Farc Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/farc/ geopolitica etc Fri, 25 Mar 2022 11:55:40 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 La terra, il petrolio e il conflitto https://ogzero.org/la-terra-il-petrolio-e-il-conflitto/ Wed, 26 Jan 2022 00:45:01 +0000 https://ogzero.org/?p=5928 Luz Marina Arteaga Il corpo di Luz Marina Arteaga è stato ritrovato lungo il Río Meta lo scorso 17 gennaio, a 5 giorni dalla scomparsa della donna dalla sua residenza nel paesino di Orocué, nella pianura orientale colombiana non lontana dalla frontiera con il Venezuela. È il drammatico esito di una storia già scritta che […]

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Luz Marina Arteaga

Il corpo di Luz Marina Arteaga è stato ritrovato lungo il Río Meta lo scorso 17 gennaio, a 5 giorni dalla scomparsa della donna dalla sua residenza nel paesino di Orocué, nella pianura orientale colombiana non lontana dalla frontiera con il Venezuela. È il drammatico esito di una storia già scritta che non lascia speranza, tanto che fra dolore e tristezza, molti sospettano che non poteva esserci finale diverso.

Luz Marina Arteaga, medica, attivista, leader sociale e comunitaria, aveva alle spalle una vita intera di lotte per i diritti delle comunità indigene e contadine: una traiettoria politica che l’aveva portata a collaborare nei processi di base delle fasce sociali che più di tutte hanno sofferto il conflitto interno colombiano e che sono sempre rimaste ai margini della storia e della giustizia. Oggi come ieri.

Nei territori di Orocué, Porvenir e Matarratón, zone che si estendono lungo la frontiera fra i dipartimenti del Meta e di Casanare, Luz Marina Arteaga è stata attiva in prima linea e fino alla fine dei suoi giorni nella lotta per la restituzione delle terre alle comunità indigene e contadine che a causa del conflitto armato, del paramilitarismo e della privatizzazione, sono rimaste senza nulla. La sua è stata e continua a essere una lotta che esemplifica chiaramente la conflittualità sociale presente in buona parte della Colombia, del Sudamerica e non solo: una lotta che svela interessi e alleanze, dinamiche di corruzione, di guerra e di violenza. Al centro, il cuore e il motore del conflitto: la tierra, risorsa e condanna per centinaia di migliaia di persone.

Brian Cardenas, avvocato della Corporación Claretiana Norman Pérez Bello, spiega il ruolo di questa organizzazione attiva nell’accompagnamento sociale e giuridico alle comunità contadine e indigene, e poi nel ricordare il ruolo assunto da Luz Marina Arteaga riassume il processo di lotta per il recupero della terra che le è costata la vita.

La lotta per la terra

Impossibile e ovviamente troppo pericoloso indicare mandanti e mercenari responsabili dell’assassinio dell’attivista, ma le dinamiche sono chiare: quelle che passano attraverso azioni di rioccupazione dei territori di proprietà storica.

“Lucha Tierra”.

Tutto ciò si accompagna a un caso giuridico durato anni, le comunità di Matarratón e Porvenir ottengono due sentenze a loro favore da parte degli organi più alti della giustizia colombiana, la Corte Suprema (STP 16298 del 2015) e la Corte Constitucional (SU-426 del 2016), le quali determinano che lo stato deve restituire loro le terre e assicurare diritti con prospettiva etnica e collettiva, servizi pubblici e garanzie di sicurezza. Ma proprio qui, nella pianura infinita che separa il dire e il fare, l’assetto giuridico e la sua realizzazione pratica, si perde la giustizia e si crea un vuoto colmato da gruppi armati che rappresentano gli interessi di chi sta al di sopra della legge.

Il risultato è che lo stato e i grandi latifondisti si organizzano in vari modi: i territori in questione vengono dichiarati zone di interesse per lo sviluppo economico, sostituiscono la popolazione mostrando che la restituzione si sta effettuando secondo le regole salvo poi espellerla per mantenere i titoli di proprietà, vittime e carnefici del conflitto armato si confondono con tutte le conseguenze del caso, e non da ultimo contrattano e organizzano gruppi paramilitari perché prevalga la loro volontà. Così, alla fine, non rimane che l’esito scontato per quelle persone che si ostinano a reclamare diritti e giustizia.

Nel caso di Luz Marina Arteaga come in quello di molte altre attiviste e attivisti, lo stato e le istituzioni hanno una responsabilità diretta anche rispetto all’assenza di protezione e misure di sicurezza che dovrebbero garantire, soprattutto nei casi in cui l’omicidio è preceduto da svariate minacce e ricatti.

Quanto alle modalità, Brian Cardenas della Corporación Claretiana Norman Pérez Bello non ne è per nulla sorpreso: in questo tipo di casi si va ben oltre un semplice proiettile o un “omicidio convenzionale”. L’idea è quella di colpire la figura più emblematica della lotta sociale per mandare un messaggio all’intera comunità, e per questa ragione l’agguato avviene in modo estremamente violento ed è quasi sempre preceduto dalla scomparsa – desaparición – della persona.

 

Centroriente: petrolio e conflitto

Così come l’Occidente colombiano che si apre sull’Oceano Pacifico e che vede nel porto di Buenaventura il principale sbocco per il commercio di ogni tipo di merce e sostanza, anche la pianura Centrorientale assume un ruolo strategico e attrae vari tipi di attori. La vicinanza con la frontiera venezuelana crea commerci di ogni genere, ma il Centroriente colombiano è conosciuto soprattutto per essere zona di estrazione di petrolio (circa un quarto della produzione a livello nazionale trova radici nei dipartimenti di Arauca, Meta e Casanare), per cui non sorprende la presenza di grandi imprese straniere che si dedicano a questa attività.

Già negli anni Trenta venne scoperta la ricchezza presente nel sottosuolo della regione, ma fu solo a partire dai primi anni Cinquanta che l’impresa Texas Petroleum Company (Texaco) cominciò le attività di estrazione di petrolio. Queste ultime si intensificarono esponenzialmente durante gli anni Ottanta, con la scoperta dei pozzi di Caño Limón (dipartimento di Arauca), Cupiagua e Cusiana (dipartimento di Casanare). Si trattava di riserve di petrolio con una capacità stimata in 100 miliardi di barili. In epoca più recente, dal 2010 a questa parte, nei municipi di Trinidad, San Luis de Palenque e Orocué (esattamente dove viveva Luz Marina Arteaga) sono stati destinati vari pozzi all’estrazione da parte di imprese come Alange, Canacol Energy, Pacific Rubiales e Lewis Energy Colombia INC. Altre multinazionali presenti nel territorio sono Parex Resources ed EcoPetrol.

Le implicazioni per le comunità presenti nel territorio sono molte e ancora una volta trovano nella terra il punto di partenza e di arrivo: vanno dall’inquinamento delle acque alla sottrazione di spazi per il pascolo e l’agricoltura, mentre a livello giuridico si traducono nel mancato rispetto del diritto alla consulta previa secondo la quale le comunità presenti nel territorio possono decidere se accettare o meno i “mega-progetti” che le vedono implicate. Infine le più gravi implicazioni in termini di vite e diritti umani consistono negli omicidi selettivi da parte dei gruppi armati e nello sfollamento forzato di intere comunità: la logica denunciata da queste ultime vede nella creazione di “zone di conflitto” e nella militarizzazione del territorio la giustificazione per espellere la popolazione civile e permettere in tal modo l’entrata delle multinazionali, con tutti i giochi di potere e di corruzione del caso.

Pressioni sulle comunità: violenze antisindacali e conflitti tra guerriglie

Squadrismo paramilitare petroliero

In questo scenario il paramilitarismo gioca un ruolo centrale; e del resto in questa zona del paese già durante la violenza degli anni Cinquanta i conservatori crearono i pajaros, gruppo armato impegnato nella repressione della resistenza liberale guidata da Guadalupe Salcedo. Fu poi a partire dagli anni Novanta che si incrementò il fenomeno del paramilitarismo, quando l’impresa British Petroleum (BP) favorì la creazione di “gruppi di sicurezza privata”. Si moltiplicarono così gli esempi: il gruppo Martín Llanos, le Autodefensas Unidas del Casanare e le Autodefensas Campesinas de Casanare (Acc o Los Buitragueños), i quali non entrarono nel processo Jusiticia y Paz di smobilitazione delle più famose Autodefensas Unidas de Colombia (Auc) nel 2005.

Il loro operato si tradusse sempre – e continua a farlo oggi – in attacchi verso le organizzazioni sindacali che si oppongono agli interessi delle imprese, verso le comunità in resistenza per la difesa del territorio, verso i leader sociali e gli attivisti di base.

Quanto accaduto a Luz Marina Arteaga non è che un altro esempio del tipo di repressione che spetta a chi osa toccare gli interessi dei potenti, mentre l’altra certezza è che insieme alla terra, il petrolio ha alimentato il conflitto e la violenza da oltre mezzo secolo a questa parte.

Guerriglie e giochi di potere

Il Centroriente colombiano, soprattutto nei dipartimenti di Arauca e Casanare, è pure territorio storico di controllo della guerriglia: l’Eln principalmente e in minor misura le Farc. Imprese multinazionali, esercito e gruppi paramilitari hanno da sempre dovuto fare i conti con loro e molte zone sono rimaste inaccessibili all’estrazione di petrolio proprio grazie alla presenza della guerriglia.

La situazione fino a qualche mese fa non mostrava grandi differenze rispetto al passato, con una forte presenza politica dell’Eln nel substrato politico e popolare e con l’espansione militare del Frente 10 e 28 delle dissidenze delle Farc agli ordini di alias Gentil Duarte, mai entrati nelle trattative degli Accordi di Pace del 2016. Fra Eln e Farc reggeva un patto di alleanza politica, militare e ideologica stretto nel 2013 e mantenuto anche dopo il 2016, a seguito di una lunga guerra fra il 2004 e il 2010 che costò la vita a 500 civili e 600 combattenti.

Frente e Eln

Nel corso del 2021 qualcosa è tuttavia cambiato: nel mese di marzo è stato dato l’allarme per l’espansione del paramilitarismo nelle zone di controllo storico della guerriglia, e quasi al contempo Maduro ha dichiarato guerra alla dissidenza delle Farc (Frente 10) attiva lungo la frontiera fra Colombia e Venezuela. A inizio 2022 le dissidenze delle Farc hanno dichiarato guerra all’Eln e in un comunicato hanno affermato la costituzione del Comando Conjunto del Oriente, composto dal Frente 10, 28, 45 e 56, con l’idea di riattivare i blocchi di guerra delle antiche Farc. Tutto ciò malgrado un’altra fazione delle Farc pure presente nel territorio, la Segunda Marquetalia agli ordini di Ivan Márquez – entrato nelle negoziazioni degli Accordi di Pace e poi sottrattosi – sarebbe invece alleata con l’Eln.

Sono scenari che possono sembrare irreali ma che rispondono a interessi politici ed economici oltre che a strategie militari; quel che è certo è che in questo inizio di 2022, tali avvicendamenti hanno lasciato una lunga scia di sangue: a farne le spese è stata soprattutto la base civile e il movimento sociale, come dimostrano gli attacchi del Frente 28 delle Farc all’acquedotto autogestito di Saravena e l’autobomba fatta esplodere lo scorso 19 gennaio di fronte alla sede del Congreso de los Pueblos, movimento politico legato ideologicamente alla linea dell’Eln. Oltre a ciò, in questo mese di gennaio si contano 20 omicidi selettivi e 3 stragi nella regione.

Diverse organizzazioni sociali concordano nel dire che lo stato e le dissidenze delle Farc presenti nel territorio si sarebbero alleati per combattere contro l’Eln, e non a caso i principali scontri militari starebbero avvenendo in zone di interesse per l’estrazione di petrolio fino a oggi inaccessibili perché sotto controllo dell’Eln stesso, come è il caso della regione de La Esmeralda. A ciò si aggiunge la forte repressione da parte dello stato, che considera eleno – appartenente alla guerriglia dell’Eln – ogni attivista delle comunità contadine e indigene, mentre al contempo denuncia la complicità del governo venezuelano nell’appoggiare tale guerriglia.

Uno scenario complesso

La scomparsa e il successivo assassinio di Luz Marina Arteaga risponde a una logica piuttosto chiara in quanto rappresenta una punizione per il suo impegno nelle lotte per la restituzione della terra; al contempo si inserisce in un contesto socio-politico specifico e relativamente nuovo, in cui si presentano scontri fra guerriglie e possibili alleanze fra stato, dissidenze e paramilitari, tanto più in una zona di frontiera (chiusa ufficialmente) con il Venezuela e in un clima di relazioni bilaterali pressoché inesistenti specialmente da quando Duque ha smesso di riconoscere Maduro come legittimo presidente.

 

Uno scenario che dimostra la profondità e la complessità del conflitto interno colombiano, tutto fuorché terminato con gli Accordi di Pace del 2016.

Al contempo, dall’altro lato del paese, a Cali, a inizio gennaio l’Eln ha rivendicato un attacco esplosivo che ha ferito 14 agenti dell’Esmad (il corpo antisommossa della polizia) in risposta alla violenta repressione messa in atto durante le proteste del Paro Nacional e all’uccisione del comandante alias Fabián lo scorso mese di settembre. Nella capitale Bogotá, invece, pochi giorni fa è stata trovata una bomba pronta per essere fatta esplodere nella sede del partito di ex combattenti delle Farc, Comunes.

Tutti segnali piuttosto univoci nel suggerire che la campagna elettorale è in pieno corso e che il 2022 promette di essere un altro anno molto intenso.

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Gli spartiacque delle comunità latinoamericane – 1 https://ogzero.org/gli-spartiacque-delle-comunita-latinoamericane-1/ Thu, 30 Dec 2021 17:22:22 +0000 https://ogzero.org/?p=5695 L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano. L’idea di usare i molti appuntamenti elettorali del 2021, in prosecuzione nel 2022, per incardinare in un unico flusso i rivolgimenti elettorali a consuntivo dell’anno che sta finendo e in continuità nella prospettiva […]

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L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano.

L’idea di usare i molti appuntamenti elettorali del 2021, in prosecuzione nel 2022, per incardinare in un unico flusso i rivolgimenti elettorali a consuntivo dell’anno che sta finendo e in continuità nella prospettiva dell’anno che verrà, è sorta dalla consueta attenta osservazione di Diego Battistessa sui fenomeni che avvengono nel continente. Abbiamo punteggiato questo rapido excursus individuando le tappe più significative con podcast sugli aspetti che lungo l’anno ci avevano incuriositi e che confermano le scelte di Diego per proporre un’analisi posta anche in dialettica con una parallela esposizione del punto di vista di Alfredo Somoza, focalizzata sull’individuazione delle due sinistre latinoamericane: quella populista-autoritaria e quella trasparente, popolare perché nata dalle pulsioni all’emancipazione dei popoli – anche e soprattutto latinos – e dai Movimenti di rivolta al neoliberismo, che sono al centro della critica all’involuzione del Capitalismo compresa in Siamo già oltre?


Il 2021 elettorale in America Latina e nei Caraibi:
un ritorno della regione a quale sinistra?

Con la vittoria di Gabriel Boric Font le elezioni presidenziali in Cile, la cui seconda tornata elettorale si è svolta il 19 dicembre scorso, chiudono un anno elettorale turbolento nella regione. Cerchiamo di fare il punto di quanto successo e di ciò che ci aspetta per il 2022 prossimo venturo.

L’anno che si sta per concludere è iniziato con un primo importante appuntamento con le elezioni presidenziali in Ecuador, celebratesi il 7 febbraio. L’uscente Lenin Moreno godeva del più basso consenso regionale e i suoi anni di governo si erano caratterizzati per un duro scontro con colui che fu il suo padrino politico: Rafael Correa (ex presidente ecuadoregno 2007-2017). A disputarsi la presidenza del paese andino sono stati il banchiere e imprenditore Guillermo Lasso, il leader indigeno Yaku Pérez e l’economista Andrés Arauz, nuovo delfino di Correa, la cui condanna per corruzione gli ha impedito di candidarsi alla vicepresidenza. La prima tornata elettorale, nella quale si votava anche per il parlamento, ha visto la vittoria schiacciante di Arauz che però non ha superato il 50 per cento dei consensi e ha dovuto quindi affrontare il ballottaggio con Guillermo Lasso: arrivato secondo dopo un polemico testa a testa con Yaku Pérez. L’11 aprile la votazione finale ha ribaltato i pronostici e ha dato la vittoria al banchiere conservatore Lasso, in un voto che si è concentrato principalmente sul correismo o anticorreismo, polarizzando il contesto politico e sociale.

Nel Salvador le elezioni legislative e municipali del 28 febbraio hanno visto la schiacciante vittoria del partito Nuevas Ideas, facente capo al presidente in carica, Nayib Bukele.

Alfredo Somoza ce ne fece un ritratto, mentre i salvadoregni si ribellavano al presidente populista

Ottenendo 56 seggi su 84 in gioco nel Congresso e 152 consigli municipali su 262, Bukele si è assicurato il totale potere politico nel paese centroamericano. Le azioni che hanno seguito a questo nuevo accentramento dei poteri dello stato hanno provocato però duri scontri interni e la critica della comunità internazionale nei confronti del “presidente millenial” del Salvador.

Alfredo Somoza evidenzia le radici comuni di Bukele e Ortega in quell’altra sinistra latinoamericana, riprendendo i fili della insurrezione della popolazione salvadoregna impoverita dal populismo
“Corsi e ricorsi nella storia del Mesoamerica”.

 


La sinistra paternalista delle Ande

Il 7 marzo nella Bolivia del presidente Luis Alberto Arce Catacora, si è votato per le elezioni subnazionali nelle quali la popolazione veniva chiamata a votare per i 9 dipartimenti che compongono lo stato plurinazionale della Bolivia e 336 comuni. Il Mas (Movimiento al Socialismo), partito dell’attuale presidente – e dell’ex presidente Evo Morales –, ha ottenuto la vittoria solo in 3 dipartimenti (Cochabamba, Oruro e Potosí) ma si è affermato in più di due terzi dei comuni: ben 240.

In aprile la scena politica regionale viene accaparrata dal Perù dove, dopo anni di terremoto sociale e politico, si cerca di ritornare a una normalità democratica. Tra i numerosi candidati che si presentano alla sfida presidenziale, sono due persone che rappresentano poli opposti che arrivano al ballottaggio. Si tratta di Keiko Fujimori (figlia dell’ex presidente Alberto Fujimori) del partito di destra Fuerza Popular e del candidato Pedro Castillo, un “signor nessuno” membro del partito di sinistra Perú Libre. Poi il 6 giugno nonostante la dura campagna mediatica contro Castillo, maestro elementare delle zone rurali, portata avanti da Keiko e dai settori conservatori del paese, la sinistra vince. Il Perù rimane con il fiato sospeso perché il risultato ufficiale tarda ad arrivare. Giorni di tensione, ricorsi, frustrazione fino al 19 di luglio, quando finalmente anche Keiko Fujimori si deve arrendere e riconoscere Pedro Castillo come nuovo presidente eletto del Perù.

Del tema dell’estrattivismo peruviano avevamo parlato con Matteo Tortone

 

 

Sempre nel mese di aprile (il 19) il Partito Comunista di Cuba – Pcc conferma il presidente Miguel Díaz-Canel come primo segretario, segnano la fine di un’epoca. Il 16 dello stesso mese infatti, Raúl Castro (89 anni) si era dimesso dalla carica del partito per dare spazio a una nuova generazione di rivoluzionari che potessero portare avanti lo spirito del castrismo. L’isola, ancora sotto embargo, è però oggi scossa dalle proteste di numerosi Artivisti che lottano per ottenere libertà di espressione e contro la repressione politica e sociale del partito unico.


La sinistra costituente spinta dai Movimenti popolari

Aprile avrebbe dovuto essere inoltre il mese storico per le votazioni che in Cile dovevano portare il popolo a scegliere i membri dell’Assemblea costituente ma per l’emergenza Covid-19 il processo elettorale è stato spostato al 15 e 16 maggio. Nella stessa data si sono svolte inoltre le elezioni municipali e quelle dei governatori regionali, previste inizialmente per il 20 ottobre 2020 e rimandate per ben 4 volte. Il risultato è stato un plebiscito per le eterogenee forze politiche della sinistra che hanno ottenuto più di due terzi dei seggi dell’Assemblea e risultati storici come la vittoria della giovane comunista Irací Hassler: eletta sindaco della capitale Santiago.

 Anche in questo caso possiamo affidare al commento di Alfredo Somoza il compiacimento per la svolta cilena:
“Chile despertó y entierra Pinochet”.

Giugno ci porta alle elezioni federali e statali in Messico dove Morena, il partito dell’attuale presidente Andrés Manuel Lopez Obrador (Amlo) ha mantenuto il controllo del Congresso (grazie alle alleanze), perdendo però la maggioranza assoluta. L’obiettivo di Amlo di ottenere una maggioranza qualificata insieme al Pt e al Partito dei Verdi si è vista dunque frustrata chiudendo le porte alle riforme costituzionali che erano l’obiettivo di Morena per i prossimi tre anni di presidenza.

A luglio si è tornato a votare in Cile per le primarie presidenziali e per la prima volta è apparso il nome di Boric, ma soprattutto la regione è stata sconvolta da ciò che succede a Haiti. Nella notte tra 6 e 7 luglio, un commando di 28 persone prende d’assalto la residenza del presidente Jovenel Moïse nel quartiere Pelerin, a Pourt-au-Prince, la capitale del paese. Sette uomini armati entrano nella casa sparando 16 colpi al presidente e ferendo anche sua moglie (che si è finta morta per sopravvivere all’attacco). Il magnicidio fa piombare il paese ancora più nel caos e scopre trame e interessi internazionali che intrecciano Colombia, Ecuador, Usa e il piccolo paese caraibico. Le elezioni presidenziali previste per novembre sono state spostate a data da destinarsi e nel frattempo Ariel Henry, membro del partito Inite (centro sinistra) funge da presidente provvisorio.

Diego Battistessa proprio a luglio commentava così la deriva haitiana:

 


La sinistra populista, dinastica e totalitaria

Il 12 di settembre in Argentina più di 34 milioni di persone sono state chiamate a votare alle primarie aperte simultanee e obbligatorie (Paso) per definire le liste dei candidati che si sarebbero sfidati a novembre per rinnovare metà della Camera dei deputati (127 dei 257 seggi) e più di un terzo del Senato (24 dei 54 seggi). In questo contesto l’opposizione è riuscita ad assestare un duro colpo al partito del presidente Alberto Fernández, vincendo nella provincia di Buenos Aires, principale roccaforte della coalizione di governo, Frente de Todos. La tendenza delle Paso è stata poi confermata nelle elezioni del 14 novembre dove la coalizione dell’opposizione Juntos por el Cambio ha vinto in 13 province, includendo i cinque distretti più popolosi del paese: la provincia di Buenos Aires, la Città Autonoma di Buenos Aires, Córdoba, Santa Fe e Mendoza. In generale, al livello nazionale l’opposizione è riuscita a staccare di ben 9 punti percentuali la colazione di governo, ottenendo quasi il 42% dei voti contro il 33% del Kirchnerismo.

Nel frattempo però, a ottobre si sono tenute le elezioni municipali nei 261 distretti territoriali del Paraguay: elezioni che erano previste per il 2020 ma che causa coronavirus furono rimandate. Il risultato più importante (e anche il più discusso) è stata la rielezione di Óscar Rodríguez, membro del partito di governo (Partido colorado) nella capitale Asunción, nonostante gli scandali di corruzione che lo hanno visto protagonista.

 

Il  7 novembre ci sono state inoltre le elezioni “farsa” in Nicaragua che hanno dato ancora una volta una vittoria “schiacciante” a Daniel Ortega e alla vicepresidente (sua moglie) Rosario Murillo. Dietro questo apparente plebiscito (con dati di astensionismo che si aggirano intorno all’80%) ci sono infatti molteplici violazioni dei diritti umani: una repressione senza precedenti, l’incarcerazione arbitraria (iniziata a maggio 2021) di 39 persone identificate dal regime come opposizione, tra queste sette aspiranti alla presidenza.

Diego Battistessa ci aveva già fatto a luglio un parallelo tra due situazioni di quell’altra sinistra simile a quello descritto da Alfredo Somoza tra Bukele e Ortega, questa volta la incredibile dinastia nicaraguense era posta a confronto con l’eredità castrista

“Las revoluciones desencantadas y socavadas”.

Il 21 dello stesso mese si è tornato a votare in Venezuela, in una votazione dove l’opposizione, anche se ancora frammentata, ha deciso di partecipare (prima volta dal 2018). Il Partito Socialista Unito del Venezuela – Psuv (partito di governo) ha vinto 20 dei 23 governi locali in ballo. All’opposizione invece la vittoria negli stati di Cojedes, Nueva Esparta e Zulia. Ancora una volta queste votazioni hanno suscitato non poche polemiche, anche per le irregolarità registrate dalla delegazione degli osservatori elettorali dell’UE presente sul territorio fin dal 14 ottobre e tornata in Venezuela dopo 15 anni di assenza. I delegati dell’UE sono stati chiamati spie e nemici del popolo venezuelano dallo stesso Maduro, che come se non bastasse, ha invalidato la vittoria del candidato dell’opposizione Freddy Superlano nello stato di Barinas. Qui infatti Superlano, della Mud (Mesa de la Unidad Democrática) ha affrontato sconfiggendolo, il fratello del defunto Hugo Chávez, ovvero Agernis Chávez. Barinas però è anche lo stato che ha dato i natali a Chávez ed è dunque un simbolo trascendentale per la rivoluzione bolivariana. In questo senso, accogliendo il diktat di Maduro, il Tribunal Supremo de Justicia (Tsj) ha informato a fine novembre che le elezioni a Barinas sono state invalidate e che si ripeteranno il 9 gennaio 2022: Superlano non potrà partecipare visto che su di lui esiste un processo amministrativo che gli impedisce di ricoprire cariche pubbliche.


Novembre ha visto poi la prima tornata elettorale delle presidenziali cilene che ha determinato la definizione del ballottaggio tra Boric e Kast, con il quale abbiamo iniziato questo veloce excursus, ma anche le storiche elezioni in Honduras: elezioni che hanno portato alla vittoria della leader di centrosinistra Xiomara Castro. Con una partecipazione del 70% degli aventi diritto, il paese centroamericano ha messo fine a 12 anni di neoliberismo (iniziato dopo il colpo di stato del 2009), dando la presidenza a una donna e sancendo la vittoria dei movimenti sociali e delle organizzazioni che si battono per la difesa dei territori e dei beni comuni.

Su queste due elezioni avevamo fatto il punto con Davide Matrone:

“Cile e Honduras: motivi sociali per confrontare responsi elettorali”.

Il mese si è concluso con un altro avvenimento epocale, ovvero la cerimonia attraverso la quale una giurista, Sandra Mason, è diventata la prima presidente della recente nata Repubblica delle Barbados. La cerimonia attraverso la quale l’isola caraibica ha cambiato il suo status da Monarchia Costituzionale (sotto il Regno di Elisabetta II) a Repubblica è avvenuta il 30 novembre. Un passaggio di consegne che ha coinciso con il 55esimo anniversario dell’indipendenza dell’isola caraibica, avvenuta nel 1966 ma che fino a fine novembre aveva continuato a essere legata alla Corona inglese.

Cosa ci aspetta nel 2022?

Se il 2021 è stato “senza tregua”, anche il 2022 ha davvero molto da offrire in termini di elezioni e processi elettorali.

Come già detto il calendario elettorale vedrà nuovamente a gennaio le elezioni nello stato di Barinas in Venezuela dove, senza troppa immaginazione, verrà dichiarato governatore Agernis Chávez. Il 6 febbraio si sposterà in Costa Rica per le elezioni legislative e presidenziali con una eventuale seconda tornata elettorale prevista per il 3 aprile. Ancora da definire poi le date delle elezioni “comarcali” a Panama ma soprattutto quelle del plebiscito nazionale in Cile per l’approvazione della nuova Costituzione. Inoltre il 2 ottobre si tornerà ancora una volta a votare in Perù per le elezioni regionali e municipali, sempre e quando le azioni di “spodestamento” di Pedro Castillo da parte dell’opposizioni non vadano a buon fine e non aprano la strada a nuovi e incerti scenari politici.

I due appuntamenti salienti però riguardano Colombia e Brasile dove due visioni diverse di società e di mondo si daranno battaglia per la presidenza.

In Colombia quest’anno siamo andati molte volte dapprima, a febbraio, con Ana Cristina Vargas, che poi è intervenuta in voce descrivendo l’insurrezione antiuribista di maggio:

e poi ci ha accompagnato anche Tullio Togni nei suoi vari interventi dal territorio, a giugno e dicembre
“Differenti protagonisti della rivolta colombiana. La necropolitica uribista”.

In Colombia, paese segnato da un processo di Pace che non decolla, da una disuguaglianza sociale in aumento e da interminabili casi di corruzione, violenza e impunità; l’Uribismo (movimento ideologico conservatore che segue la linea del’ex presidente Alvaro Uribe Vélez) dovrà cercare di frenare la sinistra in aumento di consenso. Il presidente uscente, l’uribista Ivan Duque, è stato indicato come il principale colpevole del fallimento degli accordi di Pace siglati da Juan Manuel Santos con le Farc e le proteste iniziate il 28 aprile 2021 hanno sancito la frattura definitiva con il popolo. La credibilità di Duque e la sua popolarità hanno subito dei duri colpi, anche a livello internazionale per i report delle ong e anche dell’Onu, sulle violazioni dei diritti umani perpetrate dagli squadroni antisommossa (Esmad) durante le proteste. In questo senso neanche i successi militari come la cattura del narcotrafficante Otoniel sono serviti a ridare smalto alla figura di Duque che milita nel partito Centro democratico, fondato da Uribe nel 2013.  Dall’altro lato la lista dei precandidati presidenziali continua ad ampliarsi favorendo una frammentazione del voto: a sinistra spicca il senatore Gustavo Petro che proverà per la terza volta a diventare presidente. Le elezioni si svolgeranno il 29 di maggio (prima tornata) con il ballottaggio previsto per il 19 giugno. Prima di quella data ci sarà un altro appuntamento elettorale che servirà per avere il polso della situazione, ovvero le elezioni legislative del 13 marzo.


In Brasile la situazione non solo è complessa ma è anche molto tesa. L’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, una volta superati i “problemi giudiziari” non ha nascosto la volontà di candidarsi per le presidenziali che si svolgeranno in prima istanza il 2 ottobre, con il ballottaggio previsto per il 30 ottobre. Da un lato la sua popolarità è in crescita e dall’altro Jair Bolsonaro, l’attuale presidente cerca di correre ai ripari dopo anni di politiche aggressive, escludenti e negazioniste nei confronti del Covid-19 e dei relativi vaccini. La popolarità di Bolsonaro non gode di buona salute ma nel frattempo il 30 novembre scorso lo stesso Bolsonaro si è affiliato al Partido liberal (destra), pensando a una ricandidatura per il periodo 2022- 2026.

Altre figure di rilievo nel paese hanno annunciato la loro volontà di candidarsi e tra queste spicca sicuramente il nome di Sergio Moro. Moro infatti a novembre scorso si è affiliato al partito di centro Podemos, in vista della partecipazione alle elezioni del 2022, presentandosi come una terza via per il Brasile. La possibile candidatura a presidente di questo ex giudice di 49 anni ha sollevato però non poche polemiche visto che proprio lui aveva diretto in modo non imparziale la mega operazione anticorruzione conosciuta come “Lava Jato” che aveva portato alla carcerazione di Lula. La non imparzialità di Moro, sostenuta a più riprese da molte voci della sinistra brasiliana, è stata sancita in modo definitivo dalla Seconda sezione della Corte suprema del Brasile, che ha dichiarato martedì 23 marzo 2021 che l’ex giudice non ha agito con “imparzialità” in uno dei processi contro l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, le cui sentenze erano già state annullate in precedenza.

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La Colombia della “pace” https://ogzero.org/la-colombia-della-pace/ Sun, 12 Dec 2021 21:25:45 +0000 https://ogzero.org/?p=5547 A 5 anni dagli Accordi di Pace fra il Governo Santos e la guerriglia storica delle Farc, il cammino per lasciarsi il conflitto alle spalle sembra ancora lungo e tortuoso, come il corso degli innumerevoli  corsi d’acqua del Delta del Rio Danubio; il dipartimento del Cauca si affaccia sulla costa pacifica della Colombia, ma di […]

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A 5 anni dagli Accordi di Pace fra il Governo Santos e la guerriglia storica delle Farc, il cammino per lasciarsi il conflitto alle spalle sembra ancora lungo e tortuoso, come il corso degli innumerevoli  corsi d’acqua del Delta del Rio Danubio; il dipartimento del Cauca si affaccia sulla costa pacifica della Colombia, ma di pacifico c’è solo la certezza del conflitto tra narcos. Tullio Togni ci ha inviato questi scatti che illustrano nel suo racconto un paesaggio di difficile composizione del cinquantennale conflitto ufficialmente concluso 5 anni fa dal premio Nobel, il presidente Juan Manuel Santos.


Jefferson commenta lo sparo isolato appena sentito poco lontano, dice che sicuramente non si tratta di un’esecuzione: se il colpo fosse stato diretto al cranio, lo avremmo sentito più soffice e diffuso; attutito. Usa le mani per spiegare qualcosa che va oltre il senso dell’udito, ma per chi non ci è abituato questo rimane un concetto astratto; aleggia nell’aria.

Costa colombiana sul Pacifico

 

Buenaventura, città portuale sulla costa pacifica colombiana, è un inferno a ritmo di salsa che a partire dalle sette di sera tace quasi del tutto: un coprifuoco informale proibisce ogni danza per le strade, nessuno osa togliere la scena alle bande locali che si spartiscono il controllo e il microtraffico; “los chotas” e “los espartanos” da un anno a questa parte si sono dichiarate guerra, ma rimangono parte della stessa struttura illegale detta “La Local”. Le principali occupazioni di quest’ultima sono il narcotraffico e l’estorsione, oltre a quella pratica terribile a cui la Colombia si è abituata nel corso degli anni di conflitto e che si definisce come “pulizia sociale”. La relazione storica è con le “Autodefensas Gaitanistas de Colombia – Agc”, anche dette “Clan del Golfo”, gruppo paramilitare presente a livello nazionale il cui massimo esponente, Dairo Antonio Úsuga David (alias Otoniel), è stato recentemente arrestato. Anche se molti pensano che si sia consegnato nel quadro di un accordo ben più ampio con il governo attuale; del resto, alle elezioni di maggio 2022 non manca molto tempo.

La riconfigurazione del conflitto

Se potesse scegliere, Jefferson non andrebbe mai a Buenaventura, rimarrebbe tutta la vita in uno dei numerosi villaggi di palafitte sparse che si estendono lungo i cosiddetti “Fiumi di Buenaventura”, rami d’acqua che dalla cordigliera occidentale attraversano la foresta del Chocó e del Valle del Cauca per poi sciogliersi nell’Oceano pacifico. Ma c’è una relazione stretta fra gli spari e la casa di legno lasciata vuota davanti alla quale è seduto: in tutta questa zona, la popolazione locale – principalmente afrocolombiana – vive sotto il fuoco incrociato dei gruppi armati presenti, in particolare le dissidenze delle Farc che non sono entrate nel Processo di Pace o vi si sono sottratte, l’Eln – Esercito di Liberazione Nazionale, i paramilitari delle Agc e lo stesso Esercito colombiano. È errato gettare tutto nello stesso calderone, ma nella confusione generale della riconfigurazione del conflitto nel post-Accordo, la stessa guerriglia ha perso la sua identità storica e varia molto a seconda della regione e del contesto in cui opera; nell’Occidente colombiano, punto d’incontro fra l’entroterra e il porto di Buenaventura da cui passa oltre il 60 per cento della merce del paese, quasi tutti i gruppi armati sembrano avere vocazione economica – la cocaina – più che ideologica, per cui anche se nella maggior parte dei casi l’esercito e le Agc si alleano informalmente per combattere la guerriglia, non è raro assistere a scontri armati fra le Farc e l’Eln.

Valle Cauca

Innumerevoli rivoli d’acqua sulla costa colombiana del Pacifico e qualche drappo di rivendicazione territoriale (© – Red de Hermandad y Solidaridad con Colombia)

La riconfigurazione del territorio

Nel conglomerato di villaggi in cui vive Jefferson detta legge la Colonna Mobile Jaime Martinez, dissidenza delle Farc-Ep riunita nel “Comando Coordinador de Occidente”; lo dimostrano i cartelloni che si affacciano sul fiume o la stessa delegazione armata che si presenta: ragazzi sui vent’anni vestiti in civile se non fosse per il giubbotto verde militare, le armi e le munizioni al collo. Ma il controllo territoriale va oltre i fucili e gli spari: è fatto di ordini e restrizioni con mine antiuomo ai margini dei villaggi per limitare la mobilità della popolazione civile e le incursioni dei gruppi armati rivali, è il reclutamento forzato e le isolate esecuzioni extragiudiziali. È quanto successo alla fine di ottobre nel villaggio accanto, quando un membro del consiglio comunitario è stato assassinato perché sospettato di essere un informatore dell’esercito colombiano, dopo che i media avevano strumentalizzato alcune sue dichiarazioni rispetto al conflitto armato nella regione e lo avevano di fatto esposto a un alto rischio. È lo sparo attutito a cui si riferisce Jefferson, è la complessità del vivere in un contesto intricato e precario, in cui chi oggi è costretto a offrire un pranzo a un gruppo armato, domani viene ucciso dall’altro per aver collaborato con il nemico, oppure è perseguito dalla magistratura per aver dialogato con attori illegali presenti nel territorio. Lo stato in tutto questo si limita alla presenza militare, con incursioni frequenti, scontri armati ad alto impatto simbolico e ulteriori danni per le popolazioni locali. Queste ultime, organizzate nei consigli comunitari, denunciano la stessa convivenza fra stato e gruppi armati, chiedono che si rispetti la Legge 70 del 1993 che riconosce le comunità afrocolombiane come gruppo etnico con diritti sul territorio e autonomia di governo, rivendicano garanzie di sicurezza, educazione e sanità in tutta la zona della “Buenaventura rurale”: a proposito, nessun piano di vaccinazione per il Covid è stato ancora previsto qui. Alla guerriglia e in particolare alle dissidenze delle Farc, invece, chiedono semplicemente coerenza. In generale, per come si vive oggi, dicono che si stava meglio prima.

Villaggi su palafitte nella Valle del Cauca (© – Red de Hermandad y Solidaridad con Colombia)

Gli accordi di pace

A 5 anni dalla convulsa firma degli Accordi di Pace del 2016 fra il governo Santos (2010-2018) e le Farc, la Colombia vive una situazione paradossale a cui i numeri fanno da cornice: 299 ex guerriglieri e 1270 leader sociali assassinati, 500 organizzazioni della società civile vittime di minacce, 250.000 persone costrette all’esodo forzato. Numeri importanti che evidenziano una tragica realtà.

La terra rimane a tutti gli effetti il motore del conflitto, lo stato non si è impegnato a restituirla né a redistribuirla, ha abbandonato molti territori precedentemente controllati dalle Farc dando il via libera all’entrata di nuovi gruppi armati. Quando ha investito, lo ha fatto per generare monocolture per l’esportazione o piani di esplorazione per soddisfare gli interessi di multinazionali straniere anziché quelli delle comunità indigene e contadine che più di tutti hanno sofferto. E quanto alla difesa dell’ambiente, benché nella recente Cop26 il presidente Duque abbia dichiarato di essere disposto a difendere gli ecosistemi del paese, solo nel 2020 sono stati registrati oltre 65 omicidi contro attivisti ambientalisti. Per non parlare del processo di sostituzione delle coltivazioni illegali a suon di glifosato e di assenza di alternative valide alla coca.

Cauca indigena, ottobre 2020

Le poche prospettive per la popolazione smobilitata e gli omicidi di ex guerriglieri e attivisti sociali, sono l’altro grande cruccio del bilancio a 5 anni dagli Accordi di Pace, poiché dimostrano che lo spazio per le nuove lotte sociali e l’esercizio delle attività politiche e pubbliche, continuano a costare vite umane. A ciò si aggiunge l’altissimo livello di impunità per chi commette questi crimini e chi li ordina, un fenomeno messo in relazione con la corruzione della classe politica e gli attacchi della destra uribista al sistema di giustizia transizionale (Jep) nato nel 2016.

La Colombia oggi

Oltre a Cali, epicentro del “Paro Nacional”, Buenaventura è destinazione obbligata e recipiente delle popolazioni sfollate di tutta la regione del Pacifico colombiano. Lo scorso agosto è occorso a 1600 persone della zona del “Litoral San Juan”, vittime dei bombardamenti dell’esercito colombiano contro l’Eln, mentre negli ultimi giorni è toccato ad altre centinaia di persone appartenenti alle comunità indigene e afrocolombiane dei “Fiumi di Buenaventura”. Una volta in città, la loro prospettiva è quella di cercare di sopravvivere in un modo o nell’altro nei quartieri popolari, alla mercé delle bande locali e di quel ciclo di violenza che sembra non finire mai.

Da qualche parte a Buenaventura si nasconde anche Santiago, giovanissimo coordinatore delle brigate mediche a Cali che durante i mesi del “Paro Nacional” offrivano i primi ausili ai manifestanti vittime della violenza della polizia. Come successo a molti altri, una volta ristabilitosi l’“ordine sociale” gli sono cominciate a piovere addosso minacce di morte da parte di gruppi non identificati; la pressione su di lui è cresciuta al punto tale che, credendosi perduto, ha voluto farla finita. Ma oggi è ancora vivo, nascosto e protetto da una piccola cerchia di persone di fiducia. Lo stesso, purtroppo, non si può dire di suo fratello: vittima della vendetta trasversale, 10 giorni fa è stato fatto sparire.

Vecchia copia della rivista “Semana” uscita prima che venisse cooptata nella galassia uribista, asservendosi al potere da posizioni di denuncia come queste.

La Colombia del post-Accordo fra Governo e Farc non ha raggiunto una reale fase postbellica; quest’ultima si è semplicemente adattata e rimodellata al presente, forse a causa di alcune debolezze strutturali come la non messa in questione del sistema economico e di “sicurezza nazionale”, oppure il fatto che a vederlo ora, l’accordo appare come un’intesa esclusiva fra le alte sfere di due mondi opposti che hanno commesso lo stesso errore: dimenticarsi delle loro basi.

A circa sei mesi dalle elezioni presidenziali di maggio 2022, è difficile immaginare quale sarà il destino della pace in Colombia.

Un cielo pieno di nubi (© – Red de Hermandad y Solidaridad con Colombia)

 

 

 

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Colombia: parlano i muri https://ogzero.org/la-lotta-prosegue-in-colombia-e-i-muri-parlano/ Sun, 13 Jun 2021 10:43:01 +0000 https://ogzero.org/?p=3828 Colombia: a oltre un mese dall’inizio dello sciopero nazionale, il bilancio di un paese con clima da guerra civile. Tullio Togni ci racconta – anche con una serie di sue immagini – che, nonostante la dura repressione dell’Esmad, la lotta prosegue e sopra ogni altra voce, anche attraverso i muri, anche se coperti da teli […]

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Colombia: a oltre un mese dall’inizio dello sciopero nazionale, il bilancio di un paese con clima da guerra civile. Tullio Togni ci racconta – anche con una serie di sue immagini – che, nonostante la dura repressione dell’Esmad, la lotta prosegue e sopra ogni altra voce, anche attraverso i muri, anche se coperti da teli neri che li censurano, lo sciopero continua, inaugurando così una serie di articoli inviati dalla Colombia in lotta: potete già anche leggere (e ascoltare la testimonianza di Edwin Guetio) il secondo contributo dedicato all’apporto al “paro nacional” da parte della comunità indigena


Hanno oscurato le pareti di piazza Bolívar, Bogotá, per paura che parlassero. Un immenso telone nero è stato calato sulle facciate principali del Palazzo di Giustizia e del Campidoglio nazionale, così come lungo le arterie principali che portano al cuore della città: sipari bianchi di plastica a protezione degli edifici più significativi, dei centri commerciali e delle statue di conquistatori spagnoli e politici di spicco di uno o due secoli fa. L’idea era che un colpo di spugna sarebbe bastato per lavare tutto il sangue, ma questa volta non è andata così, perché i muri – tutti – durante il lungo maggio di rivolta hanno continuato a parlare. Hanno detto che “il popolo vuole educazione e salute anziché guerra”, che “con la fame ci controllano”, che il “narcostato è corrotto” e che “la polizia tortura”. Ma soprattutto, ovunque e più forte di ogni altra voce, da 40 giorni continuano a gridare che “lo sciopero continua”.

La lotta prosegue

El paro no para

La prima scossa era stata data il 21 novembre 2019 con uno sciopero nazionale che sembrava essere logica conseguenza delle mobilitazioni in Cile ed Ecuador: anche in Colombia si protestava contro l’ennesima offensiva neoliberale e le sue agevolazioni fiscali alle grandi imprese in cambio di tagli ai salari della classe media e dei meno abbienti. A ciò si aggiungeva la prostrazione di fronte alla corruzione endemica della classe politica, la rivendicazione di una reale implementazione degli Accordi di Pace del 2016 fra Governo e Farc e infine il rispetto, da parte dello stato e la sua forza pubblica, del diritto alla protesta sociale. Poi venne la pandemia a placare gli animi o meglio a rinchiuderli in casa, almeno per chi ne aveva una: un rigido e lungo lockdown di quasi 6 mesi diede il colpo di grazia a quella grande fetta di popolazione che sopravviveva grazie all’economia informale. Tre milioni di persone finirono in povertà mentre 2,4 milioni di posti di lavoro si persero per strada: a pagarne le spese, come sempre, i giovani e le donne, oltre alle categorie storicamente e strutturalmente svantaggiate.

El covid es mentira

El covid es mentira – “Il covid è una menzogna”, sussurra un altro muro vicino al Museo nazionale, pieno centro Bogotá. Nessun negazionismo bensì un graffio alla gestione del governo e alle parole del presidente Ivan Duque, che di fronte alle dimissioni del ministro delle Finanze Alberto Carrasquilla, fautore della Riforma Tributaria che ha incendiato il paese intero, lo ha ringraziato per aver realizzato un sistema sociale che ha saputo far fronte alla pandemia. Così, nel picco della terza ondata di Covid-19 e a fronte degli oltre 90.000 morti che si contano in tutto il paese, la stessa Riforma tributaria arrivata senza previa consultazione di alcun tipo si è trasformata in una scintilla: imposizione dell’Iva al 19 per cento su beni e servizi, tagli alle pensioni, ai salari e al sistema sanitario, fra le altre cose. Il 28 aprile il Comitato di Sciopero Nazionale – formato dalle principali organizzazioni sindacali e di studenti, insegnanti, pensionati, contadini, camionisti, indigeni e afrocolombiani, oltre alla comunità lgbtqi – ha indetto il primo giorno di sciopero nazionale e ha espresso le sue rivendicazioni, simili a quelle del 2019 con l’aggiunta di una campagna di vaccinazione di massa, un salario minimo legale mensile, facilitazione di accesso agli studi per gli studenti, rispetto della diversità di genere.

La lotta prosegue

La risposta della popolazione è stata immediata e imponente in tutto il paese, tanto che quasi subito, il 2 maggio, il governo ha ritirato la Riforma Tributaria e annunciato le dimissioni del suo artefice, il ministro delle finanze Alberto Carrasquilla. Ma questo non ha calmato la protesta, che prosegue da oltre un mese e che lo scorso 19 maggio ha ottenuto anche il ritiro della Riforma alla Salute.

Ma non è andato tutto liscio, anzi. Lo dicono i muri, lo urlano più forte che possono.

La lotta prosegue

Nos están matando

Il 29 aprile 2021 appare un tweet – poi eliminato dalla piattaforma per incitamento alla violenza – in cui Alvaro Uribe, uomo forte del partito di estrema destra Centro Democratico al governo, nonché ex presidente in carica fra il 2002 e il 2010, chiede la militarizzazione delle città e sostiene il diritto di soldati e poliziotti di usare le armi. Detto fatto, il suo scagnozzo Ivan Duque dà immediatamente l’ordine, scatenando la violenza indiscriminata e impunita della forza pubblica, che guarda caso nella democrazia colombiana risponde al ministero della Difesa anziché a quello degli Interni. Bastano pochi giorni per far calare un clima di terrore su tutto il paese, contrastato solo dalle manifestazioni rumorose e colorate che imperterrite continuano a sfilare. Si crea ben presto una nuova normalità, termine abusato e dettato ora dall’Esmad, l’unità antisommossa nata nel 1999 sotto la presidenza di Pastrana e poi formalizzata dallo stesso Alvaro Uribe, conosciuta per la ferocia e le brutalità commesse tanto contro gli oppositori politici come ai fini di una “pulizia sociale”. La nuova normalità, molto simile a un ennesimo “stato di eccezione”: mattino tranquillo, pomeriggio di mobilitazioni e notte di scontri e repressione. L’Esmad presidia i centri di potere e quando riceve l’ordine dalle alte gerarchie attacca i cortei sparando lacrimogeni ad altezza umana e usando armi da fuoco, mentre l’esercito schiera soldati, blindati ed elicotteri. A ciò si aggiungono gruppi di civili armati che attaccano i manifestanti.

La lotta prosegue

Poi succede di tutto, dalle irruzioni in casa alla caccia all’uomo, dalle esecuzioni extragiudiziali alle sparizioni forzate: l’atmosfera è surreale. Il caso più emblematico e triste è quello di Alison Salazar, una ragazza di 17 anni morta suicida dopo che il giorno prima, il 12 maggio, era stata catturata e abusata sessualmente da quattro agenti dell’Esmad a Popayan, dipartimento del Cauca. È proprio in questa zona che si è spostato l’epicentro della violenza, insieme alla regione della Valle del Cauca e alla città di Cali: aree con alte percentuali di povertà che coincidono con la maggior presenza di popolazione indigena e afrocolombiana, ma anche con l’insediamento di gruppi armati illegali nei territori smilitarizzati dopo gli Accordi di Pace fra Governo e Farc. I manifestanti e le loro prime linee eterogenee composte da giovani provenienti dai vari settori sociali rispondono con pietre e scudi improvvisati, danno alle fiamme numerosi centri di polizia e di tortura, colpiscono alcuni supermercati e lo scorso 25 maggio hanno incendiato il Palazzo di Giustizia della città di Tuluá in risposta all’uccisione di quattro giovani di cui uno minorenne; ma le azioni più efficienti per la destabilizzazione del settore impresariale al potere sono i blocchi delle strade a cui partecipano anche i camionisti, lasciando transitare solo beni di prima necessità nei cosiddetti corridoi umanitari.

I numeri della violenza

Aggiornati lo scorso 31 maggio, i numeri di quanto sta succedendo – resi noti dalla piattaforma di diritti umani Temblores – confermano che nel paese regna un clima da guerra civile: 3789 casi di violenza poliziesca; 74 persone uccise, 45 dalla forza pubblica e 29 in processo di verifica, casi legati probabilmente ad attacchi da parte di civili armati contro i manifestanti; 1248 persone ferite da polizia ed Esmad, di cui 65 con lesioni oculari; 187 casi di uso di armi da fuoco da parte della forza pubblica; 1649 persone detenute arbitrariamente per aver preso parte alle mobilitazioni; 25 vittime di violenza sessuale perpetrata da agenti della forza pubblica; 91 desaparecidos dall’inizio delle proteste secondo il pubblico ministero – ma il numero reale potrebbe essere molto più alto: persone fatte sparire senza lasciare alcuna traccia, probabilmente rinchiuse in centri di tortura informali. Ironia della sorte, la cosa più tragica è che per il loro bene occorre quasi sperare che siano già morte. Del resto, negli ultimi giorni hanno cominciato a circolare voci e denunce sempre più fondate secondo cui la forza pubblica starebbe sotterrando cadaveri in fosse comuni.

Sappiamo chi ha dato l’ordine

Potrebbe sembrare, ma non è così: la Colombia non ha nulla a che vedere con le dittature militari latinoamericane del secondo Novecento. Lo sostiene l’oligarchia al potere, la stessa che secondo denunce informali sta attualmente reclutando mercenari e pianificando stragi di massa all’interno dei cortei; lo conferma la storia recente e il suo apparato statale che si è sempre mantenuto democratico. Solo qualche macchia: i massacri, l’epoca della “violenza” negli anni Cinquanta, le dottrine di Sicurezza nazionale e poi Sicurezza democratica, la corruzione e le elezioni rubate, il genocidio politico del partito di sinistra Unione Patriotica, il narcotraffico e il paramilitarismo, i 6402 “falsi positivi” e i milioni di dollari americani spesi per combattere il cosiddetto “nemico interno”. E poi la situazione attuale: peggio di così sembra saper fare solo un’altra democrazia, in Medio Oriente.

La lotta prosegue

In tale contesto, è oggi difficile porre le basi per una negoziazione fra il governo e il Comitato di Sciopero Nazionale: nelle tavole rotonde dei giorni scorsi il primo ha dimostrato di non essere disposto a considerare la radice del problema e si ostina a paventare il fantasma del “terrorismo vandalico e le sue infiltrazioni guerrigliere”, mentre il secondo chiede ora a gran voce la riforma della forza pubblica e lo smantellamento dell’Esmad, un punto che era rimasto tabù anche negli accordi di pace del 2016. A proposito, da allora sono stati assassinati quasi 1200 leader sociali, senza contare questo mese di maggio.

Intanto, nell’effervescenza attuale la verità rimane scritta sui muri, che da un mese o forse un secolo lo ripetono all’infinito: Nos estan matando – “ci stanno uccidendo”.

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Le molte violenze della pace in Colombia https://ogzero.org/le-diverse-violenze-della-pace-in-colombia/ Sun, 14 Feb 2021 12:33:36 +0000 http://ogzero.org/?p=2422 Le recenti dichiarazioni del leader delle Farc Rodrigo Londoño hanno portato al centro dell’attenzione, ancora una volta, le criticità che sta incontrando il processo di pace in Colombia. Comparso davanti alla Jurisdicción Especial para la Paz (Jep), Londoño, più noto come Timochenko, ha ammesso la responsabilità delle Farc nell’uccisione di Alvaro Gómez Hurtado, già direttore […]

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Le recenti dichiarazioni del leader delle Farc Rodrigo Londoño hanno portato al centro dell’attenzione, ancora una volta, le criticità che sta incontrando il processo di pace in Colombia. Comparso davanti alla Jurisdicción Especial para la Paz (Jep), Londoño, più noto come Timochenko, ha ammesso la responsabilità delle Farc nell’uccisione di Alvaro Gómez Hurtado, già direttore del Partito Conservatore, e ha menzionato che i vertici delle Farc avevano contemplato la possibilità di attentare contro la vita dell’ex presidente Juan Manuel Santos, ma non hanno mai avuto informazioni sufficienti su di lui e dunque l’attentato non è mai stato realizzato. Questa parte della dichiarazione di Timochenko, che ha avuto una certa risonanza in Europa, in Colombia ha avuto un impatto piuttosto limitato. Lo stesso Santos ha risposto che anch’egli aveva firmato l’autorizzazione per compiere operazioni militari contro le Farc e ha ricordato che le regole del gioco, imposte dalla componente governative, erano chiare: «I negoziati sono stati portati avanti nel corso delle guerra, come se le guerra non ci fosse stata, e la guerra, nel frattempo, è andata avanti come se i negoziati non ci fossero stati». Entrambi, Santos e Londoño, hanno ribadito l’importanza del riconoscimento pubblico della verità, che rappresenta un bisogno e un diritto delle vittime e hanno espresso preoccupazione per le uccisioni degli ex combattenti delle Farc e dei leader sociali.

Pace: un percorso accidentato

Se, sulla carta, la guerra con le Farc è conclusa, di fronte alle numerose violenze che continuano a colpire la società colombiana è infatti doveroso fare un bilancio critico del processo di pace e mettere in luce le profonde falle che possiamo constatare nel percorso, più che mai necessario, di ricostruire il patto sociale su basi più democratiche ed eque.

Conseguenze bio-sociali della pandemia

Come altrove, il 2020 in Colombia è stato fortemente segnato dalla pandemia Covid-19, che ha fatto emergere in modo lampante le numerose contraddizioni che caratterizzano il nostro contesto sociale, economico e politico. Una delle prime e più interessanti asserzioni del volume Epidemie e società di Frank Snowden è che le malattie epidemiche non sono affatto eventi biologici episodici che si abbattono in modo casuale sulle collettività, ma sono fenomeni che potremmo definire bio-sociali, che colpiscono i punti più vulnerabili di una collettività, mettendo in luce in modo drammatico le fragilità del sistema. Nel caso colombiano queste affermazioni sono particolarmente vere. Gli effetti a livello epidemiologico del Covid-19 sono stati radicalmente diversi rispetto a quelli che si sono osservati in Europa. Mentre in paesi come l’Italia il principale fattore di rischio è l’età, in Colombia è la classe sociale a determinare chi corre il rischio più grave. Vi è, poi, un lato ancor più sinistro della pandemia e delle misure per contenerla: mentre in altri paesi il fatto di essere confinati in casa ha diminuito gli indici di violenza, in Colombia, al contrario, c’è stato un aumento complessivo del numero di leader sociali assassinati, dei fenomeni di violenza contro le donne e dell’insicurezza urbana. “Restare a casa”, dunque, ha amplificato la “vulnerabilità strutturale” di categorie che già prima erano di per sé vulnerabili.

I ceti più poveri sono i più colpiti dalla pandemia (foto di Jkraft5, Soacha)

Violenza strutturale e violenza politica

Nella pandemia, in sintesi, si è manifestato un intreccio persistente e irrisolto fra disuguaglianza sociale, violenza strutturale e violenza politica. Non va dimenticato che il conflitto armato si è sviluppato in una società caratterizzata da marcate disuguaglianze sociali che vede contrapposte, da un lato, una élite economica che esercita un controllo pressoché totale sulle terre, sulle materie prime e sulla produzione e, dall’altro, la grande maggioranza della popolazione che oscilla fra la “fatica ad arrivare a fine mese” e, nei casi peggiori, l’impossibilità di accedere alle risorse minime per garantire la propria sussistenza.

Bogotà, 2019: attivisti di Puro Veneno attaccano un manifesto contro la brutalità della polizia (foto di Sebastian Barros)

L’accordo di pace: criticità tuttora irrisolte

Sono passati poco più di quattro anni dal 30 novembre del 2016, il giorno in cui il Congresso colombiano, dopo molte vicissitudini, diede il via all’attuazione dell’accordo di pace sottoscritto tra le Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane e il Governo colombiano. La prima versione dell’accordo era stata siglata il 26 settembre di quello stesso anno. Alcuni punti di questa prima versione, tuttavia, erano stati ridiscussi in seguito alla sconfitta del “SÍ” nel plebiscito che avrebbe dovuto ratificare l’accordo, ed erano state apportate delle modifiche in ragione della necessità di allargare la platea politica dei sostenitori di una soluzione pacifica e negoziata del conflitto.

Nella sua versione finale, l’accordo affrontava alcune questioni nodali capaci di alimentare il conflitto sociale armato. Erano incluse nei punti, per esempio, la cosiddetta “questione agraria”, ovvero le profonde asimmetrie nella distribuzione della terra, che dovevano essere affrontate a partire da un programma di riforma integrale della proprietà terriera, a vantaggio delle comunità contadine e delle minoranze indigene e nere che nel corso del conflitto erano state espropriate dai loro territori tradizionali.

Particolare importanza era stata data alla questione della partecipazione politica delle Farc (che ha recentemente annunciato la rinuncia alla storica sigla e la nascita del partito Comunes) e, più in generale, delle componenti sociali non sufficientemente rappresentate nello scenario nazionale. Il nodo della giustizia, la verità e la riparazione delle vittime erano stati trattati in modo ampio ed era stata costituita la già menzionata Jep, con il compito di amministrare la giustizia transizionale. Erano stati inoltre concordati dei meccanismi per affrontare il problema della coltivazione della coca e del narcotraffico.

Molte di queste criticità rimangono tuttora irrisolte e, per quanto riguarda il narcotraffico, i problemi si sono intensificati.

Gli ostacoli politici

L’implementazione degli accordi ha incontrato ostacoli politici e sociali a molti livelli. Sebbene la versione finale fosse stata approvata senza voti contrari, i parlamentari del Centro Democrático (un partito di destra fortemente contrario al processo di pace, diretto dal senatore ed ex presidente Álvaro Uribe Vélez) si erano ritirati dalle aule durante la votazione e avevano reso esplicita la loro volontà di ostacolare l’implementazione delle misure contenute negli accordi. Una linea politica, questa, che è risultata evidente durante l’attuale mandato presidenziale: il governo Duque ha infatti accumulato notevoli ritardi – e conseguenti malcontenti – nell’iter legislativo che avrebbe consentito l’attuazione di quanto pattuito e, sulla scia di Uribe Vélez (2002-2006 e 2006-2010), ha ostacolato la giustizia transizionale e i suoi meccanismi di verità e riparazione; ha promosso narrazioni ufficiali che negano (o quantomeno minimizzano) le responsabilità, presenti e passate, della componente governativa e ha “normalizzato” misure repressive da parte della polizia e delle forze dell’ordine che violano i diritti fondamentali, giustificandole come azioni necessarie per il mantenimento dell’ordine pubblico.

Fra i fatti di cronaca più emblematici del 2020 si possono infatti ricordare l’uccisone di Javier Ordoñez, a cui seguì una violenta repressione messa in atto per sedare le proteste nella capitale, e la morte di Mario Paciolla, membro della Misión de Verificación de los Acuerdos de Paz dell’Onu e autore di un rapporto su un bombardamento dell’esercito che aveva l’obiettivo di colpire un leader dissidente delle Farc e fu presentato come un impeccabile successo militare da parte di Duque, ma nel quale in realtà erano stati uccisi a sangue freddo, e da terra, otto ragazzi fra i 12 e i 17 anni.

“La Jep riformula una storia del conflitto armato”.

L’obiettivo è eliminare i leader sociali

Per capire quanto sia critica l’attuale situazione del paese, e quanti ostacoli si stiano cercando di frapporre alla “costruzione di una pace stabile e duratura”, alcune cifre offrono un efficace punto di riferimento.

Indepaz, un’associazione che monitora lo stato della situazione dei diritti umani in Colombia, ha raccolto documentazione relativa a più di 90 massacri avventi nel 2020, a questi si aggiunge l’uccisione di 310 leader di lotte sociali e 12 loro familiari o amici. Questa stessa organizzazione aveva segnalato oltre 750 uccisioni di leader sociali fra il 2016 e il 2019. Sebbene le cifre ufficiali siano più contenute rispetto alla documentazione raccolta da Indepaz, la portata della violenza che si sta abbattendo contro questi attivisti è stata riconosciuta anche da istanze governative: il Difensore del Popolo, un ente che ha il ruolo di sorvegliare e promuovere la tutela dei diritti umani, ha riconosciuto ben 555 uccisioni fino al 2019 e altre 139 vittime nel 2020. Alle cifre agghiaccianti dei leader sociali assassinati, si aggiungono i nomi di 64 ex combattenti, firmatari dell’accordo, uccisi nel corso dell’anno.

I massacri e le uccisioni dei leader sociali, sindacalisti, attivisti nel campo dei diritti umani, ambientalisti, rappresentanti dei movimenti lgbti, oppositori e, in generale, tutte le persone che possono rappresentare una minaccia allo status quo dei settori dominanti sono fenomeni ricorrenti nella storia colombiana.

I “leader sociali” sono uomini e donne che si contrappongono con enorme coraggio al “potere totale” che gli attori armati tentavano, e tentano ancora oggi, di conquistare attraverso l’estrema violenza. Si tratta, in quasi tutti i casi, di figure di riferimento all’interno delle proprie comunità, che hanno assunto ruoli di massima importanza nella denuncia dei crimini degli armati, nella rivendicazione del diritto alla terra, nella difesa dei diritti delle comunità locali e nei processi di autoorganizzazione collettiva. Si tratta, quindi, di persone decisamente scomode per chi ha l’obiettivo strategico di stabilire un dominio sul territorio e sulle sue risorse.

Narcocapitale e desplazamiento

Chi c’è dietro le uccisioni di questi leader sociali? Ancora non ci sono risposte a questa domanda, anche perché oltre il 90 per cento dei crimini resta impunito. In parte l’uccisione dei leader sociali può essere imputata ai cartelli nazionali e internazionali del narcotraffico che sono operativi in Colombia. Va però sottolineato che il traffico di droga non è solo l’opera di organizzazioni criminali che agiscono nell’illegalità, ma va inteso come un fenomeno complesso, che si infiltra nelle strutture dello stato e ha un elevato livello di ingerenza sulla sfera economica, sulla politica e sulla cultura del contesto in cui si radica.

In Colombia, per esempio, uno degli ambiti privilegiati di investimento dei “narcocapitali” è stato quello fondiario. La violenza ha costretto intere popolazioni ad abbandonare le proprie terre e a spostarsi verso le città, spesso in condizioni di grave precarietà economica e senza adeguati tutele statali: è il noto fenomeno del desplazamiento, che non è cessato e che ha colpito fino a oggi circa 8 milioni di colombiani. Queste terre, in seguito, vengono occupate, o a volte acquistate a prezzi irrisori, da paramilitari e narcos, di fronte all’impotenza degli abitanti ancestrali, le comunità contadine, indigene e afrocolombiane.

Graffiti nelle strade di Medellin “Siamo tutti migranti” (foto StreetFlash)

Affrontare la questione del narcotraffico, quindi, non può limitarsi – come invece è accaduto – all’uso di misure repressive o al ricorso alla fumigazione con glifosato, una tecnica di sradicamento delle coltivazioni di coca che ha un impatto devastante a livello ambientale e umano. Per risolvere uno dei più gravi e annosi problemi della Colombia, sarebbe invece necessaria un’attenzione globale ai bisogni sociali ed economici delle popolazioni delle zone coinvolte nella coltivazione, nonché l’implementazione di politiche mirate capaci di limitare la dilagante corruzione nelle istituzioni locali e nazionali.

La strategia del terrore non è finita

Nella storia del conflitto colombiano è possibile rilevare una marcata tendenza a ricorrere ai massacri, all’eliminazione fisica dell’oppositore, alla mutilazione e alla violenza sui corpi vivi e morti come strumento per garantire un potere assoluto sulla popolazione e sul territorio. Queste modalità di uso strategico del terrore non sono purtroppo scomparse.

Se a livello ufficiale non ci sono “nomi” per gli autori di questi crimini, nei luoghi in cui vengono commessi, invece, i sospetti e le “voci” non mancano. Sovente non è difficile identificare le persone contro le quali si rivolgevano le rivendicazioni dei leader: sono narcotrafficanti, certo, ma anche latifondisti, capi dell’industria estrattivista mineraria e agraria, proprietari di bestiame, occupanti abusivi di terre espropriate ai contadini nel corso del conflitto, qualche volta politici o figure importanti a livello che traggono benefici dalla corruzione.

A livello statale il carattere sistematico e programmato delle uccisioni viene negato e gli assassinati vengono sempre presentati come “episodi isolati”. Tuttavia vi è un’innegabile responsabilità dello stato nella mancanza di tutela di persone che sono sotto esplicita minaccia, nell’elevata impunità e nella scarsa trasparenza con cui vengono gestite le indagini, nella mancanza di volontà di applicare quanto stabilito negli accordi in materia di riforma agraria, traffico di droga, giustizia e sicurezza. Poiché in passato abbiamo assistito a sistematici processi di sterminio di interi gruppi in virtù delle loro convinzioni ideologiche e dei loro progetti politici (si pensi al genocidio dell’UP), è più che mai necessario alzare il livello di allerta e monitorare con attenzione la situazione dei diritti umani in Colombia per arginare quest’onda di violenza che sta travolgendo chi è impegnato attivamente nella trasformazione sociale del paese ed evitare un nuovo “genocidio politico”.

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