costo di offendere i permalosi francesi, […]

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L’operazione Aukus è l’essenza della strategia geopolitica di questo biennio, che rivendica postuma la capacità americana di impostare alleanze volte ad assediare il nemico, al punto di fare figure barbine a Kabul, pur di affrontare la Cina assicurandosi la piena potenza di fuoco per presidiare il Pacifico; anche a costo di offendere i permalosi francesi, suscettibili ai miliardi, ma soprattutto allo schiaffo inferto con la dimostrazione che i giochi si fanno altrove, lontano dalla grandeur parigina. In quell’altrove sulle coste occidentali del Pacifico dove si ordiscono trame, s’inventano trattati, si pongono veti, si tracciano rotte, si affronta il nuovo “pericolo rosso”. Tutto ciò che capita in giro in qualche modo è condizionato dalla profusione di energie da dedicare alla disputa del Mar cinese meridionale.

Della questione dei sommergibili, attorno ai quali si cominciano a vedere i contorni di un accordo più ampio (anche i droni saranno forniti all’Australia dalla Boeing – per spiegare a Parigi qual è il vero livello del Gioco), si sono occupati tutti, ma sempre trattando il problema in un’ottica neocolonialista, pochi hanno provato ad assumere il punto di vista delle potenze locali. “China Files” ci aiuta a colmare questa lacuna: questo articolo pubblicato da Alessandra Colarizi ci sembra evidenziare gli aspetti più interessanti della situazione che vede contrapposti Usa e Cina; e l’intervento di Sabrina Moles (anche lei redattrice di “China files”) su Radio Blackout, di cui proponiamo il podcast, risulta complementare. Con una appendice di affari interni sull’implosione della bolla Evergrande, che completa le questioni che attanagliano Pechino, gettando una luce su manovre strategiche interne alla Cina, ma che si possono analizzare in chiave internazionale ed estendere alla speculazione di tutte le borse internazionali.    


Grandi manovre geopolitiche nell’Asia-Pacifico: da una parte ci sono i raggruppamenti militari di Washington, dall’altra le alchimie economiche di Pechino. Nel mezzo i rispettivi partner asiatici e transatlantici che, chiamati a scegliere tra la sicurezza americana e le banconote cinesi, potrebbero finire per giocare la vera partita sullo scacchiere indopacifico.

Biden l’aveva messo in chiaro: al disimpegno americano dall’Asia Centrale sarebbe seguito un maggiore protagonismo nel quadrante asiatico. La nuova alleanza con Australia e Gran Bretagna – l’ “Aukus” – aggiunge un’altra freccia alla faretra di Washington. Come il Quad e i Five Eyes, la nuova sigla mira tra le righe a contrastare la crescente presenza e influenza militare della Cina nel Pacifico. Ma ha fatto infuriare i francesi, scippati di un accordo militare a nove zeri. L’Unione europea insorge, e non per semplice solidarietà comunitaria. Per la seconda volta dal ritiro statunitense dall’Afghanistan, gli States hanno ignorato l’opinione degli alleati europei. Lo strappo rischia di diventare una voragine.

Oltre la Grande Muraglia si pesano sulla bilancia pro e contro. Dopo l’esclusione di Huawei dal 5G australiano e l’indagine sull’origine del Covid-19, le relazioni tra Canberra e Pechino sono precipitate ai minimi storici. La creazione del nuovo triumvirato è un segnale inequivocabile del disagio provocato dalla crescente assertività cinese tra le potenze medie del quadrante asiatico. Ma non tutto il male viene per nuocere. Vediamo perché.

L’Aukus e la “deterrenza integrata”

Tutto è cominciato a febbraio, quando l’amministrazione Biden ha avviato una massiccia revisione delle forze armate americane a livello globale. Il prodotto finale è una “strategia della deterrenza integrata” che valorizza la fitta ragnatela di alleanze americane. In Asia, dove Washington vanta rapporti storici, le maglie della ragnatela sono piuttosto fitte. Fattore che, oltre a proteggere gli asset militari americani da eventuali attacchi, consente operazioni più vicine al territorio cinese. Oltre a dotare Canberra di sottomarini a propulsione nucleare, l’ “Aukus” si prefigge di rafforzare la presenza americana nella regione. Soprattutto dopo le incursioni marittime cinesi nei pressi di Guam. L’Australia si trova in una posizione particolarmente strategica, in quanto fuori dalla portata dell’arsenale cinese fatta eccezione per i missili a più lunga gittata. Secondo Euan Graham, senior fellow presso l’Institute for International Strategic Studies di Singapore, gli Stati Uniti starebbero cercando di collaudare un format già messo in pratica nei primi anni Quaranta, quando Washington e Canberra combatterono insieme il Giappone durante la Seconda guerra mondiale. La tecnologia cambia negli anni, ma la geografia no. Stando agli esperti, gli States ambiscono a parcheggiare i loro sottomarini a propulsione nucleare nella base militare di HMAS Stirling, a Perth, mentre l’isola australiana di Cocos (arcipelago delle Keeling), nell’Oceano Indiano, fa gola per l’affaccio sulle acque contese del Mar cinese meridionale. Una ridistribuzione delle forze di difesa nell’Asia-Pacifico permetterebbe di compensare nell’immediato la superiorità numerica della flotta cinese, la più estesa al mondo e in rapidissima crescita, per quanto ritenuta ancora meno performante di quella americana. Il tempo è dalla parte di Pechino. Secondo gli esperti, infatti, ci vorranno circa dieci anni prima che Canberra ottenga materialmente i nuovi supersommergibili.

Base militare di HMAS Stirling, a Perth

Il nemico del mio nemico è mio amico

Una “coltellata alla schiena”. Così la Francia ha definito la nuova alleanza tripartita, incassando il supporto dei vertici comunitari. Sentendosi nuovamente tradita dal vecchio alleato dopo il frettoloso ritiro dall’Afghanistan, non è escluso che l’Ue decida di optare per un cauto riavvicinamento alla Cina. Nello specifico, a trovare nuovo slancio potrebbe essere l’accordo sugli investimenti bilaterali (CAI), firmato alla fine del 2020 e congelato dal parlamento di Strasburgo a maggio dopo le tariffe incrociate sullo Xinjiang. Una possibilità remota (considerando il sentimento anticinese di molti eurodeputati), ma non da escludere dato il ruolo svolto da Francia e Germania negli annosi negoziati. Con l’imminente uscita di scena di Angela Merkel, ci si attende sarà proprio Macron – in caso di riconfermata alle presidenziali francesi del prossimo anno – a dettare l’agenda cinese dell’Ue nel prossimo futuro. Dopo il voltafaccia americano, è lecito presupporre una spinta anche maggiore verso l’“autonomia strategica” rivendicata dal blocco dei 27. Da tempo il gigante asiatico cerca di sfruttare le divergenze tra Bruxelles e Washington per aprire una breccia nell’alleanza atlantica. Le recenti frizioni rischiano di depotenziare la strategia indopacifica – presentata da Josep Borrell poche ore dopo la nascita di “Aukus” – che prefigura «modi per garantire dispiegamenti navali rafforzati da parte degli stati membri dell’Ue per aiutare a proteggere le linee marittime di comunicazione e la libertà di navigazione». Evidente riferimento a una presenza più massiccia nelle acque rivendicate da Pechino. Non è ancora chiaro cosa questo implicherà. Ma Parigi sta già ripensando le sue alleanze indopacifiche. Dopo lo smacco inferto da Canberra, proprio in queste ore si discute di una possibile cessione dei sottomarini francesi a Nuova Delhi. È troppo presto per dire se l’ira di Parigi (attenuata dopo la telefonata tra Biden e Macron) avrà ripercussioni più ampie per l’asse Washington-Bruxelles. Lo sapremo probabilmente il prossimo 29 settembre quando si terrà il primo incontro del Trade and Tech Council (TTC), piattaforma lanciata per promuovere il coordinamento su temi come il commercio, lo scambio di tecnologia e la protezione della supply chain, con i “valori democratici condivisi” come unico comune denominatore. L’impressione è che la fiducia sia ormai persa. Ma davanti alla minaccia cinese nessuno vuole rischiare che l’ “autonomia strategica” sfoci in un isolamento diplomatico.

Pechino gioca la carta commerciale

Solo poche ore dopo l’annuncio dell’“Aukus”, la Cina ha ufficializzato la richiesta di accesso alla Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), l’accordo di libero scambio fortemente voluto da Obama col nome di TPP e diventato il ritratto dell’“America First” dopo il ritiro di Trump. La carica simbolica della mossa cinese è quindi fortissima. Non solo Pechino potrebbe appropriarsi di un tassello fondamentale dell’ex Pivot to Asia obamiano. La contromossa cinese mette in evidenza come, davanti allo sfoggio di muscoli di Washington, la seconda potenza mondiale preferisca ricorrere ancora al “soft power”. Nonostante la minitrade war con Canberra, nell’ultimo anno la Cina ha chiuso, tra gli altri, un accordo di libero scambio con la Nuova Zelanda e ha strappato la scena all’Asean guidando le trattative per la Regional Comprehensive Economic Partnership, concluse a novembre. Presa da altro, invece, l’amministrazione Biden non sembra troppo interessata a sedersi ai tavoli negoziali. Per Pechino, invece, sta diventando sempre più un esercizio diplomatico. Molti dei paesi inclusi nel partenariato (come il Canada) hanno conti in sospeso con la Cina. Giocare la carta commerciale può servire a riannodare il dialogo. Per il momento il semaforo è rosso. Canberra – che come ciascuno degli 11 membri attuali ha potere di veto – ha già messo in chiaro che non permetterà un ingresso cinese a meno che Pechino non rimuova le ritorsioni commerciali imposte negli ultimi due anni. A prescindere dall’esito, gli analisti considerano il tentativo una mossa strategica che permetterà al gigante asiatico di rallentare le negoziazioni tra gli altri paesi compresi nella CPTPP, complicando l’ingresso della Gran Bretagna e, soprattutto, di Taiwan, che ha avanzato la propria candidatura solo pochi giorni dopo la Cina.

“Se lo fanno gli altri perché non noi?”

Tra le critiche mosse da Pechino contro l’ “Aukus” c’è quella di catalizzare la corsa all’atomo. Mentre infatti non è previsto siano armati con ordigni nucleari, tuttavia, i famigerati sommergibili saranno alimentati con uranio fornito dagli Stati Uniti e arricchito allo stesso livello usato per le bombe nucleari. “Se lo fanno gli altri perché non dovremmo noi?” potrebbero chiedersi a Pechino. Recentemente, il programma bellico cinese è tornato sotto i riflettori dopo la diffusione di immagini satellitari che identificano centinaia di silos adatti al lancio di missili balistici nucleari dispiegati nello Xinjiang e della Mongolia interna. Durante un incontro dell’International Atomic Energy Agency, Wang Qun, inviato della Cina presso le Nazioni Unite, ha invitato la comunità internazionale ad opporsi all’alleanza trilaterale, definendola un “puro atto di proliferazione nucleare”. Il trattato di non proliferazione nucleare (tpn) del 1968 che proibisce agli stati firmatari “non-nucleari” (come l’Australia) di procurarsi tali armamenti e agli stati “nucleari” (come gli Stati uniti) di trasferire a chicchessia armi nucleari o altri congegni nucleari esplosivi. Sino a oggi Pechino ha continuato ad additare il numero crescente di testate nucleari altrui per giustificare l’espansione del proprio arsenale. E proprio di recente l’ex ambasciatore cinese all’Onu per il disarmo ha suggerito di rivedere la “no-first-use policy”, che impone alla Cina – unica tra i firmatari del tpn – a non utilizzare per prima le armi nucleari contro qualsiasi altro stato.  La contrarietà di Pechino all’“Aukus” trova forza nei timori condivisi dagli altri attori regionali. La Nuova Zelanda ha fatto sapere che la flotta australiana non sarà esonerata dalla messa al bando di vascelli a propulsione nucleare dalle acque territoriali. A sollevare qualche preoccupazione per un possibile riarmo sono stati persino paesi come l’Indonesia e la Malaysia, con cui la Cina intrattiene rapporti non idilliaci. I toni rodomonteschi degli States da tempo mettono a disagio i player regionali, chiamati – loro malgrado – a scegliere tra le due superpotenze. Anziché svolgere una funzione contenitiva, l’ultima mossa di Washington potrebbe persino aiutare il gigante asiatico a ricostruire rapporti di buon vicinato.    


L’ottima analisi sullo specifico di Alessandra Colarizi si può integrare con le considerazioni di Sabrina Moles, che allarga all’intera area lo sguardo proprio partendo da Aukus, affrontando l’implosione di Evergrande, per arrivare a una nuova epoca di interventi per riformare nuovamente il sistema, affrontando le sfide che vengono dall’aggressività americana e dalla consunzione delle prassi interne di creazione di ricchezza: 

“25 La bolla di Evergrande e l’accerchiamento di Aukus: sfide al sistema”.

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Popoli oppressi vs cinismo tattico: quale soluzione? https://ogzero.org/il-diritto-dei-popoli-all-autodeterminazione-le-lotte-comuni/ Fri, 26 Feb 2021 12:26:50 +0000 https://ogzero.org/?p=2482 Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Sartori pubblicato il 31 agosto 2014 dalla rivista “Etnie” (dove trovate, l’articolo in versione integrale) con il titolo “Indipendentismo e anarchismo: relazione impossibile?”. Ne riportiamo qui alcuni brani che danno un senso compiuto al concetto di autodeterminazione che ci interessa particolarmente quando riferito a popoli che lottano […]

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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Sartori pubblicato il 31 agosto 2014 dalla rivista “Etnie” (dove trovate, l’articolo in versione integrale) con il titolo “Indipendentismo e anarchismo: relazione impossibile?”. Ne riportiamo qui alcuni brani che danno un senso compiuto al concetto di autodeterminazione che ci interessa particolarmente quando riferito a popoli che lottano – al di là delle istanze religiose o nazionaliste – per la propria identità, con la volontà di liberare dal controllo dall’esterno di un territorio e delle genti che lo abitano.


Una premessa. Personalmente considero l’indipendentismo come uno degli aspetti assunti dalle lotte per i diritti e per l’autodeterminazione dei popoli. E l’indipendenza uno sbocco possibile, non un destino necessario.

Alla richiesta di analizzare la possibilità di un rapporto organico, stabile e strutturale tra anarchismo e indipendentismo di sinistra, ho sempre risposto con una buona dose di scetticismo.
Tuttavia, dato che le circostanze e le scelte mi avevano portato a solidarizzare con irlandesi, baschi, corsi, curdi e altri (in quanto vittime di una forma di oppressione, una delle tante che devastano questa “valle di lacrime”), senza mai rinnegare i miei trascorsi giovanili inequivocabilmente libertari, ho cercato di vivere dentro questa contraddizione. Per quanto mi è stato possibile, in base al principio della makhnovsina: «Con gli oppressi contro gli oppressori, sempre».
Che poi ci sia anche riuscito, questo è un altro paio di maniche.

L’apparato statale è indispensabile?

In una fase precedente, evidentemente in preda all’ecumenismo, mi ero spinto oltre, scrivendo che «lottare per il superamento della forma-stato a favore dell’autorganizzazione totale delle classi subalterne deriva da una concezione del mondo non dissimile da quella di chi teorizza il superamento dello stato-nazione per l’autorganizzazione della comunità popolare» 1). E mi salvavo l’anima aggiungendo un indispensabile “Forse”. Del resto le “nazioni senza stato” che hanno saputo sopravvivere, conservare tradizioni e linguaggi, combattere l’oppressione e lo sfruttamento e talvolta anche difendere la propria terra dal degrado, non dimostrano, magari senza volerlo, che l’apparato statale non è poi così indispensabile?
Penso quindi che tra libertari e indipendentisti di sinistra (“nazionalisti”? “nazionalitari”? “abertzale”?) ci si possa comunque sopportare, si possa convivere. E talvolta, di fronte al comune nemico del momento, solidarizzare, lottare insieme 2).

Lotte comuni e condivisione

La Storia infatti ha registrato lotte comuni contro capitalismo, fascismo e imperialismo, contro il nucleare e in difesa dell’ambiente, dei diritti umani e dei prigionieri…. Oltre naturalmente alla condivisione di repressione, galera, esilio. Non sono poi mancate reciproche contaminazioni, biografie familiari e personali che si sovrappongono, osmosi tra gruppi libertari e indipendentisti di sinistra.

[…]

Popoli manovrati

Ma negli ultimi anni lo scenario sembra essersi ulteriormente complicato. Non tanto per la possibilità, comunque scarse, di coniugare in maniera duratura le istanze libertarie con quelle indipendentiste. E nemmeno perché questi “nazionalisti” siano cambiati in peggio. Da parte mia mantengo un profondo rispetto per tutti quei militanti baschi, catalani, irlandesi o curdi (da Bobby Sands al Txiki) che hanno perso la vita cercando di coniugare liberazione nazionale e sociale.

Quello che è cambiato, sicuramente in peggio, è l’accresciuta capacità del sistema tecno-industriale-militare dominante (il “caro”, vecchio imperialismo, fase suprema eccetera eccetera) di strumentalizzare i movimenti di liberazione. Anche questo un “effetto collaterale” della globalizzazione? L’autodeterminazione rischia davvero di ridursi, come avvertiva il sociologo catalano Manuel Castells, a una variabile che si usa o si getta a seconda del caso?
Una questione che ovviamente non riguarda soltanto gli anarchici, ma tutta quella sinistra antagonista, non omologata e non addomesticata che ancora si confronta con il diritto dei popoli all’autodeterminazione.
Certo, per i colonizzatori il divide et impera non è una novità. Viene praticato con successo almeno dai tempi di Giulio Cesare.
Le milizie curde alleate della Turchia che (come ha riconosciuto il Parlamento curdo in esilio) parteciparono al massacro degli armeni durante il genocidio del 1915 possono aver fornito un protocollo per l’utilizzo da parte della Francia, e in seguito degli Usa, di alcune minoranze indocinesi contro la resistenza vietnamita. In Irlanda del Nord era il proletariato protestante, maggiormente garantito, a condurre la “guerra sporca” (omicidi settari, spesso indiscriminati) contro gli abitanti dei ghetti cattolici. Da sottolineare che entrambi, indigeni irlandesi e coloni scozzesi, erano di origine celtica (non germanica, come gli inglesi, angli e sassoni). Un elemento in più per sottolineare l’artificiosità e la strumentalità, a tutto vantaggio dell’imperialismo di Londra, della divisione in due comunità reciprocamente ostili.
Putin ha potuto “pacificare” la Cecenia con il ferro e con il fuoco, utilizzando anche bande di ex guerriglieri indipendentisti divenuti collaborazionisti. Sul piano religioso, sciiti e sunniti, a fasi alterne, vengono strumentalizzati in Medio Oriente. Lo stesso avviene con le popolazioni minorizzate – curdi, beluci, turcomanni – alimentando e armando le loro aspirazioni a una maggiore autonomia o all’indipendenza.

Contraddizioni e guerre tra poveri

Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e al-Da’wa, notoriamente filoiraniani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente gli Usa avrebbero utilizzato in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad al-Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?
Anche le “guerre tra poveri” che hanno insanguinato il subcontinente indiano danno l’impressione di essere state in parte manovrate. Nel 2007 alcuni gravi attentati compiuti in occasione di feste nazionali e anniversari dell’India, vennero inizialmente attribuiti ai gruppi islamici. Successivamente emerse la pista dei separatisti del nord-est (bodo, naga…). Nel secolo scorso lo scontro era stato particolarmente duro nell’Assam, dove la maggioranza della popolazione è induista. Dal 1989 al 1996 la guerriglia dei bodo (in maggioranza cristiani) avrebbe causato la morte di migliaia di persone. Nel dicembre 1996 un attentato al Brahamaputra Express, mentre attraversava l’Assam, provocò più di trecento morti. Ancora prima delle rivendicazioni, l’atto terroristico venne attribuito ai bodo che due giorni prima avevano fatto saltare un ponte ferroviario.

Strategia della tensione mascherata da lotta per l’autodeterminazione?

Molto probabilmente in alto loco qualcuno pensa che è “sempre meglio che si ammazzino tra di loro”, purché il controllo del territorio e delle risorse rimanga saldamente nelle mani di chi detiene il potere. Si tratti di un esercito di occupazione, di una multinazionale o di criminalità organizzata come nei pogrom di Ponticelli. E naturalmente anche l’oppresso, il diseredato di turno ci metterà “del suo”.
Un caso limite, a mio avviso, quello dei karen, in perenne fuga tra Birmania e Thailandia e che da qualche tempo verrebbero sostenuti da gruppi neofascisti europei.
Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale e di quelli autonomistici non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Non a caso Manuel Castells ha parlato di «indipendenze a geometria variabile», denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese «a seconda di chi, del come e del quando». Ricordava che osseti e abkhazi si erano ribellati contro la Georgia nello stesso periodo in cui i ceceni si sollevavano contro la Russia. Inizialmente gli Usa appoggiarono l’insurrezione cecena, ma tollerarono facilmente la repressione da parte della Georgia. Analogamente nel caso del Kosovo (dove è stata poi costruita un’immensa base statunitense) si è invocato il diritto all’autodeterminazione, mentre per il Tibet non si va oltre qualche protesta simbolica. Quanto agli uiguri, sembra quasi che non esistano come popolo.

Il cinismo tattico caso per caso

«Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione – ha scritto il sociologo catalano – sono frutto di un cinismo tattico» e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno «strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente». Gli esempi si sprecano. Pensiamo al diverso trattamento riservato ai curdi in Iraq, già praticamente autonomi (e alleati degli Usa a cui hanno consentito di installare alcune basi militari), mentre quelli della Turchia continuavano a essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, grande alleato degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. Nel 2010, dopo una serie di impiccagioni di militanti curdi che l’opinione pubblica mondiale aveva completamente ignorato, i curdi dell’Iran (Partito per una vita libera in Kurdistan, Pjak, considerato il ramo iraniano del Pkk attivo in Turchia) sembravano essersi rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva rivelato “Le Monde”, ma poi la situazione sembra essere cambiata).
Nel caso di Timor Est, la popolazione subì per anni un vero e proprio genocidio nell’indifferenza dell’opinione pubblica. Tra le poche eccezioni, negli anni Settanta, Noam Chomski e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip). Solo di fronte al rischio concreto di una dissoluzione dell’Indonesia intervennero le forze internazionali, ripescando l’ex guerrigliero Gusmão, leader del Frente revolucionària de Timor-Leste independente (Fretilin) per farne il presidente. Pare che inizialmente non ne fosse particolarmente entusiasta, dato che aspirava a ritirarsi dalla vita politica e darsi all’agricoltura. Paradossale che per garantire l’indipendenza di Timor Est venissero impiegati anche soldati inglesi provenienti dalle caserme di Belfast.
E a proposito di Belfast, due situazioni molto simili come l’Irlanda del Nord e il Paese basco negli ultimi anni sembravano aver imboccato strade antitetiche. Soluzione politica, abbandono della lotta armata da parte di Ira, Inla e delle principali milizie lealiste, liberazione dei prigionieri politici e cogestione del governo locale a Belfast e Derry.

Repressione, ancora casi di tortura, tregue effimere, illegalizzazione di partiti (Herri Batasuna, Batasuna, Bildu, Sortu…), associazioni ( Jarrai, Haika, Segi, Gestoras pro Amnistia, Askatasuna…) e giornali (“Egin”, “Egunkaria”) a Bilbo, Donosti e Gasteiz. Solo nel 2012, con la definitiva rinuncia alle armi di Eta e la possibilità per la “sinistra abertzale” di partecipare alle elezioni (con Sortu), si è riaperta la possibilità di una soluzione politica del conflitto. Ma al momento Arnaldo Otegi e altri esponenti indipendentisti rimangono ancora in galera (come se durante le trattative Blair avesse fatto arrestare Gerry Adams) e per i prigionieri politici baschi, in particolare per gli etarras, la situazione rimane molto difficile 3).
La mia ipotesi è che negli anni Novanta il «grande laboratorio a cielo aperto per la controinsurrezione» dell’Irlanda del Nord dovesse chiudere in vista della partecipazione britannica alle guerre in Afghanistan-Iraq e del ruolo fondamentale assunto da Londra. Meno convincente la tesi della conversione di Blair al cattolicesimo, anche se non si può mai dire. Quanto agli Usa, Clinton avrebbe agito per conservare il voto dei cittadini statunitensi di origine irlandese che solitamente votano per i Democratici.

L’ombra dei poteri globali

È ipotizzabile che in Irlanda del Nord la stessa Cia abbia dato una mano per togliere di mezzo qualche capo delle milizie lealiste (filobritanniche) che non aveva compreso la nuova situazione. Ipotesi formulata anche dal compianto Stefano Chiarini. Al contrario, già negli anni Novanta Washington inviava agenti della Cia nel Paese basco per coadiuvare l’apparato repressivo.
Il problema di “quale autodeterminazione” si pone soprattutto nel caso di stati nati dalla colonizzazione, dato che le loro frontiere sono state stabilite in base a trattati europei con cui si decideva arbitrariamente il destino delle popolazioni. I poteri globali reali (economici, militari, tecnologici) stabiliscono caso per caso, di volta in volta, se appoggiare una lotta di liberazione, legittimarne la repressione o anche inventarne una di sana pianta. Al limite della farsa l’episodio che ha visto un gruppo di aspiranti golpisti (quasi tutti membri di una loggia massonica) arruolare mercenari per sobillare la rivolta secessionista nel Cabinda, regione angolana ricca di petrolio. Episodio da segnalare per l’uso spregiudicato di due onlus (Freedom for Cabinda e Freedom for Cabinda Confederation) create appositamente per ricevere donazioni.

Alcuni casi esemplari, storici, di separatismo a puro uso e consumo di qualche potenza coloniale (come il Katanga di Tshombe nell’ex Congo belga) potrebbero tornare di attualità. Per esempio in Bolivia con Santa Cruz, capoluogo di una regione ricca, abitata prevalentemente da discendenti dei colonizzatori, che ha spinto per l’indipendenza. Chissà? Forse Evo Morales (il presidente boliviano esponente del Ma, Movimento al socialismo) ha rischiato davvero di finire come Lumumba, il presidente progressista del Congo, assassinato nel 1961 dagli sgherri di Tshombe al servizio dell’imperialismo belga.
E forse non è un caso che nel 2008, dopo anni di impegno a fianco dei popoli oppressi, la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip), riconosciuta dall’Onu e dall’Unesco, abbia definitivamente sospeso le sue attività. Fondata da Lelio Basso, la Lidlip è stata per trent’anni portavoce delle minoranze, delle popolazioni perseguitate, dei movimenti di liberazione dal colonialismo.

 

NOTE

1) Gianni Sartori, Catalogna – Storia di una nazione senza stato, ed. Scantabauchi, 2007.
2) Ovviamente mi riferisco all’indipendenza come sbocco di una lotta di liberazione, dall’oppressione coloniale classica, “da manuale”. Come nel caso di Algeria, Guinea Bissau, Mozambico, Angola, Irlanda… o dal “colonialismo interno” come potrebbe essere per i Paesi baschi, il Tibet e la Cecenia. A mio avviso si può legittimamente parlare di movimenti di liberazione quando la lotta è anche contro il sistema economico responsabile dell’oppressione (capitalismo, neoliberismo, capitalismo di stato…). Escludendo, per quanto mi riguarda, dall’interessante dibattito partiti come l’Adsav bretone, la Lega Nord o alcuni indipendentisti fiamminghi nostalgici del nazismo.
3) Ma l’auspicata soluzione politica del conflitto è tornata nuovamente al palo dopo la retata del 1° ottobre 2013 contro 18 esponenti di Herrira (tra cui il portavoce Benat Zarrabeitia). Il giudice Eloy Velasco ha accusato l’associazione basca per i diritti umani dei prigionieri politici di essere “un tentacolo di Eta” in quanto avrebbe organizzato manifestazioni di “esaltazione” dei prigionieri baschi.

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La politica estera europea guarda a Oriente https://ogzero.org/la-politica-estera-europea-guarda-a-oriente/ Wed, 14 Oct 2020 19:58:13 +0000 http://ogzero.org/?p=1516 Quando il presidente cinese Xi Jinping visitò Berlino nel marzo 2014, Angela Merkel lo omaggiò di una ristampa tedesca della mappa realizzata dal cartografo francese Jean-Baptiste Bourguignon d’Anville nel 1735 sulla base del precedente lavoro dei gesuiti francesi che, durante il regno dell’imperatore Kangxi dei Qing (1661-1722), furono incaricati di mappare per la prima volta […]

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Quando il presidente cinese Xi Jinping visitò Berlino nel marzo 2014, Angela Merkel lo omaggiò di una ristampa tedesca della mappa realizzata dal cartografo francese Jean-Baptiste Bourguignon d’Anville nel 1735 sulla base del precedente lavoro dei gesuiti francesi che, durante il regno dell’imperatore Kangxi dei Qing (1661-1722), furono incaricati di mappare per la prima volta con criteri scientifici l’estensione territoriale del Celeste Impero.

Il pennuto di D’Anville senza coda né zampe

A quasi tre secoli di distanza, il valore storico della Carte générale de la Chine Dressée sur les Cartes particulières que l’Empereur Cang-hi a fait lever sur les lieux par les Jésuites missionaires dans cet Empire assume sfumature geopolitiche. Anziché un gallo, la Cina di d’Anville è un pennuto senza coda né zampe: le parti mancanti corrispondono, a nordovest, alle attuali regioni autonome del Xinjiang e del Tibet e, a sudest, al Mar Cinese Meridionale, teatro di schermaglie territoriali tra il gigante asiatico e i vicini rivieraschi. Un colore diverso definisce implicitamente le isole di Taiwan e Hainan come realtà distinte.

Rotte commerciali marittime “libere e sicure”

Durante quello stesso incontro, la cancelliera tedesca, citando il “diritto internazionale”, invitò la Cina «a risolvere le dispute territoriali» nelle «corti multinazionali» al fine di «mantenere le rotte commerciali marittime libere e sicure». Chiaro riferimento alla sentenza con cui nel 2016 il Tribunale internazionale dell’Aja contestò i diritti storici rivendicati da Pechino nel Mar Cinese Meridionale, accogliendo la richiesta delle Filippine.

Gli ammonimenti della Merkel sono stati codificati all’inizio di settembre, quando la Germania ha annunciato ufficialmente le nuove linee guida per la politica estera nell’Indo-Pacifico, concetto inaugurato negli anni Venti proprio da un tedesco – il geografo Karl Ernst Haushofer – ripreso nel 2007 dall’ex premier giapponese Shinzo Abe, e rilanciato dieci anni più tardi dall’amministrazione Trump.

L’Indo-Pacifico è un concetto politico variabile

In termini puramente geografici, per Indo-Pacifico si intende una regione biogeografica oceanica che comprende le zone tropicali e subtropicali dell’oceano Indiano e della parte occidentale dell’oceano Pacifico a est, fino alle Hawaii e all’Isola di Pasqua. Ma la sua interpretazione politica cambia da paese a paese. Per Washington, parlare di Indo-Pacifico serve a ridimensionare il ruolo della Cina e della Belt and Road per dare maggiore centralità agli alleati regionali – Australia, Giappone e soprattutto India – in materia di sicurezza e scambi commerciali, con malcelate finalità protezionistiche. E per Berlino? Sfogliando il corposo fascicolo (quasi settanta pagine), si nota l’intenzione di «rafforzare lo stato di diritto e i diritti umani» ma anche e soprattutto l’impegno a «evitare la dipendenza unilaterale [dalla Cina] diversificando le partnership».

L’Europa volge lo sguardo a Oriente, specialmente la Germania

Riconoscendo il valore economico e geopolitico dell’Indo-Pacifico – dove ha sede il 60% della popolazione e un terzo del commercio mondiale – la Germania sfrutta il riposizionamento nel quadrante per rilanciare il multilateralismo e il libero scambio, invocando un dialogo europeo con la NATO e gli attori regionali: Giappone, Corea del Sud, India (citata ben 57 volte) ma anche l’ASEAN, l’organizzazione politica, economica e culturale che riunisce 10 nazioni del Sudest asiatico. La sigla comprende i principali avversari di Pechino nel Mar Cinese Meridionale: Vietnam, Malaysia, Brunei, Filippine e Indonesia. Come sottolinea l’Associazione Italia-ASEAN, è una visione che la Germania punta a trasmettere a livello comunitario, come traspare dal Trio Program formulato dalla presidenza del Consiglio dell’Unione europea, che Berlino lascerà il 31 dicembre al Portogallo e in seguito alla Slovenia.

Mentre le linee guida tedesche segnano un ritorno della prima economia europea tra le Gestaltungsmächten (le “shaping powers” ) – dopo il ridimensionamento militare cominciato alla fine della Guerra Fredda – e un avanzamento in Asia – dopo le distrazioni russe nell’Europa orientale – la Germania non è l’unico paese del Vecchio Continente ad aver voltato lo sguardo a Oriente. Nel 2019, la Francia ha riconosciuto ufficialmente l’importanza della regione con la pubblicazione di un documento programmatico che ne esalta la centralità economica, il peso demografico e la ricchezza di risorse naturali ed energetiche. Anche Parigi parla di “libero commercio”, “multilateralismo” e di un “ordine multipolare”. Ma la svolta indo-pacifica della Germania ha un valore simbolico inedito trattandosi del primo paese “extra-regionale” ad aver formulato una propria strategia, laddove gli interessi francesi sono sostenuti da una presenza fisica massiva.

Come ricorda il documento fin dalle prime righe alludendo ai possedimenti d’oltremare, «il 93% della zona economica esclusiva (ZEE) [della Francia] si trova nell’Oceano Indiano e nel Pacifico, un’area che ospita 1,5 milioni di cittadini francesi e 8000 soldati». La conferma della sovranità sulla Nuova Caledonia – dove è presente la più importante base militare francese del Pacifico – consolida la presa tentacolare di Parigi nella regione, fugando i timori di quanti temevano che un divorzio dalla madrepatria avrebbe lasciato l’arcipelago ricco di nickel in balia della Cina. Mentre l’Indo-Pacific Defense Startegy auspica a chiare lettere maggiori sinergie con Stati Uniti, Giappone, Australia e India, si moltiplicano i segni di un maggior coordinamento anche sul versante europeo.

Francia e Gran Bretagna nel Mar Cinese Meridionale: l’unione fa la forza

Nell’aprile 2017, la missione francese Jeanne d’Arc ha guidato attraverso il Mar Cinese Meridionale una spedizione composta da 52 membri della Royal Navy britannica, 12 ufficiali di varie nazionalità europee e un funzionario UE.  «Visione e valori condivisi» rendono la Gran Bretagna un partner naturale di Parigi. In futuro lo sarà sempre di più. Secondo gli esperti, la minaccia di un no deal con l’Unione europea spingerà gli interessi di Londra anche più a Est. In fondo, si tratterebbe di resuscitare quanto seminato in cinque secoli di colonialismo britannico. Ma il governo di Boris Johnson non sembra volersi fermare qui. L’avvio di trattative per una possibile adesione alla Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership – l’ex TPP da cui l’America di Trump si è sfilata nel 2017 – ha coinciso con l’emergere di indiscrezioni sulla presunta decisione di inviare, per la prima volta, una delle due portaerei britanniche nella regione. Verosimilmente anche nel Mar Cinese Meridionale. Certo, un maggiore dinamismo economico richiede maggiore stabilità e sicurezza. Ma non giova che l’attivismo militare di Londra giunga proprio mentre Hong Kong e il 5G attentano alla longevità dei rapporti con Pechino. Per contenere lo strappo, le potenze europee paiono aver adottato una vecchia tecnica: in Cina si dice «yī gēn kuàizi róngyì zhé, yī bǎ kuàizi nán zhéduàn». Da noi, semplicemente, «l’unione fa la forza».

Questa non è una Zee

Poco dopo l’annuncio delle linee guida tedesche, nel mese di settembre Germania, Francia e Gran Bretagna hanno rilasciato un comunicato congiunto per denunciare le operazioni dell’Esercito popolare di liberazione nel Mar cinese meridionale. La nota, presentata alle Nazioni Unite, fa eco alle rimostranze di Malaysia, Australia, Indonesia, Vietnam e Filippine, sottolineando «l’importanza di un esercizio senza ostacoli della libertà in alto mare, in particolare la libertà di navigazione e di sorvolo, nonché del diritto di passaggio». Rievocando la sentenza del 2016, i tre paesi hanno anche sottolineato che «i diritti storici – rivendicati da Pechino – non sono conformi al diritto internazionale» e che le isole contese – in quanto artificiali – non generano una zona economica esclusiva, l’area adiacente le acque territoriali, in cui uno stato costiero ha diritti sovrani per la gestione delle risorse naturali, giurisdizione in materia di installazione e uso di strutture artificiali o fisse, ricerca scientifica, protezione e conservazione dell’ambiente marino. Nello specifico, Parigi, Berlino e Londra contestano che le Paracelso costituiscano un arcipelago ai fini della tracciabilità delle cosiddette “linee di base diritte”, metodo utilizzato quando la costa è profondamente incavata e frastagliata per misurare la larghezza del mare territoriale. La questione non è nuova. Nel 2018 il Regno Unito aveva già espresso la propria contrarietà passando entro le 12 miglia nautiche dagli isolotti. Ma è la prima volta che Germania e Francia assumono una posizione chiara a riguardo. Quella dell’Unione europea, invece, continua a esserlo molto meno.

La “neutralità” di Bruxelles…

Come articolato nella EU Global Strategy del 2016, la politica estera di Bruxelles tiene fede a un mix di “pragmatismo” e “Realpolitik con caratteristiche europee”. Una formula che permette al blocco di vendere armi ai paesi ASEAN e, contemporaneamente, rifornire Pechino di “tecnologia dual-use”. Quanto ai contenziosi territoriali, Bruxelles si definisce “neutrale”; invoca la necessità di trovare soluzioni pacifiche all’interno di una cornice normativa condivisa. Si appella alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) – pilastro della EU Maritime Security Strategy – e auspica l’introduzione di un Codice di condotta (Coc) tra le parti. Ma delega ai singoli paesi membri l’onere di «sostenere la libera navigazione» e «combattere le attività illecite». Come per altri dossier, anche nel Mar Cinese Meridionale la mancanza di coesione interna ostacola la formulazione di una risposta concertata, specie quando in gioco ci sono gli interessi economici con il gigante asiatico. Un esempio? La risoluzione UE sull’arbitrato dell’Aja, edulcorata in seguito alle pressioni di Grecia, Ungheria, Slovenia e Croazia. A ciò si aggiunge la necessità di mantenere una delicata equidistanza tra la Cina, primo partner commerciale UE, e gli Stati Uniti, principale alleato militare. Un’impresa sempre più difficile.

… che si avvicina a Taiwan

Ammiccando a Bruxelles, Angela Merkel lo ha detto chiaramente: «la nostra prosperità e la nostra influenza geopolitica degli anni a venire dipenderanno da come collaboreremo con l’Indo-Pacifico». Non solo la regione conta per oltre un terzo degli scambi tra il blocco e i paesi extraeuropei. Davanti a Covid e al rischio di un “decoupling”, questa parte di mondo assumerà anche maggiore rilevanza nell’ottica di una crescente diversificazione della catena di approvvigionamento. In tempi recenti, l’interesse di Bruxelles per il quadrante si è esplicitato in un inedito avvicinamento a Taiwan, l’isola che Pechino considera una “provincia ribelle” da riannettere ai propri territori. Circa una quindicina di nazioni europee – comprese Germania, Francia e Italia – hanno recentemente partecipato per la prima volta a un forum sugli investimenti organizzato dall’European Economic and Trade Office, l’“ambasciata” UE a Taipei. Come auspicato dalla presidente taiwanese Tsai Ing-wen, la nuova piattaforma introduce la possibilità che in futuro il dialogo confluisca nella firma di un trattato bilaterale sugli investimenti all’insegna dell’«apertura, della trasparenza e dell’imparzialità». Tutti qualità per le quali la Cina non eccelle.

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Costa d’Avorio: partita a scacchi con quarto incomodo https://ogzero.org/costa_davorio_partita_a_scacchi_con_quarto_incomodo/ Fri, 09 Oct 2020 15:33:58 +0000 http://ogzero.org/?p=1451 Manca poco meno di un mese al primo turno delle presidenziali in Costa d’Avorio e i giochi rimangono più che mai aperti. Non solo e non tanto perché un favorito c’è e non c’è. Le candidature sono state depositate. Alassane Ouattara, presidente uscente, si ricandida per un terzo mandato, con non poche polemiche e contestazioni […]

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Manca poco meno di un mese al primo turno delle presidenziali in Costa d’Avorio e i giochi rimangono più che mai aperti. Non solo e non tanto perché un favorito c’è e non c’è. Le candidature sono state depositate. Alassane Ouattara, presidente uscente, si ricandida per un terzo mandato, con non poche polemiche e contestazioni che sono sfociate in violenza con morti, feriti e arresti. Non proprio il clima ideale per affrontare la campagna elettorale.

A sfidare il 78enne Ouattara ci saranno i suoi rivali storici Henri Konan Bédié, 86 anni, e Laurent Gbagbo, 75 anni, candidato dai suoi supporter senza una sua dichiarazione in tal senso. Tutte e tre ex presidenti che rappresentano la gerontocrazia del paese.

E il cambio generazionale?

Lo sperato e inizialmente voluto cambio generazionale non c’è stato. Sullo sfondo, tuttavia, rimane la candidatura di Guillaume Soro – 48 anni – anch’essa, come quella di Gbagbo, presentata in contumacia, visto che vive in Francia per sfuggire a una condanna a 20 anni di carcere comminata da un tribunale ivoriano. Ma le cose potrebbero cambiare. L’ex potenza coloniale, la Francia, è molto preoccupata per il clima di tensione nel paese, che non accenna a diminuire, anzi sta crescendo facendo aleggiare i fantasmi del 2010, quando la crisi postpresidenziali, sfociò in una guerra civile con oltre 3000 morti e una nazione allo stremo. La Costa d’Avorio, negli ultimi dieci anni, è stata relativamente stabile ed è cresciuta costantemente negli anni, salvo la frenata di quest’anno dovuta al coronavirus. Abidjan, inoltre, ha rappresentato un punto stabile al confine di una regione estremamente turbolenta, il Sahel, che non trova pace per l’imperversare delle forze jihadiste dove la Francia, appunto, è impegnata nel contrasto al terrorismo con 5000 uomini, ma che, nonostante la potenza di fuoco, non riesce a venirne a capo.

La Francia occupata su più fronti non vuol perdere la Costa d’Avorio

Il colpo di stato in Mali, ha aggravato ulteriormente lo scenario regionale. Tuttavia, proprio durante le cerimonie per il sessantesimo anniversario dell’indipendenza del paese, il colonnello Assimi Goita, capo della giunta al potere in Mali, ha chiesto ai suoi concittadini di sostenere le forze alleate straniere presenti in Mali, citando in particolare la forza francese Barkhane, le forze di pace Minusma (Onu) e quella europea Tabouka. La presenza in Mali, da sette anni, dei soldati francesi e della missione Onu è stata però oggetto di contestazioni da parte dell’opinione pubblica. È del tutto evidente che per la Francia perdere una base solida e stabile come la Costa d’Avorio sarebbe una sciagura. Paese oltretutto già toccato dal terrorismo e i cui confini con Mali e Burkina Faso sono permeabili al jihadismo.

L’incontro privato parigino

Molti osservatori, proprio per questo, attendevano i risultati della visita di Ouattara a Parigi, visita privata, compreso un incontro con Emmanuelle Macron, che si è rivelato una bomba. Secondo le indiscrezioni riportate da “Jeune Afrique”, il presidente francese – preoccupato per le tensioni socio-politiche provocate dal terzo mandato del presidente ivoriano – durante una colazione di lavoro, il 4 settembre, avrebbe chiesto a Ouattara di “rimandare le elezioni”, ritirare la sua candidatura, così da permettere anche il ritiro di quelle di Bédié e di Gbagbo. Secondo Macron questo scenario potrebbe facilitare l’apertura di un dialogo con i principali oppositori del presidente ivoriano e trovare un successore condiviso per arrivare a “un cambiamento generazionale”, inizialmente promesso. Ouattara, sempre secondo le indiscrezioni di “Jeune Afrique”, avrebbe rifiutato.

Di certo l’intervento di Macron è un’esplicita e diretta – non gradita da molti – interferenza negli affari interni di un paese sovrano. Se la notizia fosse vera – e non c’è da dubitarne vista l’autorevolezza di “Jeune Afrique” – rivoluzionerebbe lo scenario politico ivoriano. Il rifiuto di Ouattara alla proposta di Macron potrebbe essere letto come un volere “prendere tempo” e verificare le intenzioni di Bédié e di Gbagbo, proprio perché non vuole rimanere con il cerino in mano. Oppure in una risposta di facciata più funzionale alla sua immagine interna. E, poi, c’è l’attivismo di Soro, molto popolare sui social in patria e anche in Francia, dove concentra la sua campagna contro la condanna in contumacia in patria, senza la presenza dei suoi avvocati. Da lui ritenuta una condanna politica.

Il pericolo della deriva etnica

E, poi, a distanza di poco più di un mese, arrivano le dichiarazioni del presidente del Fronte popolare ivoriano (Fpi, all’opposizione), Pascal Affi N’Guessan, che ha chiesto il rinvio di tre mesi delle elezioni presidenziali o l’avvio di una fase di transizione di almeno 12 mesi. La richiesta sarebbe stata avanzata in occasione di un incontro con una missione congiunta della Communauté économique des états de l’Afrique de l’Ouest (Cedeao), dell’Union africaine e delle Nazioni Unite. Insomma qualcosa, su questo fronte si muove. Bédié, invece, a tal proposito, non ha detto nulla. L’iniziativa della diplomazia francese, evidentemente, è stata a tutto campo e ha coinvolto, con molta probabilità, tutte le parti coinvolte nell’intricato puzzle ivoriano. La notizia, inoltre, rivela la forte preoccupazione del presidente francese su una possibile degenerazione del clima socio-politico del paese. In particolare la deriva etnica che potrebbe diventare predominante nella campagna elettorale.

Un dibattito in punta di diritto

L’opposizione punta il dito contro il presidente uscente invocando la Costituzione del paese che prevede solo due mandati presidenziali. L’opposizione si aggrappa a questo, ed è comprensibile. Dal canto suo Ouattara e la maggioranza di governo, sostengono che un terzo mandato sia possibile proprio perché la nuova Costituzione del 2016 ha rinnovato l’intera architettura istituzionale del paese e non può quindi essere considerata in continuità con la precedente. La candidatura di Ouattara, sostengono, è legittima; addirittura potrebbe candidarsi per un quarto mandato. Tutti si augurano che la vicenda si risolva in punta di diritto, anche se sembra molto difficile che accada. La confusione politica nel paese è alta, non solo nel partito di maggioranza, ma anche tra i ranghi dell’opposizione. Fragilità istituzionale e politica che si evidenziano guardando, semplicemente, all’età dei candidati forti alla presidenza: Ouattara, 78 anni; Henri Konan Bédié, 86 anni, anch’egli ex presidente e Gbagbo, 75 anni.

Alleanze e strategie incrociate

Il presidente uscente, nel marzo scorso, aveva annunciato la volontà di non ricandidarsi per lasciare «spazio alle nuove generazioni» e successivamente aveva designato il suo primo ministro, Amadou Gon Coulibaly (61 anni), come successore e candidato alle presidenziali. La malattia e la morte del premier, l’8 luglio, hanno rimescolato le carte, gettando nel caos il Rassemblement des Houphouëtistes pour la democratie et la paix (Rhdp), partito di governo. L’unica scelta possibile, a quel punto, era riproporre la candidatura di Ouattara, l’unico in grado di ricompattare il partito, anche dopo la defezione dell’ex ministro degli Esteri, Marcel Amon-Tanoh, ex braccio destro del presidente, che ha deciso di candidarsi e di fondare un suo partito.

La sfida elettorale si giocherà, comunque, tra Ouattara e il suo rivale Henri Konan Bédié, presidente del Parti Démocratique de la Côte d’Ivoire (Pdci), all’opposizione, che ha promesso di istituire “un governo di salute pubblica, aperto a tutte le principali sensibilità politiche” del paese, se verrà eletto alle presidenziali del 31 ottobre. Bédié ha anche definito “illegale” una candidatura di Ouattara per un terzo mandato. Bédié chiede, inoltre, il ritorno nel paese dell’ex presidente Laurent Gbagbo, con il quale ha annunciato di aver raggiunto un accordo per una possibile alleanza elettorale al secondo turno: un’alleanza tra ex presidenti, a cui si unirebbe anche Guillaume Soro – nonostante la condanna a 20 anni non ha rinunciato alla candidatura alle presidenziali, anche se è costretto a vivere all’estero per evitare il carcere – che si è detto d’accordo a fare fronte comune in un eventuale ballottaggio contro Ouattara, per scongiurarne la vittoria.

Cherchez la femme: Simone Gbagbo

Ad accendere la miccia delle proteste, tuttavia, è stata l’ex first lady ivoriana, Simone Gbagbo, rompendo il suo tradizionale silenzio e definendo la candidatura di Ouattara “irricevibile”, sostenendo che un capo di stato «non può dire una cosa e smentirsi immediatamente dopo. Soprattutto di fronte alla nazione. Il rispetto per la propria parola deve essere più che mai osservato in politica». Le proteste, infatti, sono scoppiate proprio a Bonoua, cittadina d’origine dell’ex first lady. Una manifestazione di protesta, che si è tenuta nonostante il divieto imposto dalle autorità, è sfociata in violenze dopo l’intervento delle forze dell’ordine e l’uccisione di un giovane, sembra morto in seguito agli spari della polizia. Il commissariato è stato incendiato, mentre alcuni dimostranti si sono rivoltati contro gli agenti e contro lo stesso commissario. Anche nella capitale economica Abidjan alcuni sostenitori dell’opposizione hanno sfidato il divieto di manifestare. La tensione è cresciuta pure a Daoukro, caposaldo di Bédié. Anche ad Abidjan hanno cominciato a circolare giovani armati di mazze e machete che parrebbero in combutta con la polizia, in particolare nel quartiere di Yopougon.

Simone Gbagbo, inoltre, ha chiesto al presidente Ouattara di riconsiderare la condanna a 20 anni di carcere del marito come gesto di “riappacificazione nazionale”, chiedendo «al capo dello stato di approvare una legge sull’amnistia per rendere nuovamente eleggibile il signor Laurent Gbagbo. Lo invito a rilasciargli un passaporto diplomatico. È una questione di diritto. E lo invito a liberare tutti i prigionieri della crisi postelettorale e a facilitare il ritorno di migliaia di esiliati». Tuttavia, non è ancora chiaro se Gbagbo, che risiede in Belgio, accetterà la richiesta del proprio partito, il Front populaire ivoirien, di tornare in patria dopo essere stato assolto dall’accusa di crimini di guerra dalla Corte penale internazionale lo scorso anno.

Bonoua, inoltre, è sempre stato teatro di proteste. C’è solo da sperare che sia un episodio sporadico e non l’inizio di proteste più diffuse.

Niente colpi di mano…

I fantasmi del passato, infatti, continuano ad aleggiare sulla Costa d’Avorio. Il paese ricorda ancora la crisi del 2010 quando si scatenò una vera e propria guerra civile, ci furono più di 3000 morti. Sono molti gli analisti che non credono che si possa ripresentare uno scenario come quello del 2010, di sicuro ci sarà un inasprimento del clima politico – come già sta avvenendo.

Non ci sono avversari che possano approfittare della fragilità istituzionale e politica per mettere in atto un colpo di mano. Il Front populaire non ha la forza e la capacità di mettere in atto uno scenario di questo tipo. Il partito di Bédié, il Pdci, non ha nel dna questo tipo di soluzione. Nel paese non ci sono soggetti che possano dare una spallata a un’architettura istituzionale seppur fragilizzata. Non si intravedono, inoltre, le condizioni né regionali né internazionali perché uno scenario simile a quello del 2010 si possa ripetere. Una Costa d’Avorio fragile e instabile non è nei piani di nessuno. Basti pensare che – nei mesi precoronavirus – il porto di Abidjan movimentava il 40 per cento delle merci della regione, oltre che la metà della massa monetaria.

Non è un caso, infatti, che la decisione di mettere fine al franco Cfa, la cosiddetta moneta coloniale, sia stata annunciata dal presidente francese, Emmanuel Macron, proprio durante la sua ultima visita ad Abidjan, durante una conferenza stampa congiunta con il capo di stato ivoriano, Ouattara, anche se l’entrata in vigore della moneta unica, Eco, è stata rinviata di almeno cinque anni.

… ma non esiste un mediatore politico

Rimane, e forte, l’incognita etnica. Il rischio è che i falchi, di tutte le parti politiche, facciano leva sullo scontro/confronto etnico e comunitario e questo non sarebbe un bene per il paese. E i segnali che ciò possa accadere ci sono tutti. E le vicende etniche non si risolvono in punta di diritto – come la questione del terzo mandato –, ma attraverso la mediazione politica.

Non c’è, per ora, un soggetto autorevole e sopra le parti che possa condurre questa mediazione. Molto dipenderà dal partito al potere, ma anche dall’opposizione. Non è ancora chiaro se questa riuscirà a trovare una composizione, uscendo anch’essa dalla confusione. L’iniziativa di Macron si inserisce proprio in questo contesto. Una Costa d’Avorio fragile e instabile non è nei piani della Francia.

 

 

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Considerazioni sul Libano che vanno oltre il Libano https://ogzero.org/considerazioni-sul-libano-che-vanno-oltre-il-libano/ Thu, 03 Sep 2020 09:08:42 +0000 http://ogzero.org/?p=1121 Archiviare i rapporti di forza coloniali in questo periodo di nazionalismi esasperati può ricondurre a modelli vecchi di secoli, anziché soddisfare le richieste di emancipazione dei popoli repressi: l'impero ottomano e quello russo tentano di ricreare le antiche sfere di influenza.

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«Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: “la Padania è una repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore”». Parole di Umberto Bossi nella sua dichiarazione d’indipendenza della Padania, 15 settembre 1996. Una sfida, una provocazione politica. Ma anche la realtà di un mondo in cui le Nazioni, come sono state disegnate negli ultimi secoli, non necessariamente corrispondono agli elementi coesivi che finora hanno consentito loro di sopravvivere in pace.

Anni fa sentivo un giovane militare israeliano stanco della guerra contro l’indipendentismo palestinese affermare: «A cosa serve tutto questo. Presto il mondo sarà globalizzato e le nazioni, come le conosciamo oggi, non esisteranno più. Ognuno vivrà dove meglio si trova». Quel futuro (non solo per il Covid) c’è e non c’è. E invece assistiamo a una lenta e spesso cruenta trasformazione del mondo come fu tracciato nella sabbia o sulle cime dei monti dai nostri nonni e bisnonni. Divisioni e non consolidamento.

Confini tracciati altrove

Da Bossi e la Padania, tra razzismo e settarismo religioso, non è difficile approdare sulle sponde meridionali del Mediterraneo. Non soltanto perché sono poche ore d’aereo ma perché il Vicino Oriente come lo vediamo sulle cartine geografiche e nelle cronache dei telegiornali, fu creato o disegnato nel Castello Devachan a Sanremo tra il 19 e il 26 aprile 1920 e consolidato – si fa per dire – pochi mesi dopo a Sèvres, in una antica fabbrica di porcellane a sud di Parigi. Il tutto sulle rovine di uno dei più longevi, affascinanti, poco studiati e spesso incompresi imperi della storia. Di cui anche il minuscolo territorio che conosciamo come Libano faceva parte.

Segno di cambiamento degli equilibri

L’esplosione del 4 agosto 2020 a Beirut, che ha ucciso oltre 200 persone e ferito altre 7000 devastando vaste zone della capitale libanese, ha riportato il paese dei cedri sulle prime pagine dei giornali. Accanto a dubbi, incertezze, ipotesi (attentato o incidente?) sono riprese le considerazioni sulla stabilità, direi quasi la sopravvivenza, del piccolo paese creato dalla Francia e di cui Parigi sembra rivendicare un diritto di tutela se non di più. I legami tra Francia e Libano risalgono al XVI secolo quando la monarchia parigina si rivolse al sultano ottomano per proteggere i cristiani di una regione che, dalla nascita di Gesù in poi, il mondo religioso cresciuto attorno alla sua memoria definisce “Terra santa” ma che per 623 anni, dal 1299 al 1922, faceva parte di uno degli imperi più longevi e potenti e spesso più illuminati della storia controllando, in nome dell’islam sunnita, fette importanti dell’Europa e dell’Asia.

Dove le feroci Crociate dei cristiani d’Europa non riuscirono nel loro intento di dominare la terra d’altri, la forza militare e la diplomazia degli imperi più recenti del vecchio continente ebbero maggiore successo. Con la sconfitta tedesca nella Prima guerra mondiale e la conseguente distruzione del suo alleato di comodo – l’impero Ottomano appunto – francesi, inglesi e italiani (con il consenso dello zar di tutte le Russie) si divisero le spoglie. Non fu un processo indolore. Il trattato di Sèvres provocò la reazione immediata dei nazionalisti turchi sopravvissuti alla sconfitta del vecchio impero. Mustafa Kemal Atatürk, il padre della Turchia moderna, guidò una serie di guerre per cacciare francesi, italiani, greci dall’Anatolia e dopo appena tre anni, con il Trattato di Losanna, gli europei furono costretti a fare un piccolo passo indietro riconoscendo i confini della Turchia di oggi. Un prezzo relativamente modesto visto come Gran Bretagna e Francia erano riusciti a consolidare la loro presenza nel Vicino Oriente e determinare la realtà di nuove entità come Siria, Iraq, e a gettare le basi, con il patto semiclandestino di Sykes-Picot (16 maggio 1916), per la creazione di Israele. Nelle loro menti probabilmente più che un regalo ai sionisti ebrei (peraltro quasi tutti europei) doveva essere un elemento di disturbo nel mondo arabo dominato dalle due anime principali dell’islam.

Mandato coloniale permanente?

Torniamo al Libano. La Società delle Nazioni, ratificando l’accordo Sykes-Picot, affidò la Grande Siria (la Siria attuale e cinque province che costituiscono l’attuale Libano) al controllo diretto della Francia. E Parigi agendo da padrone colonialista, nel settembre 1920 istituì la Repubblica libanese con Beirut come capitale sul territorio allora in gran parte cristiana ma con una forte minoranza musulmana (oggi maggioranza) e drusa. Il paese divenne indipendente alla fine della Seconda guerra mondiale. Fu adottata una Costituzione che voleva garantire i diritti delle varie comunità con un sistema di divisione del potere. Per molti anni ha funzionato trasformando il piccolo stato sulle rive del Mediterraneo in una specie di Svizzera del Medio Oriente: nel bene e nel male.

Gli sviluppi politici nella regione dopo la creazione dello stato d’Israele e, più di recente, con la rivoluzione khomeinista in Iran, assommato ai grandi cambiamenti demografici in Libano, hanno portato alla situazione che vediamo oggi. Con una provocatoria petizione online firmata da 60000 tra residenti e membri della grande e influente diaspora libanese, è stato chiesto alla Francia di tornare a prendersi cura del Libano con un nuovo Mandato. «La Francia non lascerà mai il Libano», parole del leader francese Macron in visita a Beirut devastata dall’esplosione al porto. «Il cuore del popolo francese batte ancora al polso di Beirut». Solo retorica o il neocolonialismo francese fatica a morire? Per sottolineare il legame storico, Macron ha fatto il bis tornando a Beirut il 1° settembre, cento anni dopo quel famoso “Mandato”. Ancora parole, ma forse la consapevolezza che troppi fattori, locali e regionali, giocano contro un ruolo di Parigi che vada oltre eventuali piogge di euro per sostenere un sistema corrotto e fallimentare. Di sicuro, con la divisione del potere costituzionale che non rispecchia più la realtà demografica del Libano, il futuro della piccola nazione è sempre più in bilico in un mondo in cui montano le tendenze autonomiste, si inasprisce lo scontro tra Iran e Arabia saudita, gestori delle due verità contrapposte dell’islam, e prendono impeto le aspirazioni di vecchie potenze imperiali, tra cui la Turchia. Una nota: gli stati nazionali radicati nella storia della regione di cui parliamo sono appena quattro: Egitto, Iran, Yemen e Turchia.

Il passato, un incubo rinnovabile

La disgregazione dell’Unione sovietica e della Jugoslavia hanno aggiunto nuove nazioni all’Onu e si è parlato molto negli ultimi anni di ridisegnare i confini del Medio Oriente per soddisfare le istanze, per esempio, dei curdi, traditi dalle spartizioni postimpero Ottomano. Stesse ipotesi aleggiano per risolvere il conflitto interno della Libia, altra realtà complessa disegnata dall’Italia coloniale dopo la cacciata dei turchi da Cirenaica e Tripolitania. In essenza, è in corso nel bacino del Mediterraneo un grande gioco i cui protagonisti rispecchiano più il passato che un’idea rivoluzionaria per il futuro. Mentre la Francia rincorre la sua gloria appassita e la Russia agisce pensando non tanto all’Urss, di relativamente breve memoria storica, quanto al grande impero degli zar che molti osservatori tendono a dimenticare, la Turchia (membro della Nato, formalmente alleato dell’Occidente e, purtroppo, più volte respinta come possibile membro dell’Unione europea) sembra voler ripristinare la gloria dell’impero d’Oriente e dell’islam sunnita che dominarono per sei secoli sulle rovine dell’impero cristiano di Costantinopoli. La nuova classe dirigente turca e buona parte degli ufficiali superiori rivendicano quanto meno un ruolo di potenza regionale soprattutto sul Vicino Oriente islamico.

Per i servizi segreti israeliani, che guardano con simpatia alle mosse di Macron, e per la Cia, in uno stato di confusione anche per la politica attuale della Casa Bianca, la Turchia di Erdoğan (in corso di collisione con la Grecia per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nel Mediterraneo) «è più pericolosa dell’Iran» degli ayatollah. Di sicuro l’estensione della presenza militare di Ankara – dalla Libia a Siria, Libano settentrionale, Iraq, Qatar, Afghanistan, Somalia e i Balcani – non è mai stata tanto vasta dai giorni dell’Impero Ottomano. L’accordo tra gli Emirati arabi uniti (che hanno paura dell’Iran) e Israele (nemico principale di Tehran) fa parte del Grande gioco regionale che mette in difficoltà soprattutto le pedine più piccole e deboli. Quelle create a tavolino.

Assisteremo a nuove guerre e alla creazione di nuovi confini? Una piccola scintilla potrebbe far esplodere le istanze autonomiste di cui conflitti religiosi e tribali sono i sintomi sempre più evidenti. Se la nostra Padania non è veramente a rischio perché non vi esistono le condizioni fondamentali per rivendicare l’autodeterminazione, non è così per molte delle realtà nel Vicino Oriente (e non soltanto) dove vi sono popoli riconosciuti come tali sottomessi da governi non rappresentativi che li discrimina come razza, credo o colore.

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Catene di isole nella corrente del grande gioco indopacifico https://ogzero.org/studium/catene-di-isole-nella-corrente-del-grande-gioco-indo-pacifico/ Fri, 31 Jul 2020 07:11:27 +0000 http://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=956 L'articolo Catene di isole nella corrente del grande gioco indopacifico proviene da OGzero.

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Catene di isole nella corrente del grande gioco indo-pacifico

La Belt Road Initiative sembrava inarrestabile. Dopo la pandemia e la definitiva cinesizzazione di Hong Kong il progresso di questo imponente flusso di infrastrutture, vie di comunicazione, isole “create” nell’oceano e ferrovie che corrono nel deserto non sembra aver perso impulso nelle intenzioni di Xi. Questo Studium prende però le mosse dall’ipotesi che cominci a incontrare la resistenza di una rete internazionale, intessuta per imbrigliare i traffici di questa sorta di neocolonialismo cinese… innanzitutto costituita da una cortina stesa a partire dalle intasate miglia del Mar cinese fino ai contesi dirupi del Kashmir.

40%

Avanzamento

Attori europei sul palco indo-pacifico

Riconoscendo il valore economico e geopolitico dell’Indo-Pacifico – dove ha sede il 60% della popolazione e un terzo del commercio mondiale – la Germania sfrutta il riposizionamento nel quadrante per rilanciare il multilateralismo e il libero scambio, invocando un dialogo europeo con la NATO e gli attori regionali, non è l’unico paese del Vecchio Continente ad aver voltato lo sguardo a Oriente.

Nel 2019 anche Parigi parla di “libero commercio”, “multilateralismo” e di un “ordine multipolare” nella zona e l’avvio di trattative per una possibile adesione alla partnership per l’ex TPP da cui l’America di Trump si è sfilata nel 2017 – ha coinciso con l’emergere di indiscrezioni sulla presunta decisione di inviare, per la prima volta, una delle due portaerei britanniche nella regione.

Ultimamente, l’interesse di Bruxelles (che si era dichiarata neutrale) per il quadrante si è esplicitato in un inedito avvicinamento a Taiwan.


Il futuro del quadrante indo-pacifico: porti cinesi come in un filo di perle

Si inaspriscono i rapporti tra i colossi economici mondiali che mostrano i muscoli con operazioni di militarizzazione che in realtà vanno al di là delle questioni dei diritti nazionali rivendicati e rispecchiano i rispettivi interessi economici nell’area indo-pacifica. Questo antico Risiko vede contrapposti per esempio Cina e India (sulla Line of Actual Control che fa da confine ad alta quota) con ripercussioni sul vicino Pakistan, una triangolazione che favorisce gli Stati uniti nella sua Guerra Fredda contro Pechino.

E i conflitti non sono solo in terra ma anche sui mari, dove la conquista dei porti in punti strategici da parte della Cina rende più aspri anche i rapporti con i vicini regionali interessati economicamente a quelle aree che intessono così alleanze di comodo e scatenano l’interventismo americano nella regione. Inoltre gli scontri diplomatici (e non) che riguardano Hong Kong si riverberano anche sugli accordi tra la Santa Sede e Pechino che avevano preso, con l’attuale papa, una strada di riavvicinamento con l’Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi, disaccordi che fanno buon gioco a Washington (e all’India di Modi) nel suo tentativo di arginare la potenza cinese.

Emanuele Giordana analizza in questo Punctum come si sviluppa il gioco globale in questa zona del mondo.


Alla conquista del Mar cinese, un pezzo alla volta

I rapporti tra Cina e Stati Uniti sono sempre più tesi, anche a causa della disputa territoriale nel Mar cinese meridionale – area che ospita un terzo del commercio marittimo mondiale –, che vede la Cina accusata di militarizzare la zona, alimentando il contrasto con altre potenze (Brunei, Malesia, Filippine, Taiwan e Vietnam, e anche con l’Australia che nelle isole del Pacifico ha sempre investito e ora sta assumendo una posizione difensiva con un piano decennale da 270 miliardi di dollari per rafforzare i propri sistemi difensivi) che ambiscono al controllo di quelle zone del Pacifico come gli arcipelaghi delle Paracel e delle Spratly o le isole Marshall e le Pratas.

La Cina, dal canto suo, accusa gli Stati uniti di ingerenza in affari regionali che non li riguardano, ingerenza dimostrata dalle sempre più frequenti incursioni in quel quadrante.


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