Eritrea Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/eritrea/ geopolitica etc Wed, 28 Jun 2023 16:55:17 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 A chi è utile la Wagner? https://ogzero.org/a-chi-e-utile-la-wagner/ Tue, 27 Jun 2023 16:00:14 +0000 https://ogzero.org/?p=11209 Che fine farà la Wagner? A chi è utile? Il continente africano è utile alla Russia come fonte di approvvigionamenti e di nuovi mercati alternativi a quello europeo, e la milizia capeggiata da Prigozhin era la testa di ponte russa che serviva allo scopo per militarizzare le risorse ottenute e controllare i territori che le […]

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Che fine farà la Wagner? A chi è utile? Il continente africano è utile alla Russia come fonte di approvvigionamenti e di nuovi mercati alternativi a quello europeo, e la milizia capeggiata da Prigozhin era la testa di ponte russa che serviva allo scopo per militarizzare le risorse ottenute e controllare i territori che le ospitano (senza contare l’utilizzo anti-jihad fattone da parte dei numerosi dittatori o golpisti africani). In Occidente non se ne è parlato molto in questi giorni in cui si è assistito ai fatti avvenuti in Casa Russia, ma è bene che se ne tenga conto, per capire gli sviluppi negli equilibri futuri del continente e degli investimenti che lì sono in corso. Angelo Ferrari ne parla qui e nel podcast dedicato al neocolonialismo africano, un’intervista per la trasmissione “I bastioni di Orione” di Radio Blackout.


La Wagner si sfalderà in Africa o verrà riassorbita nei ranghi ufficiali russi? È quello che si stanno chiedendo molti dittatori o golpisti africani che fanno ricorso ai mercenari della Compagnia Wagner per “sistemare” le questioni interne dei loro paesi, in particolare la lotta al jihadismo come nel Sahel. Di sicuro, fino a ora, la Wagner è la testa di ponte di Mosca per riaffermare la sua influenza su parte del continente africano. La Russia ha bisogno dell’Africa per due motivi: il primo perché deve trovare nuovi partner, nuove fonti di approvvigionamento, e nuovi mercati alternativi a quello europeo; il secondo luogo perché il sogno della Russia è quello di rafforzare il suo ruolo di gigante minerario per poi cercare di militarizzare le risorse, sviluppando tecnologia bellica. Per queste ragioni Vladimir Putin ha utilizzato la Wagner come forza di sfondamento nel continente africano. Questo, inoltre, ha fatto sì che la base operativa economica della Wagner sia diventata l’Africa. Un aspetto che l’Occidente non deve sottovalutare come gli avvenimenti dei giorni scorsi in Russia.

Dove opera la Wagner

L’attività del gruppo Wagner si svolge in tredici paesi diversi: Libia, Eritrea, Sudan, Algeria, Mali, Burkina Faso, Camerun, Sud Sudan, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Madagascar, Mozambico e Zimbabwe. Tutti paesi ricchi di risorse naturali di cui Mosca ha bisogno e sulle quali si è sviluppata la forza della Wagner, non solo militare, ma economica. La Repubblica Centrafricana, per esempio, è diventata per la Wagner un partner privilegiato – ha 13 basi militari – ha prestato i suoi servigi militari a difesa del governo del presidente Faustin-Archange Touderà, minacciato dai ribelli e da una guerra civile, avendo in cambio un accesso privilegiato alle miniere d’oro e di diamanti, oltre ad avere il controllo di alcuni ministeri. Significativo, da questo punto di vista, Il divieto di sorvolo dei droni, deciso a febbraio dal governo centrafricano, proprio per tutelare le attività di Wagner nella miniera d’oro di Ndassima, recentemente ampliata e messa in sicurezza.

Una situazione simile si sta verificando in Mali e in Burkina Faso. Con il fallimento dell’operazione antiterrorismo Barkhane e il conseguente ritiro dei francesi, il campo si è aperto ai russi e alla Compagnia Wagner – nonostante i governi di questi paesi neghino – che è passata all’incasso. Secondo un recente rapporto dell’Africa Command degli Stati Uniti, il Mali paga Wagner il corrispettivo di 10 milioni di dollari al mese, sotto forma di risorse naturali come oro e pietre preziose.

Il forziere economico della Wagner: contratti, armi e potere

E poi c’è il Sudan. La guerra tra l’esercito regolare del generale Abdel Fattah al Burhan e il capo delle Forze di supporto rapido (Fsr), Mohammed Hamdane Dagalo, detto Hemedti, continua senza tregua. E la Wagner, pur sostenendo le milizie Fsr, è rimasta defilata, si è occupata solo del trasferimento di armi dalla sua base in Cirenaica, in Libia, è ha privilegiato i suoi interessi economici che sono indipendenti da chi prevarrà sul campo. I rapporti tra Mosca e Kharthoum sono di lunga data. Il Sudan è ricco di metalli preziosi, la stragrande maggioranza dei quali viene esportata illegalmente. Molte miniere sono nelle mani di Hemedti. In questo settore la Wagner agisce attraverso la società M Invest di Yevgeny Prigozhin e la sua controllata Meroe Gold, che si è trasferita in Sudan nel 2017 e lavora con Aswar, una società controllata dall’intelligence militare sudanese. Il gruppo di giornalisti del Progetto di segnalazione di criminalità organizzata e corruzione (Occrp) è riuscita a raccogliere prove di un contratto tra Meroe Gold e Aswar. La società russa, inoltre, è esentata dal 2018 dalla tassa del 30% imposta dalla legge sudanese alle società aurifere. Anche per queste ragioni Wagner in Sudan ha assunto un profilo opportunista piuttosto che fedele a una particolare fazione. Questo ha permesso a Prigozhin di proseguire le sue attività economiche anche dopo la caduta del dittatore Omar al-Bashir e anche dopo il golpe del 2021, messo in atto proprio da chi ora si combatte per il potere. Dunque, il vero forziere economico della Wagner è in Africa. E tutto ciò fa gola anche a Putin.

Ascolta “Neocolonialismo africano: la trappola dietro allo sforzo di affrancamento” su Spreaker.

Le “fattorie di troll”

Dopo la “tentata marcia” su Mosca da parte della Wagner, nel continente africano non si segnalano particolari movimenti del gruppo. I mercenari, abituati a lavorare in autonomia, continuano le loro attività: sicurezza, sfruttamento delle risorse naturali e manovre di disinformazione con lo scopo di avvicinare le opinioni pubbliche alle ragioni della Russia. La compagnia Wagner, già dal 2017, ha utilizzato campagne per destabilizzare e manipolare le opinioni pubbliche attraverso le sue “fattorie di troll” sia in Sudan così come nel Sahel.

I due possibili sbocchi

Molti analisti concordano che Wagner non può fare a meno del supporto logistico dell’esercito russo nelle sue operazioni in Africa. Mosca fornisce armi e istruttori a molti paesi. Ma, anche in caso di smantellamento del gruppo Wagner, la Russia non lascerà il terreno non “occupato”. Le conquiste politiche, economiche e diplomatiche dell’ultimo decennio sono vitali per Mosca. I leader africani, che si avvalgono dei servizi dei mercenari russi, devono necessariamente interrogarsi anche sui rapporti di forza in Russia, soprattutto se i contrasti dovessero durare, potrebbero trovarsi di fronte a un conflitto di lealtà. I leader africani, così come molte cancellerie occidentali e asiatiche, stanno aspettando che la “polvere si depositi”. Di certo se la Wagner viene riassorbita nei ranghi dell’esercito di Mosca, il problema non si pone. I leader africani potranno continuare a trattare con questa compagnia senza il timore di scatenare conflitti di fedeltà con la Russia. Altro se Prigozhin rimarrà a capo della Wagner “africana”. Allora si entrerebbe in una zona grigia, senza dimenticare che la gran parte del personale russo schierato in Africa appartiene alla Wagner.

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Etiopia: crimini di guerra, un inciampo per una pace compiuta https://ogzero.org/etiopia-crimini-di-guerra-un-inciampo-per-una-pace-compiuta/ Thu, 30 Mar 2023 16:00:33 +0000 https://ogzero.org/?p=10637 Il Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf) non è più una “formazione” terroristica e il governo di Addis Abeba ha nominato un anziano capo ribelle alla guida della regione del Nord dell’Etiopia, il Tigray. Una svolta conseguenza degli accordi di pace che hanno messo fine a una guerra fratricida. Ma rimangono sul tavolo […]

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Il Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf) non è più una “formazione” terroristica e il governo di Addis Abeba ha nominato un anziano capo ribelle alla guida della regione del Nord dell’Etiopia, il Tigray. Una svolta conseguenza degli accordi di pace che hanno messo fine a una guerra fratricida. Ma rimangono sul tavolo questioni molto importanti come la violazione dei diritti umani e le responsabilità per i crimini di guerra.

In una recente visita nella capitale etiope del segretario di stato americano Antony Blinken, il nodo è stato messo sul tavolo con il disappunto sia dell’Etiopia sia dell’Eritrea, che ha combattuto a fianco di Addis Abeba in questa guerra.

Tplf, non più terroristi

Le decisioni del governo di Addis Abeba, comunque, segnano passi importanti verso l’attuazione dell’accordo di pace che il movimento ribelle ha firmato con il governo etiope lo scorso novembre a Pretoria in Sudafrica. «Il primo ministro Abiy Ahmed ha nominato Getachew Reda presidente ad interim dell’amministrazione regionale del Tigray», ha fatto sapere l’ufficio del primo ministro attraverso Twitter. Gatechew Reda, consigliere del leader del Tplf, Debretsion Gebremichael, era in precedenza il portavoce del movimento. Il dato importante, tuttavia, è la cancellazione del Tplf dalla lista delle formazioni terroristiche, decisione che ha aperto la strada all’istituzione di un’amministrazione ad interim nel Tigray a guida Tplf, come previsto dall’accordo di pace. I tigrini, pur essendo un’etnia minoritaria in Etiopia, hanno governato il paese per tre decenni prima di essere gradualmente emarginati proprio dall’arrivo alla guida del paese dal primo ministro Abiy Ahmed nel 2018. Un fatto mal digerito dal Tplf che è stato inserito nella lista delle formazioni terroristiche dalle autorità etiopi il 6 maggio 2021 a seguito del conflitto armato, iniziato nel novembre del 2020 e terminato oggi con un accordo di pace scaturito dai colloqui di Pretoria. La rimozione dalla “lista nera” del Tplf era la precondizione per l’attuazione degli accordi di pace.
La firma dell’accordo, inoltre, ha consentito di ripristinare i servizi di base – elettricità, telecomunicazioni, banche – ed è stato riaperto l’accesso alla regione, fondamentale per far arrivare gli aiuti a una regione devastata dalla guerra e che ha bisogno di tutto.

 

Sul tavolo rimane da risolvere la violazione dei diritti umani e dei crimini di guerra

Un nodo non da poco per il governo di Addis Abeba. Il segretario di stato americano, Blinken, di ritorno dal suo viaggio in Etiopia, ha accusato tutti i belligeranti – forze filogovernative e ribelli – di aver commesso crimini di guerra, considerando che questi atti non sono stati né «casuali» né «una conseguenza indiretta della guerra» ma «erano calcolati e deliberati». Blinken ha accusato, in particolare, l’esercito federale etiope e i suoi alleati – esercito eritreo e forze e milizie della regione Amhara – di crimini contro l’umanità, tra cui «assassini, stupri e altre forme di violenza sessuale e persecuzione». Accuse molto pesanti – Blinken non ha mai nominato il Tplf – che hanno provocato l’immediata reazione del ministero degli Esteri etiope: «Il governo dell’Etiopia non accetta le condanne generali contenute in questa dichiarazione americana e denuncia un approccio unilaterale e antagonista». La dichiarazione Usa, prosegue il ministero, «è selettiva perché distribuisce le responsabilità in modo iniquo tra le parti. Senza motivo apparente», gli Stati Uniti «sembrano esonerare una delle parti da alcune accuse di violazione dei diritti umani, come lo stupro o la violenza sessuale nonostante le chiare e schiaccianti prove della sua colpevolezza», ha proseguito il ministero, riferendosi alle forze delle autorità ribelli nel Tigray.

EtiopiaIl Tplf e Asmara

Il governo dell’Eritrea, un paese isolato a livello internazionale e governato con il pugno di ferro sin dalla sua indipendenza de facto nel 1991 da Issaias Afeworki, ha ritenuto che queste accuse «non nuove», non siano basate «su alcuna prova fattuale e incontrovertibile» e riflette la continua «ostilità e demonizzazione ingiustificate» di Washington nei confronti di Asmara. Il Tplf è stato il nemico giurato di Asmara sin dalla guerra tra Etiopia ed Eritrea tra il 1998 e il 2000, quando il Tplf governava ad Addis Abeba. Il primo ministro Abiy Ahmed ha ricevuto il premio Nobel per la pace nel 2019 per aver posto fine a 20 anni di guerra aperta o nascosta con l’Eritrea. Ma dopo il conflitto nel Tigray, è passato agli occhi di Washington dallo status di simbolo di una nuova generazione di leader africani moderni a quello di un quasi paria.

Washington influenza l’accordo di pace

L’accordo di pace, firmato il 2 novembre 2022 a Pretoria, ha posto fine al brutale conflitto nel Tigray, ma Asmara non ha partecipato alle discussioni e non è firmataria. La pace è stata negoziata e firmata sotto l’egida dell’Unione Africana, ma nelle trattative, rilevano gli analisti, vi è stata una significativa e cruciale influenza di Washington.
Secondo Addis Abeba le accuse di Washington rivelano una «ingiustificata distribuzione delle responsabilità» che «mina il sostegno degli Stati Uniti a un processo di pace inclusivo in Etiopia» e una «dichiarazione incendiaria» suscettibile di «sollevare le comunità le une contro le altre» in Etiopia. Visitando l’Etiopia il 15 marzo sorso, Blinken ha collegato la ripresa della collaborazione economica con Addis Abeba – interrotta dall’inizio del conflitto nel Tigray – alla «riconciliazione e alla presa di responsabilità» nelle atrocità che vi sono state commesse.

Le relazioni tra Washington e Addis Abeba sono state sempre “privilegiate” in funzione anche della stabilità della regione del Corno d’Africa e quindi arrivare a definire le responsabilità dei crimini di guerra è un passaggio cruciale per la ripresa, a pieno regime, dei rapporti tra le due capitali. Ma non solo, per impedire che anche in Etiopia, così come avvenuto in Eritrea, attecchisca l’influenza russa.

L’Etiopia, dopo aver espresso lo sdegno per le accuse americane, ha assicurato che «continuerà a mettere in atto tutte le misure volte a tenere conto dei responsabili e garantire che sia fatta giustizia per tutte le vittime». Il bilancio esatto delle vittime della guerra è difficile da fare – negli anni è stato impedito a istituzioni terze e indipendenti di entrare nella regione del Tigray – ma gli Stati Uniti stimano che circa 500.000 persone siano morte durante il conflitto.

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E il fiume mormorava in tigrino e amarico https://ogzero.org/tigray-2021-e-il-fiume-mormorava-in-tigrino-e-amarico/ Sun, 29 Aug 2021 07:47:14 +0000 https://ogzero.org/?p=4672 1985, la siccità strema il Corno d’Africa, il fotografo dipinge con quello che ha, i fasci di luce inquadrano un sottobosco di umanità disperata in fuga da fame e guerra. La regione era il Tigray, il fotografo Sebastião Salgado. Allora il celeberrimo scatto del fotografo brasiliano squarciò il velo che nascondeva il quadro dove all’aridità […]

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1985, la siccità strema il Corno d’Africa, il fotografo dipinge con quello che ha, i fasci di luce inquadrano un sottobosco di umanità disperata in fuga da fame e guerra. La regione era il Tigray, il fotografo Sebastião Salgado. Allora il celeberrimo scatto del fotografo brasiliano squarciò il velo che nascondeva il quadro dove all’aridità dei campi tigrini si sommava la guerra portata dagli eritrei filoamericani contro il regime filosovietico di Menghistu, impedendo il transito di aiuti. Si contò un milione di morti alla fine della carestia.

Sebastião Salgado, Kalema Camp – West Tigray, 1985 – mostra di Nice, agosto 2021. Un servizio della Bbc lo definì “la cosa più vicina all’inferno sulla terra”

2021, di nuovo guerra. Anzi, non è mai finita. Di nuovo truppe eritree protagoniste di atrocità in Tigray; ancora deportazioni e campi di concentramento per profughi eritrei fuggiti dal regime di Isaias Afewerki e per tigrini nel mirino della pulizia etnica oromo e ahmara, che vuole vendicare 30 anni di potere tigrino in Etiopia. La differenza sta nell’alleanza inaudita tra Addis Abeba e Asmara, che ha prodotto il consueto corollario di massacri, saccheggi, stupri, torture, esecuzioni e sparatorie; e nell’alleanza stipulata tra Fronti di liberazione tigrino e oromo, che promettono di allargare il conflitto, facendolo diventare Guerra civile di tutta la nazione.

E corpi portati dal Tekezé a valle, in Sudan, dove si chiama Setit.

Tigray 2021

Sponde del Tekezé a Wad el-Hiliou – Kassala, 4 agosto 2021

In questo agosto distratto da conflitti in altre aree strategiche truppe eritree attraversano nuovamente il fiume Tekezé che fa da confine e che ha visto migliaia di morti e 2 milioni di sfollati dall’inizio dell’operazione militare scatenata a novembre da Abiy Ahmed, il presidente etiope. A giugno il Fronte di liberazione del popolo tigrino (Tplf) aveva riconquistato l’intera regione, entrando a Mekallé e costringendo gli etiopi al cessate il fuoco.

Claudio Canal si sofferma brevemente ma efficacemente sugli aspetti che coinvolgono l’umanità oppressa dalla guerra e in particolare le violenze di genere correlate.


Il fiume scorre serafico come sempre.  Il Tekezé è un fiume geopolitico, segna il confine tra l’Etiopia e l’Eritrea e tra Etiopia e Sudan dove cambia nome e diventa Setit. Separa anche l’area delle lingue amarica e tigrina.  Come tutti i torrenti e i fiumi del pianeta trasporta ciò che cade in acqua o vi è gettato. In questi giorni scorrono corpi umani martoriati che dal Tigray [più noto come Tigré nella versione italiana], vasta regione settentrionale dell’Etiopia, galleggiano senza una meta verso il Sudan.

Una guerra la si può vincere o perdere, ma, essendo una macchina di produzione, lascia dietro di sé deiezioni in forma di corpi esanimi. Qualche volta raccolti e sepolti, altre volte lasciati lì a tornare polvere. Salvo che un fiume o un mare li accolga e li smuova secondo le proprie leggi. Fino a questo momento una cinquantina o più. Il fiume racconta che nel suo medio-alto corso è in atto una tragica inimicizia tra esseri umani.

Tigray 2021

Una geopolitica bizzarra ci dice che ex nemici accaniti, che si scontravano da decenni non badando ai morti, Etiopia ed Eritrea, adesso si sono scoperti alleati. Una, con un primo ministro, Abiy Ahmed Ali, laureato Nobel per la pace 2019 e dottorando in guerra; l’altra, con un presidente che si può classicamente definire tiranno. Un ossimoro istituzionale che la realtà però sopporta bene. Un pizzico di accortezza in più ai giurati del Nobel ne consoliderebbe la fama. Ci dice anche, questa geopolitica stravagante, che l’Etiopia è entrata in guerra con se stessa tramite una meno eccentrica e più consolidata forma di guerra civile, iniziata nel novembre scorso. L’obiettivo era ridurre a più miti consigli la leadership del Tigray, che nei decenni passati aveva governato l’Etiopia. Uno scontro di poteri abbastanza tradizionale in cui si è inserita bellicosamente l’Eritrea, in attesa che altri attori dell’area dicano la loro con i propri eserciti. Accendere i motori di una guerra è facilissimo. Difficilissimo anche solo metterla in folle.

Non riassumo i nove mesi di guerra ora in accelerata ripresa. Una aggiornata cronaca si può trovare nella sempre documentata “Nigrizia  e telegraficamente tramite la sintesi della penna di Dave Lawler.

“Tigray nascosto: silenzioso annientamento di una comunità”.

 

Due temi vorrei sottolineare:

  1. se ti arriva la guerra sotto casa o direttamente dentro cosa fai? Cerchi di scappare. È quello che sta massivamente succedendo. Non bastasse, c’era chi già era fuggito dalla confinante Eritrea e stazionava in campi profughi abbastanza improvvisati. Fuggiva dalla, chiamiamola così, antidemocrazia dell’Eritrea, dai suoi soprusi e dalla povertà, e nella tappa in Tigray ritrovava anche una lingua comune, il tigrino [lingua del ceppo semitico come l’amarico, lingua ufficiale dell’Etiopia, preceduta in quanto a numero di parlanti dall’oromonico della nazionalità oromo]. La partecipazione diretta dell’Eritrea alla guerra a fianco dell’Etiopia ha significato per i rifugiati eritrei dover fare i conti, di nuovo, con l’esercito eritreo che non è noto per il rispetto di alcunché. Non è difficile immaginare il disastro della guerra sui loro volti. I superstiti stanno forse sognando un barcone che attraversi il Mediterraneo e li porti in salvo chissà dove.

È il cinismo della geopolitica, che descrive, ma non può render conto dei moti sotterranei delle vite singole e collettive.

        2. «Non so se si sono accorti che ero una persona»

È la dichiarazione di una donna stuprata dai soldati nel Tigray. È anche il titolo del rapporto di Amnesty International e il contenuto di numerose altre inchieste curate dalla Reuters e del Georgetown Institute for Women, Peace and Security e del Kujenga Amani e nuovamente “Nigrizia” e…

Siamo in tempi di turismo, d’arte e d’altro. Passeggiando per Firenze in piazza san Lorenzo è possibile ammirare il monumento che Baccio Bandinelli scolpì nel 1540 per celebrare il condottiero Giovanni della Bande Nere che oggi verrebbe definito contractor e in tempi meno eleganti mercenario.

Le guide descrivono il bassorilievo del basamento come scene di guerra.  Effettivamente. Si vede la cattura di una donna, preludio al suo uso sessuale, come da sempre le regole belliche hanno decretato e che il Novecento ha visto intensificarsi e proliferare fino a oggi. Una terribile ed efficace forma di deterrenza e di intimidazione che si rivolge alle altre donne e ai loro uomini.

Le donne del Tigray gridano che questa storia non è per niente finita, ma dicono anche che da certe orecchie non ci sentiamo. La loro solitudine continua.

Postilla: Eritrea ed Etiopia sono state due colonie italiane. Una, la primigenia, l’altra, l’ultima a essere aggredita dalle truppe del Regio Esercito. Silenzio desertico dalle nostre parti, orfane anche della memoria storica di Angelo Del Boca.


Il Sudan ha convocato l’ambasciatore etiope a Khartoum per informarlo che i 29 cadaveri trovati sulle rive del fiume Setit, al confine con l’Etiopia, tra il 26 luglio e l’8 agosto, erano cittadini di etnia Tigray; i cadaveri sono stati identificati da cittadini etiopi residenti nella zona di Wad al Hulaywah, nel Sudan orientale. Il 5 settembre un reportage della Cnn ha riacceso i riflettori sul Tekezé e sui corpi mutilati che sussurrano nel suo alveo.

Questo scontro diplomatico avviene dopo il ritrovamento e il sequestro, da parte delle autorità sudanesi, di 72 scatole, contenenti armi e binocoli per la visione notturna, arrivate via aereo dall’Etiopia il 4 settembre. Nella serata del 6 settembre, il Ministero degli Interni sudanese ha affermato che la spedizione, che includeva 290 fucili, apparteneva ad un commerciante autorizzato, Wael Shams Eldin, ed era stata controllata e ritenuta in regola. Anche la compagnia aerea etiope ha confermato che le armi erano pistole da caccia che facevano parte di una spedizione verificata. Le armi erano giunte dalla Russia all’Etiopia nel maggio 2019. Le autorità etiopi le avevano tenute ad Addis Abeba negli ultimi due anni, ma, senza preavviso, il 4 settembre, avevano autorizzato il loro trasporto a Khartoum su un aereo civile. I primi sospetti delle autorità sudanesi si erano indirizzati contro i lealisti del governo dell’ex presidente Omar al-Bashir, accusati dai funzionari del Consiglio di transizione di voler minare la svolta democratica del Paese. Le tensioni tra il Sudan e l’Etiopia sono aumentate da quando il conflitto nella regione settentrionale etiope del Tigray si è intensificato e la disputa sulla costruzione della diga Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd) non si è ancora risolta.

La guerra si estende e comprende nuovi motivi di astio…

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n. 1 – Corno d’Africa: Migranti e secolari conflitti etnici e coloniali https://ogzero.org/una-visione-di-insieme-degli-scenari-che-provocano-migrazioni/ Sun, 11 Apr 2021 08:22:39 +0000 https://ogzero.org/?p=2976 Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere […]

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Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui il primo contributo, focalizzato sul Corno d’Africa.


n. 1

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Le diverse culle dell’emigrazione dal continente africano e l’accoglienza in Europa

Occorre da principio analizzare alcuni dei conflitti e situazioni di instabilità politica che continuano a interessare diverse aree del Mondo per poter capire meglio quali siano le nazionalità coinvolte nelle attuali correnti umane quantomeno di quelle forzate. Gli accadimenti bellici determinatisi in Etiopia dal mese di novembre 2020 per esempio, con particolare riferimento alla regione del Tigray, hanno proiettato nuovamente il rischio di un’instabilità politica dell’area che si pensava superata con l’elezione del nuovo presidente Abiy Ahmed Ali e dagli accordi di non belligeranza del 2018. Tali accadimenti hanno di fatto riportato l’attenzione della Comunità internazionale in questa area del Corno D’Africa.

Il campo di Dadaab che il Kenya intende chiudere. Il Corno d’Africa è l’area del mondo che produce e accoglie il maggior numero di sfollati, circa 11 milioni.

Le dinamiche di tale conflitto che il Governo Federale Etiope cerca di tenere sotto controllo, nonostante le attuali guerriglie, anche in vista delle prossime elezioni, coinvolgono non solo L’Etiopia ma anche L’Eritrea, la Somalia, il Sudan, paesi già interessati tra l’altro da conflitti interni, nonché l’Egitto che, caratterizzato da un sistema autoritario, mantiene comunque forti interessi economici nella zona. Non solo, la Libia da diversi anni, in una situazione di assenza di un governo unitario del paese, è concretamente divisa in due aree d’influenza politica la Cirenaica e la Tripolitania nelle quali i rispettivi esponenti Khalifa Haftar da un lato e Fayez al-Sarraj dall’altro si contendono l’egemonia e le risorse del paese nel quale vi sono anche altre presenze internazionali ossia Russia, Egitto e Francia da un lato, Turchia e Italia dall’altro; l’idea al momento è quella di creare un governo transitorio che guidi il paese fino alle elezioni di dicembre del 2021.

La Tunisia, invece, dove ebbero inizio dieci anni fa le cosiddette primavere arabe, dal 2010 ha formalmente adottato un sistema democratico ma al contempo ha visto susseguirsi, negli ultimi anni, diversi governi ed è attualmente interessata da numerose e continue proteste popolari che denunciano il mancato rispetto da parte dell’attuale governo di alcuni diritti civili fondamentali. A tali scenari si aggiungono le situazioni geopolitiche non ancora risolte riguardanti più in generale l’Africa subsahariana ossia non solo paesi come la Nigeria ma anche l’area del Sahel in particolare il Mali e il Niger mentre sul fronte del Medio Oriente a destare maggiori preoccupazioni sono l’Afghanistan, l’Iraq e la Siria.

In tale contesto internazionale si inserisce la politica europea e dei singoli stati membri dell’UE in materia di immigrazione che, vista la perdurante applicabilità dal Regolamento di Dublino e dei criteri da esso stabiliti, ha determinato di fatto un condizionamento o meglio un vero impedimento per i migranti ad attraversare determinate frontiere. Ciò è avvenuto mediante la definizione da parte dell’UE o di singoli paesi dell’UE di accordi bilaterali, contraddistinti dai continui respingimenti dei migranti (dei quali i numeri per il solo anno 2020 sono impressionanti anche con riferimento alle vittime), con i paesi che geograficamente sono collocati alle porte dell’UE: l’accordo con la Turchia nel 2016 per fermare i flussi migratori verso la Grecia (rotta dell’Egeo), con la guardia costiera Libica, con il Niger e la Tunisia, per bloccare i flussi migratori verso l’Italia e Malta (rotta del Mediterraneo centrale), con il Marocco per fermare l’emigrazione verso la Spagna (rotta Atlantica). Il supporto finanziario per il contrasto al fenomeno migratorio di flussi misti si è spinto oltre: l’agenzia europea Frontex ha coadiuvato tali controlli e respingimenti delle frontiere insieme alla polizia croata, per i migranti provenienti dalla Bosnia, e anche a quella Italiana rispetto ai migranti provenienti dalla Slovenia (Rotta Balcanica) che hanno quindi così garantito la riuscita del cosiddetto “Game”.

Per quanto riguarda le “frontiere liquide”, ossia quelle marittime, occorre prestare attenzione alla definizione delle zone Sar (“Search and Rescue”) e alla criminalizzazione del diritto al soccorso in mare in evidente violazione delle Convenzioni internazionali in materia, nelle quali il soccorso in mare prima ancora di un diritto è un obbligo.

Divisione Sar mediterranee

In conclusione ci si chiede se sia corretta l’approvazione del parlamento europeo e del consiglio europeo di una proposta di una normativa della commissione che mira alla creazione di campi di confinamento, ossia grandi “hotspot” in prossimità delle frontiere UE, non solo per l’identificazione (attività di “screening”) ma anche per una valutazione accelerata della domanda d’asilo, che continua a mantenere il criterio gerarchico del primo paese d’arrivo e che infine considera l’obbligo del diritto al soccorso in mare come un diritto il cui monopolio spetta alle singole autorità statali dell’Unione Europea. Le minori garanzie per i diritti dei migranti e i rischi per la loro vita si potrebbero superare con una vera inversione di rotta: un sistema giuridico fondato principalmente, e non in via residuale, su “canali legali” quali i corridoi umanitari, su una maggiore concessione di visti di ingresso da parte dei paesi UE e da ultimo un sistema obbligatorio di ripartizione per quote delle domande d’asilo, pratiche sicuramente meno negazioniste del fenomeno dell’emigrazione.

Flussi della mobilità umana indotti da teatri di guerra

I conflitti e le situazioni di instabilità politica che attualmente interessano diversi paesi del Nordafrica, cosi come quelli riguardanti la zona del Sahel e dell’Africa subsahariana più in generale, e i paesi dell’Area Mediorientale, hanno ripercussioni inevitabili sulle correnti umane – definibili come flussi delle migrazioni forzate – alcune già in essere, altre invece che manifestano già ora il loro carattere di potenzialità di determinazione in un prossimo futuro. Tali situazioni geopolitiche non possono pertanto lasciarci indifferenti traducendosi in correnti che hanno come punto di arrivo la stessa Europa se non, come in molti casi, proprio l’Italia.  Prenderne atto o averne una conoscenza anche minima ci offre la possibilità di uscire dal nostro ristretto punto di vista ed entrare in contatto, in modo maggiormente consapevole, con un fenomeno che è quello della mobilità umana, in questi casi, chiaramente non volontaria, ma imposta da accadimenti esterni, da sempre presente nella storia.

Porre uno sguardo attento e senza pregiudizi verso i paesi per noi lontani o diversi può essere il modo di prendere atto dell’inarrestabilità del fenomeno migratorio e di come esso, anche nel tentativo di essere contenuto, non smetterà di esistere. Perché dunque non concederci una possibilità di riflessione e capire come a volte cambiare la nostra ottica voglia dire entrare maggiormente in contatto con la realtà senza doverla a tutti i costi rinnegare o soffocare?

Quello che si propone questa serie di articoli è dare una visione di insieme che cercherà di essere il più possibile inclusiva degli scenari internazionali che riguardano le aree maggiormente a rischio di implosione nel momento attuale e le ragioni di tali  rischi, per poi meglio comprendere le tappe delle migrazioni forzate fino a formulare una proposta di gestione alternativa del fenomeno migratorio che non può essere avulsa dall’analisi delle prassi, attualmente messe in campo dall’Unione Europea e da alcuni dei paesi membri, nonché  dalle proposte normative di contenimento delle correnti umane verso l’occidente ponendo attenzione a quanto è accaduto negli ultimi anni e chiedendosi non solo se tali prassi e proposte legislative siano eticamente orientate ma se prima di tutte siano logiche.

Il conflitto in Etiopia e nel Corno d’Africa

I massacri

Uno dei conflitti più recenti, al momento apparentemente sedato, ma interessato da una costante guerriglia, è quello riguardante l’area del Corno d’Africa e, più specificamente, l’Etiopia e la regione del Tigray posta al suo interno. Il 4 novembre del 2020 ha visto l’inizio delle operazioni militari ad opera del primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali, a fronte di supposti attacchi da parte delle milizie della forza politica prevalente della regione del Tigray – il Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf) – contro il governo centrale federale. Quello che doveva essere un intervento lampo, secondo il primo ministro etiope, non è stato così.

In particolare, Amnesty International riporta che il 9 novembre e il 10 novembre 2020 nella città di Mai- Kadra nello stato del Tigray, c’è stato uno spaventoso massacro di civili, circa 500, ufficialmente non identificato per quanto riguarda l’attribuzione di una responsabilità. Tuttavia, vi sono testimoni oculari che hanno chiamato in causa forze leali al Tlpf, tra cui la polizia speciale del Tigray, riportando che queste si sarebbero accanite contro la popolazione della città di Mai-Kadra (di etnia amhara) in risposta all’ attacco subito, il medesimo giorno, da parte delle Forze armate federali e della Forza speciale amhara nella regione del Tigray.

Mai-Kadra, Tigray

Il massacro di Mai-Kadra il 9 e 10 novembre ha contato 600 morti di etnia amhara

Inoltre, tra il 28 e il 29 novembre 2020, questa volta, le truppe eritree, presenti anch’esse nella regione del Tigray, già a partire dal 16 novembre 2020, hanno ucciso centinaia di civili nella città di Axum per il controllo della regione mettendo in essere esecuzioni sommarie, bombardamenti e saccheggi a danno dei civili tali da poter essere lecitamente qualificati, il 4 marzo 2021, come “crimini contro l’umanità”, da parte delle Nazioni Unite.

Gli eventi sono stati riportati da parte di alcuni etiopi sopravvissuti e da altri presenti nei campi rifugiati in Sudan. Nuove fosse comuni sono state identificate in prossimità delle due chiese di Axum, attraverso le immagini satellitari di Amnesty International, riportando che il massacro sarebbe avvenuto poco prima della celebrazione della Festa cristiana ortodossa etiope di Santa Maria di Sion. La festa ricorre il 30 novembre e vede partecipare ogni anno, oltre ai cittadini della città santa di Axum, diversi turisti e fedeli provenienti anche da altre zone dell’Etiopia. La documentazione di quanto avvenuto è resa quasi impossibile dalla reticenza del governo etiope a qualsiasi ingerenza, anche mediatica, a livello internazionale sulla questione locale.

Il superamento della coalizione di fazioni etniche

Dopo tali avvenimenti l’attenzione generale sulla “questione etiope” è quasi scomparsa – tanto che il conflitto è stato dichiarato ufficialmente cessato il 28 novembre 2020 – nonostante al momento sia ancora presente una situazione di guerriglia armata. Per capire quanto è avvenuto dunque occorre analizzare le cause storiche e politiche che hanno esacerbato il conflitto nella regione etiope del Tigray. Tale scenario attuale è maturato gradualmente a partire dal 2018, anno che può essere considerato rivoluzionario per gli equilibri politici del Corno d’Africa. Infatti, da più di due anni era presente in Etiopia lo scontro tra due gruppi dirigenti all’interno della medesima forza politica che ha guidato l’Etiopia negli ultimi trent’anni, ossia il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope, una coalizione di partiti creata su base etnica all’inizio degli anni Novanta dal Fronte Popolare di Liberazione del Tigray e da questo controllata fino al 2018 quando è salito al potere il primo ministro Abiy Ahmed.

Il cambio di governo ha sancito l’ascesa di una nuova alleanza nella coalizione tra i partiti corrispondenti ad altrettanti gruppi etnici ossia amhara e oromo dal quale proviene lo stesso primo ministro, e che, fino ad allora, avevano giocato un ruolo secondario nel governo dell’Etiopia e che però dal 2018 divengono forze egemoniche. Da quel momento si determina un aspro processo di rinegoziazione delle sfere di influenza all’interno delle istituzioni federali del paese. Infatti il primo ministro Abiy Ahmed ha subito individuato il Fronte popolare di liberazione del Tigray come primo e unico responsabile delle malversazioni del passato, cercando sia di creare un terreno di sintesi delle forze di opposizione e determinandosi come uomo del cambiamento, celando quelle che invece erano le sue continuità con il passato regime, sia di legittimare un ricambio dei vertici tigrini delle istituzioni federali e delle Forze Armate con figure a lui fedeli.

Questo processo di ricambio ha raggiunto il suo apice alla fine del 2019 quando Abiy Ahmed ha sciolto la coalizione del Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope e, in sua vece, ha creato un partito autenticamente nazionale a guida fortemente centralizzata ossia il Partito della prosperità a cui però il Fronte popolare del Tigray si è rifiutato di aderire venendo così escluso da ogni incarico nel governo federale. Il Fronte popolare del Tigray ha risposto sottolineando che si stava determinando ideologicamente la costituzione di uno stato etiopico unitario e il superamento del principio di autodeterminazione dei gruppi etnici e dell’effettiva autonomia delle regioni etiopi rispetto al potere centrale. In questo modo il Fronte di Liberazione Popolare del Tigray, da un lato ha rotto l’autoisolamento in cui il Tigray versava dal 2018, dall’altro ha legittimato quello che gradualmente è divenuto il suo ruolo ossia uno stato nello stato, in nome del principio di autonomia regionale, al quale Abiy Ahmed ha risposto con ordini di cattura da parte della procura federale verso gli ufficiali politici tigrini e con il rinvio delle elezioni presidenziali del 2020 a causa della pandemia, elezioni che al momento sono previste per il 5 giugno 2021. Quindi è seguita la decisione del Tigray di indire elezioni in maniera autonoma nel solo stato regionale settentrionale che ha sancito il culmine di questo scontro istituzionale. L’amministrazione federale si è rifiutata di riconoscere il risultato delle elezioni regionali in Tigray che riconfermavano quasi all’unanimità il Fronte popolare di liberazione tigrino e da quel momento non ha riconosciuto più l’amministrazione regionale come interlocutore istituzionale. Il Fronte popolare a sua volta ha annunciato di non riconoscere più la legittimità dell’amministrazione federale in quanto decorso il termine di 5 anni dall’inizio del mandato di governo senza che vi fossero nuove elezioni. Quindi, come detto, la guerra civile è scoppiata il 4 novembre 2020 quando vi è stato un attacco delle forze militari tigrine contro una base dell’esercito federale etiope nel nord del paese. Il conflitto del Tigray dunque può essere letto come il tentativo del Fronte popolare di liberazione nazionale di resistere a una marginalizzazione dalla scena politica etiope.

Inoltre, va considerata anche la maggiore influenza nell’amministrazione federale etiope di forze militari nazionaliste, come quelle del partito legato all’etnia “amhara”, che già dal 3 novembre sono state posizionate tra lo stato dell’Amhara e quello del Tigray e che oggi sono ancora presenti nell’Ovest della regione. Ciò ha un rilievo storico non indifferente: tali territori dal 1991 fanno parte del Tigray, ma sono storicamente reclamati dallo stato regionale dell’Amhara, che, proprio in conseguenza del conflitto scoppiato nell’area del Tigray, oggi ha acquisito l’amministrazione, seppure temporanea di essi.

Internazionalizzazione del conflitto

Il Sudan

 

una visione di insieme

4000 rifugiati etiopi dopo aver attraversato la frontiera con il Sudan

Il conflitto della regione del Tigray è poi strettamente connesso con il conflitto tra Etiopia e Sudan (che si appresta a divenire uno stato federale) che da settimane ha provocato decine di morti e centinaia di sfollati. In evidenza il tentativo sudanese di sostenere l’intervento bellico condotto dal Fronte popolare di liberazione nazionale del Tigray che, quando negli anni precedenti al 2018 era al governo, aveva costituito un’asse privilegiato con il governo di Khartum. Inoltre, questo asse aveva implicato un accordo di confine tra Etiopia e Sudan, secondo il quale, proprio su alcuni territori reclamati dall’etnia amhara, era stata riconosciuta una sovranità sudanese ed erano stati militarizzati.

Infatti l’Etiopia e il Sudan condividono un confine di circa 1600 chilometri e questa contiguità ha provocato una tensione legata alla rivendicazione di taluni territori “comuni” da diversi anni. Nel 1902 fu stipulato tra la Gran Bretagna, allora potenza coloniale del Sudan, e l’Etiopia un accordo per individuare una frontiera ma non venne specificata una demarcazione territoriale ben definita tra i due paesi. Regolari riunioni tra Etiopia e Sudan, su tale questione, si sono svolte tra il 2002 e il 2006 mentre gli ultimi colloqui riguardanti i confini territoriali sono di maggio del 2020. È chiaro che oggi, quindi, ponendo il governo federale etiope le milizie dello stato regionale dell’Amhara come forza di controllo di alcuni territori al confine tra i due paesi, il conflitto civile etiope potrebbe trasformarsi in una guerra di più vasto rilievo.

La Diga della Rinascita e al-Fashqa

Lo scorso marzo lo scontro etiope con Il Sudan si è intensificato sulla piana di al-Fashqa, contesa da decenni dai due paesi, e almeno 50 soldati etiopi sarebbero stati uccisi proprio in ragione dello scontro in quest’area. Gli scontri sono iniziati il 4 febbraio 2021 quando l’Etiopia ha lanciato una serie di attacchi contro le forze sudanesi nell’area di Umm Karura. A metà gennaio il Sudan aveva denunciato lo sconfinamento di caccia etiopi nello spazio aereo sudanese aggravando le tensioni già alte per la diga sul Nilo e i problemi causati dai 56.000 profughi etiopi fuggiti dal Tigray, in seguito all’offensiva dell’esercito etiope lo scorso 4 novembre. Alla base rimane sempre la tensione che coinvolge Etiopia, Sudan ed Egitto per la “grande diga” sul Nilo che Addis Abeba sta terminando e sulla quale non si registrano progressi negli accordi.  Nell’area di al-Fashqa, inoltre, circa 2000 militari eritrei avrebbero attraversato il confine tra Etiopia e Sudan nei pressi di Wadi-al-Charab per supportare l’esercito etiope nella difesa dell’area contesa di al-Fashqa. Tuttavia, a fine marzo, il Governo di transizione del Sudan ha appoggiato la proposta degli Emirati Arabi Uniti di mediare nella disputa con Il governo etiope. Tale atteggiamento, assertivo di un tentativo di riconciliazione con l’Etiopia da parte del Sudan, è avvenuto solo in esito alle dichiarazioni del presidente Abiy Ahmed che ha affermato, martedì 23 marzo 2021, di non voler iniziare una guerra con Il Sudan ma di voler risolvere pacificamente le tensioni su al-Fashqa e sulla questione della grande diga (Grand Ethiopian Renaissance Dam).

Il Tigray. Tra Eritrea, Etiopia e Somalia

Va in seguito sottolineata chiaramente, soprattutto alla luce di questi eventi sovraesposti, il tipo di relazione che vi è tra Tigray, Governo Federale Etiope da un lato, ed Eritrea dall’altro. Nel 2019 è stata firmata dal governo federale etiope e l’Eritrea una pace storica che ha determinato il riconoscimento del Premio Nobel per la pace ad Abiy Ahmed Ali.

Tuttavia, la relazione tra i due paesi è ancora molto complessa e va ricercata in alcuni accadimenti avvenuti diversi anni prima dell’inizio del conflitto del 2020. I tigrini del Fronte popolare di liberazione del Tigray in passato erano di fatto il fronte armato gemello del Fronte di liberazione popolare dell’Eritrea e si erano alleati negli anni Ottanta tra di loro per condurre i rispettivi paesi verso la ribellione contro un governo di tipo sovietico. Dal 1991 al 1998, infatti, i due fronti avevano delle relazioni così pacifiche che gli etiopi utilizzavano su consenso eritreo gli sbocchi sul mare dei porti di Assab e Massaua per i propri interessi economici. Nel 1998 questa relazione pacifica è stata invece interrotta da una guerra tra il Fronte popolare di liberazione eritreo e quello etiope: questo creerà delle basi per la sedimentazione di una conflittualità e dei sentimenti di odio tra i due paesi oltre che un gran numero di morti e di persone deportate fino all’elezione dell’attuale presidente etiope.

Interessi eritrei in Tigray e spartizione degli aiuti e di aree di influenza

una visione di insieme

Interessi e presenze internazionali nel Corno d’Africa

Tutto ciò premesso, deve essere analizzata la partecipazione dell’Eritrea nell’attuale conflitto etiope, a sostegno di Abiy Ahmed Ali e, in opposizione al Fronte popolare di liberazione del Tigray, che possiede i caratteri di quello che si potrebbe definire un “regolamento di conti” nei confronti del popolo tigrino.

Sulla base di quanto avvenuto lo scorso novembre si può legittimamente affermare che la pace tra i due paesi – siglata nel 2019 – deve essere considerata soltanto l’inizio di un completo processo di pace tra i medesimi e che quindi, con riferimento all’intervento eritreo nell’attuale conflitto civile etiope, occorre tenere ben a mente il rapporto tra il Fronte popolare di liberazione nazionale Etiope e l’Eritrea a partire proprio dal 1998. In secondo luogo, devono essere analizzate le annose questioni degli aiuti internazionali, già in passato elargiti ai due paesi, da parte della Comunità internazionale e, infine, la questione dei rifugiati eritrei.

Per quanto concerne l’aspetto degli aiuti internazionali va detto che l’Eritrea e l’Etiopia ricevono circa 3,5 milioni di dollari annui, che implicano anche la stipula di accordi commerciali con altri paesi non presenti nel Corno d’Africa, e dei quali entrambi i paesi vogliono continuare a beneficiare. Questo rinfocola il sospetto che la guerra contro il Tigray sarebbe l’ultimo passo per una stabilizzazione degli accordi commerciali tra Addis Abeba e Asmara. Infatti, pur essendo l’Eritrea riconosciuta come un sanguinario regime militare, nel quale la leva è obbligatoria per tutti i cittadini, dai 18 ai 50 anni gli uomini, dai 18 ai 40 anni le donne, il suo attuale presidente gode di una legittimazione internazionale essendo stato coinvolto nella stipula di accordi commerciali con diversi paesi occidentali tra cui l’Italia. D’altra parte, anche l’Etiopia è beneficiaria di un fondo rilasciato dalla Banca Mondiale in cambio di un programma di privatizzazioni. Tuttavia, i partner di maggior rilievo a livello commerciale sono quelli mediorientali, in particolare l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti che hanno sponsorizzato l’accordo tra Etiopia ed Eritrea firmato simbolicamente a Gedda. In conseguenza del conflitto tra la regione del Tigray e lo Stato federale etiope, infatti, sono emerse accuse nei confronti degli Emirati Arabi Uniti per aver messo a disposizione dei droni, stanziati nella base militare ad Assab in Eritrea, a favore della repressione della rivolta da parte del Fronte popolare di liberazione nazionale.

Alla luce di tutto ciò deve essere riletto anche quindi il processo di pace tra Eritrea ed Etiopia con il dubbio, che si aveva già da principio, che sia prevalentemente un accordo di regolamentazione dei rapporti economico-commerciali tra i due paesi. Sul conflitto in Tigray, d’altra parte, oggi continua intanto la pressione internazionale per fare entrare in modo libero e accessibile gli aiuti umanitari internazionali in conseguenza del conflitto per tutta la popolazione tigrina a rischio denutrizione, come ribadito da molti allarmi delle agenzie umanitarie. Denutrizione causata anche dagli ostacoli provocati dal governo etiope all’ingresso di cibo e farmaci nella regione settentrionale. In un comunicato stampa pubblicato il 15 marzo “Medici senza Frontiere” ha condannato una serie di attacchi alle cliniche nella regione del Tigray che sono state saccheggiate, vandalizzate e distrutte.

Altra questione particolarmente rilevante, data l’ingerenza militare da parte dell’Eritrea nel conflitto tra la Regione del Tigray e l’Etiopia, è quella della condizione dei rifugiati: sono migliaia gli eritrei che si sono rifugiati nella regione del Tigray, dal 2001 – anno del golpe di Isaias Afewerki – fuggendo dalla dittatura di Asmara. Tale situazione ha oggi subito una drammatica deriva proprio in conseguenza dell’attuale conflitto e sembra rappresentare la tragica contropartita dell’Eritrea per il suo intervento militare di sostegno all’azione armata del governo federale etiope. Infatti, la guerra civile etiope non soltanto avrebbe provocato la presenza in Sudan di 56.000 rifugiati etiopi conseguenti al conflitto, così come di rifugiati eritrei, ma anche la deportazione in Eritrea da parte delle milizie di circa 6000/7000 eritrei rifugiati in Etiopia, che sarebbero stati prelevati dai campi rifugiati del nord dell’Etiopia, proprio in conseguenza del conflitto. A febbraio 2021, infatti, l’Alto Commissario Onu per i rifugiati, Filippo Grandi, ha denunciato la presenza di 20.000 rifugiati eritrei che, secondo testimoni da lui incontrati, sarebbero stati uccisi e deportati in Eritrea dai militari del regime di Afewerki.

Massacro di Debre Abbay

La Somalia

Va considerato, inoltre, non solo il coinvolgimento del Sudan e dell’Eritrea nel conflitto civile etiope ma anche quello della Somalia. L’Eritrea infatti, come riportato a gennaio del 2021, avrebbe inviato armi pesanti all’esercito somalo e una delle partite di scambio risulterebbe essere l’intervento dei militari somali nel Tigray. Secondo la rivista “Somali Guardian” in Eritrea sono stati addestrati almeno 10.000 militari somali, originariamente preposti per difendere il governo della Somalia dagli attacchi degli al Shabab, e una parte di queste reclute sarebbe stata inviata già a novembre del 2020 nella regione del Tigray. In corrispondenza di ciò le truppe etiopi sono state ritirate dalla missione Amisom in Somalia proprio per andare a combattere nella guerriglia contro il Fronte popolare di liberazione del Tigray a discapito della missione che sostiene il fragile governo somalo. L’ indebolimento di Amisom, così rischia di dare un seguito maggiormente rilevante alla destabilizzazione del governo federale somalo messa in atto dagli al Shabab.

Inoltre, nel mese di marzo 2021, in seguito alla pubblicazione il 26 febbraio scorso di un documento redatto  da Amnesty International sul conflitto etiope, in particolare sull’intervento delle truppe eritree nella città di Axum,  il capo dell’Alto Commissariato Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet ha accettato la richiesta del governo etiope di avviare un’indagine congiunta nella regione a Nord del paese,  dove si presume siano stati commessi crimini di guerra e contro l’umanità. Infatti, in un lungo discorso al parlamento etiope il primo ministro ha recentemente dichiarato che “il popolo e il governo eritreo hanno fatto un favore ai nostri soldati durante il conflitto” e ha continuato dicendo “nonostante ciò, dopo che l’esercito eritreo ha attraversato il confine, qualsiasi danno abbia fatto al nostro popolo è inaccettabile. Non lo accettiamo perché è l’esercito eritreo, e non lo accetteremmo se fossero i nostri soldati. La campagna militare era contro i nostri nemici chiaramente mirati, non contro il popolo. Ne abbiamo discusso quattro-cinque volte con il governo eritreo”.

Sempre il 23 marzo di quest’anno, Abiy Ahmed ha ammesso che le truppe eritree sono state presenti durante il conflitto nella regione settentrionale del Tigray suggerendo che potrebbero essere state coinvolte in abusi contro i civili. L’ammissione è intervenuta dopo mesi di smentite, sia da parte dell’Etiopia che da parte dell’Eritrea, del coinvolgimento di uomini appartenenti alle rispettive forze armate nella violazione dei diritti umani, nei massacri e nei crimini di guerra compiuti i mesi scorsi.

Il 25 marzo, intanto, le Nazioni Unite hanno reso noto che almeno 516 casi di stupri sono stati segnalati da alcune cliniche presenti nella regione del Tigray e il presidente etiope – che ha preso molto seriamente tale comunicato –  il 26 marzo, secondo l’agenzia di stampa internazionale “Reuters”, ha annunciato su “Twitter” che l’Eritrea ha accettato il ritiro delle proprie milizie dal confine etiope. Tale dichiarazione è stata resa pubblicamente dal presidente etiope in seguito all’incontro in Eritrea con il presidente Afewerki ad Asmara.

una visione di insieme

L’amministrazione Biden

Inoltre, sempre nella guerra civile, che continua a dispiegare i suoi effetti, nel quasi totale silenzio – data anche la difficoltà ad ottenere informazioni in merito, per le restrizioni imposte dall’attuale presidente ai Media – sono recentemente intervenuti gli Stati Uniti con una reazione che può qualificarsi il più veemente interessamento della Comunità internazionale in merito a quanto avvenuto nei mesi scorsi nell’area. 

Gli Usa hanno dichiarato la loro presenza mediante l’intervento dell’agenzia umanitaria statunitense “Usaid”, notoriamente intrecciata con operazioni gestite dalla Cia, annunciando di aver schierato un “Disaster Assisance Response Team” nella regione del Tigray. Infatti il 27 febbraio il segretario di stato americano Blinken, ha imposto al presidente etiope di aprire il Tigray all’accesso degli aiuti umanitari e di essere preoccupato per i crimini di guerra che molto probabilmente sono stati compiuti in conseguenza del conflitto nell’area. Questo interessamento degli Stati Uniti per la regione del Tigray si è manifestato, in seguito, con la pubblica condanna, da parte del segretario di Stato Antony Blinken, degli atti di pulizia etnica avvenuti nella regione e per i quali ha chiesto la piena responsabilità del governo etiope e il ritiro delle truppe eritree.

Il 10 marzo scorso Blinken ha, altresì, espresso chiaramente di non accettare forze di sicurezza nella regione che si rendano responsabili della violazione dei diritti umani del popolo del Tigray o che commettano atti di pulizia etnica. Il giorno seguente Gizhachew Muluneh, docente alla Sharda University e portavoce amhara, ha condannato le dichiarazioni di Blinken considerandole fuorvianti, ritenendo che il territorio del Tigray, occupato dalle sue forze regionali, debba effettivamente essere considerato, da ora in poi, parte della regione dell’Amhara. Le dichiarazioni di Blinken sono state rilasciate in seguito sia alla pubblicazione del Rapporto di Amnesty International, sia alle dimissioni di Berhane Kidane Mariam, vicecapo della missione presso l’ambasciata etiope a Washington DC che ha sottolineato che il presidente Abiy Ahmed sta conducendo il suo paese verso un “sentiero oscuro verso la distruzione e la disintegrazione” e di essersi dimessa per “protestare contro la guerra genocida nel Tigray”.

Infine, l’attuale presidente degli Stati Uniti Biden, a fine marzo, ha deciso di inviare il senatore americano Chris Coons ad incontrare il primo ministro etiope per discutere delle accuse di pulizia etnica nella regione del Tigray. L’intervento americano, tuttavia, deve essere considerato in un’ottica più complessa: le operazioni del presidente etiope a partire dal conflitto dovrebbero essere analizzate valutando l’ambizione geopolitica degli Usa di controllare la regione del Corno D’Africa attraverso la manipolazione del presidente etiope, con la volontà di escludere la Cina e la Russia da quest’area di influenza.

In conclusione, anche in passato era già avvenuto in Etiopia che a una transizione politica facesse seguito un periodo di instabilità del paese, ma oggi l’Etiopia non si appresta a divenire uno “stato fallito” ed è invece in grado di chiamare altri poteri Internazionali in suo aiuto che probabilmente eviteranno un processo di “balcanizzazione” dell’attuale stato federale etiope.

Proponiamo infine un intervento di Angelo Ferrari, registrato il 15 novembre 2020 durante la trasmissione dedicata alla crisi etiope da I Bastioni di Orione, rubrica di affari internazionali di Radio Blackout

“Resa dei conti tra tribù etiopi”.

Fonti:

L'articolo n. 1 – Corno d’Africa: Migranti e secolari conflitti etnici e coloniali proviene da OGzero.

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Non di soli contrasti tribali vive lo scontro etiope… https://ogzero.org/dispute-etniche-e-svolte-liberiste-dietro-la-guerra-in-corno-dafrica/ Wed, 18 Nov 2020 01:55:38 +0000 http://ogzero.org/?p=1775 … anzi, il sottile velo delle dispute etniche non riesce a nascondere gli interessi internazionali, il neocolonialismo che muove i protagonisti locali, la spartizione di risorse, territori, infrastrutture. I ribaltamenti dei sistemi politico-economici non possono che passare attraverso crisi apertamente belliche e quindi dal 4 novembre è scoppiata una guerra civile che può estendersi all’intera […]

L'articolo Non di soli contrasti tribali vive lo scontro etiope… proviene da OGzero.

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… anzi, il sottile velo delle dispute etniche non riesce a nascondere gli interessi internazionali, il neocolonialismo che muove i protagonisti locali, la spartizione di risorse, territori, infrastrutture. I ribaltamenti dei sistemi politico-economici non possono che passare attraverso crisi apertamente belliche e quindi dal 4 novembre è scoppiata una guerra civile che può estendersi all’intera area della Rift Valley.

Redde rationem trentennale nel superamento dell’etnofederalismo

Abiy Ahmed, oromo giunto rocambolescamente al potere etiope in sostituzione del “controllo” trentennale tigrino e al nobel in premio per un accordo storico con l’Eritrea, utile al primo ministro etiope per contare su naturali alleati storicamente interessati a contenere i vicini tigrini di Macallè (fin dai tempi coloniali, agevolando il compito di quelle potenze occidentali), ma indispensabile anche ad Isaias Afewerki, dittatore eritreo, per mantenere il potere concentrato nelle sue mani – ma forse la guerra può aver creato un’alleanza tra tigrini e oppositori eritrei, tanto che pare che alcuni guerriglieri siano penetrati nel territorio eritreo e dal Tigray è stato bombardato l’aeroporto di Asmara. Già due anni fa, al momento dell’accordo fortemente ricercato dai sauditi di Bin Salman, si scaricarono transfughi eritrei al confine tigrino (minato e costellato da campi profughi), folle corrispondenti a quelle che ora premono sulla frontiera che divide Etiopia e Sudan (forse 100.000).

A completare il quadro del rinnovato sciovinismo del Corno d’Africa (una scena che ha come sfondo il controllo del Mar Rosso) c’è il rischio che venga coinvolta la variegata galassia delle Somalie e il Sudan, ancora in procinto di uscire dalla transizione dopo la cacciata di al-Bashir, teatro nella provincia orientale di Cassala al confine con Eritrea ed Etiopia di scontri proprio per rivendicazioni di maggiore rappresentanza tra tribù Juba.

L’economia detta l’agenda nazional-federale

L’etnia oromo è maggioritaria nel paese ma è rimasta marginalizzata per lo strapotere del Nord, che possedendo la maggioranza delle risorse e infrastrutture del paese ed essendo al centro di vie di comunicazione, controllando l’esercito fino all’epurazione del 2018 effettuata da Abiy Ahmed, aveva potuto mantenere un sistema etnofederalista che salvaguardava non solo le componenti minoritarie, ma impediva svolte neoliberiste che invece si sono imposte nel momento in cui Abiy Ahmed ha preso il potere, cominciando a configurarsi come un regime e il timore ha preso a serpeggiare tra i cittadini etiopi.

Il premio Nobel ha ammantato l’archiviazione del sistema economico con la spinta alla riconciliazione nazionale, che vede solo la resistenza del Tigray, un’etnia con una forte percezione di sé (e della sua storia di contrapposizione al saccheggio delle proprie risorse e all’occupazione militare del proprio territorio, fin dai tempi coloniali) che individua nel cambiamento il conseguente ridimensionamento dell’autonomia regionale. Ovviamente le altre etnie, che rappresentano il 94 per cento della popolazione, mal tollerano la resistenza tigrina, perciò le milizie ahmara hanno appoggiato l’esercito di Addis Abeba intervenuto in risposta a una reazione alla provocazione dello stato centrale che ha inviato ingenti truppe in Tigray.

La percezione del momento nella società etiope

Perciò il 10 novembre 2020 durante la trasmissione “I Bastioni di Orione” sulle frequenze di Radio Blackout si è potuta sentire questa ricostruzione degli eventi fatta da un giovane emigrato etiope, evidentemente non tigrino, che sostanzialmente attribuisce alla minoranza la responsabilità della deriva violenta di queste settimane:

Ascolta “Rivolta tigrina contro il superamento dell’etno-nazionalismo di Ahmed” su Spreaker.

La testimonianza, per quanto pacata, palesa la posizione fortemente critica della maggioranza degli etiopi, probabilmente non tanto per lo strappo attuale, ma per i 30 anni di oppressione tigrina, una reazione che ha fatto parlare di rwandizzazione per descrivere la reazione antitigrina. Difficile valutare se si tratta di esagerazioni, perché Abiy Ahmed ha fatto tesoro della esperienza da ministro delle comunicazioni, quando ha imparato a gestire e controllare i flussi di informazioni telematici: infatti trapelano pochissime notizie.

Il primo tassello da cui partire per descrivere la situazione è dunque l’ancora forte determinazione della minoranza tigrina a contrastare il nazionalismo identitario di Abiy – che dapprima ha dovuto fronteggiare per lo stesso motivo le rimostranze della sua stessa etnia oromo, portato a interpretare la propensione a diluire le differenze tribali nella comune “identità” etiope come un tradimento della propria gente; in realtà la scelta è essenzialmente un cambio di orientamento del modello di sviluppo su istanza cinese, che vede nel Corno d’Africa e nel presidio dello stretto di Bab al Mandab (ovvero di Gibuti) uno snodo essenziale per la Belt Road Inititive. Per fare ciò Abiy ha bisogno di poter gestire centralmente le ingenti risorse del Tigray, di abbracciare il neoliberismo e di indicare simboli che possano rappresentare la nazione etiope, stretta attorno a lui e al suo nuovo corso: a questo scopo si presta perfettamente la Diga della Rinascita sul Nilo azzurro.

Neocolonialismo Corno d'Africa 2020

Infrastrutture, basi militari, territori contesi, vie di comunicazione nella Rift Valley

Qualche snodo storico, ma i fattori divisivi sono infiniti

La crisi del Tigray nasce dallo scontro politico con il Tpfl, che è stato a lungo il partito egemone in seno all’Ersdf: i tigrini avevano sconfitto trent’anni fa il regime comunista e deposto Menghistu (l’ultimo a lanciare un escalation militare in Tigray), gestendo il potere da allora in avanti, senza abbracciare pienamente il neoliberismo. Il Fronte tigrino si è sentito più volte preso di mira dalle riforme del nuovo premier, che intanto ha creato una propria formazione politica, il Partito della prosperità.  Nel Tigray le autorità locali hanno deciso di tenere elezioni indipendenti a settembre, quelle che erano state rinviate ad agosto con la scusa della epidemia di SarsCov2 e il Tpfl è stato riconfermato al governo regionale. Ora lo scontro è diventato militare, con il rischio che la rivalità politica si trasformi in conflitto interetnico. Mulu Nega è stato nominato da Ahmed nuovo governatore ad interim per la regione settentrionale del Tigray. Poco prima il parlamento aveva preso la risoluzione di stabilire un’amministrazione provvisoria.

Per dipanare questo groviglio ne abbiamo discusso con Angelo Ferrari all’interno della stessa trasmissione diffusa da Radio Blackout in cui avevamo proposto la ricostruzione del giovane etiope.

Ascolta “Chi sta sabotando la convivenza e l’integrazione etnica?” su Spreaker.

L’apertura liberista al capitale privato crea attriti nell’intera società; nel Tigray ancora di più; la penetrazione di militari nazionali nella regione settentrionale è quindi vista come intrusione e ha fatto esplodere gli attacchi di Macallè. Si rischia l’esatto opposto del tentativo di unificare: la frammentazione perché ciascuno non si sente rappresentato a sufficienza e la repressione di Addis Abeba può incendiare l’intera area. Intanto sono già 25.000 gli sfollati e innumerevoli i morti (si parla di 500 solo nel massacro del 10 novembre a Mai-Kadra, in Tigray).

Ancora uno scambio di opinioni tra i redattori dei “Bastioni di Orione” di Radio Blackout e l’analista di eventi africani Angelo Ferrari

Ascolta “Nazionalismo e svolta liberista di Ahmed” su Spreaker.

Traffici d’armi e colonialismo

Nel 2019 il governo giallo-verde aveva stipulato attraverso la ministra Trenta accordi militari con il presidente-nobel_per_la_pace_Ahmed: «Difesa e sicurezza, formazione e addestramento, assistenza tecnica, operazioni di supporto alla pace… trasferimento di struttura d’arma e apparecchiatura bellica… è auspicata la promozione di iniziative finalizzate a razionalizzare il controllo sui prodotti a uso militare»; lo smercio di armamenti è comune ai precedenti governi italiani, soprattutto di centrosinistra, che avevano appoggiato la parte eritrea, ora già coinvolta con esplosioni all’Asmara perché Macallè accusa il regime di Afewerki di appoggiare Ahmed, inoltre le milizie ahmara si sono schierate subito con Addis Abeba. Duecento ufficiali tigrini inquadrati nell’African Union Mission in Somalia sono stati disarmati; l’isolamento è totale, probabilmente perché tutte le forze che agiscono in quello scacchiere temono si estenda l’incendio e scommettono sul ridimensionamento del peso del Tigray sull’area.

Colonialismo novecentesco in Corno d'Africa

Etnie e date fondamentali nella corsa novecentesca al Posto al sole

Il mai realmente sopito colonialismo italiano sta cercando di tornare a essere protagonista nel Corno d’Africa, perché gli interessi energetici e di appalti per infrastrutture (la Diga della Rinascita vede allignare ditte italiane nella costruzione progetta a Pechino) fanno gola come il Posto al sole di memoria mussoliniana… e quindi soffierà sul fuoco della guerra in un’area popolata dagli apparati militari di tutte le potenze mondiali (a Gibuti sono presenti compound militari di tutte le potenze globali), che si stanno accaparrando fette di un territorio che controlla traffici, merci, risorse. Una vera operazione neocoloniale nascosta sotto la cooperazione allo sviluppo.

Ascolta “Etiopia meta del complesso militar-industriale italiano” su Spreaker.

Le nazioni sono al soldo di potenze straniere per ridisegnare la geopolitica internazionale come avvenne nel periodo coloniale classico: tutte le potenze sono intente a controllare il passaggio del Mar Rosso da Aden a Suez (infatti a Gibuti, snodo essenziale del Belt Road Initiative, sono presenti tutti i contingenti militari) e ogni mossa è un riposizionamento strategico

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Tutti i nodi irrisolti tra Etiopia, Egitto e Sudan riaffiorano sulle acque del Nilo https://ogzero.org/tutti-i-nodi-irrisolti-tra-etiopia-egitto-e-sudan-riaffiorano-sulle-acque-del-nilo/ Fri, 24 Jul 2020 11:35:20 +0000 http://ogzero.org/?p=803 Il premio più ambito per un leader, il premio dei premi, il Nobel per la pace nel 2019 lo ha ricevuto il primo ministro etiope Abiy Ahmed. Un Nobel che premia un processo politico, non solo l’uomo che lo ha avviato. Un processo di riforme che sembrava impossibile e che invece, in appena due anni […]

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Il premio più ambito per un leader, il premio dei premi, il Nobel per la pace nel 2019 lo ha ricevuto il primo ministro etiope Abiy Ahmed. Un Nobel che premia un processo politico, non solo l’uomo che lo ha avviato. Un processo di riforme che sembrava impossibile e che invece, in appena due anni – dal 2 aprile 2018 – ha praticamente rivoltato l’Etiopia, trasformandola dal profondo. Un premio, tuttavia, che non nasconde le difficoltà e le contraddizioni che vive il paese. I nodi da sciogliere, ancora, sono enormi. Scontri etnici, problemi economici, la Grande Diga della Rinascita Etiope. Tutte questioni che rimangono ancora sul tavolo. Ma vi sono questioni politiche che devono essere affrontate, e a breve, per evitare un vuoto di potere, a ottobre, quando il parlamento scadrà. Le elezioni, previste per il 29 agosto, sono state cancellate causa coronavirus. Un appuntamento che, nelle intenzioni del premier, avrebbe dovuto rafforzare e consolidare la sua leadership e dare nuovo impulso alle riforme di cui l’Etiopia ha estremamente bisogno. Ma andiamo per ordine.

Sembrava impossibile che in Etiopia l’etnia minoritaria, ma egemone da sempre sul piano politico – i tigrini –, potesse cedere alcuni cruciali posti di potere, eppure è avvenuto. Sembrava impossibile che il mal sopportato cessate il fuoco con l’Eritrea si potesse trasformare in una vera pace, eppure è avvenuto. Sembrava impossibile che l’economia chiusa dell’Etiopia potesse aprire le porte a veri investitori esterni, eppure è avvenuto. Sembrava impossibile che migliaia di prigionieri potessero essere liberati, eppure è avvenuto. Tutto ciò è merito del premier Ahmed, del suo coraggio e della sua determinazione. Che sia stata un’impresa, che ci siano stati tentativi di resistenza lo testimoniano tre falliti colpi di stato con relativi attentati alla sua persona. Il Nobel è un modo per rafforzarlo, un modo per rendere più difficili e ardui i tentativi di fermarlo. Rimane, però, il fatto che negli ultimi due anni in Etiopia ci sono stati durissimi scontri tra tigrini, oromo, ahmara per la gestione della terra. Abiy Ahmed – un oromo – dovrà trovare un equilibrio e delle leggi democratiche che lo sanciscano. Il Nobel, inoltre, parla a tutta l’Africa, dice che si può cambiare, che ciò che appare impossibile può essere realizzato.

La strada, tuttavia, è ancora in salita. All’indomani dell’assegnazione del premio, si sono verificate rivolte degli oromo, con decine di morti e feriti, frutto dei combattimenti tra membri di vari gruppi etnici nella regione di Oromia. Le rivolte sono scoppiate dopo che l’oppositore Jawar Mohammed ha accusato le forze di sicurezza di aver pianificato un attentato ai suoi danni. Nonostante Abiy e Jawar appartengano alla stessa etnia e siano anche stati alleati prima dell’ascesa al potere dell’attuale premier, tra i due si è aperta una “guerra” molto virulenta. Jawar accusa Abiy di aver sviluppato tendenze autoritarie. Il premier, a detta di Jawar, sta cercando di intimidire i suoi detrattori, compresi gli alleati molto stretti che lo hanno portato al potere. Jawar, tuttavia, non ha mai nascosto l’aspirazione a candidarsi alle elezioni proprio contro il premier. Progetto svanito visto il rinvio delle elezioni a data da “destinarsi” e del tutto sepolto dopo il suo arresto per le rivolte dopo l’uccisione del musicista oromo.

Non si comprende, tuttavia, questa guerra etnica interna al gruppo degli oromo. Una scintilla banale o un omicidio eccellente scatenano una violenza inaudita, come l’uccisione del cantante oromo Hachalu Hundessa. Una rivolta che ha provocato più di 200 morti e oltre 5000 arresti. Il cantante molto popolare tra la popolazione oromo – l’etnia maggioritaria in Etiopia – e che, grazie alle sue canzoni di denuncia contro la presunta emarginazione del gruppo etnico dalla vita politica ed economica del paese, è diventato negli anni uno dei leader delle rivendicazioni. Rivendicazioni che, paradossalmente, si sono intensificate dopo l’entrata in carica del premier Abiy Ahmed: molti nazionalisti lo accusano infatti di non aver fatto abbastanza per difendere gli interessi della sua comunità. Il primo ministro, del resto, ha più volte promesso maggiori libertà politiche e che le prossime elezioni dovranno essere “libere ed eque”, tuttavia il suo nuovo Partito della prosperità (Pp) – nato nel novembre scorso dalla fusione dei partiti che formavano il Fronte democratico rivoluzionario dei popoli etiopi (Eprdf), la coalizione al potere in Etiopia dal 1991, con il preciso obiettivo di superare le divisioni in nome di uno sviluppo condiviso – si basa su una visione “panetiope” che si trova a dover fare i conti con una forte concorrenza da parte di nuovi partiti regionali determinati a sostenere le rivendicazioni delle rispettive etnie di appartenenza dopo decenni di repressione e a inasprire lo scontro interetnico. È proprio alle tensioni settarie e ai ripetuti tentativi di far “deragliare” il percorso di riforme avviato dal suo governo che lo stesso Ahmed ha fatto riferimento nel suo discorso trasmesso in diretta televisiva subito dopo la morte di Hundessa. Ahmed ha infatti sottolineato come la storia recente del paese sia stata minacciata per tre anni consecutivi da tre “inquietanti” episodi avvenuti sempre nel mese di giugno: l’esplosione di una bomba durante un suo comizio ad Addis Abeba il 24 giugno 2018; il tentato golpe del 22 giugno 2019 che causò l’uccisione del capo dell’esercito Seare Mekonnen e del governatore dello stato di Amhara, Ambachew Mekonnen; e ora l’assassinio di Hundessa. In un vago riferimento a un “tentativo organizzato” di ostacolare la sua agenda di riforme, il primo ministro ha quindi puntato il dito contro «agenti interni e stranieri» responsabili di «un atto malvagio» al fine di «destabilizzare la nostra pace e impedirci di conseguire le riforme che abbiamo intrapreso». Ahmed ha quindi accusato non meglio precisati “gruppi” di aver preso di mira non solo Hundessa, ma anche altre personalità di spicco di etnia oromo con l’obiettivo di «istigare ulteriori violenze per far deragliare ciò che abbiamo costruito per il paese», e ha inoltre assicurato che il governo intensificherà le misure per garantire la prevalenza dello stato di diritto in tutto il paese, invitando i cittadini a stare dalla parte del governo. Il premier ha spiegato che questo omicidio verrà “utilizzato” per unificare il paese, «coloro che hanno pianificato il crimine sono gli stessi che non sono contenti dell’attuale cambiamento in atto nel paese. Il loro obiettivo non è uccidere il nostro fratello – ha spiegato Ahmed – ma uccidere l’Etiopia uccidendo Hachalu. Tuttavia, ciò non accadrà e il loro piano non avrà successo». Il rinvio delle elezioni, tuttavia, può logorare il governo e la sua tenuta democratica.

Tutto ciò accade in un paese che, nonostante una rapida crescita economica, rimane una delle nazioni più povere al mondo. Negli anni la violenza etnica in Etiopia, oltre a centinaia di morti, ha costretto oltre due milioni di persone a lasciare le loro case e trovare rifugio altrove.

E poi c’è la Diga della Rinascita a inquietare la scena politica sia interna che esterna dell’Etiopia. E più che una diga della rinascita rischia di diventare, non solo della discordia – quella è un dato di fatto – ma il detonatore di una crisi regionale dagli effetti imprevedibili. I negoziati, fino a ora, tra Etiopia, Egitto e Sudan, non hanno ancora sciolto i nodi. Tutt’e tre i paesi rimangono sulle loro posizioni, senza che vi siano segnali, concreti, che si possa arrivare a un accordo in tempi brevi e condiviso da tutti. Ai nulla di fatto del negoziato si aggiungono dichiarazioni – che probabilmente hanno il solo scopo di irritare i protagonisti del negoziato – come quelle del ministro delle Risorse idriche, dell’irrigazione e dell’energia, Sileshi Bekele, a cui nei giorni scorsi l’emittente di stato etiope Ebc ha attribuito affermazioni circa l’avvio delle operazioni di riempimento del bacino idrico della diga. Lo stesso ministro, poi, ha parzialmente rettificato l’informazione, limitandosi ad affermare che il riempimento è in corso «in conformità con il normale processo di costruzione» della diga.

Gli ultimi colloqui trilaterali che si sono tenuti in videoconferenza dal 3 luglio al 13 alla presenza di undici osservatori – tra cui Unione europea, Stati uniti e Unione africana – si sono conclusi con un nulla di fatto. Colloqui che si ripeteranno nei prossimi giorni. «Le posizioni invariate e le richieste aggiuntive ed eccessive dell’Egitto e del Sudan hanno impedito che questo ciclo di negoziati si concludesse con un accordo», ha dichiarato lo stesso Seleshi, ribadendo al contempo la convinzione che un accordo negoziato sia «l’unica via d’uscita». Nel frattempo nuove immagini satellitari sembrano mostrare un aumento dei livelli delle acque nel bacino idrico della diga costruita sul fiume Nilo. Il governo etiope ha negato di aver deliberatamente iniziato a riempire la diga, anche se il riempimento è il nodo sul quale si arenano i negoziati. Non si capisce se tutto ciò sia tattica o confusione.

La partita è dunque delicatissima e sia l’Egitto sia l’Etiopia hanno tutti i motivi per difendere le loro posizioni. Dall’acqua del Nilo dipende tutto. Il Nilo è l’Egitto. Il paese delle piramidi potrebbe perdere fino a 300 milioni di dollari di elettricità e un miliardo e mezzo di dollari in agricoltura. Il Cairo, inoltre, dovrebbe aumentare le sue importazioni alimentari fino a poco meno di 600 milioni di dollari, con una perdita di circa un milione di posti di lavoro. L’Egitto consuma circa 80 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, di cui 50 provengono dal Nilo. L’Etiopia, invece, potrebbe perdere lo slancio economico che sta mettendo in campo il primo ministro Abyi Ahmed. Il balzo del Pil – attualmente la crescita sfiora le due cifre, ma occorre fare i conti con la pandemia di coronavirus – potrebbe rimane una chimera e deludere l’opinione pubblica interna, con conseguenze imprevedibili, vista l’attuale fragilità del tessuto sociale, spesso squassato da rivalità etniche e religiose. Un Pil, tuttavia, che non si riflette sull’economia reale, sul benessere della popolazione. Addis Abeba ha un gran bisogno di questa diga che, non a caso è stata definita “Diga della Rinascita etiope”. I lavori sono iniziati nel 2011 e affidati all’italiana Salini. L’invaso, inoltre, potrà immagazzinare fino a 74 miliardi di metri cubi di acqua e il riempimento dovrebbe cominciare o è già iniziato, almeno secondo le intenzioni di Addis Abeba, proprio in questo mese. L’oggetto del contendere è, infatti, sui tempi del riempimento che l’Egitto vorrebbe avvenisse in cinque anni mentre l’Etiopia in tre.

Sulla vicenda, inoltre, ci sono contratti milionari. La Cina, infatti, ha annunciato una megapartecipazione proprio in questa infrastruttura. La compagnia Ethiopian Electric Power (Eep) ha firmato un contratto del valore di 40 milioni di dollari con la China Gezhouba Group per la gestione delle attività relative alla diga. Tutto ciò spiega, inoltre, il fatto che l’Egitto boicotti l’iniziativa del bacino del Nilo, istituito con l’accordo di Entebbe firmato da sei paesi: Etiopia, Kenya, Ruanda, Tanzania, Uganda e Burundi. All’accordo non hanno aderito l’Egitto e il Sudan, a causa della riassegnazione delle quote d’acqua del Nilo che sfavorirebbe questi due paesi. Si spiega, dunque, l’asprezza del negoziato che, tutti si augurano, non sfoci nella Prima guerra dell’Acqua del terzo millennio.

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La contesa per l’acqua del Nilo https://ogzero.org/la-contesa-per-lacqua-del-nilo/ Thu, 02 Apr 2020 14:16:11 +0000 http://ogzero.org/?p=112 Raffaele Masto, Angelo Ferrari, 2020 Per l’Etiopia la decisione di cercare la pace con l’Eritrea fa parte di una svolta profonda anche nella politica interna. Il comitato esecutivo del partito al potere in una coalizione nella quale rappresenta la grande maggioranza ha anche annunciato la liberalizzazione dei settori delle telecomunicazioni, dell’energia e del trasporto aereo, […]

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Raffaele Masto, Angelo Ferrari, 2020

Per l’Etiopia la decisione di cercare la pace con l’Eritrea fa parte di una svolta profonda anche nella politica interna. Il comitato esecutivo del partito al potere in una coalizione nella quale rappresenta la grande maggioranza ha anche annunciato la liberalizzazione dei settori delle telecomunicazioni, dell’energia e del trasporto aereo, aprendoli a investimenti privati e interni, con l’obiettivo di allentare la presa dello stato sull’economia, una delle più chiuse e controllate del continente africano ma anche una delle più dinamiche e in crescita. Si tratta di riforme promesse dal nuovo premier Abiy Ahmed subentrato al dimissionario Hailemariam Dessalegn che, pur appartenendo a una minoranza etnica, rappresentava gli interessi dell’etnia tigrina al potere dalla cacciata, nei primi anni Novanta, del dittatore Menghistu. In questa svolta la potenziale guerra mai conclusa con l’Eritrea era un impiccio. Discorso diverso per l’Eritrea. Questo paese si è progressivamente chiuso anche grazie al pretesto della guerra con il grande vicino etiopico. Ora che questo spettro non c’è più Isaias Afewerki si trova a doversi riposizionare, sia sul piano esterno che su quello interno. Sulla carta vengono meno i motivi per non applicare la Costituzione, per evitare elezioni e per mantenere decine di migliaia di giovani nelle caserme.

La pace con l’Eritrea avrà delle conseguenze economiche. Stando alle parole dei due leader «verranno ripristinati i legami nei trasporti, nel commercio e nelle telecomunicazioni e rinnovati i legami e le attività diplomatiche». L’Etiopia aveva, proprio per ovviare al suo mancato sbocco sul mare, puntato sulla ferrovia e sulla strada per Gibuti costruite dai cinesi. Gibuti era praticamente diventato il porto dell’Etiopia sul Mar Rosso. Ora però la pace dovrebbe offrire di nuovo ad Addis Abeba i porti di Assab e Massaua. O meglio, si dovrà stare a vedere perché secondo molti analisti la guerra era proprio scoppiata non tanto per le pietraie di Badame, a 2400 metri di quota che ora l’Etiopia ha riconosciuto all’Eritrea, ma proprio perché l’Eritrea aveva richiesto i pagamenti dei diritti portuali in dollari e non più in nakfa, la valuta eritrea.

La pace avrà anche conseguenze regionali e internazionali. Sempre secondo quanto affermano i due leader «entrambi i paesi lavoreranno insieme per assicurare la pace regionale, lo sviluppo e la cooperazione». Questi venti anni di non-pace avevano spostato su fronti opposti negli equilibri regionali Eritrea ed Etiopia. Per esempio sulla diatriba tra Etiopia e Egitto per l’acqua del Nilo e la Diga della Rinascita, l’Eritrea aveva fatto da sponda ai paesi contrari ad Addis Abeba. Come pure in Somalia l’Eritrea veniva accusata di sostenere i ribelli jihadisti di al-Shabaab in funzione antietiopica.

La firma di questa pace storica, a detta di molti analisti, è avvenuta a Gedda, in Arabia Saudita il 16 settembre del 2018, e questo non è un fattore secondario. Se la pace poteva avere conseguenze su tutto il Corno d’Africa, sicuramente il luogo della firma impone la comprensione di nuovi scenari che si aprono in quel fazzoletto di terra. L’Arabia Saudita, come tutte le potenze mondiali, non fa nulla senza che questo abbia ripercussioni positive sui propri interessi sia economici che strategici e non ultimi quelli geopolitici. 

Raffaele Masto, 17 novembre 2019, intervento trasmesso da Radio Blackout sulla contesa relativa alla Diga della Rinascita costruita dall’Etiopia sul Nilo Azzurro

Lo spirito del Nilo patisce le dighe

Il Nilo è l’anima per buona parte dei paesi del suo bacino, che è vasto e costituisce un sistema di relazioni politiche che contribuiscono a formare gli equilibri geostrategici della regione. Nessuno può rinunciare alle sue acque: non gli stati relativamente piccoli intorno alle sue sorgenti come il Ruanda, il Burundi e l’Uganda né, a maggior ragione, grandi nazioni come l’Etiopia e il Sudan. Ma chi più di tutti non può fare a meno delle acque del Nilo è l’Egitto, la cui gloriosa storia passata e quella attuale dipendono quasi totalmente dal grande fiume. L’Egitto, che sia guidato dai faraoni, dai Fratelli Musulmani o dai militari di Nasser, di Mubarak o di al-Sisi, non può tollerare che qualcuno dei paesi del bacino del fiume costruisca opere sul suo corso, diminuendo la portata d’acqua che si riversa a valle. Proprio per questo motivo, da qualche anno, è in corso un pericoloso contrasto tra Egitto e Etiopia che fa comprendere quanto sia delicata la spartizione delle sue acque per gli equilibri di tutta l’Africa orientale. L’Etiopia, una delle nazioni africane più dinamiche dal punto di vista economico, ha in progetto da qualche anno una grande diga sul ramo del Nilo Azzurro, soprannominata la “Diga della Rinascita”. Un’opera che nelle intenzioni dovrebbe produrre energia elettrica per buona parte del paese e anche permettere di esportarla a quelli limitrofi, sostenendo in questo modo la formidabile crescita dell’Etiopia, che aspira al ruolo di potenza regionale. Nel 2013 sono cominciati i lavori, e l’Egitto – nonostante stesse vivendo una grave crisi politica interna – ha scatenato un’offensiva diplomatica arrivando a minacciare guerra e bombardamenti aerei sul cantiere della diga. Le tensioni sono tutt’ora all’ordine del giorno e gettano un timore di scontro tra i due paesi e non solo. Le minacce si alternano – da ambo le parti – a periodi di distensione, senza mai, però, arrivare a una soluzione accettabile per tutti.

L’Egitto fonda la propria posizione su un vecchio protocollo: circa cento anni fa, nei primi anni del secolo scorso, era infatti riuscito a stipulare un’intesa secondo la quale il 95 per cento della portata del Nilo risultava di proprietà egiziana, mentre il resto apparteneva al Sudan e le rimanenti briciole venivano lasciate agli altri stati del bacino. La questione è tutta apertissima e nella partita si sono inseriti anche gli Stati Uniti come forza mediatrice tra le parti. 

I negoziati, nonostante la mediazione degli Stati Uniti, sono stati infruttuosi. Nessuno cede e il pericolo di un conflitto, anche se non armato, ma solo diplomatico potrebbe rappresentare un grave rischio per una regione già attraversata da crisi immani come quelle del Sudan e del Sud Sudan. Il problema, ovviamente, è la riduzione della portata delle acque del Nilo. È evidente che una regione dove le crisi, le guerre, sono state dettate dal petrolio, dall’oro nero, da appetiti nazionali e internazionali, una nuova guerra, quella per l’oro blu, l’acqua, non è auspicabile. Ma le tensioni sull’oro blu potrebbero diventare la miccia per nuove guerre, per nuovi posizionamenti strategici. Coinvolgendo, se ce ne fosse ancora bisogno, le potenze straniere. Ma andiamo per ordine.

Il progressivo cambiamento della portata del Nilo Azzurro dal 2014 al 2019

La questione è questa: la Diga della Rinascita ridurrà inevitabilmente la portata dell’acqua del fiume e, di conseguenza, priverà l’Egitto di una risorsa irrinunciabile che ha consentito a questo paese, dalla civiltà dei faraoni a oggi, di avere il ruolo che ha nel Mediterraneo e nel Maghreb. L’acqua del Nilo, e il limo che deposita nelle ondate di piena, costituiscono letteralmente l’agricoltura dell’Egitto. Negli anni recenti hanno scoperto giacimenti di gas imponenti. Ma senza il Nilo l’Egitto non esiste. Non solo non esiste il suo passato, nemmeno il suo presente e, tantomeno, il suo futuro. Il Nilo è l’Egitto. 

Di contro, l’Etiopia vuole esistere, vuole continuare a crescere. A imporsi. È per questo che Addis Abeba non può rinunciare alla diga che sarà una fonte di energia, e che vuol dire elettricità in un paese che non ha ancora raggiunto l’autosufficienza alimentare. Ma fosse solo questo! Elettricità significa tante cose. Innanzitutto sviluppo. Significa luce per poter studiare. Per gli studenti uscire dall’isolamento. Energia per far funzionare le fabbriche. Vuol dire lavoro. Vuole dire ospedali che funzionano. Possibilità per i giovani di oggi di progettare un futuro che non aspiri, solo, a emigrare. Tanto, oggi, chi lo può fare è una esigua minoranza. Vuol dire poter fare figli sapendo che il loro futuro è garantito. Tutto questo per un paese significa energia vitale, che si traduce in elettricità che contagia, che arriva ovunque. Che la partita sia fondamentale è del tutto evidente. Ed è altrettanto scontato che forse i governanti, se non hanno dalla loro la lungimiranza, potrebbero anche scatenare una guerra per l’oro blu. Convinti, magari, che questa sia la soluzione. E le bombe dove cadrebbero? Proprio sulla diga, e addio elettricità.

Il confronto, dunque, è tra due necessità irrinunciabili. Due grandi paesi a confronto. La soluzione, inevitabilmente, passa attraverso la rinuncia di qualcosa da parte di entrambi i contendenti. Ma chi è disposto a fare il primo passo?

Per comprendere questo scontro è utile sapere cosa c’è in gioco concretamente: il paese delle piramidi potrebbe perdere fino a 300 milioni di dollari di elettricità e un miliardo e mezzo di dollari in agricoltura. Non solo: il Cairo dovrebbe aumentare le sue importazioni alimentari fino a poco meno di 600 milioni di dollari, con una perdita di circa un milione di posti di lavoro. L’Egitto consuma circa 80 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, di cui 50 provengono dal Nilo. L’Etiopia, invece, potrebbe perdere lo slancio economico che sta mettendo in campo grazie al suo primo ministro. Il balzo del Pil – attualmente la crescita sfiora le due cifre – potrebbe rimanere una chimera e deludere l’opinione pubblica interna, con conseguenze imprevedibili, vista l’attuale fragilità del tessuto sociale, spesso squassata da rivalità etniche e religiose. Un Pil, tuttavia, che non si riflette sull’economia reale, sul benessere della popolazione.

La diga, intanto, è in fase di costruzione sul confine occidentale dell’Etiopia con il Sudan. Prosegue il suo cammino. Sarà la più grande dell’Africa con un costo complessivo stimato in quattro miliardi di dollari, una capacità di 74 000 metri cubi d’acqua e una produzione di 6500 megawatt. Il negoziato è su tutto, persino sul riempimento della diga. L’Egitto ha chiesto di ottenere un periodo di riempimento di cinque anni anziché tre come proposto dall’Etiopia, una decisione che influenzerebbe fortemente però la quota dell’Egitto sull’acqua del Nilo.

La partita non è solo regionale, ma registra l’interventismo internazionale. In particolare quello cinese. Con l’Etiopia Pechino ha stretto collaborazioni molto promettenti, come l’accordo per un oleodotto che trasporti il gas naturale dei giacimenti dell’Ogaden a Gibuti perché possa essere commercializzato. Ma la Cina ha annunciato una megapartecipazione proprio nella più grande infrastrutturazione del paese. La compagnia Ethiopian Electric Power (Eep) ha firmato un contratto del valore di 40 milioni di dollari con la China Gezhouba Group per la gestione delle attività relative alla Grande Diga della Rinascita, che dovrebbe diventare operativa entro il 2022. L’accordo è stato firmato ad Addis Abeba dagli amministratori delegati di entrambe le società. Nelle intenzioni delle parti, l’intesa consentirà di accelerare il ritmo di realizzazione della diga. Pechino, inoltre, non si fa certo scrupoli, proprio grazie alla sua capacità finanziaria, di siglare accordi e iniettare denaro su progetti che hanno come attori soggetti contrapposti.

Tutto ciò spiega, inoltre, il fatto che l’Egitto boicotti l’iniziativa del bacino del Nilo, istituita con l’accordo di Entebbe firmato da sei paesi: Etiopia, Kenya, Ruanda, Tanzania, Uganda e Burundi. All’accordo non hanno, tuttavia, aderito l’Egitto e il Sudan, a causa della riassegnazione delle quote d’acqua del Nilo che sfavorirebbero questi due paesi. Una contesa lontana dal trovare una soluzione. Una contesa internazionale che potrebbe scatenare la Prima guerra dell’acqua del terzo millennio.

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