Erdoğan Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/erdogan/ geopolitica etc Fri, 26 Apr 2024 17:49:35 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 L’equilibrista di Ankara sul filo del conflitto mediorientale https://ogzero.org/lequilibrista-di-ankara-sul-filo-del-conflitto-mediorientale/ Thu, 25 Apr 2024 20:18:45 +0000 https://ogzero.org/?p=12587 Le mosse strategiche nella regione Mena sono diventate più frenetiche dagli Accordi di Abramo in poi, fino alla reazione di Hamas del 7 ottobre, apparentemente avventata ma mirata a legittimarsi come movimento e contrastare l’accelerazione del governo Netanyahu volta a cancellare la presenza palestinese nella regione. I sei mesi di pantano genocida non sono stati […]

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Le mosse strategiche nella regione Mena sono diventate più frenetiche dagli Accordi di Abramo in poi, fino alla reazione di Hamas del 7 ottobre, apparentemente avventata ma mirata a legittimarsi come movimento e contrastare l’accelerazione del governo Netanyahu volta a cancellare la presenza palestinese nella regione. I sei mesi di pantano genocida non sono stati risolutivi per lo Stato ebraico e così si assiste al particolare dinamismo da parte di molti attori locali, in particolare di Erdoğan.
La diplomazia turca e il presidente stesso hanno intrapreso un tourbillon di incontri presso i vertici degli stati che compongono la regione mediorientale, proponendosi come mediatore, cercando di raccogliere il testimone lasciato cadere dal Qatar, logorato dal boicottaggio israeliano. Ma soprattutto Erdoğan ha individuato nel conflitto che si vuole estendere dal confronto tra Stato ebraico e Repubblica islamica la nuova centralità dell’Iraq, controllato da Teheran attraverso una ragnatela di accordi con la complessità delle formazioni e delle comunità che abitano il territorio iracheno; insinuandosi nei contrasti interni, il presidente turco mira al petrolio di Erbil e a cacciare il Pkk dai monti del Kurdistan iracheno… Murat Cinar dispiega la sottile tela che si va tessendo, in particolare ricostruendo il ruolo turco e l’avvicinamento di Hamas (evidentemente più rassicurato dall’abbraccio di Ankara – contemporaneamente paese Nato e rivale di Israele – che non dalle petrocrazie arabe) sia nella complessa carneficina della guerra ormai esportata nel resto dei paesi all’interno dei quali le presenze filoiraniane dettano la politica, sia nella strategia per inserirsi nel controllo del territorio e dell’energia irachena, comprandosi Baghdad ed Erbil. E di nuovo, come spesso ci ha raccontato Cinar, spuntano gli oleodotti di Barzani [a proposito: l’immagine in copertina è la fortezza di Erbil pavesata a festa per l’arrivo del presidente turco]  e le dighe su Tigri ed Eufrate, le acque del Medioriente…


Erdoğan è vicino a tutti

 

“Da oltre cento anni, le acque nel Medioriente non trovano pace”, questo è un dato certo. Tuttavia, proprio nelle ultime settimane, siamo testimoni di un fenomeno straordinario. Un fenomeno che coinvolge diversi attori, ma tra essi uno spicca particolarmente: la Turchia.

Dal 7 ottobre fino a oggi, le relazioni tra il partito al governo in Turchia, l’Akp, e l’organizzazione armata Hamas, sono diventate una questione internazionale, chiara e trasparente. L’esponente più autorevole dello stato turco e del partito al potere da oltre vent’anni, ovvero il presidente della Repubblica, dopo alcune settimane di silenzio dal 7 ottobre, ha deciso di comunicare la sua posizione: «Hamas è un’organizzazione di patrioti, non un’organizzazione terroristica». Così, dopo l’Iran, la Turchia è diventata il secondo paese al mondo a esprimere un avvicinamento così netto a Hamas.


Una posizione che entra in contraddizione con i partner europei, con gli alleati Nato, nonché con la Lega Araba e l’Organizzazione della Cooperazione Islamica. In fondo, non si tratta di una novità assoluta. La linea politica ed economica rappresentata dall’Akp è sempre stata vicina ai movimenti fondamentalisti come i Fratelli Musulmani e a una serie di formazioni armate religiose nel Medio Oriente. Inoltre Hamas ha sempre trovato accoglienza, sostegno e riconoscimento presso l’Akp e sotto l’ala protettiva del presidente della Repubblica di Turchia. Tuttavia, questa esposizione così netta, in pieno conflitto, non ha provocato reazioni, sanzioni o embarghi da parte dell’UE e/o della Nato. Poche settimane dopo, nel mese di dicembre, il mondo ha appreso, grazie alle inchieste giornalistiche di Metin Cihan, che persino per Israele non costituiva un grande problema, poiché Tel Aviv continuava a fare acquisti presso aziende turche, incluse quelle statali.

Affannosamente al centro di ogni possibile accordo

Nel mentre Ankara ha tentato diverse volte di assumere il ruolo di “mediatore”, anche se finora senza successo; tuttavia, oggi sembra che questi sforzi stiano finalmente portando dei risultati. Il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ha incontrato in Qatar il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, proprio quando Doha stava per abbandonare il suo ruolo di mediatore. Infatti il primo ministro del Qatar, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani, il 16 aprile aveva comunicato a Fidan che il suo governo stava per rinunciare. Tuttavia il tentativo del Ministro turco sembra poter ottenere dei risultati positivi. Le dichiarazioni di Fidan ci offrono spunti di riflessione su una serie di scenari:

«Come ho costantemente riferito ai nostri alleati occidentali, Hamas è a favore di uno stato palestinese basato sui confini del 1967 e, una volta creato, è disposto a rinunciare alle armi e a intraprendere la via della politica parlamentare», ha affermato Fidan. Tale dichiarazione prevede anche il riconoscimento di Israele da parte di Hamas, la possibilità di porre fine al conflitto armato, il rilascio degli ostaggi e lo scambio di detenuti politici. Si tratterebbe dell’inizio di una nuova era: «Questo segna il cammino verso la creazione di uno stato palestinese», ha concluso Fidan.

Quando e perché viene fuori una dichiarazione del genere?

Potrà una comunità fondarsi su un altro genocidio come quello di Gaza senza essere una caserma come lo Stato ebraico… o la Repubblica turca?

Senza dubbio il massacro a Gaza ha esaurito innanzitutto i principali protagonisti. Ci troviamo di fronte a un governo sionista, rappresentato da Benjamin Netanyahu, che sta perdendo sempre più il sostegno interno. Da mesi ormai, le strade di Israele sono attraversate da manifestazioni che chiedono le dimissioni di Bibi. In realtà, non è una novità, considerando che nel 2023 Israele aveva già vissuto un lungo periodo di proteste contro il governo per le sue proposte di cambiamento radicale del sistema giudiziario. Oggi Netanyahu è impegnato in una guerra che non sta producendo risultati. Gli ostaggi sono ancora in mano a Hamas, molti sono morti (anche a causa dell’esercito israeliano), e il governo israeliano continua a perdere sostegno a livello internazionale. Le critiche severe che giungono da Washington non sono sporadiche, soprattutto attraverso il più importante esponente politico degli Stati Uniti, ovvero Biden, che tra pochi mesi dovrà affrontare delle elezioni cruciali, dove la situazione israeliana avrà sicuramente un ruolo di rilievo.

Sintonie politico-militari tra leader nazionalisti-identitari

Quindi l’avvicinamento di Ankara a Hamas e il tentativo di portarla eventualmente al tavolo dei negoziati, ottenendo il riconoscimento dello Stato di Israele, la creazione di uno stato palestinese indipendente e il rilascio degli ostaggi, sicuramente portano all’Akp un notevole vantaggio politico. Biden si libera dalla pressione politica e mediatica avvicinandosi alle elezioni, mentre Ankara appare come un mediatore con un canale privilegiato verso un gruppo armato che ha legami diretti solo con l’Iran, attualmente molto isolato.
Infatti, proprio in questi giorni il presidente della Repubblica di Turchia ha paragonato Hamas alla formazione armata che ha fondato la Turchia, la Kuva-i Milliye (anche se con profili ideologici decisamente diversi). Lo stesso parallelo era stato tracciato dallo stesso presidente per l’Esercito Libero Siriano nel 2018, un gruppo di jihadisti che aveva supportato le forze armate turche nelle loro operazioni in Siria. Oggi Erdoğan sembra cercare di presentarsi nuovamente come l’unico intermediario per le organizzazioni terroristiche, a servizio della Nato, dell’Europa e persino di Israele. Non va dimenticato il tentativo di costruire un rapporto diretto con i Talebani nel 2021, quando Erdoğan disse:

«Abbiamo un pensiero ideologico molto simile».

Questo avvenne proprio mentre il mondo era sconvolto dalla fuga degli americani dall’Afghanistan e il ritorno dei Talebani al potere.

Tattiche e affari turchi; accoglienza senza schierarsi

Quindi Hamas rappresenta una nuova opportunità per Ankara, forse anche per garantire un certo sostegno a Bibi. Nonostante gli attriti e le dichiarazioni aspre, Erdoğan e Netanyahu hanno sempre mantenuto un rapporto commerciale molto proficuo, in costante crescita. Anche durante il conflitto, secondo il report dell’Istituto di Statistica turco, Tuik, il volume degli scambi commerciali tra Ankara e Tel Aviv è aumentato del 20%. Tra i prodotti venduti troviamo tutto il necessario per sostenere l’occupazione e l’invasione. Chi altro potrebbe offrire un aiuto così significativo a Netanyahu, in difficoltà al punto da tentare di coinvolgere persino l’Iran in una guerra?

Sì, l’accoglienza diretta e il sostegno a Hamas da parte di Ankara avvengono proprio mentre nel mondo crescono le preoccupazioni riguardo a una possibile guerra tra Iran e Israele.

Tattiche e affari iraniani, intrecci speculari con quelli israeliani

In questo momento di difficoltà interna e internazionale il governo israeliano decide di colpire le postazioni diplomatiche iraniane presenti in Siria, il 1° aprile. Ovviamente sarebbe stato assurdo pensare che l’Iran non avrebbe reagito. Ma in che modo e con quali tempi?

Teheran ha atteso ben due settimane prima di reagire. In Israele l’ansia era palpabile: si sono verificate lunghe code nei supermercati, la popolazione era pronta per la guerra e le critiche nei confronti di Netanyahu si erano intensificate. Tuttavia Teheran, considerando la propria situazione economica e l’instabilità politica interna da anni, non poteva permettersi una vera guerra. Alla fine sono stati lanciati più di 300 razzi/droni verso Israele, ma nessun bersaglio civile è stato colpito e solo una persona è rimasta ferita. Era prevedibile che Tel Aviv avrebbe neutralizzato questo attacco con il suo avanzato sistema di sicurezza? Forse sì. Allora, a cosa è servito tutto ciò?
Innanzitutto Teheran non è rimasto in silenzio dopo l’attacco subito, ha dimostrato al mondo che in qualche modo avrebbe potuto tentare di colpire Israele. Dopo il 7 ottobre, e per la prima volta dopo anni, uno stato ha cercato di colpire Israele mentre tutti i paesi del Golfo osservavano ciò che accadeva a Gaza. Israele ha fermato l’attacco grazie ai suoi alleati, non da solo. In primo luogo la Giordania, poi le forze americane e inglesi hanno dato una mano a Tel Aviv. Quindi, per il governo israeliano, questa non è una vittoria ottenuta da solo.

Inoltre per Israele potrebbe essere stato un tentativo, forse, di spostare l’attenzione da Gaza a Teheran. Forse cercava di coinvolgere gli Stati Uniti in questa guerra, o di ottenere nuovi alleati in un eventuale conflitto futuro. Alla fine della giornata, chi non ha qualche problema con l’Iran? Tuttavia, secondo fonti dell’agenzia di stampa Axios, Bibi non ha ottenuto il sostegno che si aspettava da Biden. «You got a win. Take the win» sarebbe stato il riassunto della posizione del presidente statunitense. In altre parole: “mo’ basta, non ti sostengo più”. Ora Israele molto probabilmente si sta preparando a colpire l’Iran. Non sappiamo ancora in che modo, ma Tel Aviv non è l’unico a cercare di mettere in discussione la presenza dell’Iran in quella zona in questi giorni. Anche Ankara sta cercando di eliminare Teheran dall’Iraq.

Affari e opportunità, rimestando nel caos iracheno

Lorenzo Forlani ci aiuta a inquadrare la mezzaluna sciita: “No “Mena” Land: lo strame di 30 anni di proxy war in MO”.

Erdoğan e l’ossessione anticurda

Pochi giorni prima delle elezioni amministrative tenutesi in Turchia il 31 marzo, una significativa delegazione turca si era recata a Baghdad, ottenendo un risultato di rilievo grazie alla firma di un accordo storico. Con questo accordo, il governo iracheno esprimeva la sua solidarietà ad Ankara nella “lotta contro il Pkk” e prometteva di impegnarsi anche militarmente in questa missione. Oggi è giunto il momento di valutarne i risultati.

Dodici anni dopo il presidente della Repubblica di Turchia si è recato in Iraq il 22 aprile per incontrare il governo centrale a Baghdad e successivamente gli esponenti dell’Amministrazione autonoma del Kurdistan a Erbil. Quali sono gli elementi in gioco e qual è il coinvolgimento dell’Iran?
Uno dei principali problemi che Baghdad fatica ad affrontare è quello economico. Infatti, nel mese di marzo di quest’anno, l’Iraq ha avviato il progetto della “Strada dello Sviluppo”, che prevede il coinvolgimento diretto della Turchia per una serie di prodotti, sfruttando anche la sua posizione geografica strategica. La “Development Road” sarebbe importante anche per diventare un’alternativa per una serie di paesi e aziende occidentali che negli ultimi tempi hanno incontrato difficoltà nel Mar Rosso, una zona controllata da Ansar Allah (Houthi), cioè dall’Iran. Quella formazione armata che spesso impedisce alle navi commerciali di attraversare la zona. Quindi si tratta di un progetto che avrebbe l’ambizione, almeno in parte, di minare il potere politico ed economico di Teheran. Naturalmente l’attuazione del progetto renderà la Turchia un attore importante, che sembra voler approfittare di questa occasione per introdurre ulteriori elementi nel gioco.

E l’ambigua ossessione antiraniana per conto dell’energivoro Occidente

Infatti tra i temi discussi da Erdoğan durante la visita in Iraq c’è anche il consolidamento dell’alleanza diretta per combattere il Pkk, una formazione armata definita “terroristica” dalla Turchia, con alcune sue basi e numerosi vertici situati proprio in Iraq. In questo contesto è importante ricordare che da circa tre anni, durante gli incontri tra Ankara e Baghdad, si discute anche di una possibile collaborazione per eliminare la formazione armata Hashdi Shabi dal territorio iracheno. Questo rappresenterebbe un nuovo gesto contro l’Iran, dato che l’organizzazione in questione è stata costantemente sostenuta e armata da Teheran ed è stata sempre considerata una “minaccia per la sicurezza nazionale” da parte di Baghdad. Pertanto unire la lotta contro il Pkk a quella contro l’Hashdi Shabi potrebbe diventare una missione comune per questi due paesi confinanti.

Quindi, per Ankara, l’attuazione del progetto “Development Road” rappresenta anche un’opportunità per trasformare Baghdad in un vero alleato nella sua missione di contrastare e forse distruggere il Pkk. Dopo che Baghdad ha definito il Pkk “un’organizzazione terroristica” nel mese di marzo, ora non ci sarebbero più ostacoli per avviare le operazioni militari. È importante considerare che un Iraq sicuro, non soggetto a bombardamenti da parte di nessuno, libero dal conflitto armato tra Pkk e Ankara e infine libero dalla presenza iraniana, consentirebbe a tutte le aziende europee e statunitensi di operare “in pace”. Pertanto l’operazione economica e militare proposta da Ankara non gioverebbe solo ai suoi interessi. Infatti, proprio il giorno dell’arrivo di Erdoğan in Iraq, il portavoce dell’Association of the Petroleum Industry of Kurdistan, Myles Caggins, ha dichiarato ai microfoni del canale televisivo iracheno Rûdaw TV:

«Mi aspetto che Erdoğan convinca i dirigenti iracheni a far giungere il petrolio del Kurdistan al mondo attraverso la Turchia».

Dalla padella della mezzaluna sciita filoiraniana alla brace della fratellanza filoturca?

È indubbiamente importante considerare una serie di dinamiche. In Iraq nel 2025 si terranno le elezioni e nel paese non c’è un consenso politico e/o popolare sulla posizione nei confronti del Pkk e sull’avvicinamento con la Turchia. Per esempio, Bafel Jalal Talabani, leader dell’importante partito politico curdo Puk, spesso dichiara che il Pkk non è il suo nemico. Inoltre, è ancora fresca la condanna subita da Ankara per il commercio petrolifero, definito “scorretto”, con l’amministrazione curda. Nel 2023, Ankara è stata multata di 1,4 miliardi di dollari dalla Icc, la Corte Internazionale di Arbitrato.

Ma evidentemente il presidente turco è stato convincente (forniture militari, sicurezza, risorse idriche, promesse varie…), tanto che il portavoce del governo iracheno, Basim el-Avvadi ha rilasciato una dichiarazione il 25 aprile: «Ai membri del Pkk sarà riconosciuto il titolo da rifugiato politico. L’organizzazione invece sarà definita illegale», un’altra diaspora attende i resistenti curdi; contemporaneamente Hamas può trovare ricovero proprio presso il persecutore del Pkk.

Dighe contro le popolazioni mesopotamiche: preludio a un nuovo focolaio di guerra

Oltre a questa questione ancora aperta c’è anche il problema dell’acqua, che rappresenta un tema cruciale. Secondo l’accordo del 1980 la Turchia è tenuta a gestire correttamente il regime dei fiumi che attraversano i suoi confini e scorrono verso l’Iraq. A causa del riscaldamento globale Baghdad cerca da anni di rinegoziare questo accordo, ma Ankara continua a rimandare la questione. Tuttavia, soprattutto durante l’estate, ciò causa un enorme disagio per l’intera nazione, e l’opinione pubblica è convinta che la Turchia stia usando l’acqua come un’arma contro l’Iraq.

La portata del Tigri e dell’Eufrate nel progressivo inaridimento fino alla foce, grafico tratto da Curdi, di Antonella De Biasi, Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

Dopo l’incontro del 22 aprile è molto probabile che Erdoğan abbia ottenuto risultati significativi non solo dal punto di vista economico, ma anche in vista di un’operazione militare imminente. La sua prossima visita, fissata per il 9 maggio a Washington direttamente con Biden, probabilmente includerà anche l’ottenimento di una sorta di “lasciapassare” in Iraq. Non sarebbe fuori luogo aspettarsi un inizio di guerra entro fine maggio.

Perpetuazione del mondo caoticamente multipolare

Il governo turco è apparentemente molto determinato nel lavoro volto a portare Hamas al tavolo dei negoziati, per ottenere una serie di risultati a breve e lungo termine, sia politici che economici, diretti e indiretti. La fine della guerra probabilmente porterà benefici anche a Benjamin Netanyahu, permettendogli di restare al potere senza doversi dimettere. Quindi in Israele potrebbe rimanere un uomo che, tutto sommato, non ha creato grossi problemi a Erdoğan. Anzi, durante la sua carriera politica, il presidente turco ha beneficiato di un notevole benessere economico, sia per le aziende vicine al suo governo che per quelle della sua famiglia.

In quest’ottica, uno Stato ebraico stabile e una repubblica islamica che non esce dai suoi “confini” e rimane al di fuori del gioco in Iraq permetteranno ad Ankara e ai suoi alleati di continuare a giocare la stessa partita anche nei prossimi anni.

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Il crogiolo caucasico tra i confini fittizi dei vincitori https://ogzero.org/il-crogiolo-caucasico-tra-i-confini-fittizi-dei-vincitori/ Mon, 09 Oct 2023 23:43:29 +0000 https://ogzero.org/?p=11677 Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – […]

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Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – soprattutto dall’esterno – si sono fatti prevalere contrasti etnici a condivisione di territorio tradizionalmente abitato da famiglie eterogenee, condizionate da invasioni e dominazioni variabili e costanti. E quando soffiano i venti nazionalisti si scompaginano le comunità per creare stati usati per soffocarle, ognuno secondo la propria tradizione verso il vicino; in questo caso è sintomatico come i paesi islamici più lontani come l’Algeria definiscano gli armeni cristiani colonizzatori, mentre l’Iran sciita come il popolo azero appoggi Erevan per mere questioni di metri di confine da salvaguardare, mentre il miglior alleato dei “fratelli altaici” azeri è il vicino sunnita Erdoğan, interessato alla creazione di un unico territorio ottomano senza interruzioni di confini.
Ciò che rende ancora più impellente l’abbandono della terra avita da parte della ex maggioranza armena fuggita dall’Artsakh è la ferocia autoritaria del regime dinastico ex sovietico… mentre perdurano i bombardamenti turchi sui curdi e i sionisti passano per vittime, pur essendo Nethanyauh dalla parte dei carnefici, come gli Aliyev o il despota Erdoğan; tutti in qualche modo collegati e con interessi intrecciati, tra le vittime dei contenziosi decennali mancano solo i saharawi. 


La secolare replica del genocidio armeno

L’attuale violenza (massacri, deportazioni…) subita dagli armeni rievoca fatalmente il genocidio del 1915.
C’ è ancora spazio per una qualsivoglia “soluzione politica” che garantisca minimamente i diritti della popolazione armena del Nagorno-Karabach?
Meglio non raccontarsi balle. Ormai – a meno di imprevedibili eventi di portata planetaria – la questione è chiusa definitivamente. Anzi, potrebbe anche andare peggio.
Non si può infatti escludere che dopo l’Artsakh venga invasa anche la stessa Armenia, in particolare il corridoio per congiungere l’esclave azera di Karki al confine con l’Iran (e la Turchia).

Vediamo intanto di riepilogare la tragica catena degli ultimi tre anni.
I bombardamenti azeri del 19 settembre avevano riportato nella cronaca un conflitto forzatamente dimenticato, tuttavia l’attacco di Baku contro il Nagorno-Karabach e quanto poi avvenuto ai danni del popolo armeno non calava inspiegabilmente dal cielo. Come già si era ipotizzato in agosto.
Era perlomeno probabile.
Il Nagorno Karabakh era una repubblica autoproclamata (ribattezzata con l’antico nome di Artsaj) abitata in prevalenza da armeni, ma posta forzatamente all’interno dei confini dell’Azerbaijan. E che già prima del 1991 si batteva per la propria indipendenza.

Pulizia etnica alternata

Nel conflitto del 1988-1994 la vittoria era andata agli armeni con la conseguente espulsione di migliaia di azeri.

Nella Seconda guerra del Nagorno-Karabach (autunno 2020) le parti si invertirono e per oltre 40 giorni l’esercito azero si scatenò sulla popolazione civile compiendo ogni genere di efferatezze. Qualificabili come una brutale pulizia etnica.
Al punto che molti armeni in fuga riesumarono i loro cari dalle tombe e fuggirono con le bare fissate al portapacchi delle auto dopo aver incendiato la propria casa.

L’evanescente interposizione russa

In realtà solo un terzo della provincia indipendentista era passato sotto il controllo di Baku, ma erano chiare le intenzioni di completare l’opera quanto prima. Nonostante la poco convinta opera di interposizione dei soldati di Mosca, soprattutto dopo che l’Armenia aveva accettato di partecipare a esercitazioni congiunte con truppe Nato (direi un autogol di Erevan).
Ovviamente anche all’odierna (definitiva?) sconfitta degli Armeni (anche per essere stati isolati e privati di mezzi di sussistenza da circa nove mesi) di fronte alle preponderanti forze azere, date le premesse, era fatalmente scontata.

Neottomanesimo via Baku

Smantellata l’amministrazione armena della enclave ribelle, Baku ha dichiarato di volere «integrarla totalmente nella società e nello Stato azeri».

Quanto alle voci di una possibile concessione di “autonomia”, la cosa appare piuttosto fantasiosa. Se nell’Azerbaigian non gode di alcun riconoscimento la consistente “minoranza” Talish (una popolazione di lingua iraniana che supera il milione di persone) cosa potrebbe toccare ai circa 120.000 armeni del Nagorno-Karabach? Peraltro ormai fuggiti nella quasi totalità e poco propensi a rientrare nonostante le rassicurazioni del governo di Baku.

La coltre di gas

Dal canto suo l’Unione Europea si guarda bene dall’intervenire pensando ai consistenti accordi con l’Azerbaijan in materia di gas.

Solidarietà al popolo armeno è stata espressa vigorosamente dal Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (Knk).

Nel comunicato ha denunciato «la tragedia umana che avviene sotto gli occhi del mondo nell’Artsakh (Alto Karabach) dove un centinaio di migliaia di Armeni sono costretti all’esilio». E il Knk ricordava anche le immagini terribili del 2020 con «i soldati azeri che tagliavano nasi e orecchie ai civili e vandalizzavano i monasteri».

Ovvio il parallelismo con quanto avviene “nelle zone curde occupate dalla Turchia” (il principale alleato dell’Azerbaigian).
Ma esiste anche un altro timore, ossia che “se cade l’Artsaj, cade anche l’Armenia”.

Una lingua di terra turca a unire Caspio e Mediterraneo

Già nel 2020 l’Azerbaijan aveva occupato territori ufficialmente dell’Armenia nella regione di Syunik. Una lingua di terra che si frappone alla dichiarata intenzione di Turchia e Azerbaijan di unire il Mediterraneo con il Caspio via terra. Ricordo che Turchia e Azerbaigian sono già confinanti grazie all’enclave azera di Najicheván che – toh, coincidenza! – Erdogan ha appena visitato per la prima volta.

Forse paradossalmente (visto che gli azeri sono in maggioranza sciiti come gli iraniani) l’unico paese con cui l’Armenia mantiene stabili e diretti rapporti commerciali (nel 2020 forse s’aspettava anche sostegno militare, ma invano) è l’Iran. La perdita della regione di Syunik le sarebbe quindi fatale.

L’analogo trattamento turco destinato ai curdi

Per il Knk comunque non ci sono dubbi «Si tratta di pulizia etnica orchestrata dall’Azerbaigian e dalla Turchia., motivata dall’ambizione geopolitica pan-turca che intende riunire queste due nazioni (…). Dopo 108 anni il popolo armeno si ritrova di nuovo vittima di massacri e deportazioni orchestrati dalle forze statali animate da odio razzista verso la cultura e il popolo armeno. Di conseguenza la pulizia etnica attualmente in corso nell’Artsakh deve essere considerata come la continuazione del genocidio armeno del 1915 perpetrato dai Giovani Turchi».
E conclude paragonando le attuali sofferenze degli armeni a quelle analogamente patite dai curdi a Shengal, Afrin e Serêkaniyê: «Nomi e vittime di questi massacri possono cambiare, ma le motivazioni rimangono identiche».

Diretto interventismo turco nell’area curdo-armena

Risalendo all’ottobre 2020 già allora appariva evidente come il conflitto tra Armenia e Azerbaijan fosse propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia.
Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si andava sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti (sunniti) provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri (sciiti) contro gli armeni cristiani.
Un destino, quello della cittadina al confine turco-armeno di Kars, analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanli nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste.

Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe stato quindi di che stupirsi se «da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars».

D’altra parte era quasi scontato che Erdogan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto, mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.

Niente di nuovo

2009

Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione.
Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale “Hurriyet” ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993. Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdoğan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.
Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Anche per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista, quasi un progressista, comunque non un seguace di Erdoğan) si trattava nientemeno che di una «abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne» esprimendo «inquietudine per l’avvenire del paese» (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).

Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan, chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.

1988

Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica Repubblica d’Armenia.
E il 20 febbraio 1988 – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno/azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Agdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armeni. Nei disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. È il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.

Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.
Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno-Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 lo statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.

1991

In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera – la proposta di uno stato indipendente sarà approvata con il 99% dei voti.
A questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).
Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.
A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.
Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e – discretamente e solo a livello logistico – la Grecia.
Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex Urss (russi e ucraini).

Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.
Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti. Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14% del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (cessate il fuoco del 12 maggio) prendevano il via sotto la supervisione di Mosca.

Il fallimento del Gruppo di Minsk

1994

Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato Osce) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.
Tuttavia – almeno col senno di poi – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.

Qualche considerazione in merito alle efficaci operazioni propagandistiche (soprattutto da parte di Baku e Ankara) rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato. Forse perché – tutto sommato – già allora conveniva schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale, Armenia.
Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il Nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974. Per non parlare della continua evocazione di una – non documentata – partecipazione di militanti del Pkk ai combattimenti (a fianco degli armeni ovviamente).

Nel frattempo (gli affari sono affari) la Francia non smetteva di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non era e non è l’unico paese a farlo naturalmente (vedi l’Italia che dovrebbe fornire anche minisommergibili). Ma la cosa appariva stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Per esempio, all’epoca, nella querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.
Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku colpivano direttamente la popolazione di Stepanakert.

E già allora in qualche modo il conflitto tra Armenia e Azerbaijan appariva propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne era addirittura la “vetrina”). Intravedendo una prosecuzione (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.

Due parole poi sul ruolo assunto da Teheran

Anche se poteva apparire incongrua, da più parti si formulava l’ipotesi di un Iran deciso a schierarsi con l’Armenia nel conflitto con l’Azerbaijan.
Incongrua soprattutto pensando che in entrambi i paesi, Iran e Azerbaijan, è prevalente la fede sciita.

Ma poi (come forse era lecito aspettarsi) alcuni autorevoli esponenti politici iraniani erano intervenuti dichiarando che «l’Iran non sceglie l’Armenia a sfavore dell’Azerbaijan».

Il giornalista Raman Ghavami si diceva convinto che «sia probabile che dovremo assistere a una significativa collaborazione tra l’Iran, la Turchia, l’Azerbaijan (e presumibilmente anche la Russia a questo punto, N.d.A.) sia sull’Armenia, sia su altre questioni che interessano la regione».

Si sarebbe andato infatti configurando un nuovo livello di sostanziale collaborazione nelle relazioni tra Azerbaijan e Iran. Addirittura Teheran avrebbe (notizia non confermata) richiesto all’Armenia di “restituire” (nientemeno ?!?) il Nagorno-Karabakh a Baku.

Per Raman Ghavami in realtà l’Iran «da sempre preferisce rapportarsi con gli azeri sciiti piuttosto che con gli Armeni». Come avveniva già molto prima dell’insediarsi del regime degli ayatollah.

Nuovo intreccio dei destini armeni e curdi

A tale riguardo riporta l’esempio della provincia dell’Azerbaijan occidentale (posta entro i confini iraniani) che in passato era abitata prevalentemente da curdi e armeni.
Ma tale demografia venne scientificamente modificata, nel corso del Ventesimo secolo, dai vari governi persiani che vi trasferirono popolazioni azere. Sia per allontanarvi i curdi, sia per arginare gli effetti collaterali del contenzioso turco-armeno entro i confini persiani.
Molti armeni e curdi vennero – di fatto – costretti a lasciare le loro case.
Inoltre, in tale maniera, si creava una artificiosa separazione tra le popolazioni curde di Iraq, Turchia e Siria e quelle in Iran. Cambiando anche la denominazione geografica. Da Aturpatakan a quella di Azerbaijan occidentale.

Altro elemento di tensione tra Erevan e Teheran – sempre secondo Raman Ghavami – deriverebbe dal ruolo della chiesa armena nell’incremento di conversioni al cristianesimo da parte di una fetta di popolazione iraniana.

Legami finanziari Teheran-Baku

Da sottolineare poi l’importanza vitale, per un paese come l’Iran sottoposto a sanzioni, dei legami finanziari con l’Azerbaijan. Ricordava sempre Raman Ghavami come, non a caso, la succursale della Melli Bank a Baku è seconda per dimensioni soltanto a quella della sede centrale di Teheran.
Un altro elemento rivelatore sarebbe il modo in cui, rispettivamente, Baku ed Erevan hanno reagito alla cosiddetta “Campagna di massima pressione” sull’Iran in materia di sanzioni: mentre gli scambi commerciali tra Armenia e Iran si riducevano del 30%, quelli con l’Azerbaijan si intensificavano.
Ad alimentare la tensione poi, il riconoscimento da parte dell’Armenia di Gerusalemme come capitale di Israele. Una avventata presa di posizione di cui Erevan potrebbe in seguito essersi pentita. Vedi il successivo contenzioso (e ritiro dell’ambasciatore) a causa della vendita da parte di Israele di droni kamikaze IAI HAROP all’Azerbaijan.

Ulteriore complicazione (ma anche questa era forse prevedibile) la notizia che erano già in atto scontri armati tra i mercenari di Ankara inviati in Azerbaijan (presumibilmente jihadisti, sicuramente sunniti) e gli azeri sciiti.

Insomma, il solito groviglio mediorientale.

La spartizione di Astana: Russia e Turchia e gli oleodotti dell’Artzakh

Nel novembre 2020 si concretizzava poi un vero capolavoro di cinico realismo: gli accordi con cui Russia e Turchia si spartivano il Nagorno-Karabakh garantendosi il controllo della vasta rete di oleodotti che attraversano (o attraverseranno) il territorio storicamente conteso tra Armenia e Azerbaijan. Paese, quest’ultimo che fornisce alla Turchia un quinto delle sue importazioni di gas naturale (oltre a ingenti quantità di barili di petrolio dal Mar Caspio) direttamente all’hub di Ceyhan.
E qualche briciola non di poco conto andava anche al Belpaese (se abbiamo interpretato correttamente le dichiarazioni di Di Maio).
Ricapitoliamo. Il 10 novembre 2020 l’Armenia (il paese sconfitto) e l’Azerbaijan (il vincitore) firmavano un “accordo di pace” sotto la tutela ufficiale di Mosca e ufficiosa di Ankara.

Mentre le colonne dei profughi dal Nagorno-Karabakh) si allungavano per abbandonare il paese invaso dagli “alleati” (ascari?) di Ankara (l’esercito azero e le milizie mercenarie jihadiste qui inviate dai territori già invasi della Siria), iniziava il dispiegamento lungo la linea di contatto dei duemila – inizialmente – soldati russi (presumibilmente integrati con truppe turche, sul modello delle “pattuglie-miste” nel Nord della Siria). Durata prevista della loro presenza, cinque anni rinnovabili.

Un risultato niente male per Erdogan che vedeva ratificata la sua alleanza strategica con Baku. Così come venivano confermate le conquiste azere (almeno trecento insediamenti tra cui Susi, strategicamente rilevante). Non meno rilevante, l’acquisizione da parte dell’Azerbaijan di un collegamento diretto con Nachichevan (la sua enclave) e quindi con la Turchia.

Ovviamente gli armeni non l’avevano presa bene. A farne le spese il primo ministro Nikol Pashinyan (un leader “di plastica” secondo alcuni commentatori, messo su dall’Occidente un paio di anni prima per allontanare l’Armenia dal suo alleato tradizionale russo) di cui la piazza ha richiesto le immediate dimissioni.
Gli eventi sono noti: il palazzo del governo letteralmente preso d’assalto, il parlamento occupato e il presidente Ararat Mirzanyan che quasi rischiava di essere linciato dalla folla inferocita. I manifestanti erano anche andati a cercare direttamente a casa sua il primo ministro (presumibilmente non per una pacata conversazione), ma senza trovarlo (buon per lui, naturalmente).

L’interesse italico

a sei zampe…

Si diceva delle vaghe (o svagate?) dichiarazioni di Di Maio («Monitoreremo con attenzione gli sviluppi nelle aree dove si registra un particolare attivismo turco, vigilando affinché siano tutelati il rispetto del diritto internazionale, gli interessi italiani anche economici e con l’obiettivo di scongiurare qualsiasi escalation»). E chi vuol intendere...intenda.

Del resto, con buona pace della piccola Armenia, la cooperazione con l’Azerbaijan è da tempo consolidata. L’Italia – oltre che il maggior destinatario delle esportazioni petrolifere – risulta essere uno dei principali partner commerciali di Baku con un interscambio annuale – si calcola – di sei miliardi di euro. Sarebbero almeno tremila le imprese italiane che hanno investito nella repubblica caucasica. Risaltano in particolare Eni e Unicredit con interessi stimati in seicento milioni di dollari.

… e Leonardo-Finmeccanica

Cooperazione quindi ben consolidata, si diceva. Ma non solo in campo energetico. Magari indirettamente, anche militare. Risale, per dirne una, al 2012 la vendita di una decina di elicotteri Augusta Westland (società controllata da Leonardo-Finmeccanica), ufficialmente per uso civile (ma vengono in mente gli elicotteri venduti alla Turchia negli anni Novanta, su cui poi venivano applicate le mitragliere vendute separatamente). Nel 2017 l’amministratore delegato di Leonardo firmava a Baku – sotto lo sguardo del ministro Calenda – un accordo con la Socar (società statale petrolifera azera) per incrementare la sicurezza e l’efficienza delle infrastrutture energetiche grazie appunto alle tecnologie italiche.

Con un diretto riferimento al gasdotto di 4000 chilometri che la Socar stava realizzando per far giungere in Puglia e quindi in Europa (vedi la questione del Tap), dopo aver attraversato la Georgia, la Turchia, la Grecia e l’Albania, i previsti 20 miliardi di metri cubi (annuali) di gas di provenienza dall’Azerbaijan. Particolarmente rilevante e significativo il ruolo assunto da alcune aziende italiane (Snam S.p.A. di San Donato Milanese, Saipem, Eni, Maire Tecnimont…). Appare evidente come in tale contesto l’Armenia sia ormai fuori gioco, estromessa, marginalizzata (nonostante – a titolo di parziale consolazione – qualche ipocrita piagnisteo sul genocidio subito da parte della Turchia).

L’onnipresente invasività israeliana

Tornando alla breve, ma comunque devastante, guerra intercorsa nel 2020 tra Erevan e Baku, andrebbe poi approfondito il ruolo assuntovi da Israele.
Se la Turchia sembra aver fornito a Baku – oltre ai mercenari jihadisti – aerei e droni, cosa avrà fornito Israele? In qualche modo deve aver comunque contribuito visto che durante i festeggiamenti per la schiacciante vittoria, i manifestanti azeri inalberavano e sventolavano, oltre al vessillo nazionale e alle bandiere turche, numerosi drappi con la Stella di David.

Risalgono invece ai primi di ottobre (2023) le rivelazioni dell’intelligence francese sul fatto che i comandi militari azeri avrebbero ringraziato sentitamente Israele per il sostegno nel recente attacco al Nagorno-Karabach. Sia a livello espressamente militare (armamenti vari, soprattutto droni della Israel Aerospace Industries, della Rafael Advanced Defense Systems e della Israel Militari Industries), sia di intelligence (Mossad e Aman’s Unit 8200).
Sempre da fonti dell’Esagono risulta che nel corso del conflitto di settembre una quindicina di aerei cargo azeri sono atterrati nell’area militare di Ouda (Negev). Circa un centinaio di altri aerei cargo azeri erano ugualmente qui atterrati nel corso degli ultimi sei-sette anni. Presumibilmente non per rifornirsi di pompelmi. Inoltre Israele avrebbe fornito anche sostegno nel campo della Cyber Warfare (tramite l’Nso Group).
A ulteriore conferma dello stretto rapporto con Baku, il ministro israeliano della difesa si è recato recentemente nella capitale azera per verificare di persona l’efficacia del sostegno israeliano all’Azerbaijan.

Un bel caos geopolitico comunque

Proxy war disequilibrata

E arriviamo al febbraio di quest’anno, quando mentre a Erevan si ricordavano le vittime del pogrom del 1988, in Iran gli armeni manifestavano a sostegno della repubblica dell’Artsakh. Niente di strano.
Anche all’epoca dell’attacco dell’Azerbaijan ai territori armeni della Repubblica dell’Artsakh (con il sostegno di Ankara) nel 2020, c’era chi si aspettava un maggiore sostegno all’Armenia da parte dell’Iran, in linea con una certa tradizione. Dal canto suo Israele non mancava di mostrare sostegno (fornendo droni presumibilmente) alle richieste azere, ovviamente in chiave antiraniana. Misteri della geopolitica. Anche se poi sappiamo che le cose andarono diversamente, resta il fatto che comunque in Iran gli armeni costituiscono una minoranza tutto sommato tutelata, garantita (sicuramente più di altre, vedi curdi obeluci) e anche la causa dell’Artsakh gode ancora di qualche simpatia.

Commemorazioni dei massacri passati, in preparazione di quelli presenti

O almeno così sembrava leggendo la notizia del raduno di solidarietà con la popolazione armena della Repubblica dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) che si era tenuto presso il monastero di Sourp Amenaprguitch (Santo Salvatore) di Ispahan nella mattinata del 24 febbraio 2023 (nonostante, ci dicono, le condizioni atmosferiche inclementi). Oltre alle comunità armene di Nor Jugha (Nuova Djulfa, un quartiere di Ispahan fondato dagli armeni di Djulfa nel Diciassettesimo secolo) e di Shahinshahr, erano presenti molti armeni provenienti da ogni parte dell’Iran.
Numerosi gli interventi e i messaggi arrivati a sostegno alla causa della popolazione armena della Repubblica (de facto, anche se non riconosciuta in ambito onusiano) dell’Artsakh.

Quasi contemporaneamente, due giorni dopo, in Armenia venivano commemorate le vittime del massacro di Sumgaït (quartiere industriale a nord di Baku). Il presidente armeno Vahagn Khatchatourian con il primo ministro Nikol Pašinyan, il presidente del parlamento Alen Simonyan e altre figure istituzionali si sono recati al memoriale di Tsitsernakaberd a Erevan deponendo una corona e mazzi di fiori.
Il memoriale ricorda le persone uccise nei pogrom avvenuti (con la probabile complicità delle autorità azere) nel febbraio 1988 a Sumgaït, Kirovabad e Baku. Il massacro (in qualche modo un preludio alla guerra del 1992 in quanto legato alla questione del Nagorno Karabakh) sarebbe stato innescato da rifugiati azeri provenienti dalle città armene. Almeno ufficialmente. In realtà i responsabili andrebbero identificati tra i circa duemila limitčiki (operai immigrati delle fabbriche chimiche) a cui le autorità avevano distribuito alcolici in sovrabbondanza.
Se le fonti ufficiali azere parlarono soltanto di trentadue vittime, per gli armeni queste furono centinaia. Addirittura millecinquecento secondo il partito armeno Dashnak (oltre a centinaia di stupri).
Inoltre i militari inviati per fermare i disordini impiegarono ben due giorni per percorrere i circa trenta chilometri che separano Baku da Sumgaït. Vennero arrestate centinaia di persone, ma i processi si conclusero senza sostanziali condanne.

Guerra annunciata, forza di pace distratta

Tutti defilati… tranne i curdi

Nel marzo 2023, pressata da più parti affinché intervenisse, finalmente Mosca aveva parlato tramite il ministero della Difesa, accusando Baku di aver violato gli accordi sul Nagorno-Karabakh del 2020. Meglio tardi che mai, anche se la Federazione Russa appariva sempre più incerta (o disinteressata?) al destino dell’Armenia, praticamente abbandonata a se stessa (quasi da tutti sia chiaro, non solo dalla Russia; con la nobile eccezione dei curdi).
Eppure i segnali della possibilità di un ennesimo conflitto (guerra a relativamente “bassa intensità”) non erano mancati. Il 5 marzo si era registrato un altro scontro armato nel corridoio di Lachin (per gli azeri, di Zangezur) tra Stepanakert e Goris, bloccato ormai da tre mesi da presunti “manifestanti ecologisti” azeri. La sparatoria era avvenuta tra la polizia armena e i militari azeri che avevano arbitrariamente fermato un veicolo e – nonostante fosse costata la vita di cinque persone – era passata quasi inosservata.
Invano Nikol Pašinyan, primo ministro di Erevan, aveva richiesto, rivolto anche al tribunale internazionale dell’Onu, l’istituzione di una missione internazionale di indagine sulla situazione in cui veniva a trovarsi l’unica via di collegamento tra l’Armenia e la repubblica del Nagorno-Karabakh, ormai ridotta alla condizione di enclave sotto assedio, con oltre 120.000 persone di etnia armena sprovviste di cibo e medicinali. In base all’accordo trilaterale del 9 novembre 2020 (e riconfermato per ben due volte nel 2021 e ancora nell’ottobre 2022), alla Russia spettava il compito di controllare e assicurare i trasporti nel “corridoio” con una sua forza di pace.

Estrattivismo abusivo e pretestuoso ecologismo

Il pretesto avanzato dai sedicenti “ecologisti” azeri che da mesi bloccavano il passaggio sarebbe quello di poter controllare le miniere (private, non statali) di Gyzylbulag (oro) e di Demirl (rame e molibdeno) dove gli armeni avrebbero compiuto “estrazioni illegali”.
Dopo le ripetute accuse di “mancata osservanza dell’impegno di controllo”, fino a quel momento da parte di Mosca erano giunte soltanto rassicurazioni verbali (dicembre 2022). Ma anche la dichiarazione che «le forze di pace possono agire soltanto quando entrambe le parti sono d’accordo».

«Gli azeri continuano ad avanzare pretese massimaliste, senza concedere alcuna forma di compromesso», aveva denunciato Vagram Balayan, presidente della commissione affari esteri dell’assemblea nazionale del Nagorno-Karabakh. Sostanzialmente in quanto Baku “non intende riconoscere l’esistenza del Nagorno-Karabakh e del popolo dell’Artsakh”. Ossia, detta fuori dai denti, “vogliono soltanto farci scomparire dalla storia” (come sembra confermato dagli ultimi eventi). Costringendo gli armeni a scegliere tra un’evacuazione “volontaria” e la deportazione.

Fine annunciata

E intanto con il mese di agosto il tragico epilogo si profilava all’orizzonte.
Con gli Armeni del Nagorno-Karabakh ormai presi per fame, in un articolo di quei giorni mi ero chiesto se «si può già parlare di genocidio o dobbiamo aspettare qualche migliaio di morti per inedia?».
Domanda retorica ovviamente.

A un certo punto l’evidente, colpevole, latitanza della Russia (storicamente “protettrice “ della piccola Armenia) sulla questione del Nagorno-Karabakh sembrava aver lasciato campo aperto all’intervento pacificatore – o perlomeno a un tentativo di mediazione – di Unione Europea e Stati Uniti.
Ma l’irrisolta questione del Corridoio di Lachin (unico corridoio tra Armenia e Nagorno-Karabakh) conduceva fatalmente al nulla di fatto. E intanto per gli armeni del Nagorno-Karabakh la situazione continuava a peggiorare.
Chi in quei giorni aveva avuto la possibilità di percorrere le strade di Stepanakert parlava di lunghe file di persone che – dopo ore di attesa – ottenevano letteralmente un tozzo di pane. Per non parlare di quanti crollavano – sempre letteralmente – a terra a causa della fame. Almeno 120.000 persone colpite dall’isolamento totale e dalla conseguente crisi umanitaria (sia a livello sanitario che alimentare).
Senza dimenticare che – ovviamente – l’Azerbaigian da tempo aveva provveduto a interrompere il rifornimento di gas. Difficoltoso, in netto calo, anche quelli di energia elettrica e di acqua. A rischio le riserve idriche con tutte le prevedibili conseguenze.
Quanto all’alimentazione ormai si era ridotti alle ultime scorte di pane e angurie. Il peggioramento si era andato accentuando da quando veniva impedito (con posti di blocco installati illegalmente dall’Azerbaigian) l’accesso anche alla Croce Rossa e alle truppe russe di interposizione che comunque finora avevano rifornito di cibo – oltre che di medicinali – la popolazione armena.

Silenzio tombale e pennivendoli distratti

Bloccato da mesi alla frontiera anche un convoglio di aiuti umanitari (oltre una ventina di camion) inviato da Erevan.
In pratica, un grande campo di concentramento.
Al punto che un cittadino armeno gravemente ammalato, mentre veniva trasportato dalla Croce Rossa in un ospedale dell’Armenia (e quindi sotto protezione umanitaria internazionale), veniva sequestrato, privato del passaporto, sottoposto a interrogatorio e spedito a Baku dove – pare – sarebbe stato anche processato per eventi risalenti al primo conflitto scoppiato in Nagorno-Karabakh negli anni Novanta.

E ogni appello rivolto alle autorità e organizzazioni internazionali (Unione Europea, Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Russia, Gruppo di Minsk…) era destinato a restare inascoltato.
Con un preciso riferimento al blocco del Corridoio di Lachin operato dall’Azerbaijan, un ex esponente della Corte Penale Internazionale, l’avvocato argentino Luis Moreno Ocampo, aveva espressamente evocato un possibile genocidio.
Ma la sua appariva la classica “voce che grida nel deserto”. Quello dell’informazione almeno.

Poi la conferma dei peggiori timori con il tragico epilogo avviato il 19 di settembre.


Il giorno dopo la Guerra lampo dei fratelli turcofoni avevamo sentito Simone Zoppellaro, la cui analisi consentiva di comprendere nei dettagli cause e conseguenze delal dissoluzione dell’indipendenza dell’Artzakh

“Cala un sipario plumbeo sull’Artsakh”.

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G7 – G8 – G20 – G77+1… G8miliardi https://ogzero.org/g7-g8-g20-g771-g8miliardi/ Mon, 18 Sep 2023 20:48:14 +0000 https://ogzero.org/?p=11622 Le famose bande di ragazzini. C’è quello grande e grosso che si tira dietro i suoi e botte da orbi a chi li contrasta. In questa strada non ci dovete mettere piede! Una banda vicina invece l’attraversa, anche se di corsa. Il capo è meno corpulento, ma sa il fatto suo. Altri gruppetti sono incerti, […]

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Le famose bande di ragazzini. C’è quello grande e grosso che si tira dietro i suoi e botte da orbi a chi li contrasta. In questa strada non ci dovete mettere piede! Una banda vicina invece l’attraversa, anche se di corsa. Il capo è meno corpulento, ma sa il fatto suo. Altri gruppetti sono incerti, con chi stare? Un po’ con l’uno un po’ con l’altro. All’aria aperta la situazione è abbastanza caotica. Diversa da prima dove c’era la banda più forte e non ce n’era per nessuno. In più adesso succede che un giorno il sole è rovente e nessuno ha voglia di venir fuori dall’ombra. Un altro diluvia che appena ti affacci in strada quasi anneghi. Un disastro. Non si capisce più niente. Bisogna solo aspettare che i ragazzini, ragazzine incluse, crescano. Ma cresceranno?


Quando sarai grande…

Sì, diventeranno grandi. Anzi G(randi)20. Una specie di super banda che cerca di spartirsi le zone di influenza. Assenti XI Jinping e Putin. Presente! però Giorgia M. e questo ci rincuora.
Il padrone di casa, Modi si è indaffarato moltissimo, senza fare i pignoli su come per l’occasione ha ripulito le periferie di Nuova Delhi. Vuole che l’India sia chiamata Bharat, e su questo niente da dire. Sta già scritto nella Costituzione. Per noi di una certa età va anche meglio perché nel nostro immaginario gli indiani continuano a essere i nativi americani (stavo per scrivere i peller…).
Poi ha ufficialmente siglato la Global Biofuel Alliance a cui aderiscono Brasile, Stati Uniti, Bangladesh, Argentina, Sudafrica, Mauritius, Emirati Arabi e Italia, oltre a Bharat. Mi propongo a Giorgia come servitore della patria ai prossimi incontri nelle Mauritius. Ci tengo ai biocarburanti.

Non è passata inosservata la dichiarazione fatta da Stati Uniti e IBSA – India, Brasile, Sudafrica – sul potenziamento degli aiuti finanziari al Sud Globale.
La geografia sta slittando verso il meridione del mondo. Da un punto di vista delle aspirazioni geopolitiche, delle prese di parola, non può non piacere. Dirà l’avvenire se sarà un guadagno per la Terra e l’Umanità.

 

Nel quartiere c’è sempre qualcuno dei ben piantati che invece di farsi vivo in piazza con lo sguardo strafottente se ne sta non si sa dove. Perfino quelli della sua banda sono sconcertati. Cosa starà macchinando?


… saprai perché…

Xi Jinping perché non è venuto? Se ne fotte? Il suo ruolo se lo gioca nei Brics? Cioè Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica e prossimi Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Emirati arabi uniti e Arabia saudita. Augurandosi che non si trasformino in Bricsaeeieauas.  L’erede di Mao lascia intenzionalmente il G20 all’India? Sembrerebbe di sì.

Modi ha così organizzato gli accordi, fossero anche solo pacche sulle spalle, senza la Cina. Tutta questa sua agitazione sta in piedi? Amico di tutti e di nessuno? Putin ha fatto bene a starsene dov’è, deve salvare l’eterna anima russa con i carrarmati e questo disturba le calorose strette di mano.

Sta finalmente cambiando la faccia geopolitica del Mondo, detta anche multipolarismo, oppure sono solo geometrie variabili destinate ad essere ormai perennemente variabili? In altre parole, la novità è il movimento continuo e non la configurazione che assume?

… è un gioco strano: devi imparare…

L’IMEC è una prima risposta. Un baccanale di acronimi da imparare a memoria. India-Middle East-Europe Economic Corridor. Lo promuovono il principe saudita Mohammed bin Salman Al Saud, il presidente degli Emirati Arabi Uniti Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, la presidente dell’Unione Europea Ursula von der Leyen, la primo ministro italiana Giorgia Meloni, il capo della Banca Mondiale Ajay Banga e, ovviamente, Joe Biden e Narendra Modi. Treni, porti, fibre ottiche, pipeline, autostrade, ponti, hub.

Applausi a scena aperta.

Uno per tutti, quello di U.v.der Leyen: «È un ponte verde e digitale tra i continenti e le civiltà».

All’esterno del G20 un encomio altissimo.

Viene da Netanyahu: «Israele è al centro di un inedito progetto internazionale che unirà infrastrutture dall’Asia all’Europa, realizzerà una antica visione e cambierà il Medio Oriente, Israele, e influenzerà il mondo intero».

Coro stellare per un mondo a più facce? Risposta robusta, dieci anni dopo, alla Via della Seta cinese? Entusiasmo a buon mercato? Trionfalismo fuori posto?

… è un gioco strano: devi imparare…

Calma, dice la Cina: «Il tempo mostrerà la differenza tra un’iniziativa che abbraccia tutti con cuore aperto [la Belt and Road Initiative cinese] e una di idee ristrette che divide le nazioni. Noi speriamo che l’IMEC non diventi così».

Risposta secca e stizzita.

I giochi sono aperti e soprattutto il quadrante del mondo si è messo in moto. Una cosa è sicura, il Medio Oriente torna ad essere uno snodo delle politiche mondiali.

Se qualcuno poi, sprovveduto di finezze geopolitiche, osserva un po’ più da vicino i Grandi 20, presenti e assenti, il modo con cui governano i loro paesi e come fanno e disfanno le loro società, qualche brivido giù per la schiena gli corre. Allora il sempliciotto inesperto sceglie di chinarsi sulla minuteria storica e scopre, per esempio, che un treno merci con 36 vagoni container è partito dal sud della Russia, ha attraversato l’Iran, già nemico numero uno dell’Arabia Saudita, e poi dallo Stretto di Hormuz è stato travasato via mare a Gedda, in… Arabia Saudita. A fine agosto.

Oppure viene informato che a Ryad, capitale dell’Arabia Saudita, lo scorso 11 settembre grazie all’Unesco  era in visita ufficiale una delegazione del governo israeliano, anteprima di una possibile normalizzazione tra i due stati mediorientali. Il candido osservatore inoltre si stupirà vieppiù nel vedere che Erdoğan, il sultano turco, si sia subito scagliato contro il corridoio in questione proponendone uno di gamma superiore. Provvisoriamente definito – che strano! – corridoio turco.

… è tutto scritto, catalogato: ogni segreto, ogni peccato…

Non stanno mai fermi i Grandi, anche i Meno Grandi. Saltabeccano da un summit, da un vertice all’altro un po’ qua un po’ là. Finito uno, di corsa all’altro [Brics, 21/24 agosto, G20, 9/10 settembre, G77+Cina a Cuba, dal 15 settembre]. Gli farà bene tutto questo sbattimento? E se prendono aria? E se fanno indigestione? E se perdono l’orientamento? E il jet lag? Cos’è, fregola di contrasto alla depressione?
C’è un moto ondulatorio o sussultorio nella geopolitica? Preludio ad eventi tettonici più duri e consistenti?

Se scendo dai vertici e lo chiedo a una immigrata filippina a Ryad, a un palestinese di Nablus, a una giornalista kurdo-turca in carcere, mi guardano con un certo disincanto. Eppure.

… quando sarai grande, saprai perché

Qualcuno si perde, altri mettono su famiglia, qualcuno ricorda con nostalgia e parla male dei nuovi ragazzini di strada, certi fanno carriera.

Tutto il GMondo è paese.

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L’utile curdo per il regime turco https://ogzero.org/lutile-curdo-per-il-regime-turco/ Fri, 05 May 2023 22:52:29 +0000 https://ogzero.org/?p=10941 «Apparato operativo dei poteri globali», così la asservita stampa turca del 6 maggio 2023 accoglie e fa suo l’attacco scomposto del presidente a “The Economist”, perché la testata nella sua copertina definiva le elezioni del 14 maggio “le più importanti del 2023”, con un esplicito endorsement per Kılıçdaroğlu, mettendo in bella evidenza adesivi con su […]

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«Apparato operativo dei poteri globali», così la asservita stampa turca del 6 maggio 2023 accoglie e fa suo l’attacco scomposto del presidente a “The Economist”, perché la testata nella sua copertina definiva le elezioni del 14 maggio “le più importanti del 2023”, con un esplicito endorsement per Kılıçdaroğlu, mettendo in bella evidenza adesivi con su scritto «Erdoğan se ne deve andare».

 

Dopo 20 anni di morsa sul potere in ogni suo aspetto, dapprima graduale (da sindaco di Istanbul fino al terremoto di Izmit) e poi assoluta (dopo Taksim e soprattutto il tentato golpe del 2016), s’indovinano le crepe nel sistema di Erdoğan. Si colgono anche dall’affanno con cui reagisce ai titoli come quelli di “The Economist”, o con cui cerca alleanze in vista dell’appuntamento elettorale, anticipato dal presidente stesso prima che il terremoto producesse uno sconquasso nel suo progetto di perpetuare il suo controllo sul paese e sugli affari che hanno prosciugato le casse del paese, stremato l’economia, prodotto inflazione, arricchendo una sparuta oligarchia fondata sul consenso della provincia confessionale, sulla repressione della stampa ormai monopolizzata, come il settore delle infrastrutture, che per una beffa del destino potrebbe essere travolta dalle macerie del terremoto.


Con un piccolo aiuto dai nostri amici curdi

Le elezioni presidenziali e politiche che si svolgeranno in Turchia il 14 maggio hanno un’importanza storica per una serie di ragioni. Tra queste senz’altro il fatto che la maggior parte dei partiti d’opposizione, per la prima volta, abbiano deciso di indicare un candidato unico. Anche per questo, ma non solo, i sondaggi parlano del secondo turno per le presidenziali e di un’avanzata significativa dei partiti di opposizione in quelle politiche. Chiaramente queste dinamiche fanno sì che la coalizione al governo si metta alla ricerca di nuovi alleati a casa e rafforzi quelli all’estero. In questa ricerca è importante il voto della popolazione curdofona presente in Turchia e fuori dai confini.

Il reclutamento di HüdaPar: i devoti curdi ultraconservatori

Il 13 marzo, Numan Kurtulmuş, il vicepresidente generale del Partito dello sviluppo e della giustizia (Akp) si è presentato davanti alle telecamere con Zekeriya Yapıcıoğlu, il presidente generale del partito HüdaPar. In questa apparizione storica Yapıcıoğlu ha comunicato l’appoggio ufficiale del suo partito alla candidatura di Recep Tayyip Erdoğan, per le elezioni presidenziali. Dopo questo avvicinamento ufficiale e plateale, il 9 aprile il partito al governo Akp ha dichiarato ufficialmente che 4 membri del HüdaPar saranno candidati nelle liste del principale partito della Turchia. Con questa notizia HüdaPar entra nella casa dell’Alleanza della Repubblica. Ma chi è HüdaPar e perché oggi entra in questa coalizione già esistente dal 2017?


HüdaPar nasce come partito politico parlamentare nel 2012. Nello sfondo del suo logo è dominante il verde, poi al centro c’è un libro bianco da cui sorge un sole giallo. L’estensione del suo nome sarebbe Hur Dava Partisi, il partito della Causa Libera. Ovviamente va prestata l’attenzione sul significato della parola “Hüda” che trova spazio in diversi versi nel Corano e vuol dire “colui che indica la strada” ma è anche uno dei nomi attribuito ad “Allah” quindi in qualche maniera vuol dire “Dio”. Questa chiave semantica ci aiuta a capire che definirlo un partito conservatore è un eufemismo.
Infatti se andiamo a spulciare molto velocemente lo statuto del partito e anche il programma troviamo una serie di obiettivi, ideali e promesse molto conservatrici.

«Ricostruire il sistema governativo basandosi sui valori di fede della società. Ravviare i valori islamici. Definire l’omosessualità come una devianza, vietarla e punirla. Rafforzare i rapporti commerciali e politici con i paesi musulmani. Riformare il sistema scolastico secondo i valori dell’Islam. Iniziare con le lezioni di Arabo e del Corano già nel primo anno delle elementari. Parificare le scuole religiose con quelle statali. Concedere la possibilità di differenziare le classi nelle scuole pubbliche in base al sesso degli studenti. Definire la composizione della famiglia: uomo e donna».

È abbastanza, chiaro, no?

HüdaPar: dio turco e misogino, ma patria e lingua curde

Insieme a queste promesse e obiettivi vediamo una serie di punti che ci fanno capire il secondo “colore” del partito. Sempre nel programma elettorale e nello statuto leggiamo le seguenti affermazioni:

«Il diritto all’istruzione in lingua madre va riconosciuto e garantito. La Costituzione va privata da qualsiasi riferimento etnico. Il servizio militare deve essere abolito. L’obiezione di coscienza va riconosciuto come un diritto. Va ammesso che la nascita della Repubblica ha danneggiato la storica fraternità tra il popolo turco e quello curdo. La laicità dello stato ha reso difficile la vita ai curdi musulmani. I curdi sono le vittime delle politiche di assimilazione e turchizzazione. Lo stato deve ammettere i suoi crimini commessi nel Sudest del paese, chiedere scusa e risarcire i danni. I curdi devono essere riconosciuti nella Costituzione e la lingua curda deve essere riconosciuta come seconda lingua della Turchia. La forza del governo centrale deve essere alleggerita e il potere delle amministrazioni locali deve essere rafforzato».

Dunque è chiaro che siamo di fronte a una formazione che promette una serie di vittorie e riconoscimenti per le persone curdofone. Ma lo fa con un obiettivo e programma decisamente omofobico, fondamentalista e di certo non laico. Per questo l’HüdaPar rappresenta quella fetta della società curdofona che si identifica con un percorso politico decisamente conservatore e per cui “questi curdi” vanno bene per il partito al governo.
Infatti già nel 2020, l’ex presidente generale del partito, ossia Ishak Sağlam invitò il presidente della repubblica a uscire dalla Convenzione d’Istanbul. Quella convenzione forte e importante che fu creata proprio a Istanbul in Turchia nel 2011 con l’obiettivo di lottare contro i femminicidi e tutelare tutte le identità di genere e gli orientamenti sessuali delle persone. Oggi lo stesso partito, con un altro presidente, parla dell’eliminazione della legge 6284 che riguarda la famiglia e la violenza sulle donne.

Il terrorista curdo buono deve essere fondamentalista…

Purtroppo nel capitolo che riguarda HüdaPar ci sarebbe un altro piccolo approfondimento da fare. Ossia il passato di questo movimento e il suo presunto legame con l’Hezbollah turco.
Si tratta di una formazione paramilitare e armata che appare in Turchia negli anni Ottanta. Per chiarire tutto per una volta, l’Hezbollah turco non avrebbe alcun legame con l’omonimo Partito sciita libanese. Infatti Hezbollah turco sarebbe una formazione armata fondamentalista e sunnita. Il suo profilo terroristico è stato confermato dal Dipartimento di Stato degli Usa, nel 2011, e dalla Presidenza generale della Lotta contro il terrorismo in Turchia nel 2012. Questa formazione paramilitare è stata sempre accusata di avere dei legami con i servizi segreti di Ankara e di prendere di mira quasi esclusivamente quella parte marxista del movimento curdo in Turchia. Di questo parla in modo articolato il famoso giornalista Ruşen Çakır nel suo libro Derin Hizbullah pubblicato nel 2016.
La Turchia è venuta a sapere dell’esistenza di questa organizzazione terrorista nel 2000 quando il suo ex leader, Hüseyin Velioğlu, in uno scontro armato con la polizia è stato ucciso e presso la sua abitazione sono stati trovati numerosi documenti che hanno spalancato nuove porte. Le stesse che hanno portato i poliziotti e i procuratori a scoprire i piani per assassinare le persone e purtroppo anche le fosse comuni dove sono state sepolte numerose persone dopo lunghe e crudeli torture. Secondo il giornalista Çakır si tratta di una formazione politica e armata tra i giovani curdi fondamentalisti negli anni Settanta come una sorta di antitesi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan ossia Pkk.

… all’origine di HüdaPar: l’Hezbollah turco

Mentre dopo l’uccisione di Velioglu, Hezbollah turco pian piano scompariva, dall’altra parte nasceva un’associazione con il nome Muztazaf-Der. Anche se questa nuova realtà rigettava ogni accusa di legame con l’Hezbollah turco la Corte di Cassazione nel 2012 ha deciso di chiuderla proprio per questo presunto legame. Il suo presidente, Mehmet Hüseyin Yılmaz, pochi mesi dopo fonda HüdaPar. Un anno dopo, nel 2013, il timone del partito passa nelle mani di Zekeriya Yapıcıoğlu che oggi risulta candidato alle elezioni politiche presso l’Akp.
Oltre a Yapıcıoğlu, nelle liste dell’Akp salta all’occhio anche il nome di Faruk Dinç, accusato di appartenere al Hezbollah turco e trattenuto in carcere per due mesi in relazione con le indagini sul legame tra quest’organizzazione e l’associazione Ihya-Der. Secondo i procuratori l’associazione in questione era stata fondata dalle persone condannate, poi scarcerate, in un altro processo su Hezbollah turco.
Sempre secondo il giornalista Ruşen Çakır non ci sono troppi giri di parole da fare: HüdaPar è l’espressione partitica dell’Hezbollah turco. Infatti la notizia arrivata il 10 aprile, che informa della scarcerazione di 58 persone accusate di essere assassini di 183 persone uccise dall’Hezbollah turco, è una sorta di conferma della tesi di Çakır. Come se l’inserimento del HüdaPar nelle liste dell’Akp avesse trovato un riconoscimento. Addirittura secondo il giornalista Özgür Cebe, del quotidiano “Sözcü”, si potrebbe trattare di una notizia figlia di un accordo elettorale.

Già esisteva un alleato curdo oltreconfine

Molto probabilmente l’Alleanza della Repubblica, inserendo HüdaPar nelle sue liste, cerca di puntare sui voti di quella fetta della popolazione curdofona molto conservatrice e chiede il riconoscimento dei suoi diritti. Inoltre si tratterebbe di un gesto importante che rafforza il profilo conservatore della stessa alleanza, vista una parte del programma elettorale del partito in questione. Infine, questa new entry, oltre che nella politica interna, potrebbe avere un ruolo anche in quella estera. Quest’ultima ipotesi trova corpo grazie a un incontro avvenuto nel mese di aprile.


Sarebbe l’incontro tra Zekeriya Yapıcıoğlu e Masoud Barzani, l’ex presidente della Regione del Kurdistan (iracheno) e il leader storico del Partito democratico del Kurdistan (Pdk). È un incontro molto interessante, prima di tutto, perché si è svolto tra un “semplice” candidato per le elezioni e il personaggio più illustre del “movimento curdo” in Iraq. Quindi per il lato della Turchia non c’era un ministro oppure un sottosegretario ma una new entry dell’alleanza del governo. In secondo luogo il messaggio che è stato diffuso presso l’agenzia di stampa “Ilke” (semiufficialmente l’organo di stampa di HüdaPar) rende particolare quest’incontro «È stato deciso di rafforzare in futuro il rapporto tra HüdaPar e Pdk». Quindi per Barzani è chiaro che l’interlocutore da prendere in considerazione è quella formazione “curda” e fondamentalista che rappresenta Yapıcıoğlu e si trova accanto all’attuale presidente della repubblica di Turchia.

Le visitazioni islamiste

La visita di Yapıcıoğlu il 26 aprile è stata abbastanza proficua. Ha incontrato anche Aydin Maruf, membro del Fronte turcomanno iracheno, nonché il ministro degli Affari Religiosi e Etnici. Maruf è spesso presente in Turchia, si trova in ottimi rapporti con l’attuale governo e si è espresso varie volte a favore delle collaborazioni tra Ankara, Erbil e Bagdad per «lottare contro il terrorismo del Pkk».
Tra le persone visitate da Yapıcıoğlu vediamo anche il nome di Ali Bapir, membro del Movimento Islamico del Kurdistan e del Gruppo della Giustizia in Kurdistan. Si tratta di uno scrittore e studioso concentrato sulla fondazione di un Kudistan islamico. Bapir fu anche, nel 2021, uno degli sporadici personaggi politici al mondo a congratularsi con i Talebani dopo la loro salita al potere attraverso una lettera pubblica tuttora presente sul suo sito web personale.
Yapıcıoğlu in Kurdistan (iracheno) ha incontrato altri politici di formazione fondamentalista come Şeyh İrfan Abdulaziz, il leader attuale del Partito del Movimento islamista, e Rashid al-Azzawi che dirige il Partito islamico dell’Iraq.

Gli oleodotti dei curdi amici

Questi incontri ovviamente sono dei segni importanti se teniamo in considerazione soprattutto la crisi del petrolio nata verso la fine del mese di marzo di quest’anno. Una procedura arbitrale aperta nel 2014 si è conclusa questa primavera. Un percorso giuridico lungo che ha portato 1,4 miliardi di dollari di condanna per Ankara. Si tratta di un’azione portata avanti dal governo di Baghdad perché secondo il governo iracheno, Ankara non rispetta da tempo l’accordo del 1973. Secondo questo accordo sarebbe Baghdad l’unico interlocutore della Turchia per l’acquisto del gas e petrolio mentre invece Ankara da tempo tratta direttamente con Erbil quindi Nechirvan Barzani e Masoud Barzani. Inoltre, in questo processo, la Turchia sarebbe condannata a pagare 500 milioni di dollari perché diverse volte non ha aggiustato in tempo i danni avvenuti nelle “tubature Iraq-Turchia” a causa degli attentati di sabotaggio.

Oil vs Pkk

In questa procedura portata avanti per nove anni presso la Camera di Commercio internazionale di Parigi si notano alcuni appunti che parlano anche dell’avanzata dell’Isis in Iraq nel 2014 verso le città strategiche per il commercio petrolifero e la reazione degli Usa e della Turchia in quel momento. Appunto Ankara sarebbe accusata di approfittare delle dinamiche geopolitiche perché proprio in quel periodo avrebbe iniziato a non rispettare l’accordo del 1973 e avrebbe firmato nuovi contratti per la fornitura del petrolio direttamente con Erbil. Secondo il giornalista turco, Murat Yetkin, in questa fase storica ci sono varie dinamiche importanti come la volontà di ottenere ulteriore sostegno di Erbil nella sua storica lotta contro il Pkk: incassare più velocemente e più soldi scavalcando Baghdad e ottenere più credibilità e sostenitori in zona visto che proprio in quel periodo tra Erdoğan e Obama nascono le prime divergenze in merito a chi sostenere nella guerra in Siria.

In questa procedura arbitrale si cita anche l’illegale commercio del petrolio attraverso i camion cisterna. Un tema che fu sollevato dalla giornalista Bethan McKernan nel 2016 in un articolo pubblicato su “The Independent” che si basa sullo scandalo “Wikileaks”. Secondo questa fuga di e-mail, scatenata dal gruppo hacker turco “Redhack”, sarebbe l’azienda PowerTrans a gestire dal 2014 al 2015 il traffico illegale di petrolio dalle zone occupate dall’Isis in Siria e dal Kurdistan (iracheno) verso la Turchia. Secondo McKernan l’azienda in questione sarebbe legata in qualche maniera al genero del presidente della Repubblica di Turchia, ossia Beraty Albayrak che in quegli anni lavorava come il ministro dell’Energia al governo. Uno scandalo del genere era stato sollevato anche da Mosca nel 2015 durante quei nove mesi di conflitto che ci fu con Ankara. In quel caso fu il figlio del presidente della Repubblica ossia Bilal Erdoğan a finire nel mirino russo più o meno per le stesse accuse rivolte al genero.

I curdi utili fuori e dentro i confini

Oggi le trattative sono in corso. Secondo alcune fonti Ankara si rifiuta di risarcire Baghdad e secondo alcune fonti invece si tratta di trovare una cifra adatta per tutte le parti. In questo periodo di incertezza però c’è una cosa chiara: Ankara ha bisogno del petrolio e del sostegno politico di Erbil. L’amministrazione curda che si trova nel Nord dell’Iraq risulta tuttora il “curdo utile”, fuori dai confini nazionali, per l’attuale governo al potere in Turchia che deve fare i conti con le elezioni del 14 maggio. Il suo nuovo alleato, ossia HüdaPar, invece, sembra che abbia già deciso di muoversi come “mediatore” tra queste due parti indossando il costume del “curdo utile” in casa.

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LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A NOVEMBRE https://ogzero.org/studium/la-guerra-viene-con-le-armi-lo-spaccio-a-novembre/ Thu, 05 Jan 2023 09:28:05 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=9930 L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A NOVEMBRE proviene da OGzero.

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Miniere di guerra di prossimità africana

In Africa subsahariana i cinque maggiori importatori di armi sono stati Angola, Nigeria, Etiopia, Mali e Botswana. Resta un grande importatore l’Egitto che con il più 73% diventa il terzo importatore di armi a livello globale (Focus di “Atlante delle Guerre”, 29 marzo 2022).

Gianni Sartori ci ha fornito un testo foriero di molteplici spunti di lettura paralleli: a cavallo tra risorse africane, compagnie minerarie, approvvigionamenti di armi e conflitti, presenti e futuri.
Alle tradizionali estrazioni del continente (oro, argento, diamanti, rame, manganese) si aggiungono le basi dei nuovi oggetti: coltan, cobalto, grafite, litio… e gli scenari sono quelli ad alta tensione di Zimbabwe, Sudafrica, Marocco, Mali, Burkina Faso, Congo…


E PER LE GRANDI COMPAGNIE GLI AFFARI VANNO A GONFIE VELE
PREANNUNCIANDO FUTURI CONFLITTI

di Gianni Sartori

Se, come recitava negli anni settanta la rivista “Hérodote” (di cui conservo gelosamente due-tre numeri dell’edizione italiana pubblicati dal mai dimenticato Bertani): «La geografia serve a fare la guerra», parafrasando possiamo aggiungere che “la geologia la determina”. O quantomeno la indirizza e alimenta.
Per cui volendo azzardare ipotesi sui futuri conflitti sarebbe opportuno munirsi di aggiornate carte minerarie.

Litio, cobalto, stagno, rame, grafite, nickel… risultano indispensabili per quella fantomatica “transizione energetica” (dove l’unico verde identificabile sembra quello dei dollari, quelli di una volta almeno) a cui tendono in maniera talvolta spasmodica compagnie minerarie e produttori di automobili. Con il continente africano che al momento sembra essere quello più ambito.

Secondo le compagnie minerarie e alcuni governi (africani e non) molte risorse minerarie (litio, rame, stagno, cobalto…) finora sarebbero state non adeguatamente sfruttate (o addirittura “trascurate”). Oggi si intende rimediare riattivando antiche miniere e aprendone di nuove (e pazienza per l’ambiente e le popolazioni indigene, ovviamente).


ZIMBABWE E LITIO

Pare che l’ex Rhodesia, oggi Zimbabwe, sia uno dei pochi paesi africani dotati di vaste riserve di Lithium. Nel senso di “litio”, il minerale (simbolo Li, numero atomico 3, peso atomico 6,94; nessun riferimento ai Nirvana quindi) essenziale per le batterie dei veicoli elettrici.
E se questo ha già scatenato le comprensibili brame delle grandi compagnie minerarie, finora aveva mobilitato soprattutto schiere di minatori individuali (“artigianali”). Sui quali tuttavia stanno calando pesanti restrizioni ministeriali. In pratica non potranno più esportare il materiale grezzo estratto, spesso fortunosamente, da terreni non necessariamente di loro proprietà e da miniere abbandonate.

Una restrizione che non dovrà interessare le miniere di livello industriale in quanto dovrebbero esportare solo materiale trattato, un “concentrato di litio”. Miniere comunque ancora in fase di realizzazione, dato che l’unica importante produttrice di litio è quella di Bikita. Nello stesso tempo il governo di Harare intende favorire aziende locali per la trasformazione in loco del minerale così che possa venir utilizzato direttamente dall’industria dei veicoli elettrici. Risale a novembre l’accordo firmato con la TsingShan Holding per un impianto in grado di produrre il concentrato di litio (“AgenziaNova”). 


100 %

Avanzamento



GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE Traffico 2022


Ventotto i Paesi in cui Wagner avrebbe operato, diciotto dei quali africani: Libia, Repubblica Centrafricana, Mozambico, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Mali, Madagascar e Zimbabwe tanto per citarne alcuni (“AnalisiDifesa”). E Wagner è lì solo per curare gli interessi minerari di Mosca

Il primo vertice Russia-Africa, tenutosi nel 2019, ha fatto parlare di “ritorno della Russia in Africa” dopo anni di disimpegno a sud del Sahara. Il rinvio del secondo vertice, che avrebbe dovuto tenersi alla fine del 2022 in Africa, ha apparentemente messo in luce le vulnerabilità economiche e politiche della Russia alla luce della sua guerra di aggressione contro l’Ucraina. Eppure, l’impegno diplomatico e di sicurezza della Russia in Africa sembra continuare senza sosta. Che impatto ha la guerra in Ucraina sulle relazioni della Russia con i Paesi africani? Come stanno reagendo alla guerra? Cosa possiamo aspettarci dal futuro ruolo e dalla presenza della Russia nel continente? (ISPI)

Per l’Africa, con una perdita annua di quattro milioni di ettari di foreste, questo è “mal comune” (ma senza “gaudio” ovviamente). In base agli atti recentemente pubblicati dalla National Academy of Sciences, l’aumento esponenziale delle attività estrattive in aree forestali costituisce il 47% (oltre tremila e duecento chilometri quadrati) della distruzione delle foreste tropicali dal 2000 a oggi. Soprattutto in Ghana, Tanzania, Zimbabwe e Costa d’Avorio.

Contemporaneamente anche Biden ha rivolto l’attenzione degli Usa all’Africa abbandonata da Trump (e in parte prima da Obama), convocando un summit di metà dicembre per contrastare la presenza sinorussa nel continente (ISPI): Guinea, Sudan, Mali, Zimbabwe, Burkina Faso ed Eritrea sono rimaste fouri dalla lista degli invitati. Invece Teodoro Obiang, l’autocrate guineano più longevo al mondo, risultava tra gli invitati: la Guinea equatoriale è tra i porti nevralgici per ogni tipo di merci, legali o meno.

Tutti paesi dove la tensione per il controllo di queste risorse si fa più forte, creando strategie esterne e appoggi da potenze locali. Smerci di armi… ma gli stati che intendono proteggere i loro minerali “rari” e preziosi non si dotano di armi che possono competere con le potenze interessate allo sfruttamento dele miniere, o per avversare le milizie che fanno gli interessi di quegli stati, piuttosto si dotano di elicotteri per il controllo delle rivolte della popolazione, indignata dalla corruzione e dal saccheggio di risorse nazionali.



In Zimbbwe è operativo il MiG21 nella versione J7, copia non autorizzata del Fishbed realizzata in Cina (“AnalisiDifesa”)

Nel gennaio 2022, lo Zimbabwe era al 93° posto sui 142 paesi considerati nella classifica annuale della GFP con PwrIndx di 2,2498 (laddove lo zero sarebbe “perfetto”).
Il Generale di Brigata Mike Nicholas Sango, ambasciatore dello Zimbabwe presso la Federazione Russa, ha detto che «la politica della Russia nei confronti dello Zimbabwe negli ultimi anni si è evoluta in modo positivo. L’impegno del Governo dello Zimbabwe con la Federazione Russa è storicamente radicato nel contributo del nuovo stato al raggiungimento della libertà e della nazione da parte dello Zimbabwe nel 1980» (“Africa24”).
Secondo lui, il presidente della Repubblica dello Zimbabwe, Emmerson Dambudzo Mnangagwa, ha visitato Mosca nel 2019. Da allora, ci sono state visite reciproche di ministri e parlamentari. All’inizio di giugno 2022, la presidente del Consiglio Federale, Valentina Matviyenko, ha visitato lo Zimbabwe. I militari dello Zimbabwe hanno partecipato ai Giochi dell’Esercito nel corso degli anni e ai Giochi dell’Esercito di metà agosto 2022.
E non a caso i russi hanno voluto scambiare Viktor Bout, il mercante di armi.

Russia
Mentre Washington domina il mercato globale delle armi di alta gamma e ad alta tecnologia, la Russia si è ritagliata un posto di primo piano come fornitore mondiale di armi economiche, ma a bassa tecnologia, talvolta descritte come “armi di valore”. Queste includono nuove varianti di equipaggiamenti sovietici e russi come i carri armati T-72 e T-80, pezzi di artiglieria trainati come il D-30, obici semoventi come il 2S1 Gvozdika e il 2S19 Msta, lanciarazzi multipli semoventi come il BM-27 Uragan e il BM-30 Smerch, il sistema di difesa missilistica S-300 e i veicoli corazzati per il trasporto di personale come il BMP-3 e il BTR-70.

Cina
Sebbene i paesi a basso reddito come Myanmar, Zambia e Zimbabwe acquistino solo armi di questa categoria, anche i paesi a medio reddito come Brasile, India e Thailandia, che partecipano a segmenti del mercato di fascia alta, acquistano grandi forniture di armi di valore. Nel 2022, la spesa per la difesa dei paesi principalmente africani, asiatici e latinoamericani che compongono il mercato di valore ammonterà a 246 miliardi di dollari. Dal momento che le aziende americane di solito non competono nel mercato delle armi di valore, le difficoltà della Russia hanno creato un vuoto. E il paese pronto a riempirlo è la Cina. Se non controllata, Pechino potrebbe utilizzare le vendite di attrezzature per la difesa per costruire relazioni più forti con le élite al potere e per assicurarsi basi all’estero, limitando potenzialmente la capacità di manovra delle forze armate statunitensi in tutto il mondo. L’espansione delle vendite di armi cinesi minerebbe l’influenza degli Stati Uniti nella competizione geostrategica in corso. Ma questo esito non è ancora inevitabile. Gli Stati Uniti e i loro alleati sono ancora in tempo per fornire sostituti alle armi russe a prezzi accessibili e contrastare così le ambizioni della Cina. La Cina vanta sei delle 25 maggiori aziende di difesa del mondo. Sebbene l’attuale quota del cinque per cento del mercato globale degli armamenti sia significativamente inferiore al 19 per cento della Russia, ciò indica il potenziale della Cina di espandere la propria quota di mercato. La Cina ha diversi vantaggi distinti che potrebbero permetterle di dominare il mercato del valore.
L’approccio cinese all’esportazione di armi è transazionale, libero da preoccupazioni sui diritti umani o sulla stabilità del regime. La Cina scambia armi non solo in cambio di un compenso finanziario, ma anche per l’accesso ai porti e alle risorse naturali degli stati destinatari. In parte, fornendo armi di valore come radar, missili e veicoli blindati al Venezuela e all’Iran, per esempio, Pechino si è assicurata un accesso costante al petrolio di quei Paesi. La maggior parte dei paesi dell’Africa subsahariana utilizza armi cinesi, ma le vendite alla regione rappresentano solo il 19% delle esportazioni cinesi. Oltre il 75% delle esportazioni cinesi è destinato ai paesi asiatici dove la Cina ha iniziato a espandere la propria rete di produzione industriale. Il Pakistan, per esempio, ora coproduce molti sistemi d’arma cinesi, come il carro armato Al-Khalid e il caccia JF-17 Thunder. Più di recente, oltre alle armi di valore, la Cina ha iniziato a vendere sistemi d’arma di fascia più alta a clienti importanti: ad aprile ha iniziato a vendere missili antiaerei alla Serbia e a giugno l’Argentina ha segnalato interesse per i jet da combattimento JF-17. La Cina è ora il più grande esportatore di droni al mondo e ha iniziato a vendere i suoi Wing Loong e i modelli CH-4 a clienti che prima acquistavano droni britannici, francesi, russi e statunitensi: un elenco di paesi che comprende Egitto, Iraq, Giordania e Arabia Saudita. (“ForeignAffairs”)
Secondo il “Jane’s Defence Weekly”, quasi il 70% dei veicoli militari blindati presenti in tutti i 54 paesi africani sono di origine cinese, mentre quasi il 20% di tutti i veicoli militari del continente sono stati forniti dalla Cina.
Citando un rapporto dell’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), l’outlet ha sottolineato che, emergendo come quarto fornitore globale di armi, la Cina ha rappresentato il 4,6% del totale delle esportazioni di armi globali tra il 2017 e il 2021.
Di questo totale di esportazioni di armi globali, il 10% è stato destinato a paesi africani. Etiopia, Sudan, Nigeria, Tanzania, Camerun, Zimbabwe, Zambia, Gabon, Algeria, Namibia, Ghana, Burundi, Kenya e Mozambico sono stati i principali importatori di armi cinesi negli ultimi cinque anni (“Asia News International”).

Zimbabwe

«Lo Zimbabwe è forse il più longevo beneficiario africano dell’assistenza alle forze di sicurezza (SFA) da parte della Cina», affermano due ricercatori senior del Peace Research Institute di Oslo, Ilaria Carrozza e Nicholas Marsh, nello studio pubblicato sul Journal of Global Security Studies.

La Cina ha fornito addestramento militare ai membri del Fronte patriottico dell’Unione nazionale africana dello Zimbabwe, guidato da Mugabe, durante la sua lotta per la liberazione. Tra le persone addestrate c’era anche il presidente Emmerson Mnangagwa, salito al potere cinque anni fa dopo il colpo di stato che ha spodestato Mugabe.

«Questo sostegno ha contribuito a suggellare un rapporto di sicurezza tra la Cina e la leadership dello Zimbabwe che dura tuttora», si legge nello studio.

L’assistenza alle forze di sicurezza comprende donazioni, in genere di attrezzature militari e di addestramento, che mirano a migliorare la capacità delle forze di sicurezza di un paese beneficiario, ha affermato Carrozza.
Lo Zimbabwe è stato tagliato fuori dai mercati globali dei capitali nei due decenni trascorsi da quando gli Stati Uniti e altri paesi occidentali hanno imposto sanzioni ad Harare per le violazioni dei diritti umani e la confisca delle terre agli agricoltori bianchi, lasciando a Pechino il ruolo di principale finanziatore di progetti infrastrutturali come dighe idroelettriche, aeroporti e strade (SCMP).

SUDAFRICA: MEGLIO IL LITIO DEL CARBONE? DIPENDE…

di Gianni Sartori

Dal 2023 (stando a una recente dichiarazione) la Compagnia mineraria Marula Mining (All Star Minerals) darà il via alla vendita di litio a una filiale della lussemburghese Traxys. Quanto alla provenienza del minerale, sarebbe la miniera di Blesberg, in disuso da tempo e riaperta nel dicembre 2022. Anche se per ora i lavori proseguono lentamente e su piccola scala, in attesa di ulteriori perforazioni e carotaggi.

Oltre al litio (sotto forma di spodumene che qui lo contiene con percentuali tra il 6 e il 7 %), la miniera sarebbe in grado di fornire anche tantalio.

Ma in materia di miniere non son tutte rose e fiori per il Sudafrica. Le miniere abbandonate di carbone, per esempio, rappresentano – oltre che un potenziale pericolo – una documentata fonte di inquinamento per le sorgenti e le falde acquifere, una grave minaccia per la salute delle popolazioni. O almeno questo è quanto sostiene Human Rights Watch in un suo recente rapporto (The Forever Mines : Perpetual Rights Risks from Unrehabilitated Coal Mines in Mpumalanga, South Africa ) con cui accusa il governo sudafricano di non garantire la bonifica, il risanamento delle miniere abbandonate. Di non aver fatto nulla per rimediare a tale “eredità tossica”.

E ovviamente vengono messe sotto accusa anche le compagnie minerarie che «per anni hanno tratto profitti dallo sfruttamento del carbone, ignorando però le proprie responsabilità al momento di ripulire, bonificare il degrado, l’inquinamento che si sono lasciate alle spalle».

Lasciando sovente alle comunità locali l’onere di rimediare ai danni.

  1. Alla realizzazione del dossier di Human Rights Watch hanno contribuito decine di esponenti delle comunità locali (compresi i genitori dei numerosi bambini che hanno perso la vita precipitando in pozzi a cielo aperto), rappresentanti di associazioni locali e di ong, ricercatori universitari e personale sanitario. E anche molti “minatori individuali” o che operavano comunque a livello artigianale, al di fuori delle compagnie minerarie. In genere tra i residui di quelle abbandonate con gravi conseguenze per la salute. Come ha ben documentato Human Rights Watch riportando oltre 300 decessi di questi “zama – zama”. Deceduti in gran parte per il crollo dei tunnel, in minor misura per intossicazione da gas o incidenti con esplosivi). Inevitabile un raffronto con i garimpeiros di Brasile e dintorni o con i minatori (in genera persone anziane o giovanissime) che scavano (scavano?!) tra i residui, gli scarti delle miniere boliviane.

Su 2300 miniere prese in esame e classificate “ad alto rischio” (tra cui sono centinaia quelle di carbone), soltanto 27 sono state bonificate in Sudafrica. Si tratta di quelle da cui si ricavava l’amianto (in genere “amianto nero”, più nocivo, ma meno costoso da estrarre e che ha distrutto la salute di migliaia e migliaia di minatori neri).

Specificatamente per quelle di carbone, si è potuto documentare come i residui minerari esposti alle intemperie contribuiscano ad aumentare notevolmente l’acidità dell’acqua e dei terreni. Il fenomeno conosciuto come ”drenaggio minerario acido” provoca sia l’inquinamento delle acque che la sterilizzazione dei terreni, oltre a corrodere e danneggiare irreparabilmente le infrastrutture di approvvigionamento dell’acqua potabile.

Se l’UE è il principale partner commerciale del paese, la Cina è presente in misura sempre maggiore con investimenti di varia natura

Decine di compagnie minerarie sudafricane si rifiutano di rendere pubblici i loro piani sociali e di lavoro, o SLP, come richiesto dalla legge. Senza l’accesso a questi documenti, le comunità hanno difficoltà a valutare gli impegni sociali delle compagnie minerarie o a ritenerle responsabili. Questi piani dovrebbero descrivere in dettaglio come le aziende sosterranno la creazione di posti di lavoro e il miglioramento dei servizi nelle città in cui estraggono. L’organizzazione no-profit Mining Affected Communities United in Action (MACUA) stima che tra il 70 e il 90% delle miniere in Sudafrica non pubblichino i loro piani.

Fondata nel 2011, la miniera di Kolomela, a 22 chilometri dalla città di Postmasburg, nella provincia di Northern Cape, produce ogni anno oltre 9 milioni di tonnellate di minerale di ferro. Dal 2021, Kolomela, che è di proprietà della filiale locale del gigante minerario Anglo American, Kumba Iron Ore, ha respinto gli sforzi del MACUA e dei membri della comunità per ottenere una copia dello SLP 2020-2024 della miniera (“Mongabay”).

Oggi il Sudafrica non è più leader mondiale della produzione dell’oro, sebbene secondo le stime dell’US Geological Survey detenga il 50% delle risorse aurifere del pianeta, ma è ancora in testa a livello continentale. Le riserve però iniziano ad esaurirsi e il paese è passato dal 15% della produzione mondiale al 12%.

Questa situazione, con la diminuzione delle miniere e la perdita del lavoro, non ha fatto che peggiorare le condizioni di vita e di lavoro dei minatori, uomini, donne e bambini che accettano condizioni lavorative degradanti e rischiano di morire per poter sopravvivere. Una miniera dismessa è terreno fertile per minatori illegali che cercano l’ultimo filone in autonomia o con l’aiuto degli ultimi tra i disperati. Tra il 2004 e il 2015 un terzo delle 180.000 persone che lavoravano nel settore minerario sudafricano sono state licenziate. Molte sono tornate alle miniere da sole, illegalmente (“Orovilla”). Imponenti e ricorrenti scioperi hanno prodotto scontri e massacri della polizia a difesa di istituzioni e investitori cinesi ed europei, che hanno chiesto all’ex sindacalista compagno di Mandela Ramaphosa di eliminare tasse e promesse di maggiori diritti per i lavoratori: «Le lotte che lo attraversano, tanto dei minatori neri e spesso migranti quanto delle popolazioni nere locali, trascendono il più delle volte i confini nazionali, proprio a causa del carattere non-nazionale dei bersagli e delle rivendicazioni in reazione al Trade, Development and Co-operation Agreement: il piano di liberalizzazioni previsto dall’accordo ha infatti imposto leggi sul lavoro, riduzione dei salari, privatizzazione delle aziende statali, leggi sull’immigrazione e tagli alla spesa pubblica in nome di un “rilancio” dell’economia sudafricana. instaurando un regime commerciale preferenziale tra l’UE e il Sudafrica, con la creazione progressiva di zone di libero scambio (ZLS) per la libera circolazione delle merci. Questo vale sia per gli scambi commerciali, sia per gli investimenti, definendo di fatto l’UE come principale partner economico del Sudafrica. Secondo un modello ormai diffuso su scala globale e di cui l’Ue si fa promotrice, le zone economiche… Se l’UE è il principale partner commerciale del paese, la Cina è presente in misura sempre maggiore con investimenti di varia natura. Come si legge sul sito di Taung Gold, una delle principali società finanziarie cinesi attiva principalmente nel settore minerario, la Cina “è profondamente consapevole dell’importanza degli investimenti cinesi in Sudafrica”. Taung Gold è da oltre un decennio una delle molte imprese della Repubblica Popolare che investono in Sud Africa, soprattutto nel settore minerario. Tra gli esempi più significativi vi è l’acquisizione da parte del Gruppo Jinchuan e del China-Africa Development Fund del 45% di Wesizwe Platinum, una junior mining company» (“ConnessioniPrecarie”). E allora, come riportava “Il Post” nel luglio 2019, i vertici militari sudafricani avevano deciso di usare l’esercito per reprimere le proteste e gli scontri iniziati dopo che l’ex presidente Jacob Zuma era stato incarcerato nel luglio per un episodio di corruzione da parte della francese Thales: una tangente relativa all’acquisto di una partita di armi nel 1999. La difesa dell’ex presidente e del suo sistema di corruzione è solo la miccia che ha fatto esplodere la rabbia, temuta da Pretoria, ma anche da UE e Cina: «Le rivolte sono il prodotto delle disuguaglianze crescenti che la fine dell’apartheid non ha saputo ridurre, e di rivalità politiche all’interno del partito al potere, l’African national congress (Anc)»; Zuma è un populista zulu, eroico combattente da giovane, e anche questi elementi sono alla base delle rivolte contro le barriere sociali sostituite dagli stranieri al posto di quelle razziali. Alla fine si sono visti anche i carri armati Olifant e sono arrivati 25.000 soldati ad appoggiare le forze di polizia. L’ultimo bilancio avrebbe parlato di 212 vititme e migliaia di feriti e arresti.

Perciò le necessità di armi dell’esercito sudafricano deve rispondere al contenimento di rivolte interne: infatti nella più imponente esercitazione militare dell’esercito sudafricano tenutasi nel novembre 2022 (Vuk’uhlome – “alzati e armati” in lingua zulu) ha testato la capacità e lo stato di preparazione della forza terrestre, supportata dalle Forze Speciali SA, dall’Aeronautica Militare SA (SAAF), dal Servizio Sanitario Militare SA (SAMHS), dalla Divisione di Polizia Militare e dalla Divisione Servizi Legali. Durante il Distinguished Visitors’ Day dell’esercitazione sono state dimostrate numerose capacità, che vanno dalla gestione dei disordini civili al lancio di forze aeree con il paracadute, agli attacchi di precisione con razzi e artiglieria, alle operazioni di controinsurrezione, agli attacchi di fanteria… Le Forze speciali, con le loro armi e i loro veicoli, hanno svolto un ruolo importante nella battaglia simulata, che ha visto il coinvolgimento di veicoli corazzati, tra cui i carri armati Olifant.

L’Aeronautica militare ha sostenuto l’esercitazione con aerei da trasporto Cessna Caravan e C212, elicotteri da trasporto/utilità Oryx e A109 e un elicottero d’attacco Rooivalk. Quest’ultimo non ha sparato, ma due caccia-addestratori Hawk Mk 120 hanno sganciato bombe sul poligono di Lohatla. La SANDF è penalizzata da un massiccio sottofinanziamento aggravato da una lista crescente di compiti, oltre che dall’invecchiamento dell’equipaggiamento – non è chiaro quando riceverà i nuovi veicoli da combattimento di fanteria Badger da Denel. Tra le recenti acquisizioni figurano i fucili di precisione Truvelo, i lanciagranate da 40 mm Milkor, i fucili senza rinculo Carl Gustaf Saab, i veicoli con cannone antiaereo ZSU-23-2 montati su Land Cruiser e i veicoli con mortaio Scorpion da 60/80 millimetri (tutti con ogni evidenza sistemi di contenimento interni e non di difesa da potenze straniere). Una grande esposizione dell’industria della difesa ha fatto parte dell’esercitazione Vuk’uhlome, con più di mezza dozzina di aziende che hanno esposto i loro prodotti. Tra queste, Reutech (radar e torrette d’arma), Canvas and Tent (alloggi da campo), Rheinmetall Denel Munition (energia verde), Global Command and Control Technologies (soluzioni di comando e controllo), Dinkwanyana Aerospace (veicoli aerei senza pilota), OTT Solutions (veicoli corazzati, tra cui il dimostratore Ratel Service Life Extension) e Denel. Quest’ultima ha presentato i suoi veicoli da combattimento per la fanteria Badger e RG41, i veicoli corazzati per il trasporto di personale RG21 e RG31 e l’obice semovente T5-52. SVI Engineering ha portato nell’area espositiva due dei suoi veicoli blindati (Max 3 e Max 9). L’azienda ha anche fornito veicoli da mortaio Scorpion alla SANDF (“DefenceWeb”). Ma i 9 velivoli C-47TP in servizio con il 35° Squadron della South Africa Air Force sarebbero quasi tutti a terra in attesa che la società Armscor reperisca sul mercato pezzi di ricambio; le difficoltà economiche della Difesa sudafricana si riflettono pesantemente sulle capacità della SAAF che da mesi tiene a terra per mancanza di ricambi e assistenza l’intera flotta di 26 velivoli da combattimento SAAB Jas 39 Gripen (“AnalisiDifesa”).

LA COMPAGNIA MAROCCHINA MANAGEM FARA’ AFFARI D’“ORO”

di Gianni Sartori

Novità rilevanti anche dal Marocco con l’ormai centenaria compagnia Managem sempre più “leader regionale” (ma con aspirazioni evidentemente “continentali”) nell’industria mineraria africana. Da circa vent’anni va ampliando il suo raggio d’intervento in Sudan (oro), Gabon, RdC (sarà mica per il coltan?) e Guinea (ancora per l’oro).

Verso la fine di dicembre il direttore generale di Managem ha annunciato di aver sottoscritto un accordo (una transazione del valore di circa 280 milioni di dollari) con la canadese Iamgold Corporation per acquisire la proprietà di alcuni progetti di estrazione aurifera in Mali (progetto Diakha-Siribaya), Senegal (progetti Boto, Boto ovest, Daorala, Senala ovest) e Guinea (progetto Karita): una striscia unica di territorio conteso tra Senegal, Mali e Guinea: Bambouk Assets che il Marocco si è attribuito con la dichiarata intenzione di aumentare la propria produzione di oro dato che finora si era posizionata ben lontana dai livelli di produzione di compagnie come Iamgold, Endeavoure, B2Gold o Kinross Gold.

ESCALATION MAGHREBINA

A questi territori, per quanto contigui, va assicurata la sicurezza, perciò il Marocco si riarma e si fa forte delle alleanze strette con Usa e Israele.

Per un controllo capillare della sicurezza nell’estrazione mineraria la prima mossa fondamentale è il controllo dall’alto del territorio e infatti in combutta con Sabca (l’impresa marocchina dell’aerospaziale) troviamo Sabena– di Blueberry Group – e Lockhead impegnatee nel progetto di realizzare la prima officin di manutenzione dei C130, essenziale per la sovranità del Marocco. I media riferiscono di piani marocchini per l’acquisto di 22 elicotteri T129 ATAK per un valore di 1,3 miliardi di dollari. L’accordo si aggiungerebbe a un ordine per 36 elicotteri d’attacco AH-64E Apache e relative attrezzature, per un costo stimato di 4,25 miliardi di dollari. Riconoscendo l’importanza della superiorità aerea nel contrastare qualsiasi minaccia alla sicurezza nazionale che possa derivare dalla crescente instabilità del Sahel e dell’Algeria, il Marocco ha anche ordinato altre 25 unità di caccia F-16C/D Block 72, che porteranno il numero totale della flotta di F-16 del Marocco a 48 unità. L’evoluzione della strategia militare del Marocco pone inoltre particolare enfasi sulla guerra con i droni, utilizzata contro la resistenza saharawi; e proprio in seguito allo strappo di Trump con l’imposizione degli Accordi di Abraham in cambio del riconoscimento della occupazione illegittima del Sahara occidentale da parte di Rabat è stata agevolata la partnership con Israele, il cui capo di stato maggiore a luglio fece la prima visita a Rabat, secondo Reuter per rafforzare la cooperazione militare e quindi “AnalisiDifesa” informava in ottobre che l’esercito del Marocco aveva acquistato 150 UAV WanderB e ThunderB dall’israeliana BlueBird Aero Systems.
La Reuters ha riferito che gli Stati Uniti hanno proceduto con la vendita al Marocco di quattro droni MQ-9B SeaGuardian e di armi a guida di precisione per un valore di 1 miliardo di dollari. I media israeliani hanno anche riferito che il Marocco sta cercando il sistema di difesa aerea e missilistica Barak MX in un accordo del valore di oltre 500 milioni di dollari. Il Marocco ha già acquistato indirettamente gli UAV Heron di IAI e altri UAV dell’unità Bluebird di IAI, oltre a sistemi di veicoli robotici di pattugliamento di Elbit Systems e intercettatori di droni di Skylock. Negli ultimi due anni, il Marocco ha aumentato le importazioni di droni. Li ha acquistati da diversi paesi come Cina, Turchia, Francia e Israele, costituendo così una vera e propria flotta, probabilmente la più sviluppata del Nordafrica, secondo gli specialisti. (“Challenge”).

Il Marocco intende mettere in produzione droni di fabbricazione propria con tecnologia israeliana e perciò ha realizzato un partenariato con i belgi di Orizio, gruppo aerospaziale che costruirà un centro di manutenzione per F-16 e elicotteri a Benslimane. La spesa per la Difesa ha raggiunto il 5,2% del pil marocchino.


L’operazione di addestramento “Desert Shield”, svoltasi a novembre con forze congiunte russe e algerine al confine con il Marocco, coincide con un’escalation del riarmo regionale. L’Algeria ha annunciato che aumenterà a 23 miliardi di dollari il suo budget militare del 130 per cento nel 2023 per raggiungere il 12 per cento del suo prodotto interno lordo grazie all’aumento dei prezzi del gas e del petrolio. Di questi, 5 miliardi sono destinati a operazioni fuori dai confini in seguito all’estinzione dell’Operazione Barkhane nel vicino Mali a supporto della milizia Wagner. Mosca è il maggior fornitore di armi di Algeri (in particolare i carri armati T-90M, nuova versione di quelli datati 1993 e usati ancora in Siria dall’esercito russo; i missili terra-aria S-350 e Buk-M2, corrispondenti ai Barak-8 israeliani in dotazione a Rabat), che partecipa a tutte le manovre congiunte dell’esercito russo. Algeri ha stipulato un contratto di 12 miliardi di dollari per l’acquisto di caccia Sukhoi SU-75 “Checkmate” Viste le debacle delle armi russe (proprio quei residuati bellici dei BMP-1 e 2 in dotazione all’esercito algerino) può darsi che il budget sproporzionato sia volto a differenziare le fonti di approvvigionamento, ipotizza Abdelhak Bassou a “Le360”: «Questo aumento del budget potrebbe essere spiegato dal desiderio del governo algerino di calmare gli occidentali acquistando armi da loro. Un modo per soddisfare tutti. Ma è ovvio che più la Russia si isola sulla scena internazionale, più i suoi satelliti si isolano. A meno che non ci sia una svolta e l’Algeria cambi le carte in tavola».
Ad alimentare le tensioni nella regione si aggiunge anche l’Iran, alleato di Putin, che ha confermato ufficialmente la fornitura dei suoi droni all’esercito algerino e al gruppo separatista del Polisario, gli stessi usati dalla Russia nella sua guerra contro l’Ucraina (“l’Opinione”).

I due paesi sono divisi non solo dai. Fosfati saharawi, ma anche dai percorsi di gasdotti: quello algerino interrotto nell’ottobre 2021 (al momento del riconoscimento di Madrid della sovranità spagnola sul Sahara occidentale) e che transitava dal Marocco per convogliare gas in Spagna; e quello che dalla Nigeria, lungo tutta la costa atlantica, porterebbe off-shore fino in Spagna la pipeline (“JeuneAfrique”).

Dunque di nuovo sono i minerali dietro a un consistente riarmo… Come in Sahel e Centrafrica.

ESTRAZIONE ED ESPORTAZIONE IN SAHEL.
MINERALI DI VALORE DOPO L’USCITA DAI CONFINI

di Gianni Sartori
IL MALI VERSO LA LIBERALIZZAZIONE DEL SETTORE?

Mentre il regime militare del Mali annunciava la creazione di una compagnia mineraria nazionale, quasi contemporaneamente (ai primi di dicembre), dal ministero delle Miniere arrivava un comunicato con cui sostanzialmente si apriva la strada a ulteriori liberalizzazioni in materia di “permessi di esplorazione e permessi di sfruttamento minerario”.
Con ogni probabilità, viste le recenti difficoltà incontrate nel settore, lo stato ritiene così di attrarre investimenti stranieri nello sfruttamento delle risorse minerarie.

Ma non tutti esultano, ovviamente. Per esempio i portavoce del Consiglio locale della gioventù della zona aurifera di Kenieba (regione di Kayes, dove già sono attive una mezza dozzina di società minerarie) hanno protestato vigorosamente in quanto «prima di concedere i permessi di esplorazione e di sfruttamento, si deve consultare la popolazione». Soprattutto per “valutare l’impatto ambientale” e sapendo che «verranno espropriate terre coltivabili per cui alla popolazione si dovranno quantomeno offrire delle adeguate compensazioni».
Attualmente tra i minerali estratti in Mali, l’oro rappresenta il 10% del pil e circa l’80% delle esportazioni.

STERILI POLEMICHE SUL BURKINA FASO?

Da segnalare anche la polemica (strumentale?) scatenata dal presidente del Ghana Nana Akufo-Addo mentre si trovava (guarda caso) a Washington, accusando il Burkina Faso di aver ceduto alla compagnia russa Wagner una miniera d’oro a pagamento dell’intervento militare contro l’insorgenza jihadista.
Notizia immediatamente smentita da Simon Pierre Boussim, ministro di Energia, Miniere e Cave, nella conferenza stampa del 20 dicembre, organizzata con l’ITIE-Burkina (Comitato per la Trasparenza nelle Industrie Estrattive) nella capitale Ouagadougou dell’ex Alto Volta.

In realtà in Burkina Faso esiste già una presenza russa in campo minerario (si parla di tre miniere sfruttate da Nordgold). Ma qui operativa da oltre dieci anni
(“Acled”).

ESCALATION SAHELIANA

Paradossalmente la strategia di influenza della Russia in Africa si basa su interessi economici relativamente minori. Il commercio della Russia con l’Africa non supera i 30 miliardi di dollari, il che non la colloca tra i primi venti partner del continente. Quest’ultima, ricca di materie prime, non è molto complementare alla Russia. «La Russia ha firmato molti accordi di cooperazione economica dal 2014, ma pochi sono stati attuati», ha dichiarato Thierry Vircoulon, per il quale «stiamo anche aspettando di vedere se il suo ruolo nel traffico d’oro in Africa aumenterà e se le promesse forniture di petrolio si concretizzeranno».
Per Maxime Audinet: «nell’Africa subsahariana, la posta in gioco economica è secondaria per Mosca, rispetto alla posta in gioco simbolica della proiezione di potenza, anche se le sue leve, come Wagner, sono pagate a peso d’oro in cambio della loro fornitura di sicurezza attraverso l’estrazione di materie prime come oro, diamanti o legni pregiati» (“LesEchos”).

E infatti le armi presenti sul territorio sono sistemi di lancio di multimissili Aml e Sam SA-7°; elicotteri Mi-17 e siste i di difesa antiaerea ZPU-4: tutte tecnologie belliche utili per il contrasto al terrorismo jihadista e per la difesa delle miniere d’oro.

Lo stato russo cerca di estendere la propria influenza attraverso la vendita di armi: è il principale fornitore dei paesi dell’Africa subsahariana, oltre ad avere importanti contratti con Algeria ed Egitto. Poi Wagner assicura la protezione di leader o addestra soldati in molti paesi: Mali, Libia, Madagascar, Sudan, Mozambico, Repubblica Centrafricana (dove è accusato dalle Nazioni Unite di racket, stupri e torture), e probabilmente anche Burkina Faso.

Tuttavia, i mercenari hanno subito sanguinose battute d’arresto in Libia e Mozambico e il Mali sembra ora deluso dal loro coinvolgimento. Come i suoi rivali, anche lo stato russo ha firmato accordi ufficiali di cooperazione militare con una trentina di paesi, che sulla carta sono vantsggiosi ma spesso corrispondono a qualche esercitazione congiunta, senza garanzie di sicurezza reciproca. La Russia non ha ancora una base militare permanente nel continente, nonostante un progetto in Sudan.

In Sahel, ritirata Barkhane, rimangono le milizie jihadiste e la Wagner, il cui armamento sul terreno fornisce risorse alle esigenze dell’occupazione. Dal 2020 tra Libia, Mali, Burkina la Wagner ha dispiegato i caccia Mig-29 e i Su-24, ma questi non sono l’unico equipaggiamento pesante in dotazione: la Pmc russa ha ricevuto anche almeno un veicolo di difesa aerea Pantsir S1, diverso da quelli utilizzati dall’Lna e da Wagner e “prestato” dagli Emirati Arabi Uniti. Per proteggere i suoi aerei, Wagner ha utilizzato radar P-18 Spoonrest oltre a quelli dell’Lna.

Per i loro movimenti i “musicisti” di Wagner utilizzano veicoli blindati prodotti in Russia da un’azienda appartenente al gruppo di società Yevgeny Pirigozhin. Il veicolo è chiamato Valchiria, Chekan, Shchuka o Wagner Wagon[13], ed è un MRAP costruito su un telaio URAL dalla società EVRO POLIS LLC. Tra le armi importate da Wagner ci sono MRAP GAZ Tigr-M, cannoni D-30 da 122 mm e obici MSTA da 152 mm. Per quanto riguarda le armi leggere, le truppe di Wagner utilizzano AK-103 e soprattutto il fucile da cecchino Osiris T-5000. Wagner ha utilizzato alcuni droni durante le sue operazioni, in particolare Zala 421-16E e Orlan 10s. E quando si ritirano i miliziani spargono mine antiuomo MON-50, 90 e 100 (Rosa Luxemburg Stiftung).

MATERIALI GREZZI LAVORATI IN LOCO…
MA CON INVESTIMENTI STRATEGICI AMERICANI

di Gianni Sartori

LA ZLECA SI VA ESPANDENDO?

Risaliva a tre anni fa l’annuncio da parte di Albert Muchanga (commissario allo Sviluppo economico, al Commercio, all’Industria e all’Attività minerarie dell’Unione africana) di consultazioni amichevoli tra due delle maggiori entità minerarie dell’Africa: il Congo e lo Zambia. Nazioni nei cui territori sono sepolte ingenti quantità di minerali fondamentali per la produzione delle batterie per i veicoli elettrici e che ora, in base ai futuri accordi, dovrebbero poterle produrre autonomamente e direttamente.

A suo tempo per esporre i progressi di tale progetto Muchanga aveva scelto l’occasione del Mining Indaba, il maggior meeting del settore minerario africano; e fondamentale era stato l’anno scorso il ruolo di Muchanga nel veder ratificare l’Accordo sulla Zona di libero-scambio continentale africano (Zleca).


E GLI USA? DIVERSAMENTE DALLE STELLE DI CRONIN NON STANNO A GUARDARE

Gli Stati Uniti non stanno a guardare naturalmente. Firmato recentemente da Washington un accordo (un memorandum d’intesa) con Repubblica democratica del Congo e Zambia (con i maggiori giacimenti di cobalto e rame) sui metalli per le batterie.
Nell’accordo è previsto un investimento da 55 miliardi di dollari nel giro di tre anni.
Fondi elargiti dalla Minerals Security Partnership (vi aderiscono Corea del Sud, Canada, Australia, Regno Unito, Giappone, Regno Unito…) a sostegno dei sistemi sanitari, per la tutela del lavoro femminile, nella lotta ai cambiamenti climatici…
Ma anche, o soprattutto, per investire nei progetti per le auto elettriche. Allo scopo dichiarato di contrastare l’egemonia cinese (visto che Pechino, a titolo di esempio, controlla già gran parte delle miniere di cobalto nella Repubblica democratica del Congo).
Come ha preannunciato il segretario di Stato Antony Blinken: «Washington esplorerà meccanismi di finanziamento e di sostegno agli investimenti nelle catene africane dei veicoli elettrici».

In pratica verranno finanziate sia le estrazioni minerarie che la lavorazione dei metalli estratti (raffinerie e affini). Oltre alle operazioni di riciclaggio. Alla vasta operazione partecipano alcune case automobilistiche (General Motors, Ford, Tesla…) e le compagnie minerarie Albemarle e Piedmont Lithium.

ENNESIMO ECOCIDIO NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO?

Suscita preoccupazione questo ulteriore coinvolgimento della Rd C in progetti estrattivi di rilevanza internazionale.

Sia per la drammatica situazione in cui versano le popolazioni del Nordest del paese (sotto accusa l’estrazione del coltan e le milizie di M23 sostenute dal Ruanda), sia per il già bistrattato ecosistema naturale. Ça va sans dire, soprattutto nelle zone sottoposte a estrazioni petrolifere o minerarie e alla deforestazione. Anche per diretta responsabilità del governo congolese che «svende le foreste che dovrebbe proteggere» (come denunciava un portavoce di Greenpeace).

Governo e ministri sotto accusa non soltanto da parte dei “soliti” ambientalisti, ma anche da associazioni di studiosi e scienziati. Come il Consiglio per la difesa ambientale attraverso la legalità e la tracciabilità (Codelt) e l’Acedh (una Ong regionale) che hanno condotto studi approfonditi sulla foresta pluviale della Cuvette Centrale (provincia di Ituri, sotto stretto controllo militare dal maggio del 2021). Dove appunto si estrae gas, petrolio e oro. Sarebbero soprattutto le miniere aurifere, in continua espansione anche nelle aree protette, a contaminare, distruggere gli ultimi lembi di foresta pluviale dove sopravvive un mammifero raro (da “Lista rossa”), a rischio estinzione, come l’okapi. Oltre ad abbattere le piante e dragare illegalmente i fiumi, i minatori si dedicherebbero al bracconaggio.

Da quasi un decennio l’area viene sfruttata – previo accordo col governo – dalla compagnia Kimia Mining. L’anno scorso ben 205 ong locali, a cui si associava Greenpeace, avevano chiesto al governo della RdC di ritirare le concessioni minerarie alla società cinese. O almeno quelle all’interno della riserva naturale per le okapi.

ENNESIMA GUERRA MONDIALE AFRICANA

Come scrivono anche Marco Dell’Aguzzo e Giuseppe Gagliano l’intervento degli Usa va inquadrato nella necessità di disturbare gli affari minerari cinesi in Africa, in vista della produzione massiva di auto elettriche e dunque del bisogno di Litio e Cobalto: la supply chain africana derivante dall’interdizione finalmente dell’esportazione di litio non lavorato (una mossa dal sapore anticoloniale, che potrebbe, se la stesa misura venisse adottata da molti altri paesi del continente, cominciare uno sviluppo industriale – e di mercato interno – invece di essere solo suolo da depredare).

Dovranno dare lavoro in loco: potrebbe essere un passo avanti. Peccato che gli Usa si propongano essenzialmente per contrastare la penetrazione di Pechino in Africa: le aziende cinesi possiedono la maggioranza delle miniere di terre rare africane e così gli americani si frappongono, impiantando quelle industrie in loco richieste da governi che cercano così di arginare il saccheggio… il problema è che se gli americani cederanno la tecnologia per la lavorazione, si prenderanno una larga fetta del prodotto finale (una mossa essenziale per approvvigionarsi senza arricchire l’avversario) e i cinesi si faranno pagare l’estrazione dei minerali grezzi, agli africani non rimane di nuovo nulla, se non la parvenza di essere entrati a far parte del mercato e non più solo merce – nel caso venga adottata una parte di manodopera locale (che non potrà essere giocoforza specializzata). E così si torna allo Zimbabwe, da cui avevamo cominciato questo safari africano.

Ma il Congo è teatro di scontri e riedizioni di conflitti (la Guerra mondiale africana risale a pochi lustri fa e sembra prepararsi in Kivu di nuovo) che vedono contrapposte le milizie armate da Kigali (come l’M23) all’esercito di Kinshasa e alle truppe di Nairobi –ultimamente – o dell’Uganda.


I gruppi della società civile hanno condannato l’estrazione illegale di oro nella riserva naturale di Okapi, nella Repubblica Democratica del Congo. Da diversi anni, una società di proprietà cinese, la Kimia Mining, ha una concessione all’interno della riserva, rilasciata irregolarmente dal governo della RDC. I gruppi chiedono l’immediata revoca della concessione per proteggere la riserva

In una conferenza stampa tenutasi il 18 ottobre, hanno accusato la Kimia di aver ridotto la copertura forestale, inquinato i fiumi e compromesso l’habitat forestale della riserva. La riserva, inserita dall’Unesco nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità in pericolo, si estende per circa 13.700 chilometri quadrati della foresta pluviale dell’Ituri.  È anche la casa dei nomadi indigeni Efe e Mbuti, che dipendono dai fiumi che nascono nella riserva, ha dichiarato Gabriel Nenungo, coordinatore dei geologi della provincia di Ituri: «Abbiamo osservato le draghe gestite dai cinesi nel fiume Ituri e le fosse di mercurio aperte sono visibili dall’alto». L’attività mineraria ha attirato gruppi armati che trafficano in pelli di okapi e avorio.

L’esercito della RDC fornisce servizi di sicurezza alla Kimia Mining, nonostante le leggi vietino di associarlo alle operazioni minerarie. (“Mongabay”).

Novembre

29 novembre

    • I coyotes mondiali

      • Il 29 novembre Defense Security Cooperation Agency pubblicava la notizia della concessione da parte del Dipartimento di stato americano della vendita di sistemi di difesa antidrone per una spesa pari a un miliardo di dollari in cambio di 10 Fixed Site-Low, Slow, Small Unmanned Aircraft System Integrated Defeat System (FS-LIDS) System of Systems, includendo 200 Coyote Block 2 interceptors; e poi Counter Unmanned Electronic Warfare System (CUAEWS); Coyote launchers; Ku Band Multi-function Radio Frequency System (KuMRFS) radars; Forward Area Air Defense Command e Control (FAAD C2); Counter Unmanned Electronic Warfare Systems (CUAEWS).
      • Lo riportava “BreakingDefense” sottolineava come i principali contractor Raytheon, Northrop Grumman and R&D company SRC.A Marzo si leggeva nel rapporto Sipri del confronto tra il 2017-2021 con il decennio precedente e riprendiamo da lì per inquadrare questa notizia novembrina in omaggio all’esiziale mondiale di calcio ottenuto da Doha (che secondo quel dossier aveva incrementato la spesa del 227% rispetto al lustro precedente) con la corruzione di Sarkozy, Platini e Guéant prima e poi con il sostegno di parlamentari europei di sinistra che negano l’evidenza del sistema omicida e criminale del Qatar (ci limitiamo a suggerire che Messi e Mbappé giocano entrambi nel Psg, che è di proprietà dell’emiro di Doha, un caso che la finale sia per magia tra le loro due compagini?): infatti l’Atlante delle guerre riassumeva così la situazione del Medio Oriente a marzo:

        «Si stabilizzano le importazioni di armi in Medio Oriente. Dopo il forte aumento registrato nel decennio precedente (86% in più tra il 2007-11 e il 2012-16) gli stati mediorientali hanno importato ‘solo’ il 2,8% di armi in più nel 2017-21 rispetto a quello precedente. Il conflitto in Yemen e le tensioni tra l’Iran e altri stati della regione restano alla base delle importazioni di armi nell’area. L’Arabia Saudita si conferma un grande importatore, il secondo al mondo, con un 27% in più investito in armi nel periodo 2012-16, rispetto al precedente.
        Le importazioni di armi del Qatar sono cresciute del 227%, spingendolo dal 22esimo importatore di armi al sesto. Al contrario, le importazioni di armi degli Emirati Arabi Uniti sono diminuite del 41%, passando così dal terzo al nono posto. Tutti e tre questi stati, insieme al Kuwait hanno poi effettuato ingenti ordini che prevedono la consegna nei prossimi anni. Nell’area, poi, Israele ha aumentato le importazioni di armi del 19%».

    • E poi le esportazioni statunitensi verso Riyad sono aumentate del 106%. Ma a cosa serve l’enorme quantità di armi, le più disparate per ogni tipo di guerra, sparpagliate per tutta la penisola araba?

19 novembre

  • La guerra dei droni da Astana

    • La notizia in autunno sul fronte dell’approvvigionamento dei droni per le attività dell’aviazione russa è che si è raggiunto un accordo per impiantare in tempi brevi  uno stabilimento con la tecnologia iraniana direttamente in territorio russo; a rivelarlo il Washington Post, successivamente rilanciato da tutte le testate del mondo. Come sottolinea “DroneBlog”:

      questo accordo oltre che essere strategico mette in luce ancora di più il rapporto e la cooperazione militare fra Iran e Russia, che sta svolgendo un ruolo chiave in Ucraina. Se il nuovo accordo sarà pienamente realizzato, significherebbe un ulteriore rafforzamento dell’alleanza russo-iraniana. Questo accordo, oltre a migliorare la disponibilità di armi all’esercito russo, toglierebbe dall’isolamento l’Iran, dando una nuova spinta economica a un sistema interno collassato ormai da anni e alle prese con una rivoluzione in atto

  • In piena continuità con gli accordi di Astana, che tanto abbiamo analizzato in OGzero.
    E sempre “DroneBlog” scrive che «finora Teheran ha cercato di presentarsi come neutrale nel conflitto ucraino , ma si scopre che sempre più droni di fabbricazione iraniana vengono utilizzati per attaccare le città ucraine, innescando minacce di nuove sanzioni economiche dall’Occidente». E si insinua una scommessa iraniana sul sostegno che deriverebbe dall’alleanza con Mosca per ricavare valore contrattuale per gli accordi sul nucleare
  •  Peraltro l’industria iraniana dei droni si sta già diffondendo in altri paesi. L’Iran ha aperto a maggio una fabbrica in Tagikistan, che produce il drone Ababil-2, secondo l’Eurasia Times: è stato Zelensky stesso a indicare la strategia di avvicinamento a Mosca da parte di Ankara con fini collegati al Jcpoa.
  • The Guardian” il 10 novembre accusava l’Iran di aver sostenuto militarmente fin dal 24 febbraio l’alleato russo, ma ancora prima “Wired” riportava un sistema rudimentale – ma efficace – di aggiramento delle sanzioni: contanti e baratto.
  • In estate il baratto sarebbe dimostrato dall’atterraggio il 20 agosto di 2 Ilyushin IL-76 arrivati e ripartiti da Mehrabad (la città del kurdistan iraniano martirizzata il 19 novembre dalle guardie della rivoluzione): trasportava in cambio di droni armi occidentali sottratte agli ucraini, necessarie agli ingegneri persiani per carpire le tecnologie. Ipotesi suffragate da immagini satellitari diffuse da SkyNews e da dichiarazioni rilasciate al Washington Post il 29 agosto da funzionari statunitensi.

Un ultima notazione sull’asse russo/iraniano: i droni iraniani Mohajer-6 contengono molte componenti provenienti dalla tecnologia occidentale (in particolare giapponesi,  secondo James D. Brown) – quindi senza che si debbano trasferire ordigni catturati per studio – stando alle rivelazioni di “la Repubblica”; ma, a dimostrazione che lo spargimento di morte tra civili attraverso macchine a controllo remoto non comporta scelte di campo, il Blog di Antonio Mazzeo riporta un’informazione raccolta da “DefenseNews”:

    • «Il regime turco di Recep Tayyp Erdogan finanzierà la produzione di droni-elicotteri e droni-kamikaze per il mercato nazionale e l’esportazione, decisione che non potrà non essere accolta con favore anche in Italia. La società di engineering aerospaziale Titra Technoloji, con quartier generale ad Ankara, riceverà sussidi economici governativi per realizzare il primo modello di elicottero a pilotaggio remoto in Turchia. Denominato “Alpin”, il drone-elicottero sarà prodotto in dieci esemplari all’anno, “in aggiunta a 250 droni kamikaze”».

    • La Malesia ha scelto la Turkish Aerospace Industries per la fornitura di tre velivoli senza pilota, secondo quanto dichiarato dal ministro della Difesa della nazione del Sudest asiatico e ripreso da “DefenseNews”.
      TAI aveva presentato il suo Anka, un sistema di velivoli senza pilota a media altitudine e lunga resistenza, alla fiera della difesa e dell’aerospazio LIMA nel 2019. Il 18 agosto 2022 il re malese Al-Sultan Abdullah ha visitato le strutture di TAI ad Ankara, in Turchia. Il 7 ottobre TAI ha annunciato un memorandum d’intesa per una collaborazione con il MIMOS, il centro di ricerca e sviluppo della Malesia. Ma perché la Malesia è alla ricerca di queste macchine da guerra? Le forze armate e la Guardia Costiera della Malesia sono impegnate nella lotta alla pirateria lungo le sue coste, inoltre è loro demandato a livello internazionale il controllo e l’antiterrorismo nel Mare di Sulu (tra la Malesia orientale e le Filippine meridionali, dunque all’interno del quadro anticinese del noto contenzioso nel mar cinese meridionale sulle Spratly Island e nello strategico controllo dello Stretto di Malacca).
  • La famiglia di droni Anka è in grado di svolgere missioni di ricognizione, acquisizione e identificazione di obiettivi e raccolta di informazioni. È dotata di tecnologie elettro-ottiche/infrarosse e radar ad apertura sintetica. Il produttore afferma che i velivoli hanno capacità di volo autonomo e possono decollare e atterrare da soli.La famiglia di UAV ha un’apertura alare di 17,5 metri e una lunghezza di 8,6 metri, e ha un tetto di servizio di 30.000 piedi. Possono rimanere in volo all’altitudine operativa di 18.000-23.000 piedi per più di 30 ore.
    • A metà ottobre il Kazakistan e la Turchia hanno annunciato l’intenzione di sviluppare una “cooperazione strategica a lungo termine” che preveda la coproduzione di satelliti e altri sistemi spaziali.
    • «Questo è il primo passo di una forte cooperazione con il Kazakistan nel campo dello spazio. Il memorandum d’intesa che abbiamo firmato con le società Kazsat e Ghalam sulla creazione di una cooperazione strategica a lungo termine nei settori dei satelliti e dello spazio sarà vantaggioso per il nostro paese e la nostra nazione» (Ismail Demir, Tai)

    • Infatti in maggio, secondo le informazioni di “DefenseNews“, era stato firmato un protocollo tra Kazakhstan e Turchia per la coproduzione di droni da gettare sul mercato Asean e produrre in quella che è la prima fabbrica di Bayraktar fuori dai confini turchi, con contratto che prevede anche manutenzione e riparazione. E quell’accordo faceva seguito a quello di aprile con il Kirghizistan che aveva firmato per primo un accordo per l’acquisto di un numero imprecisato di droni armati: infatti  Bishkek aveva pregato Ankara di soprassedere alla vendita dei letali droni a Dushanbe, alla luce delle tensioni sul confine (e questo spiega la rincorsa al riarmo dei due paesi dell’Asia centrale, sfruttata da Ankara per raddoppiare le vendite).
  • Il drone può essere equipaggiato con armi come il lanciamissili a lancio aereo Roketsan Smart Micro Munition e la capsula missilistica guidata Cirit da 2,75 pollici nelle due stazioni d’armamento sotto l’ala per ingaggiare veicoli leggermente corazzati, personale, rifugi militari e stazioni radar a terra. Un evidente monito per le mire espansionistiche di Mosca.
    • L’aggressività non solo verso il mercato della industria bellica turca si appropria anche di ricerche straniere, come quelle che consentono al criminale Erdoğan di arrivare al drone-elicottero: infatti Antonio Mazzeo spiega che questo velivolo è un sistema a pilotaggio remoto che potrà essere impiegato a fini civili ma soprattutto per missioni bellico-militari di intelligence e ricerca e soccorso. Il prototipo del drone-elicottero è lungo 7 metri, alto 2,35 e ha un diametro del rotore di 6,28 metri; ciò gli consente di essere trasportato in veicoli di medie dimensioni. Il suo peso non supera i 540 kg compresi apparecchiature elettroniche e carburante. L’”Alpin” ha una velocità di crociera di 160 km/h e può coprire un raggio d’azione fino a 840 km di distanza, a un’altitudine di 5000 m. L’autonomia di volo varia dalle due alle nove ore, secondo la portata del carico a bordo.
      Ma perché abbiamo usato il verbo “appropriarsi”? La risposta è nel Blog di Antonio Mazzeo (che cita “DefenseNews”):
    • «L’Alpin è basato sull’elicottero italiano ultraleggero con equipaggio umano Heli-Sport CH-7». Il CH-7 è realizzato infatti dalla Heli-Sport S.r.l. di Torino, azienda fondata dai fratelli Igo, Josy e Charlie Barbaro e specializzata nel design e produzione di velivoli ad ala rotante di ridotte dimensioni. La società si dichiara però del tutto estranea dalla vicenda.

    • In effetti l’Alpin nasce da un accordo tra la Titra turca e la Uavos californiana per convertire il CH-7 in elicottero a pilotaggio remoto: la trasformazione dei velivoli italiani in droni-elicotteri è stata avviata dalla statunitense Uavos, mentre il primo test di volo è stato effettuato nel dicembre del 2020 nei cieli della Turchia.

«L’Alpin è stato progettato per andare incontro alle richieste specifiche ed uniche della Turchia e agli interessi speciali della sua industria nazionale per operare come sistema a pilotaggio remoto in una varietà di scenari complessi nei campi civili e della sicurezza», riporta la nota emessa da Uavos a conclusione delle attività sperimentali in territorio turco. «L’elicottero convertito è indispensabile per l’industria logistica dei velivoli senza pilota per trasportare carichi in zone difficili da raggiungere e sfornite di campi di atterraggio». E viene subito in mente la configurazione del Rojava.

La Turchia – benché socio alla pari nelle concertazioni strategiche di Astana – produrrà entro due anni i tanto decantati Bayraktar TB2 in Ucraina: benché più leggeri e meno efficienti nel contrasto di un attacco aereo, i droni turchi secondo l’Agi saranno già in grado di contrastare quelli iraniani.

    • «l’Ucraina ha un ruolo di primo piano nella catena di approvvigionamento di Baykar, in particolare con il nuovo drone pesante Akinci e il jet da combattimento senza pilota Kizilelma, attualmente in fase di sviluppo, montano entrambi motori ucraini MotorSich» (“Analisi Difesa”).

Secondo Barayktar molto presto i droni turchi TB2 e Akinci potranno colpire con buona efficacia oggetti in volo grazie all’integrazione del sistema di difesa Sungur prodotto da Roketsan, mentre i droni iraniani sono pesanti e rumorosi, sono obiettivi facili perché volano a bassa quota.

Invece quelli turchi sono stati opzionati anche dal governo polacco, che ha ricevuto a ottobre 6 dei 24 TB2 comprati.

19 novembre

    • Comprare gas dalla Tunisia con veicoli militari antimigranti

      • LaLa Francia ha portato a Djerba 200 milioni di prestiti in occasione della Organisation internationale de la Francophonie; ma ha anche consegnato alla Tunisia il primo lotto di una donazione comprendente cento veicoli militari fuoristrada Masstech T4 prodotti da Technam in occasione della ventinovesima sessione della Commissione militare franco-tunisina svoltasi dal 15 al 17 novembre nella capitale del paese nordafricano e documentata da “Tuniscope”; i veicoli sono palesemente utili nel contenimento dei migranti. L’ambasciata di Francia a Tunisi sulla propria pagina Facebook ha precisato che durante i lavori della commissione è stato tratto “un bilancio molto soddisfacente” in termini di cooperazione bilaterale per il 2022. In particolare, sono state svolte 60 attività in Francia o Tunisia.Ma quella più interessante è volta a ristabilire l’asse militare tra le due sponde mediterranee:

        «Per Saied – afferma il politologo francese Vincent Geisser rilanciato da “Africanews” – ospitare questo vertice è “un successo” perché lo porterà fuori dal suo isolamento almeno temporaneamente. È una sorta di pacificazione nei suoi rapporti con i suoi principali partner occidentali, userà questo evento per legittimare una svolta autoritaria fortemente criticata».

    • In cambio la Francia cerca di comprarsi gas in quella che era la sua casa coloniale.

  • Questo veicolo, costruito a partire da un telaio Toyota Land Cruiser HZJ76, è blindato, dotato di griglie di protezione contro le proiezioni e di cinque punti di armamento. È in servizio con l’esercito francese sul territorio francese e in OPEX nel Sahel. Viene utilizzato anche dall’esercito reale giordano (“MenaDefense”)

10 novembre

  • Corsa al riarmo in Africa

    • Nel dossier dell’“Atlante delle guerre” a marzo si leggeva: «In Africa subsahariana i cinque maggiori importatori di armi sono stati Angola, Nigeria, Etiopia, Mali e Botswana. Resta un grande importatore l’Egitto che con il più 73% diventa il terzo importatore di armi a livello globale».

    • L’Etiopia ha usato abbondantemente le sue dotazioni prima di arrivare agli accordi di metà novembre: dopo due anni e un numero imprecisato di morti compreso tra mezzo milione e un milione di vittime (qui un intervento di Matteo Palamidessa raccolto da Radio Blackout).

    “Il genocidio atroce e diffuso nel Corno d’Africa”.

  • Il Mali (e il Sahel nella sua integrità) è alle prese con la necessità di difendersi dai tagliagole jihadisti dotati di armi sofisticate e dunque gli eserciti – affrancatisi da operazioni coloniali francesi, ma così indeboliti – cercano di procurarsi strumenti per liberarsi dalla tenaglia dell’insorgenza, come ci ha raccontato Edoardo Baldaro:
  • Collegata a questa situazione è la notizia lanciata da un tweet postato il 5 novembre da “Spoutenik en Français” (palese indirizzo filorusso) relativa alla richiesta a Mosca per l’acquisto di due elicotteri da parte del Burkina di Ibrahim Traoré nel quadro di un trattato di cooperazione con la Russia di Putin (che affonda le radici nei legami intrecciati tra paesi africani che hanno avviato il proprio distacco dall’Occidente con l’appoggio dell’Urss).

Gli elicotteri sono tra le macchine a uso bellico più ambite nel continente, come documenta Antonio Mazzeo nel suo blog il 10 novembre facendo cenno a una triangolazione di 6 velivoli T-129 “Atak” prodotti in Turchia da Turkish Aerospace Industries su licenza di AgustaWestland (della infinita galassia Leonardo spa) per il governo nigeriano al costo di 61 milioni di dollari. Come sottolinea Mazzeo, la versione turca dell’“Atak” (in uso in Siria, Iraq, Filippine e in futuro in Pakistan) sfodera nuovi sistemi di individuazione e tracciamento dei bersagli ed è dotato di razzi non guidati da 70 mm e missili anticarro L-Umtas.

  • «Nel bilancio della difesa nigeriano per il 2023 è previsto anche uno stanziamento di 4,5 milioni di dollari per l’acquisto di due elicotteri AW109 “Trekker, prodotti in Italia da Leonardo SpA. nel corso di un seminario delle forze armate nigeriane tenutosi a Ibom lo scorso 27 ottobre, il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica Oladayo Amao avrebbe confermato l’intenzione di acquisire 24 caccia bimotori M-346 “Master” realizzati negli stabilimenti di Varese-Venegono di Leonardo» (“DefenceWeb”).

  • L’AW109 aveva già riscosso un enorme successo ad agosto al Labace brasiliano:
  • «L’AW109 Trekker, il primo gemello leggero di Leonardo a offrire un carrello di atterraggio a pattino, mantiene la cellula dell’AW109 Grand, l’ampia cabina e le prestazioni di prim’ordine, offrendo al contempo un maggiore carico utile a un costo competitivo, dimostrando così di essere perfettamente in grado di soddisfare i severi requisiti degli operatori in termini di capacità ed economicità. L’AW109 Trekker è dotato di una cabina di pilotaggio in vetro di ultima generazione di Genesys Aerosystems che può essere configurata in base alle esigenze del cliente» (“DGualdo”, un sito evidentemente promozionale di Leonardo)

  • Oltre all’indubbio affare per Leonardo, si può ipotizzare che il gigante africano immagini un innesco di conflitti nell’area… e forse l’odore di bruciato comincia a farsi più forte nella situazione del Nord Kivu, come illustrato in questo intervento di Massimo Zaurrini:
  • “Rischio di Terza guerra mondiale africana dei Grandi Laghi?”.
  • Dunque la Nigeria si sta riarmando potentemente, è sufficiente elencare i prodotti opzionati, prenotati, comprati, acquisiti che riporta “DefenceWeb”, oltre ai T-129 citati da Mazzeo e ai due AW109: gli Stati Uniti hanno approvato la possibile vendita di 12 AH-1Z alla Nigeria nell’ambito di un potenziale accordo da 997 milioni di dollari che include armi ed equipaggiamenti (nonostante i forti dubbi riguardo il mancato rispetto dei diritti umani del regime di Abuja); riceverà due aerei da trasporto C295 da Airbus, agognati dal 2016. La proposta di bilancio della Difesa nigeriana per il 2023 include finanziamenti per la manutenzione degli L-39ZA, degli Alpha Jet e propone 2,7 miliardi di dollari per tre aerei da sorveglianza/attacco MF 212 costruito dalla Magnus Aircraft nella Repubblica Ceca e 3 miliardi (6,8 milioni di dollari) per tre elicotteri Bell UH-1D.
    La BVST ((Belspetsvneshtechnika, ditta bielorussa) ha già collaborato con l’aeronautica nigeriana, fornendo la manutenzione degli elicotteri Mi-35 e l’addestramento; ora ha trasformato gli MF212 in velivoli armati ideali per compiti di sicurezza interna, sorveglianza e pattugliamento. A quanto pare, può essere equipaggiato con un gimbal elettro-ottico iSKY-30 HD e con missili R-60-NT-L o R-60-NT-T-2. In Ottobre il capo di stato maggiore Odalayo Amao aveva già dichiarato che l’Aeronautica militare nigeriana prenderà in consegna due turboelica Beechcraft King Air 360, quattro aerei di sorveglianza Diamond DA 62 e tre veicoli aerei senza pilota (UAV) Wing Loong II. Oltre a dozzine di velivoli ordinati tra il 2016 e il 2021.

Peraltro il mercato africano – ovviamente con le sue richieste. Le disponibilità di spesa e i bisogni commisurati alla tipologia di conflitti che nell’enormemente vasto territorio che costituisce condizioni di combattimento differenti – mette sul piatto finanziamenti corrispondenti alla percezione di pericolo o di preparazione di guerre e quindi mette in piedi una propria frequentata fiera. La biennale Africa Aerospace and Defense Expo di Centurion in Gauteng (Sudafrica) si è tenuta a fine settembre, proiettando in questi ultimi mesi di 2022 le prospettive di collocazione su piazza del nuovo bombardiere B-21 Northtorpe, forse non a caso presentato in Sudafrica per le sue prerogative di deterrenza, come spiega “BreakingDefense” nelle parole del generale dell’aeronautica Jason Armagost riguardo il sistema Sentinel di cui il bombardiere è parte: « Sentinel sarà altamente resiliente e flessibile. Non solo per la nostra sicurezza, ma anche per garantire i nostri partner e alleati in tutto il mondo. Si tratta di una capacità evolutiva e sono state prese decisioni deliberate su come renderla efficiente con l’infrastruttura che abbiamo, e su come modernizzare la capacità per rimanere flessibile con sistemi di missione aperti e un’architettura digitale per evolvere con ambienti di minaccia in evoluzione», sembra la descrizione del panorama fluido africano. Il B-21 verrà definitivamente svelato il 2 dicembre assicura “MilitaryTimes”: probabilmente i paesi del continente africano non si potranno permettere questo bombardiere presentato a casa loro, ma potranno svuotare gli arsenali dei bombardieri che diventeranno obsoleti dopo l’avvento di questa macchina.

Più alla portata delle casse africane è il drone greco Archytas e soprattutto il Mwari aircraft con scopi multipli e infatti già venduto a molti paesi africani; e di quei paesi elencati all’inizio di questa scheda il Botswana probabilmente prenoterà i suoi droni in funzione antimigratoria, e allo scopo i droni presentati alla fiera sudafricana descritta nel video della scheda di ottobre fanno al caso.

AW109 Trekker

GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE Traffico 2022

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]]> Caro fratello Assad, ti va un panino insieme?! https://ogzero.org/caro-fratello-assad-ti-va-un-panino-insieme/ Mon, 02 Jan 2023 00:29:02 +0000 https://ogzero.org/?p=9934 Il 28 dicembre si è svolto a Mosca un vertice a tre con la partecipazione del ministro della Difesa turco Hulusi Akar e il generale Ali Mahmoud Abbas, alla presenza del ministro della Difesa russo Sergey Shoigu nell’ottica della svolta turca per cambiamenti politici e trasformazioni globali – in riavvicinamento e riconciliazione con Damasco per […]

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Il 28 dicembre si è svolto a Mosca un vertice a tre con la partecipazione del ministro della Difesa turco Hulusi Akar e il generale Ali Mahmoud Abbas, alla presenza del ministro della Difesa russo Sergey Shoigu nell’ottica della svolta turca per cambiamenti politici e trasformazioni globali – in riavvicinamento e riconciliazione con Damasco per «la necessità di porre fine alle differenze e raggiungere soluzioni che servano gli interessi della regione». Secondo al-Watan si tratta del risultato finale di diversi incontri avvenuti in precedenza tra i servizi di intelligence e la Turchia avrebbe contestualmente accettato un completo ritiro dal conflitto siriano; oltre al riconoscimento da parte di Ankara del rispetto per la sovranità e l’integrità territoriale della Siria; sarebbe stata discussa anche l’attuazione dell’accordo concluso nel 2020 per l’apertura della strada M4.
È stato pianificato dal Cremlino a breve un incontro tra i ministri degli esteri e infine, sempre nella capitale russa, il vertice Erdoğan-Assad. Evidente che per l’ennesima volta il presidente turco intende sfruttare a proprio favore la situazione siriana, sabotando l’autonomia curda e nello stesso tempo rimandando in patria i profughi siriani residenti attualmente in Turchia. Due carte da giocare nelle prossime elezioni presidenziali. Intanto si continua a vellicare l’istinto militarista, vera continuità tra potere ottomano, kemalista e neo-ottomano di Erdoğan, con un costante riarmo e investimenti in produzioni belliche

In questo processo, che è evidentemente il proseguimento dello spirito di Astana nell’ambito più precipuamente della Guerra siriana per cui si è manifestato inizialmente, le parti riunite hanno confermato che il Pkk, con le sue emanazioni siriane Ypg-Ypj, è una milizia per procura di America e Israele e rappresenta il pericolo maggiore per la Siria e la Turchia. L’articolo che proponiamo è stato completato da Murat Cinar il giorno prima di questo incontro, ma già da quasi un mese ci stava lavorando,  avendo avuto sentore della direzione in cui si stavano evolvendo gli eventi geopolitici in Mesopotamia.

Fin qui l’introduzione di OGzero, la parola a Murat…


Retaggio ottomano

Tra Turchia e Siria c’è un confine di 911 chilometri. I due paesi hanno iniziato a avere un rapporto complicato sin dal crollo dell’Impero Ottomano; confini, acqua, formazioni armate, rapporti commerciali, energia, rifugiati, traffico di droghe e persone e infine spese militari. Oggi sembra che sia giunto il momento di aprire l’ennesimo “nuovo capitolo”.

Un passato importante lungo l’Eufrate

L’Eufrate è uno dei due fiumi che danno il nome alla Mesopotamia. Nasce nel territorio della Repubblica di Turchia ma cresce e prosegue il suo percorso verso lo Shatt-al Arab attraversando la Siria. Innegabile l’importanza di questa fonte d’acqua, ma anche che ne scaturiscano conflitti e manovre politiche. Sia Ankara che Damasco, tranne alcuni momenti nella storia, hanno sempre voluto sfruttare questa risorsa comune come elemento di ricatto e non di cooperazione. In Turchia, sia il governo di Süleyman Demirel sia quello di Turgut Özal sono stati sempre sostenitori, negli anni Settanta e Ottanta, dell’idea che Ankara avesse il diritto di controllare totalmente il regime delle acque. Infatti la costruzione del megaprogetto delle dighe (Progetto del Sudest Anatolia) aveva l’obiettivo di risultare una opportunità di ricatto ai danni del regime di Damasco.
Ovviamente il fatto che la Turchia fosse sempre stata un fedele membro della famiglia Nato e la Siria fosse l’alleato numero uno dell’Unione Sovietica in zona ha fatto sì che la rivalità tra questi due vicini risultasse come una sorta di “guerra fredda” di riflesso per procura.

Il ruolo in commedia del Pkk

Senz’altro la nascita e la crescita negli anni Settanta e Ottanta dell’organizzazione armata Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ha un po’ scombussolato la situazione. Soprattutto dopo la decisione da parte dell’organizzazione di lasciare, quasi totalmente, il territorio della Repubblica di Turchia e creare le proprie “basi” e “accademie” in Siria, le relazioni tra questi due vicini sono diventate molto complicate. Dalle lezioni di “sicurezza nazionale” presso le scuole pubbliche alle dichiarazioni dei governatori, dal linguaggio dei media fino alle scelte politiche dei governi che risiedevano ad Ankara ormai la presenza del Pkk per la maggior parte della società turca risultava essere un enorme problema e una notevole minaccia. Ormai la vicina Siria ufficialmente “sosteneva i terroristi”.

La svolta di Adana

Infatti proprio su questo tema nel 1998 fu firmato l’Accordo di Adana tra questi due vicini. Un accordo che impegnava Damasco a collaborare con Ankara nella sua “lotta contro il terrorismo”, perché ormai per la Turchia la presenza del Pkk sul territorio del vicino era un “casus belli”. Proprio in quel periodo, ottobre 1998, mentre si consolidava per la prima volta una collaborazione del genere, Abdullah Öcalan (“Apo”), il leader storico del Pkk che viveva da anni in Siria, dovette lasciare il paese e nel giro di pochi mesi a Nairobi in Kenya fu arrestato dai servizi segreti turchi. Öcalan, condannato all’ergastolo, vive tuttora in isolamento in un carcere speciale sull’isola di Imrali in Turchia.

Il progetto del Grande Medioriente

Pochi anni dopo l’arrivo al potere dell’Akp (Partito dello Sviluppo e della Giustizia) i rapporti tra Ankara e Damasco si consolidano ancora di più. La Turchia lavorava come intermediario nei tentativi di dialogo tra Israele e Siria che si svolgevano a Istanbul e il presidente siriano, Bashar al-Assad, insieme a sua moglie decideva di fare le vacanze a Bodrum in Turchia, incontrando l’attuale presidente della repubblica, Recep Tayyip Erdoğan che all’epoca era il primo ministro. Proprio in quel periodo Erdoğan si intestava, in diretta tv, la copresidenza del Greater Middle East Project, ideato e promosso dall’allora presidente statunitense George W. Bush con l’obiettivo di creare una zona di collaborazione e alleanza tra i paesi di maggioranza musulmana, dai Balcani fino all’Asia orientale.

Una nuova fase

In alcuni incontri del 2004 tra i paesi della Nato e del G8 erano persino state organizzate delle presentazioni per annunciare alcuni dettagli di questo progetto, che secondo alcuni analisti rappresentava un tentativo di allargamento non ufficiale della Nato con l’intento di limitare lo spazio di manovra dei paesi ancora comunisti e socialisti. A dirigere questo progetto c’era anche Erdoğan, quindi il rapporto intercorrente tra Ankara e Damasco diventava fondamentale.
A quest’ondata di cambiamenti in positivo per una collaborazione amichevole tra i due paesi si può aggiungere l’abolizione del visto tra i due paesi nel 2009 e una serie di accordi commerciali straordinari firmati tra Erdoğan e Assad soprattutto nell’ottica delle privatizzazioni che il governo di Damasco aveva avviato.

La guerra per procura

Senz’altro la guerra per procura ancora in corso in Siria ha cambiato radicalmente le carte in tavola. L’instabilità generalizzata che domina tuttora in Siria è partita nel 2011 con le prime rivolte popolari. In poco tempo l’infiltrazione dei servizi segreti delle terze parti, la nascita e la crescita delle formazioni armate terroristiche sostenute da numerosi paesi vicini e la presenza dei soldati di vari paesi hanno fatto sì che ormai la guerra in Siria potesse essere definita come una proxy war.

Le prime reazioni e scelte

«Assad è come Mussolini, lasci il suo potere. Prima che scorra ulteriore sangue lasci la sua poltrona».

Subito dopo le prime manifestazioni che hanno ricevuto la risposta dura di Damasco, erano queste le parole pronunciate da Recep Tayyip Erdoğan. Una posizione netta e chiara, assunta nel lontano 2011, dichiarata durante il suo intervento nel gruppo parlamentare dell’Akp.
All’inizio della guerra in Siria il piano di Ankara era quello di fare il possibile perché Assad lasciasse il suo potere. In quest’ottica nel 2014 aveva anche partecipato agli incontri di Ginevra con l’intento di creare un nuovo percorso per la ricostruzione politica e amministrativa della Siria. Nel mentre non mancavano le dichiarazioni forti e convinte di Erdogan:

«Il Presidente siriano ha ucciso circa un milione di cittadini suoi. In realtà stiamo parlando di un terrorista che sparge il terrorismo di stato. Non possiamo dialogare con una persona del genere, non sarebbe corretto nei confronti di un milione di siriani assassinati».

Le prime milizie antisiriane e il ruolo dell’Isis

Sempre nello stesso periodo, in collaborazione con l’amministrazione statunitense dell’epoca, Ankara aveva avviato i lavori per l’addestramento delle prime brigate dell’Esercito libero siriano (Fsa) con l’intento di creare un corpo militare che potesse lottare contro il regime di Damasco. Successivamente questa forza in parte è scomparsa, in parte ha aderito alle formazioni terroristiche e in parte ha collaborato con Ankara.


Quel periodo fu molto importante per la Turchia e per il resto del Medioriente. La nascita e crescita dell’Isis ha rimescolato i piani: soprattutto i lavori di reclutamento dei nuovi adepti, l’utilizzo di territori senza rispetto del confine e la creazione di nuove fonti di guadagno in Turchia, da parte dell’organizzazione terroristica, hanno fatto sì che Ankara ormai fosse direttamente coinvolta nella guerra in Siria. Alcune intercettazioni relative alle riunioni dei servizi segreti turchi, varie dichiarazioni rilasciate da parte di numerosi esponenti del governo e la posizione dei mezzi di propaganda rivelarono quanto poco Ankara fosse dispiaciuta della presenza dell’Isis in Siria. Alla fine della partita avrebbe potuto anche rendere più “facile” la caduta di Assad.

Tuttavia sono successe tre cose che hanno ribaltato ancora un’altra volta i piani.

L’alba degli Accordi di Astana

Mosca in Siria

Innanzitutto la Russia, insieme all’Iran, decise d’intervenire militarmente in Siria per salvare Damasco che stava subendo dei gravi colpi in questa guerra. Ormai chiunque avesse avuto l’intenzione d’immischiarsi con gli affari interni della Siria era obbligato a dialogare con Mosca e Teheran.

Confederalismo democratico in Rojava

Poi la nascita del Confederalismo democratico con il protagonismo delle sue forze armate nella lotta contro l’Isis fece sì che a livello mondiale la nuova esperienza politica ed economica guadagnasse credibilità e rispetto. Questo punto ovviamente era un problema per Ankara dato che dietro il progetto del Confederalismo democratico che sorgeva, come zona autonoma nel Nord della Siria (il Rojava), c’erano una serie di attori molto “problematici” come Öcalan e Pkk. Nel 2012 il Partito dell’unione democratica (Pyd) dichiarava la nascita delle unità di difesa popolari (Ypg-Ypj) impegnate nella lotta contro il terrorismo fondamentalista nella regione.

Isis in Turchia

Infine gli attentati dell’Isis sul territorio della Repubblica di Turchia che causarono la morte di centinaia di persone in meno di due anni coinvolgevano ancora di più Ankara in questa guerra che era in corso ormai da quasi cinque anni. Alla lista di priorità nuove si aggiungeva la lotta contro l’Isis che ormai era una netta minaccia contro la sicurezza nazionale per la Turchia.

Forzata alleanza

Per risolvere i suoi problemi Ankara si trovava ormai obbligata a consolidare i rapporti con la Russia per poter agire in Siria. Oltre a ciò le Ypg-Ypj non potevano essere degli interlocutori dato che erano i cugini degli storici “terroristi” per Ankara. Anche se per poco un tentativo di dialogo con Salih Muslim era stato fatto. Muslim è il leader politico del partito politico siriano Pyd – la forza non armata dominante in Rojava. Tuttavia in poco tempo questo tentativo si è concluso senza successo. Secondo alcuni analisti perché Ankara aveva proposto al Pyd di lottare contro Assad in collaborazione con l’Esercito libero siriano, invece il Pyd ha rifiutato la proposta decidendo di non prendere parte nella guerra in Siria e proseguire per la sua strada. Questa “terza scelta” non prevedeva né di collaborare con la Turchia né di sostenere Damasco.
Relativamente a quest’ultimo punto non si può ovviamente tralasciare il fatto che il tentativo di dialogo tra lo stato e il Pkk, in Turchia, sia fallito proprio nel periodo in cui le Ypg-Ypj acquisivano più credibilità a livello internazionale nella loro lotta contro l’Isis.


Dunque si tratta di un momento che ha creato una notevole preoccupazione strategica per Ankara.

Le “operazioni speciali” turche in Siria

Dunque nel 2016, poche settimane dopo il fallito golpe in Turchia e in pieno stato d’emergenza, Ankara decise di avviare la sua prima operazione militare. Gli obiettivi erano 3: lottare contro l’Isis, contro le Ypg-Ypj e contro il governo centrale. Da quel momento a oggi sono passati circa 7 anni e la Turchia, ufficialmente, ha lanciato 4 altre operazioni aumentando nel Nord della Siria la sua presenza militare, politica e economica. Ankara è stata accusata in questo periodo di avviare anche una campagna di cambiamento culturale e demografico della zona provando a cancellare l’identità curda e distruggendo i segni del Confederalismo democratico.

Equilibrismi tra Nato e Russia

In questo gioco molto delicato e pericoloso Ankara ha dovuto gestire i rapporti con la Russia e con i suoi alleati della Nato presenti sul territorio. Non è stata una partita facile perché quanto più il tempo passava, tanto Ankara diventava sempre più dipendente dalla Russia anche al di fuori dalla guerra in Siria: turismo, accordi energetici, agricoltura, investimenti militari, presenza dei servizi segreti, centrali nucleari…

Quest’avvicinamento ovviamente presupponeva una sorta di allontanamento parziale e graduale dalla famiglia della Nato anche se la Turchia restava sempre un membro del patto transatlantico e l’unico membro fortemente presente sul territorio siriano.

Freddezza tra Turchia e UE

Il rapporto consolidato, delicato ma anche fragile tra Ankara e Mosca con la nascita del conflitto armato in Ucraina è entrato in una nuova fase. Il rapporto con la Nato e con l’UE invece è diventato sempre più debole e oggi lo possiamo considerare come una “collaborazione strategica” più che alleanza. Tra Ankara e Nato in tutto questo tempo ci sono state delle divergenze: dai processi per evasione fiscale e frode, all’embargo non rispettato contro l’Iran, fino ad arrivare agli accordi militari con Mosca e l’acquisto degli S-400. Oggi l’Isis sembra essere morto oppure in coma e l’esperienza del Confederalismo Democratico molto indebolito, accerchiato e in parte anche distrutto.
Invece a Damasco è ancora al potere Assad.

Nuova fase dopo l’“operazione speciale” in Ucraina

Oggi Ankara ha deciso di riprendere, gradualmente, il dialogo con il presidente siriano. Il 27 novembre 2022 l’attuale presidente della Repubblica di Turchia ha rilasciato queste dichiarazioni dopo aver inaugurato il ripristino delle relazioni con l’Egitto:

«Ci sono diversi paesi che vogliono approfittare delle relazioni precarie del nostro paese con i paesi del Golfo. Non glielo possiamo permettere. Come abbiamo ripristinato le relazioni con l’Egitto in futuro possiamo fare la stessa cosa anche con la Siria».

Proprio in quei giorni l’agenzia di notizia internazionale Associated Press pubblicava un articolo in cui sosteneva che Erdogan avesse mandato una lettera ad Assad invitando l’esercito siriano di riprendere in mano le zone liberate delle Ypg-Ypj e chiedeva a Damasco di collaborare per il rimpatrio dei siriani presenti in Turchia, ormai circa 4 milioni.
Pochi giorni dopo, il 15 dicembre, sempre lo stesso Erdoğan, sull’aereo, al rientro dal Turkmenistan ha deciso di concretizzare la sua proposta, parlando con i giornalisti a bordo:

«Vorremmo fare un incontro a tre con la Russia e la Siria. Prima si impegneranno i servizi segreti e poi i Ministri di Sicurezza Nazionale. Dopo questi potrebbero incontrare anche i leader. Ne ho parlato con il Presidente Putin anche lui è d’accordo. Così possiamo iniziare a una serie di incontri».

Mentre Mosca accoglieva con piacere questa proposta, dalla Siria arrivavano le prime dichiarazioni scettiche: Pierre Marjane, parlamentare siriano responsabile delle Relazioni esteri del parlamento, il 29 novembre rilasciava queste dichiarazioni a un giornale in Turchia, “Kisa Dalga”:

«Potremmo dialogare con la Turchia tuttavia deve ammettere che ha finanziato e addestrato le forze armate terroriste e le ha fatte entrare in Siria. Poi deve dichiarare che è pronta a ritirarsi dalla Siria».

Ovvero: lo stato dell’arte

Infatti – secondo una serie di osservatori internazionali, alcuni governi stranieri e una serie di giornalisti che lavorano in Turchia – l’attuale governo ha sostenuto direttamente oppure indirettamente alcune organizzazioni terroristiche fondamentaliste che hanno agito in questi anni in Siria. Questo punto ovviamente ha causato sempre le reazioni dure di Damasco: a oggi la Turchia risulta presente militarmente sul territorio siriano in modo massiccio, tanto che solo nel 2021 il numero di truppe impegnate contava più di 10.000 soldati.

Tra le parole pronunciate da Marjane si vede anche un riferimento all’Accordo di Adana firmato nel 1998. Secondo il parlamentare siriano sarebbe necessario prenderlo in mano e applicarlo. In realtà si tratta di una premessa ch’era stata fatta negli incontri di Astana nel 2019 tra Mosca e Ankara. Dunque oggi la situazione in cui ci troviamo ci fa capire che, a grandi linee, l’intenzione sia di tornare alle condizioni del 2010: prima delle rivolte arabe.

“Erdoğan esagerato: un dittatore rilancia sempre nuove pretese”.

Come mai?

Le risposte sono tante. Potremmo studiare questa sezione concentrandoci sulle motivazioni legate alla politica interna ma anche estera.

Elezioni del 2023

Se guardiamo la politica interna senz’altro la profonda crisi economica che strozza la Turchia rappresenta un problema per Ankara soprattutto alla luce delle elezioni del 2023. L’inflazione alle stelle, la fuga dei giovani, le opposizioni sempre più compatte e il caro vita ogni giorno fa perdere punti a Erdogan nei sondaggi.
Le spese militari in Siria forse per Ankara risultano ormai difficilmente sostenibili e un rapporto commerciale (soprattutto petrolio) regolare con il vicino confinante per più di 900 km potrebbero essere una soluzione.

I rifugiati in ostaggio

Ovviamente la presenza di circa 4 milioni di siriani in Turchia rappresenta un problema per Ankara. Una popolazione in parte proveniente dalle zone, come Afrin, colpite dalla Turchia in questi ultimi anni e “ripulite” delle sue popolazioni curdofone. Un esercito privo di diritti, di persone ricattabili e sfruttate rappresenta il nuovo proletariato a basso salario messo in concorrenza con la mano d’opera locale. Mentre questa contrapposizione può far piacere agli industriali, ma non è gradita ai cittadini che devono fare i conti con la profonda crisi economica. Quindi l’eventuale rimpatrio graduale di queste persone è necessario per Ankara in particolare per riprendere quell’emorragia di voti che defluisce verso quei partiti che da tempo sostengono che “i siriani se ne devono andare”.


Si tratta di un progetto che in prima persona Erdoğan promuove ormai da circa 4 anni:

«Una zona cuscinetto nel nord della Siria, lunga 480 chilometri e profonda 30,  dove sarebbero collocati circa 2 milioni di siriani».

In diversi interventi pubblici e televisivi Erdoğan raccontava il suo progetto di costruire nuove cittadelle in questa zona e collocarci principalmente le persone arabofone. Per fare tutto questo è ormai necessario accettare che a Damasco c’è un interlocutore e parlare con questo anche perché il progetto di Erdogan in questi anni non ha ricevuto riconoscimento né dalla Russia né dalla Nato.

Al posto di Ypg-Ypj: dialogo tra autocrati

Invece nella politica estera molto conta la presenza della Russia in Siria che potrebbe diventare debole, se la guerra in Ucraina non si concludesse a breve. Dunque per Ankara iniziare a costruire ponti con Damasco attraverso un canale di dialogo diretto senza l’ausilio di Mosca potrebbe essere un investimento per quel giorno in futuro quanto Putin deciderà di lasciare definitivamente la Siria. Nel fare questo ovviamente Ankara avrebbe un piatto pronto per Damasco ossia le zone che controlla in Rojava, “bonificate” dalle Ypg-Ypj, che potrebbero essere consegnate a Damasco [come sancirebbero le indiscrezioni di “al-Watan”]. Inoltre ovviamente Ankara vuole mettere le mani avanti per evitare ciò che è successo in Iraq quando si è “conclusa” l’invasione statunitense ossia la nascita di un Kurdistan. Il regime al potere in Turchia senz’altro non ha voglia di avere una zona federale curda che si comporti in modo diverso rispetto a quella irachena che collabora senza problemi con Ankara. Quindi per Ankara ovviamente è meglio avere il governo centrale siriano al di là del confine al posto dei “terroristi”. In quest’ottica spolverare l’Accordo di Adana, che promette una reciproca collaborazione nella lotta contro il “terrorismo” ha molto senso.

Dalla parte della Nato

Sempre bazzicando affari geopolitici il ripristino dei rapporti con Damasco potrebbe fornire ad Ankara come una mossa apprezzata da parte della famiglia della Nato, dato che sarebbe l’unico paese del “club” a dialogare direttamente con Assad. Dunque Erdoğan risulterebbe ancora un importante e irrinunciabile interlocutore. Alla luce delle elezioni generali del 2023 per Erdoğan questo potrebbe dire portare a casa una vittoria importante in termini di credibilità internazionale.

Ma contemporaneamente sarebbe anche una mossa che renderebbe “indipendente” e “privilegiata” la Turchia. Erdoğan potrebbe usare questa novità come un elemento di forza o un ricatto contro i suoi alleati (come ha fatto per contrastare le reazioni ogni volta che ha invaso il Rojava), visto che il suo rapporto con gli alleati è sempre più precario. Le relazioni tra Ankara e Nato sono diventate deboli in questi anni anche perché la scelta di sostenere politicamente e militarmente le Ypg-Ypj è stata definita come un “tradimento” per Ankara dato che queste sigle per il regime in Turchia sarebbero le cugine dei “terroristi”.
Inoltre anche la nascita dell’Esercito Democratico Siriano (Sdf) con il sostegno degli Usa ha creato preoccupazione ad Ankara che temeva la nascita di un esercito curdo in zona. Dunque le scelte radicalmente diverse per quel che concerne la Siria si fondano tuttora sulla grande amarezza derivante dalla tensione che esiste tra Ankara e il resto della Nato. Quindi la manovra di Ankara (per consolidare i rapporti con Damasco) potrebbe fare sì che Erdoğan continui ad agire in Siria con l’intento di creare nuove strategie indipendentemente dalla Nato.

Stuccare vicendevolmente le crepe, perpetuando i relativi poteri

Il 28 dicembre Hulusi Akar, il ministro della Difesa Nazionale, e il capo dei Servizi segreti Hakan Fidan, sono partiti da Ankara per Mosca per incontrare i loro colleghi siriani. L’incontro avvenuto dopo 11 anni di gelo nelle relazioni è stato produttivo secondo Akar: avrebbero parlato della questione dei rifugiati, della lotta contro il “terrorismo”, della difesa dell’integrità territoriale della Siria e dell’espulsione delle forze straniere dal territorio.

Ripristinare i rapporti con la Siria per Ankara ha questi valori. Invece per Damasco ha qualche importanza in più. Nel caso in cui si potesse avviare il progetto congiunto di eliminare il Confederalismo democratico in Rojava e le sue forze (Sdf, Ypg-Ypj) per Damasco significherebbe riprendersi quel quarto del suo territorio occupato e controllare una grande fonte di petrolio e gas che attualmente si trova sotto il controllo di queste forze armate e degli Usa.

Inoltre, per Assad, ripristinare i rapporti con Ankara vuol dire far accettare la sua presenza al potere e archiviare le possibili proposte legate all’abbandono del potere. In quest’ottica per Damasco accettare la proposta di Erdoğan potrebbe sembrare il conferimento di una sorta di vittoria che potrebbe usare nella campagna elettorale del 2023; ma contemporaneamente Assad avrebbe immediatamente un interlocutore già al potere con il quale interloquire senza discutere di tutti i crimini contro il suo popolo da lui commessi durante questa guerra lunga 11 anni. In realtà la situazione rientrerebbe all’interno delle scelte che sta facendo Ankara ultimamente, ossia: il consolidamento dei rapporti direttamente con i leader dei paesi controllati dai regimi o dalle famiglie come l’Arabia Saudita, il Qatar, l’Egitto e gli Emirati Arabi.

Sostanzialmente: due regimi potrebbero trovare un accordo su una serie di temi senza avere “il peso” della giustizia e della democrazia.

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LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A OTTOBRE https://ogzero.org/studium/la-guerra-viene-con-le-armi-lo-spaccio-a-ottobre/ Wed, 23 Nov 2022 22:34:20 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=9604 L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A OTTOBRE proviene da OGzero.

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La guerra nei mercati

I paesi importatori di sistemi d’arma

L’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI) ha registrato 163 stati come importatori di sistema d’arma nel quinquennio 2017–21. I cinque maggiori importatori di armi sono stati India, Arabia Saudita, Egitto, Australia e Cina, che insieme hanno rappresentato il 38% del totale delle importazioni. La regione che ha ricevuto il maggior volume di sistemi d’arma nel periodo 2017–21 è stata quella di Asia e Oceania (43% del totale mondiale), seguita da Medio Oriente (32%), Europa (13%), Africa (5,8%) e Americhe (5,5%). Tra il 2012–16 e il 2017–21, i flussi di armi verso l’Europa e verso il Medio Oriente sono aumentati (rispettivamente del 19% e del 2,8%), mentre sono diminuiti quelli verso l’Africa (–34%), le Americhe (-36%), l’Asia e l’Oceania (-4.7%). La maggior parte dei 163 stati importatori era direttamente coinvolta in conflitti armati violenti o in tensioni con altri stati in cui i sistemi d’arma importati hanno giocato un ruolo importante.

I paesi esportatori di sistemi d’arma

Il SIPRI ha registrato 60 stati come esportatori di sistema d’arma nel quinquennio 2017–21, ma la maggior parte di essi sono piccoli esportatori.
«I primi 25 stati in classifica hanno fornito il 99% delle esportazioni totali con i primi cinque stati in classifica— Stati Uniti (USA), Russia, Francia, Cina e Germania—responsabili del 77% delle esportazioni. A partire dal 1950, USA e Russia (o Unione Sovietica prima del 1992) sono sempre stati di gran lunga i principali fornitori di sistemi d’arma. Nel periodo 2017–21, le esportazioni statunitensi sono state maggiori di quelle russe del 108% mentre nel periodo 2012–16 erano superiori del 34%, un divario destinato ad aumentare. Sempre nel 2017–21 le esportazioni statunitensi hanno coperto il 39% del totale mondiale ed erano superiori del 14% rispetto al 2012–16. Al contrario, le esportazioni della Russia sono diminuite del 26% e le sue quote sul totale mondiale sono crollate dal 24% nel 2012–16 al 19% nel 2017–21».


Il posizionamento del grande esportatore Corea del Sud

Secondo il “SIPRI”, i primi quattro esportatori di armi tra il 2017 e il 2021 sono Stati Uniti, Russia, Francia e Cina, con quote globali rispettive del 39, 19, 11 e 4,6%. La Corea del Sud si è classificata all’ottavo posto con il 2,8%, ma l’amministrazione di Yoon vuole che rientri tra i primi quattro.

SCMP segnala che la Corea punta a superare la Cina nelle esportazioni militari e in effetti ci sta riuscendo ampiamente. In realtà gli ambiti e i mercati sono diversi: nel 2021, quasi il 70% delle esportazioni totali di armi della Cina è stato destinato al Pakistan, mentre la Nigeria si è piazzata al secondo posto con l’8%; nessun paese europeo ha acquistato armi dalla Cina; recentissimo è il contratto favoloso della Rpc con i sauditi. Comunque «si prevede che le tensioni regionali aumenteranno ulteriormente la spesa militare nei prossimi anni e la Corea del Sud è considerata una fonte di armi “molto attraente”». E in effetti si parla di 17 miliardi di dollari di vendite di armi nel 2022 (il doppio dello scorso anno), ringraziando la guerra in Ucraina.

Il posizionamento del grande importatore Polonia

Infatti seguendo il flusso delle armi per scovare le guerre in preparazione, nel 2021 la Polonia aveva speso solo in Sudcorea 7,5 miliardi acquistando armi, a cui si aggiungono 10 miliardi di spesa nei primi 10 mesi del 2022 da parte di Varsavia, perché ci sono pochi paesi in grado di produrre armamenti con così poco preavviso. E dopo il missile ucraino sulla cascina polacca di confine “DefenseNews” informa che Varsavia ha accettato di schierare sulla frontiera i Patriot offerti da Christine Lambrecht, ministra della Difesa tedesca, che ha aggiunto anche Eurofighter Tycoon.

Strategie di fidelizzazione

Non deve stupire la generosità, perché in realtà cerca di inseguire (timidamente) la strategia statunitense che ha investito 8 miliardi di armamenti forniti all’Ucraina, facendo così promozione per i prodotti più efficaci e così acquisendo quote di mercato di armi presso l’Europa orientale e baltica che si approvvigionava in precedenza presso le produzioni europee in vista di un graduale svecchiamento degli arsenali postsovietici, inserendosi così nel processo di riempimento dei magazzini anche svuotati dai paesi limitrofi all’Ucraina per rifornire Kyiv di armi ex sovietiche, più adatte per contrastare la tipologia degli omologhi sistemi di offesa di Mosca.

La catena militare

Ma la fidelizzazione derivante dalla promozione statunitense, mentre ha coronato un completo successo con le repubbliche baltiche e gli altri di Visegrád, ha invece fatto solo parzialmente breccia sul governo polacco, nonostante si proponga come cane da guardia di Washington in ambito europeo: proprio per questa ambizione il governo polacco fa spazio nei magazzini passando agli ucraini gli S-300 di produzione russa, retaggio del passato (come per Bratislava che già a marzo aveva accettato i patriot tedeschi, offrendo in una catena infinita gli S-300 a Kyiv), preludio per l’acquisto di 6 Patriot direttamente dagli Usa, annunciati da Błaszczak, il ministro polacco che rastrella armi dovunque riesce, in particolare dalla Corea del Sud, culminando in ottobre con un contratto da 3,55 miliardi di dollari intercorso tra Polonia e Hanwha Aerospace per l’acquisto di centinaia di sistemi di artiglieria a razzo K239 Chunmoo; il ministro della Difesa polacco Mariusz Błaszczak aveva elogiato i lanciatori Chunmoo, che sono molto simili ai sistemi Himars statunitensi ordinati precedentemente dalla Polonia.

L’intreccio Polonia / Sud Corea

Il governo sovranista di Kaczyński già prima dello scoppio della guerra si candidava a diventare una potenza militare e soppiantare il ruolo della “pacifista” Germania in ambito Nato e ora sta riuscendo nell’intento, a dar retta a “Politico“:

«Sebbene la Germania, tradizionalmente alleato chiave dell’America nella regione, rimanga un perno come hub logistico, gli infiniti dibattiti di Berlino su come far risorgere le sue forze armate e la mancanza di una cultura strategica hanno ostacolato la sua efficacia come partner».

Specularmente – e in modo complementare, visti gli scambi tra le due potenze locali – il governo di destra sudcoreano ha come traguardo quello di superare nella classifica dei maggiori esportatori di armi la Cina. E ci sta riuscendo; entrambe cambiano così il loro peso politico specifico nelle rispettive sfere.

La spesa per la difesa della Polonia nel 2022 ha già raggiunto la cifra record di 58 miliardi di zloty (12,7 miliardi di dollari), Varsavia ha in programma di aumentarla ulteriormente, avendo annunciato ad agosto di voler destinare circa il 3% del suo prodotto interno lordo, ovvero circa 21 miliardi di dollari, alla difesa nel 2023.
Sebbene nessuno metta in dubbio l’ambizione della spesa polacca, alcuni si interrogano sulla sua fattibilità e sulle motivazioni politiche che la spingono. Entro il 2035, il paese intenderebbe spendere 524 miliardi di złoty per il settore militare (forse una trappola per il prossimo governo).

Secondo l’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), l’aumento delle spese militari della Polonia rispecchia una tendenza globale.
Ma la bulimia polacca è viziata sia dalle divergenze con Bruxelles sui diritti civili europei, sia dalla spesa a buon mercato assicurata dalle produzioni di Seul:

«L’attrattiva della Corea è che le sue attrezzature militari sono generalmente più economiche delle alternative americane ed europee e possono produrle in tempi stretti. Gli acquisti sono ovviamente un pugno nell’occhio ai sogni di “autonomia strategica” del presidente francese Emmanuel Macron, che immagina un’Europa in grado di difendersi con armi di produzione propria (probabilmente francese)» (“Politico“).

L’incremento esponenziale e costante della spesa per le armi

I dati dell’Istituto mostrano che nel 2021 la spesa militare globale ha superato per la prima volta i 2000 miliardi di dollari. Si tratta del settimo anno consecutivo di aumento delle spese militari a livello globale.

Kim Mi-jung ha detto che le vendite finali di armi della Corea del Sud per il 2022 potrebbero essere ancora più alte, dato che nel prossimo mese potrebbero essere firmati accordi con la Malesia e l’Arabia Saudita: «Gli armamenti coreani hanno un buon rapporto qualità-prezzo, in termini di prestazioni, e il paese dispone anche di basi produttive in grado di produrre un’ampia gamma di articoli, dall’artiglieria semovente agli aerei, il che rende la Corea molto attraente» (Kim Mi-jung, ricercatore dell’industria della difesa presso il Korea Institute for Industrial Economics and Trade).



GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE NOVEMBRE Traffico 2022

85 %

Avanzamento



Ottobre

26 ottobre

  • Collaborazione israelo-marocchina

    Definitivamente sdoganata dalla amministrazione Trump, la almeno trentennale ”amicizia” interessata tra Tel Aviv e Rabat ha trovato nel biennio successivo agli Accordi di Abramo intercorsi tra i due stati una grande impennata di ordinativi e collaborazioni, che possono condurre solo a un contenzioso sempre più belligerante con l’Algeria da un lato e dall’altro la penetrazione degli interessi di Israele nel quadrante occidentale del Mediterraneo attraverso la testa di ponte offerta dall’alleanza con il Marocco..

  • AnalisiDifesa” ha dato notizia dell’acquisto da parte del Marocco di  150 droni WanderB e ThunderB dall’israeliana BlueBird Aero Systems che erano stati testati durante l’esercitazione Maroc Mantlet 2022, dove si insisteva sull’uso dual: infatti sono macchinari adottati per la sicurezza delle frontiere e la protezione dei convogli e… delle forze armate e a sostegno dell’artiglieria.
  • L’accordo prevede addirittura una produzione parziale in Marocco e il periodico marocchino “Le Desk” attribuisce un valore di 50 milioni all’operazione, titolando sulla presenza di decine di droni della BlueBird israeliana già acquisiti dalle Forces armées royales (Far) a febbraio al costo di 500 milioni di dollari (Reuters); contestualmente il Marocco ha negato l’informazione divulgata da Amnesty International, secondo la quale avrebbe acquistato il sistema spyware Pegasus di Nso.
  • Quei droni possono caricare munizioni circuitanti Harop prodotti da IAI (costo 22 milioni, continuando nella spesa marocchina sul mercato delle armi israeliano) e si prevede l’acquisto di Hermes 450; sempre da Israele la marina marocchina intende acquisire Elbit Hermes 900. In estate anche militari di Tsahal hanno partecipato per la prima volta alle esercitazioni African Lion organizzate dall’esercito americano. Questo è potuto avvenire nonostante proprio a luglio le pressioni del senato americano avessero richiesto di spostare altrove l’esercitazione che periodicamente avviene in Sahara occidentale, proprio per il contenzioso con la Repubblica democratica araba del Saharawi (Rasd), che «potrebbe essere una nuova polveriera» (“DefenseNews”): l’esercitazione si è normalmente svolta nel Sahara occupato, potenza della lobby ebraica?
  • I UAV israeliani andrebbero ad aggiungersi a 3 Harfang francesi, sistemi controdroni Skylock israeliani, 13 Bayraktar TB2 turchi; gli Emirati hanno donato al regno marocchino 3 droni di fabbricazione cinese Wing Loong II; alla General Atomics americana sono stati ordinati 4 MQ9 Reaper Sea Guardian.Sempre “Le Desk” aveva dato notizia della dotazione di droni da parte del Polisario in risposta a questo stormo marocchino, in particolare un drone frutto dell’elaborazione Yabhon United 40, la cui evoluzione algerina ha ottenuto il Al-Jezair 54.
  • Intanto Minurso, la missione Onu nell’area, ritiene di non essere più in grado di svolgere la sua capacità di interposizione, nonostante sia stata prorogata fino al 31 ottobre 2023.

24 ottobre

  • Diversivi mediorientali

    In questioni mediorientali spesso si riesce a ricomporre un puzzle mettendo di seguito partecipazioni, agenzie relative a esercitazioni comuni che esibiscono alleanze e poi movimenti di truppe reali e dichiarazioni, che permettono interpretazioni su uno scenario di conflitti tra potenze locali che possono sfociare a breve in confronti aperti.

    La notizia del 24 ottobre dell’agenzia saudita è che l’Arabia Saudita dal 1° al 25 novembre prende parte con le proprie forze aeree all’esercitazione militare “Aerial Warfare and Missile Defense Centre 2022” che si tiene presso la base di Al Dhafra, negli Emirati Arabi Uniti. L’ applicazione del concetto di azione congiunta in un ambiente di guerra simile alla guerra reale si tiene congiuntamente alle forze di Emirati, Oman, Usa, Gran Bretagna, Francia… dunque una esplicita scelta di campo e di alleanza. Soprattutto per quel che riguarda l’aumento della tensione con Tehran (perché invece per le decisioni dell’Opec che potevano creare difficoltà all’esportazione petrolifera russa i sauditi si sono schierati con il Cremlino).

  • Se poi si va a consultare “Defaiya.com” si possono repertoriare serie di notizie relative a molte acquisizioni di armi. Il varo del primo gruppo di 79 pattugliatori medi ad alta velocità francesi (partecipanti alle esercitazioni di Al Dharfa) della classe Couach da parte delle Forze Navali Reali Saudite, dunque flessibili e leggeri, velocissimi per gareggiare con le imbarcazioni dei pasdaran iraniani (i vascelli includono una sofisticata combinazione di sistemi elettronici come dispositivi di tracciamento, sensori ottici e termici, scambio di informazioni e navigazione marina che consentono loro di svolgere compiti di ricerca, monitoraggio e follow-up attraverso un sistema elettronico altamente intelligente).
  • «Queste imbarcazioni rappresentano un’aggiunta qualitativa alle capacità della RSNF, in quanto contribuiranno ad aumentare il livello di prontezza militare e di sicurezza, a rafforzare la forza di sicurezza marittima nella regione e a proteggere gli interessi vitali e strategici del regno, sottolineando la costante attenzione e il sostegno illimitato della saggia leadership saudita e del ministro della Difesa per sviluppare le forze armate al servizio del paese» (contrammiraglio Yahya bin Mohammed Asiri).

  • A completare il quadro ci sono le dichiarazioni congiunte di funzionari statunitensi (altri partecipanti alle esercitazioni di Al Dharfa) e sauditi al “Wsj” riguardo a informazioni di intelligence su un imminente attacco da parte dell’Iran contro obiettivi nel regno, ponendo le forze armate americane, e altre in Medio Oriente, su un livello di allerta elevato che sfociano immediatamente in potenziali estensioni del conflitto a Iraq (Erbil, in particolare, suggerisce “Formiche.net”). Salvo poi venire in aiuto di Mosca entrambi i contendenti, secondo il “Washington Post”: sia Teheran (droni) che Riyad (mantenendo elevati i prezzi del greggio). Il diversivo che infiammerebbe ulteriormente il quadrante mediorientale dimostrerebbe la necessità dei turbanti di stornare l’attenzione dall’insurrezione interna e dalla fornitura di droni all’esercito russo. Gli Stati Uniti hanno anche affermato che gli iraniani stanno addestrando operatori di droni russi in una base nella Crimea occupata dai russi. Il Centro nazionale di resistenza ucraino, parte delle Forze per le operazioni speciali ucraine, ha riferito questa settimana che gli addestratori di droni iraniani stavano aiutando i russi a coordinare gli attacchi dei droni a Mykulichi, vicino a Gomel, nella Bielorussia meridionale. Il primo vicepresidente iraniano Mohammad Mokhber e alti funzionari della sicurezza iraniana si sono recati in visita a Mosca il 6 ottobre dove, secondo la Reuters, hanno concordato nuove forniture di armi.
  • «I russi hanno chiesto più droni e missili balistici iraniani con una maggiore precisione, in particolare la famiglia di missili Fateh e Zolfaghar», ha detto uno dei diplomatici iraniani… e si torna agli Shahed-136 della scheda del 13 ottobre. Merce di scambio con i sofisticati S-400, già motivo di scontro tra Turchia e Usa:
  • «Anche Israele ha subito crescenti pressioni per aiutare l’Ucraina, poiché la guerra di Putin è sempre più vista come un terreno di prova per droni e armi iraniane che potrebbero essere rivolte contro Israele, uno Stato che l’Iran ha ripetutamente giurato di distruggere.
    L’Iran potrebbe sperare di ribaltare il rifiuto opposto in passato dalla Russia di fornirgli sistemi di difesa aerea S-400 e jet da combattimento avanzati, mosse che metterebbero in allarme l’Arabia Saudita e potenzialmente la Turchia» (“Washington Post”).

18 ottobre

  • SHORt Air Defence: Ucraina come banco di sperimentazioni

    Mentre l’esercito degli Stati Uniti testa i primi prototipi di Stryker di Leonardo Drs, l’esercito russo schiera i sistemi Sam (Surface-to-Air Missile): Tor-M2 con le stesse modalità, che vanno ad affiancare gli Iskander 9K720 e i nuovi Strela-10.
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  • Mentre la Nato (cfr. 11 ottobre) testa fuori dai contesti di guerra guerreggiata i suoi Shorad, intorno a Kherson il sistema russo di difesa si accreditava presso “Il Faro sul mondo” a luglio con un bottino che comprendeva in una giornata l’abbattimento di un elicottero MI8, 9 droni turchi e 10 Hymars. Propaganda in entrambi i casi, come dimostra questo video diffuso dall’esercito russo il 18 ottobre.
  • Oltre a coprire le truppe dai missili, questo sistema di difesa aerea resiste anche ai droni turchi Bayraktar e ad altri bersagli aerei (“Altervista“). Al di là della propaganda il Tor-M2, noto con il nome di rapporto Nato SA-15 Gauntlet, è un sistema missilistico terra-aria di fabbricazione russa completamente automatizzato, prodotto nello stabilimento di Izhevsk Kupol di Almaz-Antey, per fornire un’efficace difesa aerea.
  • Nell’esercito russo, spiega “Defense-Blog“, il set di sistemi di difesa aerea ТOR-М2 comprende quattro batterie di quattro veicoli da combattimento 9А331М ciascuna (per un totale di 16 veicoli da combattimento). Il munizionamento dei SAM 9А331М TOR-М2 prevede 16 nuovi missili guidati antiaerei 9М338К; progettato per abbattere aerei, elicotteri e missili da crociera, antiradar e altri missili guidati. Invece Il SAM Strela-10 è progettato per l’osservazione visiva e la distruzione di obiettivi aerei a bassa quota.
  • Lo Strela-10, noto con il nome di segnalazione Nato SA-13 Gopher, è un sistema missilistico mobile terra-aria a corto raggio. Il sistema è destinato principalmente a colpire minacce a bassa quota, come gli elicotteri. L’SA-13 è basato sullo scafo del veicolo multiscopo cingolato MT-LB. Lo scafo dell’MT-LB è interamente blindato in acciaio saldato con il compartimento dell’equipaggio nella parte anteriore, il motore immediatamente dietro il compartimento dell’equipaggio sul lato sinistro e il compartimento delle truppe nella parte posteriore dello scafo.

13 ottobre

  • Droni. Guerre del presente combattute dai robot (e subite dai civili)

    Quasi un incubo per Isaac Asimov, tanto che se applicassimo le sue leggi della robotica ai droni forse coglieremmo la portata profetica della grande fantascienza scritta durante la ribellione degli anni Sessanta e Settanta alla minaccia di guerra globale conseguente a quella in Vietnam (l’Ucraina dell’epoca, invasa militarmente da una grande potenza). Il 13 ottobre sono stati avvistati droni in avvicinamento nei cieli norvegesi, attualmente il paese che fornisce la maggior  parte del gas agli utenti europei: il primo drone è stato avvistato mentre sorvolava l’impianto di trattamento del gas di Kårstø, nel Sudovest della Norvegia, dopo questo episodio altri se ne sono susseguiti e 7 russi sono stati arrestati dagli scandinavi per questa “invasione”. Quella attività sembra inedita, ma i droni sono protagonisti in tutti i palcoscenici di guerra o di semplice confronto armato o di intelligence; dare conto di ogni episodio riportato dai mezzi di comunicazione è impossibile, molti non sono diffusi ma si può tentare un’esposizione delle molte applicazioni degli strumenti “unmanned”, limitandoci a quelle delle ultime settimane, tentando così un repertorio di nuovi robot.

  • Gli ucraini portano i trofei di 9 droni kamikaze iraniani Shahed 136 (“Geranium” in Russia, “Martiri” in Iran) abbattuti – veicoli nati da apparecchi anglo-americani abbattuti studiati e fabbricati sulla ricerca derivante dalla preziosa cattura; “Washington Post” e Cnn hanno riferito in estate che l’Iran aveva inviato un lotto di veicoli aerei senza pilota in Russia. Secondo le testate, Teheran aveva inviato i droni Mohajer-6, Shahed-129 e Shahed-191 in Russia il 19 agosto.
  • I droni di fabbricazione iraniana utilizzati dall’esercito russo per distruggere impianti di produzione di energia elettrica ucraini e spargere il terrore sono quindi saliti alla ribalta della invasione dell’Ucraina quando i russi hanno cominciato a farne un uso terroristico. La Nato ha assicurato che verranno forniti sistemi di difesa dagli attacchi di stormi di droni che costano tra gli 8000 e i 20.000 dollari (i più cari), ben sapendo che nemmeno gli scudi israeliani assicurano la completa distruzione di una flottiglia di Uav; infatti, contando sull’esaurimento degli stoccaggi di droni autoprodotti dai russi, lo sforzo sarà probabilmente anche quello di intercettare le forniture da parte della Iran Aircraft Manufactoring Industrial Company. Non a caso abbiamo citato il governo di Tel Aviv: proprio la fornitura di munizioni circuitanti Shahed 136 (il dubbio è relativo alla quantità di produzione che Tehran è in grado di assicurare di questi velivoli) ha mosso Israele a consegnare sistemi di difesa a Kyiv contro questi sciami di droni, scegliendo di schierarsi nel campo opposto agli odiati pasdaran, forse perché i droni più efficaci sono quelli turchi e quelli sono venduti all’Ucraina. E così – secondo “Formiche.net” Tzahal fornisce intelligence su droni, informazioni su spostamenti di truppe e sui droni può mutare il reciproco accordo di non interferenza russo-israeliano (plausible deniability).
  • Peraltro sono tante le tecnologie e molti i produttori di marchingegni senza equipaggio: occupano il paesaggio bellico più fosco che si può immaginare, pervaso di stormi di droni, forse i prodotti più ambiti e alla portata dello stato più squattrinato, utili sia per arrecare danni al nemico e scatenare il panico, ma anche per soffocare proteste, controllare intere aree… Questi dispositivi senza pilota sono forse il business più innovativo della filiera; e propone sia merci “popolari”, fabbricate anche facilmente da gruppi di insorti (per esempio gli houti yemeniti con know how iraniano, o hezbollah che attinge alla stessa tecnologia), sia quelle sofisticate come il nuovo drone sommergibile da 50 tonnellate Orca XLUUV della marina americana, raccontato da “NavalNews” (il cui costo è di 242 milioni di dollari e ancora a livello di prototipo, i costi sono lievitati: all’inizio della pandemia erano stati stanziati 274 milioni per 5 sottomarini Orca).

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    • Tre anni fa le peculiarità di questo enorme robot rispondevano a determinate applicazioni: posa- cacciamine, guerra asimmetrica elettronica e missioni “hunter killer”, dotato di missili Mk. 46 e le caratteristiche erano spingerli verso una zona operativa, lasciarli vagare, stabilire comunicazioni criptate. Gli UUV grossi sono più autonomi rispetto ai minori che costituiscono una rete di droni marittimi tra americani e sauditi in funzione anti-iraniana (“WSJ”), o – sempre con il medesimo nemico – quei nuovissimi Saildrone Explorers di un’esercitazione congiunta Usa/Uk (“NavyTimes”), utile per controllare vasti tratti di mare, perché possono stare a lungo in mare tra Suez, Gibuti, Hormuz, ma bisognosi di navi di supporto nelle vicinanze, come rilevava “Si Vis Pacem Para Bellum”, un sito molto appassionato all’arte della guerra, ma forse questo coinvolgimento non basta a spiegare il titolo datato febbraio 2020 Il nuovo robot wolfpack della marina militare di Orca sarà pronto per la guerra … e invece ha un ritardo di 3 anni, e non è ancora pronto che già c’è la guerra.
    • Altrettanto sofisticato sarebbe il “bat drone”. Non si tratta di uno sciame di piccoli droni travestiti da pipistrelli, ma di una nuova cellula da combattimento: l’MQ-28 Ghost Bat della divisione australiana della Boeing.
      Il Ghost Bat è un drone da combattimento, destinato a essere controllato da piloti umani. Lo descrive “Task & Purpose”: «Il design è pensato per essere modulare, in modo da poter essere modificato per determinate missioni».L’acquisizione fa parte di un più ampio sforzo dell’Air Force per sviluppare il programma Next Generation Air Dominance, il termine con cui si indica lo sviluppo di aerei di sesta generazione. Fondamentale sarà l’uso di gregari robotici, o come li chiama l’Air Force, velivoli collaborativi da combattimento. Le forze armate stanno testando e mettendo in campo dispositivi senza equipaggio come parte degli sforzi per modernizzare le proprie forze. Alcuni, come i minuscoli droni a vela, sono già in uso presso la Marina. L’Assured Positioning, Navigation and Timing / Space Cross-Functional Team dell’Esercito, che fa parte dell’Army Futures Command, ha recentemente testato un drone Airbus Zephyr S presso il Yuma Proving Grounds in Arizona (e in altre località, anche oltreoceano) che ha raggiunto il record di 64 giorni di volo prima di cadere improvvisamente dal cielo.
    • Come sempre poi nel capitalismo, la differenza è fatta dallo smercio nella gamma media che rappresenta nel volume di numeri il vero affare mondiale. E ormai ogni stato si va dotando di una flotta di droni, applicabili nei contesti più disparati. Spesso si tratta di produzione domestica interna a cominciare dalla risposta greca ai droni turchi, Archytas, il drone a decollo e atterraggio verticale (VTOL) presentato alla Thessaloniki International Exhibition (“GreekCityTimes”), una tipica collaborazione tra Forze Armate e Università, “utile” per monitorare i confini e accompagnare le fregate in funzione di difesa da droni nemici.
    • Presentato anche alla Africa Aerospace and Defense Expo di Pretoria insieme al Mwari, venduto dal Paramount Group ad alcune forze aeree africane: anche le sue caratteristiche prevedono ricognizione e precisione di tiro, potendo caricare molteplici sistemi
  • Ma la produzione maggiore di droni è per conto terzi: cioè macchine sfornate per l’esportazione. Alcune per recapitarle agli ucraini (i Phoenix Ghost di Aevex Aerospace, gli RQ-20 Puma e gli Switchblade dell’AeroVironment, di cui scrive “Military.com”), altre sono autentici oggetti del desiderio, come i 18 Bayraktar Tb2, turchi agognati dalla Romania, che a inizio settembre aveva stanziato secondo Reuters 300 milioni di dollari per il loro acquisto.
  • Un esempio diverso sono gli stormi di droni con intelligenza artificiale pilotati attraverso il 5G, che consentono di intercettare e geolocalizzare segnali a basso potenziale, sperimentati da Lockheed e Verizon il 28 settembre (“DefenseNews”). Il Pentagono ha ottenuto quasi 338 milioni di dollari per il 5G e la microelettronica nell’anno fiscale 2022. Ha richiesto 250 milioni di dollari per l’anno fiscale 2023. Ha potuto farlo, trovando una legittimazione dallo sviluppo tecnologico dei missili balistici cinesi (DF-26) e nordcoreani (Hwasong-12), già capaci di raggiungere la base di Guam, che dall’ultima parata militare in occasione del 70° anniversario della Cina popolare può essere nel mirino anche dei droni ipersonici WZ-8 in dotazione al Pla, come scriveva “The Diplomat” ad agosto, contro i quali è indispensabile trovare contromisure.
    • L’esercito israeliano poi sta promuovendo una guerra con i droni come metodo meno sanguinoso per controllare la Cisgiordania. I palestinesi di Gaza sanno che non è così; infatti l’uso di droni è sempre più spesso in funzione di ordine pubblico e per soffocare insurrezioni, rivolte, assembramenti. Non è un caso che l’esordio ufficiale in Cisgiordania i droni lo hanno visto quando una nuova resistenza non riconducibile a nessun protagonista più o meno controllabile: La Tana dei leoni, che è una realtà priva di leader, senza riferimenti religiosi, né indotta dalle forze di occupazione stesse – come Hamas, che fu alimentata agli esordi da Tel Aviv –; nell’incapacità di contrastare questi giovani stufi di occupazione e sopraffazione non c’è altra risposta che una guerra automatizzata in grado di fornire rapide soluzioni a un ciclo di violenza deplorevolmente (per l’Idf) cronico. “Zeitun” ha fatto una piccola ricerca storica dell’utilizzo di droni da parte di Idf:

    • Israele è stato un precoce pioniere nella tecnologia dei droni. Nel 1968 un maggiore della direzione dell’intelligence militare israeliana, Shabtai Brill, applicò mini-telecamere alla fusoliera di aerei a controllo remoto, del tipo di quelli fatti volare dai bambini nel cortile di casa, per sorvegliare clandestinamente i confini con l’Egitto. Nel 1982, all’inizio della guerra del Libano, le Industrie Aerospaziali di Israele produssero droni di sorveglianza di livello militare che potessero volare insieme a jet da caccia per identificare obiettivi e guidare missili.

      Oggi Israele si autodefinisce una “superpotenza dei droni”. La polizia di frontiera utilizza droni per irrorare con gas lacrimogeni i manifestanti nel complesso della moschea di Al Aqsa. In Cisgiordania i soldati disperdono la folla dai posti di controllo con un drone che spara impulsi sonori contro i bersagli, lasciando i dimostranti intontiti e nauseati. Agenti dell’intelligence militare guidano droni da riconoscimento sulla città di Gaza per definire le coordinate esatte da bombardare.

      Molti palestinesi hanno già vissuto per anni all’ombra della guerra con i droni. La loro presenza a Gaza è talmente pervasiva che ai droni ci si riferisce correntemente come a “zanana”, che significa “ronzio”, evocando il costante rumore degli apparecchi che si librano proprio sopra il tetto di casa, come un minaccioso sciame di api.

      Quando lo scorso anno l’esercito ha annunciato il primo stormo di droni mossi da intelligenza artificiale, “The Intercept ha documentato 192 civili uccisi in soli 11 giorni di combattimenti letali.

12 ottobre

  • Le ambizioni polacche di supremazia

    La quantità abnorme di armi di ogni tipo in transito sul territorio polacco svolge solo il ruolo di hub, oppure bisogna registrare un riarmo di dimensioni gigantesche per le dimensioni del paese. Ovviamente, oltre alla scelta di Varsavia di proporsi come potenza locale, va considerata l’enorme importanza della collocazione della Polonia, soprattutto per la Nato che gioca sul sentimento antirusso di una nazione profondamente sovranista.

  • 12 ottobre è arrivato il primo B2 in Polonia, Il Northrop B-2 Spirit è un bombardiere strategico Questo aereo può trasportare 16 missili da crociera con testate nucleari. Carico di combattimento fino a 27.000 chilogrammi. Una data storica: sancisce l’ambizione di divenire una potenza militare nell’area non solo orientale dell’Europa, avendo fatto la scelta di proporsi a modello sia del costume sovranista, sia dotandosi dei mezzi per imporlo.
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  • La Polonia, oltre a rappresentare il nuovo modello per il sovranismo di estrema destra – perché appare agli occhi sovranisti meno impresentabile di Orban – è uno snodo per le armi destinate a Kyiv: dal crowdfunding che a luglio aveva raccolto 4,9 miliardi di dollari per comprare un  Bayraktar TV2 per le forze armate dell’Ucraina (quel drone può trasportare due missili guidati Umta con un raggio di lancio fino a 8 km o quattro bombe di precisione Mamma-C / Mamma-l); la vicinanza al paese aggredito ha spostato l’asse europeo (non solo militare) più a Est e la nazione di Duda e Kaczynski si propone come hub (uno nuovo a est di Ramstein) e laboratorio di conservatorismo reazionario, meglio tollerato dagli americani che mal digeriscono certe impuntature di indipendenza dell’asse franco-tedesco. Ma il nazionalismo è funzionale anche alla servitù militare. Il 4 settembre “Military Times” informava della vendita degli Abrahams in consegna per il 2025 alla Polonia da parte di General Dynamics Land System (il che dimostra quanto le previsioni per una durata della guerra non tanto breve, come dimostrano le dichiarazioni dei massimi contendenti, che hanno lanciato questa guerra per procura, fondata su tipi di armi come gli Abrahams).
    Faceva eco “Defense News” che riportava anche l’entità della spesa (1,1 miliardi di dollari) in cambio di 250 carri armati M1A2 SEPv3.
  • Ma la Polonia non si è fermata all’approvvigionamento di terra, ha acquisito pure 96 elicotteri AH-64E – Apache (per dare una comparazione l’Australia a maggio ne ha comprati 29 dalla Boeing) pagati 1,4 miliardi di dollari e l’annuncio è stato ufficializzato alla fiera delle armi Mspo tenutasi all’inizio di settembre in Polonia, come riportato da “Breaking Defense”. E anche dare spazio a una sede fieristica sul proprio territorio ha un significato di approdo tra gli stati che contano nella filiera delle armi.
    Questo perché Apache e Abrahams lavorano congiuntamente: gli elicotteri

 «saranno schierati per la prima volta presso la 18ª Divisione meccanizzata. Non tutti, ma le prime unità. Questo proprio in seguito al fatto che la 18ª Divisione sarà equipaggiata con i carri armati Abrahams. Questi elicotteri funzionano benissimo con i carri armati Abrahams. Insieme, costituiscono una forza enorme. Una forza di resistenza, perciò vogliamo usarli come deterrente per il nostro avversario», ha dichiarato Błaszczak in una dichiarazione rilasciata dal ministero della Difesa polacco» (“DefenseNews”).

    • Sempre durante l’Expo documentata da “BreakingDefense” Adam Hodges, Capture Team Lead for Vertical Lift International Sales di Boeing Defense, Space & Security, ha dichiarato ai giornalisti che l’azienda sta offrendo alla Polonia “l’AH-64EV6, con capacità MUM-T, proponendo ad aziende polacche il sostentamento locale, quindi altro denaro europeo sperperato in spesa militare, funzionale all’interoperatività polacco-americana.
    • Boeing ha stabilito importanti collaborazioni con il governo e l’industria polacchi, in particolare partnership con il Polish Armaments Group che continuerà a espandersi con l’implementazione di attività di formazione e supporto con l’industria locale.
    • Mentre atterravano a Malbork (a un centinaio di chilometri da Kaliningrad) 4 cacciabombardieri Eurofighter dell’Italian Air Force nell’ambito dell’operazione Nato antiRussia…
    • … la Polonia in quei giorni di fine luglio stava siglando accordi con la Corea del Sud che sommavano a circa 14,5 miliardi di dollari di investimenti, per l’acquisto di 1000 carri armati K2 della Hyundai Rotem, 672 obici semoventi K9 della Hanwa Defense e 48 aerei da combattimento leggero Rokaf FA-50. Notizia confermata anche da “Breaking Defense”. Andando ancora più indietro nel tempo, a maggio, la Polonia aveva deciso di investire in nuove dotazioni di M142-Himars e Patriot: infatti prima del 24 febbraio il Dipartimento di Stato aveva concesso di approvvigionare l’esercito polacco per dotazioni pari a 6 miliardi di dollari.
      Contemporaneamente Varsavia aveva avanzato la richiesta a Seul per acquisire altri lanciamissili K239 della Chunmoo (e l’affare si è concluso a metà ottobre con l’acquisto di 300 di queste batterie di artiglieria coreana), omologhi al prodotto della Lockheed (che ha difficoltà a stare dietro alle richieste del mercato di Himars). Infatti la Lituania ha stanziato un budget di 148 milioni di dollari per comprare M142 Himars, droni e Javelin, dopo il successone ucraino
    • Una notizia di “Defense News” del 17 settembre riportava l’esistenza di due contratti per l’acquisto di 48 aerei d’attacco leggero FA-50 dalla Corea del Sud, con i primi 12 jet che saranno consegnati l’anno prossimo e altri 36 negli anni 2025-2028, per abbandonare completamente l’uso degli aerei MiG-29 e Su-22. La Polonia sta aumentando la propria potenza per diventare la potenza di riferimento anche militare dell’area soppiantando la Germania con l’ausilio degli Usa.
    • Politico”ha riassunto alcune delle commesse di acquisto di sistemi di arma da parte del bulimico esercito polacco:
    • «La Polonia ha firmato un accordo da 23 miliardi di złoty (4,9 miliardi di euro) per 250 carri armati Abrams dagli Stati Uniti questa primavera – una rapida sostituzione per i 240 carri armati di epoca sovietica inviati all’Ucraina. La sua aeronautica militare è equipaggiata con F-16 statunitensi e nel 2020 Varsavia ha firmato un accordo da 4,6 miliardi di dollari per 32 caccia F-35.
      Ma il fulcro della sua recente spesa militare è stata la Corea, dove ha firmato una serie di accordi per l’acquisto di carri armati, aerei e altre armi. Finora la Polonia ha ordinato dalla Corea armamenti per un valore compreso tra i 10 e i 12 miliardi di dollari, ha dichiarato Mariusz Cielma, redattore e analista di “Nowa Technika Wojskowa”, un sito web di notizie e analisi sulla tecnologia militare. Gli ordini includono 180 carri armati K2 Black Panther, 200 obici K9 Thunder, 48 aerei d’attacco leggero FA-50 e 218 lanciarazzi K239 Chunmoo. A completamento delle forniture immediate, i coreani dovrebbero fornire un totale di 1000 carri armati K2 e 600 obici K9 entro la metà e la fine degli anni Venti. Varsavia ha ordinato elicotteri italiani Leonardo per 8 miliardi di złoty, ma l’accordo prevedeva che gli elicotteri fossero prodotti in Polonia.».

11 ottobre

  • SHORt Air Defence: Ucraina come banco di sperimentazioni

    L’Esercito degli Stati Uniti ha equipaggiato un plotone del 5° battaglione, 4° reggimento di artiglieria da difesa aerea, in Europa, con quattro dei primi prototipi di Stryker A1 (sviluppato in 19 mesi da Leonardo Drs). L’Esercito è prossimo a schierare il primo battaglione completo entro la fine dell’anno con l’aggiunta di sistemi M-SHORAD (che comprende anche il lanciamissili veicolare Stinger di Raytheon Technologies), ha dichiarato a “DefenseNews” il generale Maurice Barnett, comandante generale del 10° Comando di difesa aerea e missilistica dell’Esercito in Europa, in un’intervista rilasciata all’esposizione annuale dell’Associazione dell’Esercito degli Stati Uniti.
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  • E il primo plotone di sistemi Shorad basati su Stryker A1 ha attraversato Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia, arrivando a testare l’impianto di difesa aerea a corto raggio sul Golfo di Finlandia. Il sistema offre una maggiore protezione rispetto ai vecchi Avenger grazie a una incredibile capacità di sparare in movimento, continuando la stessa protezione aerea e missilistica negli spostamenti, anche su distanze notevoli.
  • Nell’ambito di uno sforzo più ampio per rafforzare la capacità di difesa aerea in Europa, il 6 ottobre l’esercito americano ha attivato il quartier generale della 52ª Brigata di artiglieria per la difesa aerea a Sembach, in Germania. Il quartier generale collegherà tutte le forze di difesa aerea e missilistica dell’Esercito e riferirà direttamente al 10° AAMDC, che è stato aggiornato a un comando a una stella nel 2019.

Stryker A1

7 ottobre

  • C-Uas: la necessità di sviluppare il contrasto a ogni drone

    L’Esercito degli Stati Uniti ha creato l’Ufficio congiunto per il contrasto ai piccoli sistemi aerei senza pilota per affrontare la proliferazione dei droni avversari. Il Jco è nato dopo che l’allora Segretario alla Difesa Mark Esper, nel 2019, ha designato l’Esercito come agente esecutivo per le attività di contrasto agli Uas; gli ufficiali del Comando per le operazioni speciali alla Special Operations Forces Industry Conference, ospitata in Florida dalla National Defense Industrial Association. Il tenente colonnello responsabile del programma di controproliferazione del comando aveva dichiarato in maggio a “DefenseNews” che il Socom sta cercando un dispositivo di contromisura elettronica multimissione di prossima generazione. Il bilancio di ricerca dell’Esercito dello scorso anno ha posto l’accento sull’architettura tattica per la guerra elettronica, includendo una richiesta di aumento della spesa per il programma Multi-Function Electronic Warfare, il programma Terrestrial Layer System-Brigade Combat Team, l’Electronic Warfare Planning and Management Tool e il Terrestrial Layer System-Echelons Above Brigade.

  • L’intento è di trovare opzioni per siti di spedizione portatili, smontati e fissi per il dispositivo di contromisura elettronica multimissione di prossima generazione. Il Corpo dei Marines e il Socom dispongono di un sistema esistente chiamato Modi, prodotto dalla Sierra Nevada Corporation e utilizzato dall’esercito e dai Marine (“C4irsnet” riporta questa direzione nella ricerca del contrasto ai droni), il problema è la difficile maneggevolezza (pesa 20 chili) che ha suggerito gli investimenti per la ricerca, vista l’estensione dell’utilizzo di droni in tutti i quadranti.
  • Per ora l’esercito statunitense tiene corsi, i cui moduli consentono di avvalersi di queste armi di difesa da macchine Uas:

 «Non si può avere solo una capacità c-UAS ovunque. Bisogna essere in grado di sfruttare qualsiasi capacità si abbia: abbiamo essenzialmente massimizzato la capacità di quel sistema per dargli un doppio ruolo, sia che si tratti di abbattere razzi o mortai; ora possono abbattere anche i droni.

  • Il dispositivo anti-UAS DroneDefender ha unito una tecnologia innovativa a un design efficiente per una sicurezza sicura, affidabile e comprovata dalle minacce aeree (così il testo promozionale di Battelle). Il dispositivo interrompe rapidamente il controllo remoto del drone aggressore, neutralizzandolo in modo che non possa avvenire alcuna azione a distanza, compresa la detonazione, riducendo al minimo i danni che può provocare il drone e il rischio per la sicurezza pubblica.Il DroneDefender, che utilizza una soluzione non cinetica per difendere lo spazio aereo dagli UAS, come quadcopter ed esacotteri, opera senza compromettere la sicurezza o rischiare danni collaterali. Il sistema, leggero e facile da usare per due ore di seguito e con un peso contenuto sotto gli 8 chili, assicura la distruzione dei droni a controllo remoto e del loro GPS

1°-14 ottobre

  • Teatro No: come adeguare la nuova realtà di guerra a una Costituzione di pace, o viceversa

    Gli Stati Uniti non sono riusciti a trasformare il cosiddetto Quad, che comprende Giappone, Australia e India, in una versione asiatica dell’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico, ma hanno continuato ad allenarsi con molti stati dell’Indo-Pacifico.

  • Stripes” dà notizia che dal 1° al 14 ottobre si sono tenuti gli addestramenti combinati realistici “Rimpac22”con i mitici Himars insieme agli F-35BS in Hokkaido (coinvolte pure le forze militari filippine e coreane). Svolgono il ruolo di esibizione muscolare che s’incunea nelle strategie che regolano gli equilibri nell’Indo-Pacifico.
    Il “Kamandag” – abbreviazione di “Kaagapay Ng Mga Mandirigma Ng Dagat”, ovvero “Cooperazione dei guerrieri del mare” – è iniziato nel 2017 come sostituzione dell’esercitazione di sbarco anfibio su larga scala “Phiblex”. Inizialmente era incentrata sull’assistenza umanitaria e sulla risposta ai disastri.
    L’addestramento ha coinvolto la nave d’assalto anfibio USS “Tripoli” che trasporta i caccia stealth F-35B Lightning II del Marine Fighter Attack Squadron 121
    I Marines hanno anche volato con MV-22 Ospreys, CH-53 Sea Stallions, UH-1Y Venoms, AH-1Z Vipers e KC-130J Super Hercules durante le esercitazioni. L’F-35B è la versione a decollo corto e atterraggio verticale del caccia d’assalto congiunto, progettato per il supporto aereo dei Marines a terra.I Green Knights avevano già schierato 14 jet a bordo della Tripoli durante un pattugliamento del Pacifico quest’estate e inviato altri aerei in Australia per l’esercitazione biennale “Pitch Black”, che ha coinvolto oltre 100 aerei di 17 nazioni in agosto e settembre. Il Giappone è stato coinvolto con 1400 uomini soprattutto per addestramento agli Himars, AT-4 e Javelin, a cui si affiancano sistemi giapponesi di multilancio di razzi (Type 12 Surface-to-Ship Missile – 12SSM della Mitsubishi).
  • Le esercitazioni sono da intendersi in risposta a quelle congiunte operate a luglio dagli eserciti russo e cinese a stringere l’arcipelago nipponico che aveva richiamato “Formiche”, che veva seguito gli spostamenti delle navi russe (il cacciatorpediniere “Marshal Shaposhnikov”, la corvetta “Gremyashchiy” e la nave da supporto “Pechanca”) che avevano avvolto in una tenaglia l’arcipelago, con il supporto della fregata cinese “Jaingwei II”, intorno alle isole Shenkaku/Diayou, contese, come le Paracel. La Russia ha aumentato il livello di ingaggio dei conflitti antinipponici per le altrettanto disputate isole Kurili/Spor e Putin aveva estromesso la Shell e due aziende giapponesi da ogni pretesa di partecipare all’estrazione del gas intorno alle Sakhalin e già a giugno una ventina di navi militari vi erano state mandate in esercitazione prima che il premier nipponico Fumio Kishida prendesse il volo per il vertice Nato di Madrid:
  • In totale si sono mosse venti navi da guerra, di cui 4 cinesi e 16 russe. La crociera cinese è durata dal 12 al 19 giugno, poi le quattro navi (un cacciatorpediniere classe Type 055, uno di classe Type 052D e una nave di rifornimento Type 901 e una nave spia Type 815) hanno preso il largo per il Pacifico. Quelle cinesi si sono mosse in diversi momenti, ma sempre in quegli stessi giorni: tra le corvette e i cacciatorpedinieri impiegati, due di classe Udaloy, insieme ad alcune delle corvette della classe Steregushchiy, e al “Marshal Krylov” ha fatto rifornimento ovest dal Mare di Okhotsk verso il Mar del Giappone, durante esercitazioni nel Mar Cinese Orientale e nel Mar delle Filippine

 «È una dimostrazione di forza che trova due ordini di contesti internazionali come ragione. Il primo è più ampio, generale: il Giappone sta costruendo un proprio standing all’interno dell’Indo Pacifico riscoprendo una dimensione da potenza regionale, mentre sta contemporaneamente integrando sempre di più le sue attività con quelle occidentali. E tutto mentre il Giappone ha una linea sempre più chiara nei confronti della difesa di Taiwan davanti alle ambizioni cinesi».

  • E infatti negli stessi giorni il cacciatorpediniere portaelicotteri “Izumo”, ammiraglio della Flotta di autodifesa di Tokyo, ha condotto un’esercitazione congiunta con il cacciatorpediniere “USS Sampson” e ricevuto rifornimento in mare dalla “USNS Rappahannock“. Contemporaneamente, la fregata della marina indiana “Satpura”, quella filippina “Antonio Luna”, l’indonesiana “Gusti Ngurah Rai”, quella della Repubblica di Singapore “Intrepid” e a la corvetta “Lekir” della Royal Malaysian Navy si sono raggruppate per dirigersi verso le Hawaii, dove si trova il quartier generale dell’Indo Pacific Command americano.

  •  «Kishida ha chiaramente segnalato che il Giappone non rimarrà ai margini delle crisi globali. Più che mai sta dimostrando un impegno diplomatico schierato e e si sforza di proteggere la stabilità regionale e l’ordine internazionale basato sulle regole. Ciò si riflette sulla sua presenza allo Shangri-La Dialogue (evento internazionale organizzato a Singapore dall’IISS dove il premier giapponese ha presentato la sua “Vision for Peace”) e nella prevista partecipazione al vertice Nato di fine giugno. L’alleanza del Giappone con gli Stati Uniti è ancora una volta in primo piano nei calcoli strategici di Tokyo sull’Indo-Pacifico» (Elli Katharina Pohlkamp, European Council on Foreign Relations – Ecfr).

  • E si esplicita in particolare nel ruolo di capofila locale nel contrasto dell’atteggiamento aggressivo di Pechino verso Taipei, come segnalava “Formiche” in settembre agganciando l’impegno al riarmo giapponese – e come già documentato in questo Maxistudium di OGzero a maggio e agosto – e ai budget da capogiro per la Difesa nipponica (più di 40 miliardi su 788 del Bilancio delle spese nazionali) in cui sono inseriti anche capitoli di spesa per missili terra-nave a lungo raggio, o Ssm, dotati di un raggio di tiro di circa mille chilometri ottimo deterrente verso le minacce esterne.Un nuovo giro di boa attende poi una decisione essenziale di Tokyo, che sancirebbe definitivamente il cambio epocale da 70 anni a questa parte, perché è evidente che se si ritiene indispensabile cambiare la Costituzione perché pacifista, significa che in una contingenza storica di guerra si sente il bisogno di passare a una Costituzione bellicosa: una follia che decreterebbe l’ingresso in un’epoca di guerra ed è proprio quello che “AgenziaNova” riporta il 18 novembre. La notizia viene riportata proprio come conseguenza del fatto che il Giappone non ha potuto rifornire Kyiv con i missili anticarro richiesti (Type 12 Surface-to-Ship Missile – 12SSM della Mitsubishi), perché la Costituzione impedisce al Giappone di esportare sistemi e tecnologie di difesa.

GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE NOVEMBRE Traffico 2022

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]]> Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi https://ogzero.org/guerre-di-religione-continuazione-del-colonialismo-con-altri-mezzi/ Sat, 12 Nov 2022 08:48:30 +0000 https://ogzero.org/?p=9436 Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che […]

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Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che si fonde e intreccia con le altre che muovono masse di disperati, distruggono il clima, depredano territori, spacciano armi, innescano conflitti per controllare risorse. Si può interpretare questo uso della divisione religiosa come un nodo delle diverse emergenze del Finanzkapitalismus nella sua fase iperliberista, un nodo a cui arrivare dagli altri orrori geopolitici, o da cui partire per inserirlo nella rete che mette insieme l’uso politico-aggressivo della religione, il pastone mediatico, la scorciatoia militarista, l’espansionismo imperialista… ma partiamo dallo storico conflitto irlandese tra cattolici separatisti e unionisti protestanti e poi ci espandiamo nelle più complesse – ma riconducibili agli stessi modelli di potere – contrapposizioni mediorientali.


Solo un’ipotesi, la mia. Da “proletario autoalfabetizzato” senza pretese accademiche. A naso diciamo.
Se in passato le “guerre di religione” potevano, forse, esprimere (“fotografare”) in qualche modo i conflitti etnici e/o sociali del tempo (vedi alcune “eresie” e certe “riforme” diretta conseguenza dei conflitti di classe), direi che in seguito, perlomeno dal secolo scorso, il più delle volte sono state la copertura, la “vetrina” di interessate strumentalizzazioni.

Partiamo dall’Irlanda…

A titolo di esempio, il conflitto irlandese, soprattutto dopo la divisione dell’Isola di smeraldo. Se già nel Settecento cattolici e protestanti (discendenti i primi dagli indigeni irlandesi colonizzati, gli altri dai coloni scozzesi presbiteriani) avevano fatto fronte comune per l’indipendenza dell’Irlanda, anche in seguito (vedi gli scioperi di lavoratori salariati cattolici e protestanti a Belfast) non mancarono lotte comuni. A porvi fine intervennero le ricche borghesie filobritanniche (si veda La Casa d’Orange) elargendo piccoli privilegi e organizzando milizie settarie “lealiste” (v. Uvf). Non potendo utilizzare – che so – un diverso colore della pelle o diversità etniche rilevanti (in quanto entrambe le comunità erano di origine celtica, diversamente dagli inglesi anglosassoni – di origine germanica – e anglicani) si accontentarono di ampliare il modesto solco di natura religiosa.


Poi è andata come sappiamo. Esperimento sostanzialmente riuscito, un modello per future strumentalizzazioni a “geometria variabile”.

… e giungiamo tra le comunità beluci, curde e hazara

Quindi ritengo che anche le sanguinose faide mediorientali tra sunniti e sciiti (con ricadute particolarmente gravi per le minoranze qui presenti: yazidi, alaviti, assiro-cristiani, zoroastriani…) siano state perlomeno “pompate”, gonfiate, esasperate ad arte.
Quanto è avvenuto nelle aree curde, occupate militarmente dalla Turchia, di Afrin e di Sere Kaniyê (Nord della Siria) appare emblematico. Non essendo in grado di controllare adeguatamente le proprie milizie mercenarie (vedi l’Esercito Nazionale Siriano, Sna), Ankara si starebbe affidando direttamente al gruppo terrorista Hayat Tahrir al-Sham (Hts, successore di al-Nusra), con tutta probabilità l’emanazione locale di al-Qaeda.

Il ruolo della Turchia

Anche perché tra le fila di alcune formazioni sul libro paga di Ankara ultimamente serpeggiava, oltre al malcontento, anche una certa preoccupazione.

Le voci su un possibile riavvicinamento tra Ankara e Damasco (patrocinato da Mosca) lasciava intravedere la possibilità di venir scaricati, se non addirittura consegnati, per diversi membri delle milizie mercenarie. In quanto ricercati da Damasco potrebbero venire estradati e questo suggerisce una possibile spiegazione su alcuni episodi di insubordinazione. Come per gli scontri a mano armata intercorsi tra membri di Jabhat al-Shamiya e di Jaish al-Islam.
Tali dispute ricorrenti (oltre al rischio concreto di insubordinazione e defezione) tra le diverse fazioni di Sna (forse non adeguatamente attrezzate, oltre che sul piano politico, anche in quello religioso?) avrebbero suggerito a Erdoğan di far leva sul maggiore entusiasmo, fervore religioso (eufemismo per fanatismo) di Hts. Un fanatismo indispensabile per annichilire le minoranze “eretiche” e non omologate (tutti apostati, dissidenti, “pagani”… addirittura comunisti o anarchici talvolta) del nord della Siria. Nella prospettiva di ulteriori invasioni.
Già all’epoca delle prime manifestazioni contro il regime siriano si assisteva a una proliferazione di gruppi armati, in genere appoggiati, oltre che dalla Turchia, da alcuni stati del Golfo come il Qatar.

Negli Usa è ancora in corso il processo contro “Qatar Charity” e contro Qatar Bank per aver finanziato con 800.000 dollari il leader dell’Esercito Islamico Fadhel al-Salim.

Pulizie etnico-religiose nella Mezzaluna sciita

Per inciso, è probabile che questo stia oggi avvenendo in Iran, nel tentativo di strumentalizzare, “dirottare” altrove, le legittime proteste popolari. Con un occhio di riguardo per i beluci, già manovrati in passato anche da qualche potenza imperialista di Oltreoceano. Come da manuale, ça va sans dire, anche i beluci ci mettono “del loro”: per esempio in Pakistan alcuni gruppi indipendentisti beluci sono ritenuti responsabili di vere e proprie stragi ai danni degli hazara, un’altra minoranza, ma di fede sciita.
Va anche detto che da parte sua la Repubblica islamica sembra far di tutto per fornire pretesti in tal senso. In una recente manifestazione (4 novembre 2022) a Khach, provincia di Zahedan, le forze di sicurezza hanno ucciso una ventina di civili beluci (16 le vittime identificate, tra cui alcuni bambini) ferendone oltre sessanta. Da segnalare – stando a quanto dichiarato da alcuni attivisti – che altri feriti erano poi deceduti non essendo stati traspostati all’ospedale dove rischiavano seriamente di essere arrestati.


Un’altra strage di 90 civili beluci era già avvenuta, sempre nella provincia di Zahedana, il 30 settembre.

Appare evidente che – analogamente a quella curda – anche la popolazione minorizzata dei beluci (“minorizzata” e non minoritaria, in quanto divisa da frontiere statali) in Sistan e Baluchistan subisce quotidiane discriminazioni ed è sottoposta a una dura repressione (come del resto altre comunità delle aree periferiche del paese) da parte di Teheran.
Sia per la loro appartenenza etnica, sia per ragioni religiose in quanto sunniti.
Il comandante di al-Nusra, Al-Hana (Abu Mansour al-Maghrebi) arrestato nel 2020 in Iraq aveva rivelato che lo sceicco Khalid Sueliman (della potente famiglia al-Thani), a capo del Jabhat al-Nusra (e pare anche delle organizzazioni derivate), veniva finanziato con qualcosa come un milione di dollari al mese. Turchia e Qatar sosterrebbero, sia finanziariamente, sia con la fornitura di armamenti, i vari gruppi combattenti emanazione dei Fratelli musulmani salafiti in quanto utile strumento per la loro politica estera. Anche in chiave panislamica.

Guerra turca ai curdi in Siria

Alcune organizzazioni hanno stabilito un’analogia, per vastità e inasprimento, tra l’attuale repressione in Iran e i massacri subiti dai beluci a Deraa (in Siria) nel 2011, denunciati dall’Onu come crimini di guerra.
Storicamente accertato che potenze regionali ostili a Damasco avevano favorito la militarizzazione (vedi appunto la formazione di Sna) e l’escalation del conflitto.
Oltre che a Sna, la Turchia non avrebbe lesinato nel fornire sostegno al fronte al-Nusra (dal 2012 nella lista del terrorismo internazionale in quanto ritenuto emanazione di al-Qaeda) e addirittura a Daesh. Formazioni entrambe notoriamente jihadiste.

Quanto al fronte al-Nusra, va ricordato che nell’ottobre 2012 attaccava i distretti autonomi di Şêxmeqsûd e Eşrefiye (regione di Aleppo) uccidendo decine di curdi. Subito dopo gli ascari jihadisti si scagliavano contro Afrin, incontrando però la ferrea resistenza delle Ypg/Ypj. Nel voler annichilire in primis le zone curde del Rojava (dove si sperimentava la rivoluzione del Confederalismo democratico) il Jabhat al -Nusra si smascherava da solo, mostrando apertamente di agire su indicazione della Turchia.

Sempre nel 2012, in novembre, veniva attaccata, partendo direttamente dalla Turchia, anche Serêkaniyê. Un’operazione congiunta tra al-Nusra e alcune milizie curde collaborazioniste legate al Pdk. Entrando in alcuni dei quartieri a maggioranza araba di Serêkaniyê, queste milizie si spacciavano per ribelli antiAssad cercando di stabilire alleanze. Solo successivamente (il 19 novembre) partiva il brutale attacco contro i quartieri a maggioranza curda. Veniva assassinato il sindaco della città e la chiesa diventava un bivacco per il loro quartiere generale.

Nel frattempo la loro già consistente presenza veniva rinforzata dall’apporto della cosiddetta Coalizione nazionale (Etilaf), che – secondo i curdi – sarebbe al Etilaf di Sna o comunque della sua derivazione, il “governo di transizione siriano”. Oltre al seggio di Istanbul, Etilaf ne controlla uno anche a Berlino (oltretutto finanziato dal governo tedesco).
Avrebbe anche una certa influenza in alcuni progetti (ugualmente finanziati dal governo tedesco) che sembrano funzionare come “specchietti per allodole”, allo scopo di creare cortine fumogene sulla realtà della situazione curda. Tra questi, il Centro europeo di studi curdi (Ezks) e il sito Kurdwatch, divulgatore di notizie farlocche intese a giustificare le operazioni militari di Erdoğan nel Nord della Siria e nel Nord dell’Iraq. Ma nonostante questo ulteriore apporto di milizie, successivamente venivano scacciati dalla popolazione insorta dei quartieri curdi, grazie anche all’intervento dei combattenti di Ypg e Ypj.

Gli scontri ripresero, durissimi, nel gennaio 2013. Praticamente una vera e propria ammucchiata di gruppi mercenari guidata da al-Nusra quella che contese per circa due settimane il controllo dei quartieri alle milizie curde. Sconfitte nuovamente, le truppe jihadiste si misero in salvo direttamente oltre il confine turco (immediatamente blindato dai soldati turchi per maggior sicurezza), ma lasciando in mano ai curdi un’ampia documentazione della loro intensa collaborazione con Ankara.
Purtroppo durante la ritirata sia al-Nusra che Daesh non mancarono di vendicarsi sulla popolazione curda con una vile rappresaglia.

Come a Til Eran (luglio 2013) e a Tal Hasil. Dichiarando pubblicamente, attraverso le moschee, che sia il bagno di sangue nei confronti della popolazione curda (circa un’ottantina le vittime accertate) che il sequestro-rapimento delle donne curde (prelevate a centinaia) era giustificato dal punto di vista religioso. Rastrellando poi casa per casa le due località sopracitate alla ricerca di “Apoisti”, ossia di seguaci di Apo Öcalan. Oltre a quelli crudelmente assassinati (alcuni bruciati vivi, con le immagini poi diffuse nei social), vanno considerati anche i desaparecidos (qualche decina) e i cadaveri (una ventina) di cui non è stata possibile l’identificazione.

Til Hasil

Da sottolineare che – per quanto entrambe aspirassero alla supremazia – Al-Nusra e Daesh (o Stato Islamico che dir si voglia) non smisero mai di collaborare proficuamente. Sia garantendo una certa “osmosi” di combattenti –praticamente intercambiabili – da una formazione all’altra (in base alle necessità del momento), sia dandosi il cambio, alternandosi nel controllo delle aree occupate. E soprattutto instaurando congiuntamente durante l’occupazione delle città, dei villaggi e dei quartieri curdi un aspro regime di ispirazione salafita. Anche a livello di tribunali islamici dove operavano in coppia.

Sempre sotto la supervisione di Ankara ovviamente. L’assalto al carcere di Sina à Hesekê (gennaio 2022) era stato pianificato dai territori occupati dalla Turchia.

Come già detto negli ultimi tempi al-Nusra aveva cercato di “riciclarsi” prendendo (almeno ufficialmente) le distanze da al-Qaeda e cambiando pelle e nome. Diventando prima, nel 2016, Liwa Fatah al-Sham e successivamente, nel 2017, appunto Hayat Tahrir al-Sham (Hts, in realtà una finta coalizione di vari gruppi, sostanzialmente sotto il controllo della vecchia al-Nusra, comunque denominata). Attualmente la casa madre sarebbe localizzata in quel di Idlib, in felice coabitazione con l’alleato turco. Allo scopo dichiarato di soffocare il risorgere e la diffusione del Confederalismo democratico in questa parte del Rojava. Esperienza pericolosa perché esemplare e contagiosa, soprattutto così in prossimità del confine turco.

Dal maggio di quest’anno (a seguito dell’incontro di Idlib-Sarmada con esponenti del regime turco) le milizie di Hts hanno ripreso a riposizionarsi e raggrupparsi su Idlib puntando quindi su Afrin. Inoltre si sarebbero acquartierati anche nelle zone di Girê Spî, Azaz, al-Bab, Cerablus e intorno alla città di Minbić (ancora gestita dall’amministrazione autonoma).
Sempre in vista di ulteriori attacchi in Rojava.

Per concludere, pur essendo presto rientrato nella lista nera dei gruppi terroristi, Hts continua a godere dei finanziamenti di Turchia, Qatar, Arabia Saudita…
Pare anche di qualche non meglio identificato “paese occidentale”…

Vai a sapere.

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LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A SETTEMBRE https://ogzero.org/studium/la-guerra-viene-con-le-armi-lo-spaccio-a-settembre/ Mon, 31 Oct 2022 00:53:22 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=9321 L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A SETTEMBRE proviene da OGzero.

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Vecchie e nuove servitù militari: No Trespassing

Stiamo scivolando sempre più in una mentalità che accetta l’orrore di considerare il cambiamento di morale, di narrazione dei rapporti tra “nazioni” e del valore degli aggettivi belligeranti che segnano una cesura… e marcano anche un cambio nel significato e nell’uso di territori strategicamente sottratti al paese su cui insistono per consegnarli a potenze straniere che le rendono off limits (NO TRESPASSING) e proiettate in funzione di aggressione al nemico, riempiendoli di ordigni, macchine belliche, sistemi di controllo e di logistica nelle azioni operative in zona di guerra, come Sigonella che ha partecipato sia nell’episodio che ha visto l’affondamento della Moskva, sia nell’attacco al porto di Sebastopoli del 28 ottobre.
Da settembre e poi anche in ottobre si è resa palese nell’economia della guerra europea l’importanza dello schieramento, delle alleanze e la necessità della potenza globale di riferimento di “occupare” territorio, di “invadere” sovranità, di “ottenere” mezzi adiacenti alla trincea… la servitù in tutte le sue forme.



La servitù nucleare in Italia

Servitù militare e Italia sono quasi una tautologia, visto che dal punto di vista dell’esercito americano si tratta di una enorme portaerei che si allunga nel Mediterraneo e ospita gli ordigni nucleari sia a Ghedi (in provincia di Brescia) che ad Aviano (Pordenone), non a caso dislocate nel Nordest, fin dalla Guerra Fredda considerato un avamposto: Ghedi è dotato di velivoli (Tornado e F-35 italiani), atti a trasportare le bombe nucleari (un centinaio quelle americane già disponibili), mentre ad Aviano sono dislocate le famose bombe nucleari per l’impiego tattico B-61 (da 45-60 kilotoni), che gli americani si trasportano in piena autonomia, imponendo un limite militarmente invalicabile nel territorio italiano


Aviano e Ghedi (il Nord nucleare); contratto milionario a Sigonella per potenziare il Comando della task force aeronavale Usa nel Mediterraneo per Conti Federal Service (il Sud a supporto di missioni fulminee piratesche). Il canale dei Navicelli (il Centro magazzino logistico)


La servitù delle forniture in Italia

Ma oltre a Sigonella (e il Muos) a Sud e le basi delle bombe nucleari a Nord esiste da anni Camp Darby e il Canale cinquecentesco dei Navicelli vi riveste un valore strategico per l fatto che attraversa la base militare che completamente blindato com’è diventa fondamentale per trasportare senza occhi indiscreti e in territorio completamente no trespassing le armi in arrivo al porto di Livorno e da lì alla darsena interna a Camp Darby, allargata permettendo l’incrocio di due navi.
E sono servitù militari anche gli agganci all’industria militare statunitense per esempio con il legame a filo doppio tra Leonardo (industria di stato e ora anche di governo, con la cooptazione di Crosetto al ministero della Difesa) e Lockheed: infatti i vertici dell’esercito scodinzolano al partner americano intravedendo la possibilità di bissare la collaborazione pluriennale sugli F-35 anche per quel che riguarda il nuovo progetto dei nuovi elicotteri a doppio rotore X2


La Sardegna assediata (le esercitazioni nelle Isole); le servitù oceaniche (il Portogallo) e quelle del Mediterraneo orientale:


La servitù delle esercitazioni

Altre servitù possono essere considerate le esercitazioni: infatti Nato decide e per 15 giorni i cieli e i flutti teatro delle “simulazioni” (anche nucleari e annunciate) diventano oggetto di espropriazione e aree pericolose, che poi lasciano residui e radiazioni, un territorio devastato e inquinato.
In questo tempo di guerra le esercitazioni “programmate” fioccano: a metà settembre la Sardegna era circondata come Taiwan un mese prima. Aree di guerra, in mare, in cielo e nei poligoni di Teulada, Quirra e Capo Frasca, esercitazioni speciali, visto che dal 24 febbraio le esercitazioni programmate erano state annullate, tutte tranne quelle collegate al “warfighting”. «Accentrare arsenali aerei, navali e terrestri in Sardegna, per giunta in questo contesto storico, significa proiettarla in uno scenario di provocazioni internazionali pericolose e incontrollabili. Mai come oggi la presenza delle servitù militari trasformano l’Isola in una vera e propria colonia militare».
E quella servitù era contemporanea alla esibizione di muscoli aerei di “Steadfast Noon”, ospitata dal Belgio a Kleine Brogel, una infrastruttura Nato adibita a ospitare armi tattiche B61-12cfino a 50 kilotoni in dotazione a F-35 “Lighting II” (quelli collaudati ad Amendola in provincia di Foggia quest’estate): altri scenari di guerra, esplicitamente nucleari, specularmente riflessi in Grom, l’esercitazione nucleare organizzata dal Cremlino.
Per quel che riguarda la servitù navale il Portogallo ha assistito allo spettacolo del Neptune Strike a Oeiras, quartier generale del Strike Force Nato con a capo la portaerei nucleare George H.W. Bush.
In questa ridda di esercitazioni non poteva mancare il quadrante più sensibile del Mediterraneo orientale e infatti in Grecia, durante un’esercitazione Nato che ha visto la partecipazione di 200 soldati americani e 650 tedeschi, si sono testati i missili tedeschi Patriot Mim-104, un sistema missilistico mobile antiaereo modulare di repentina installazione.
Troviamo questa moltiplicazione di esercitazioni, servitù e riattivazione di quelle esistenti a ridosso del fronte e si aggiunge l’elemento che abbiamo affrontato con Alessandro Ajres nella puntata di Transatlantica24 dedicata alla Polonia nel momento in cui si accredita come potenza locale più affidabile e utile della Germania (che ha dovuto decidere con forte riluttanza un riarmo pesante): ovvero la ricerca di costituire un potente esercito e non ridursi solo a hub per far confluire armi in una nazione-caserma al servizio degli Usa, ancor più che della Nato (avendo già iniziato a dotarsi di un esercito efficiente e moderno fin dalla prima invasione della Crimea). Si assiste a un tentativo di sostituire la capacità militare polacca alle basi tradizionalmente tedesche intese come confini orientali.



La servitù delle collaborazioni produttive

Anche se l’evidente preparazione a un conflitto in territorio europeo predispone il Pentagono a dispiegare armi e truppe, mobilitando tutte le servitù militari preparate nei decenni. E costruendone di nuove, come il nuovo comando a Wiesbaden per supervisionare l’addestramento nei poligoni americani in Germania (dove a gennaio sono state trasferite le reclute ucraine che fin dal 2015 si addestravano sotto il comando Usa al Combat Training Center-Yavoriv vicino a Lviv) e l’approvvigionamento delle truppe (https://www.militarytimes.com/news/your-army/2022/10/03/us-may-establish-new-command-in-germany-to-arm-ukraine-report/)
E sono servitù militari anche gli agganci all’industria militare statunitense per esempio con il legame a filo doppio tra Leonardo (industria di stato e ora anche di governo, con la cooptazione di Crosetto al ministero della Difesa) e Lockheed: infatti i vertici dell’esercito scodinzolano al partner americano intravedendo la possibilità di bissare la collaborazione pluriennale sugli F-35 anche per quel che riguarda il nuovo progetto dei nuovi elicotteri a doppio rotore X2



La servitù a Oriente

Nell’altro campo – con le debite proporzioni (come dice Gabriele Battaglia: «Anche la Cina ha basi militari fuori dai confini, una a Gibuti… rispetto alle decine degli Usa») – bisogna registrare le mire di Pechino sul porto di Ream, in Cambogia, ideale per installare un sistema di controllo radar dual-use, orientato ai traffici ma soprattutto a spiare assetti militari. E i lavori fervono nello scalo: un nuovo molo, un approfondimento del porto, che già registra una parte sotto la sovranità cinese, che potrebbe ospitare un nodo del sistema satellitare BeiDou alla confluenza dell’Oceano Indiano con il Pacifico, controllando così l’intera area (https://formiche.net/2022/10/nel-fragore-di-amburgo-la-cina-in-silenzio-si-prende-un-pezzo-di-cambogia/).
Ma si possono considerare servitù ottenute anche il corollario della militarizzazione di isolotti contesi lungo tutto il Mar cinese meridionale, come le Spratly, o il progetto di collaborazione con le Salomon, persino la più esplicita formula di neutralità costituita dal rifiuto del Vietnam di ospitare basi straniere, senza citare la contesa sulle isole Nansha si può considerare una servitù accettata su territori adiacenti nella guerra del Pacifico con gli Usa (https://www.scmp.com/news/china/diplomacy/article/3198034/china-vietnam-ties-beijing-reassured-hanois-vow-reject-all-military-alliances-say-analysts).


La servitù artica

Ma la servitù più contesa e meno esibita, anzi nascosta da una ipocrita collaborazione sempre più tesa è una sorta di corsa a spartirsi le fette di quel territorio strategico e ricco di minerali preziosi in via di scongelamento: tutti i paesi europei e la Russia (che controlla il 50% del territorio artico) tradizionalmente collaboravano fino alla crisi ucraina; intanto anche gli Usa stanziano 841 milioni di dollari per il 2023 per un terzo Polar Security Cutter e altri 20 milioni di dollari per creare un ufficio per il programma Arctic Security Cutter. completando una strategia durata 10 anni per il circolo polare artico: « La nuova strategia individua quattro pilastri, tra cui una maggiore presenza militare statunitense, l’aumento delle esercitazioni con i paesi partner per “dissuadere l’aggressione nell’Artico, soprattutto da parte della Russia”, l’ammodernamento della difesa aerea del NORAD e l’aggiunta di navi rompighiaccio della Guardia Costiera, nonché una migliore mappatura e cartografia delle acque e delle condizioni meteorologiche della regione». (https://www.defensenews.com/pentagon/2022/10/07/white-house-arctic-strategy-calls-for-enhanced-military-presence/) E proprio questa presenza militare americana surriscalda il clima artico; la seconda squadra Infantry Brigade Combat, 11th Airborne Division, ha iniziato in settembre l’addestramento pratico con l’equipaggiamento Capability Set 21, che ha lo scopo di aumentare la mobilità e rendere più intuitive le comunicazioni sul campo di battaglia (https://www.c4isrnet.com/battlefield-tech/it-networks/2022/08/29/first-arctic-unit-now-training-with-modernized-us-army-networking-gear/). La sezione 7 dell’Artic Commitment Act richiede l’«eliminazione del monopolio russo sulla navigazione artica» (https://pagineesteri.it/2022/09/01/primo-piano/cambiamento-climatico-il-potenziamento-militare-degli-usa-nellartico-pone-nuovi-rischi-geopolitici-e-ambientali/). E Leonardo DRS si è aggiudicata un contratto da circa 50 milioni di dollari per la fornitura di oltre 4600 visori termici per armi alla Svezia, emblematico di come il traffico d’armi possa garantire la differenza nei dettagli per controllare il territorio e assicurare una servitù militare, un’altra forma di imperialismo coloniale.


GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

100 %

Avanzamento



Interessante vedere grafici eloquenti di approvvigionamenti di armi, collocandoli nei vari scacchieri regionali, che corrispondono alle aree che vedono teatri di guerra; ma si vede soprattutto come si ripartiscono gli investimenti: Russia in testa (ma il dato per singoli stati vede gli Usa abbondantemente in testa), Emirati e Maghreb a ruota se il computo viene filtrato dal confronto in percentuale sul Pil. Dei più di 2000 miliardi che sarebbe il fatturato in armi nel 2021, 800 sono stati spesi dagli Usa (e questo si vede bene dalla Top Ten dei contratti firmati dal Dipartimento della difesa americano che abbiamo pubblicato nell’editoriale di agosto), seguiti da Cina, India, GB e solo quinta è la Russia, dimostrando così chi può essere più temibile; anche se il trend vede Cina e India in notevole accelerazione rispetto a un decennio fa – e questo è un dato che sposta in quel quadrante l’attenzione massima per paventare futuri conflitti. Infatti il primo grafico dimostra una corsa agli armamenti che vede l’Asia allargare la forbice della propria fetta di traffici d’armi rispetto al resto del mondo che incrementa progressivamente e nello stesso modo la propria spesa per preparare la guerra.

World military expenditure, by region, 1988–2021. Data and graphic: SIPRI


Il nucleare irrompe di nuovo prepotente nel dibattito mondiale e così abbiamo chiesto a Piergiorgio Pescali di “rassicurarci” di fronte a Zaporizhzhia, alle scelte iraniane, alle minacce neanche velate di Putin. Ricercatore per l’Aiea, Pescali ha visitato tutte le centrali nucleari più famigerate, conosce il mondo del nucleare con obiettiva precisione, riporta dati. Possiamo continuare a preferire un mondo meno nucleare, ma gli argomenti di Pescali provengono da una conoscenza dall’interno degli ambienti saturi di atomi, rimane ampio spazio per preferire soluzioni alternative ma non si può prescindere dalle sue conoscenze che ci illustra in questo podcast proveniente da una puntata di Bastioni di Orione su Radio Blackout, cercheremo di approfondire ulteriormente il côté eminentemente militare dell’applicazione nucleare, che qui trova una ottima introduzione:

Settembre

29 settembre

  • L’obliquo  gioco di Embarghi e Sanzioni

    L’ipocrisia è palese ogni volta che si parla di embarghi che vanno applicati o deroghe agli stessi: diventa un gioco evidente che risponde al bisogno di trovare una spiegazione per una consegna disattesa per dare un segnale di scelta di campo o per sancire un’alleanza rimuovendo sanzioni e rifornendo così stati criminali con armi micidiali.

  • Da un lato si può senz’altro condividere il rifiuto della fornitura di 16 elicotteri Mi-17 da parte del governo Marcos-Duterte appellandosi a sanzioni, che servono per affrancarsi dall’abbraccio russo e schierarsi sul fronte indopacifico dalla parte americana. Ma il vero problema è che comunque finora – e forse sottobanco ancora adesso – i Filippini si approvvigionavano dagli arsenali russi e ora, senza mezzi termini stracciano un contratto con una semplice dichiarazione: «I cambiamenti di priorità resi necessari dagli sviluppi politici globali hanno portato alla cancellazione del progetto da parte della precedente amministrazione» (“BangkokPost”). E comunque gli Usa hanno offerto alternative al bisogno di elicotteri di Manila.
  • Sempre nell’area indopacifica si trovano nei primi giorni di ottobre nuove liste di ditte cinesi sanzionate dal Dipartimento della Difesa (“South China Morning Post”), che colpiscono chirurgicamente imprese produttrici di droni, ma – attenzione! – che si trinceravano dietro la duplice funzione bipolare, dove la vocazione “civile/militare” era una palese foglia di fico, ma in mezzo a tante altre produzioni orientali come occidentali. In questo caso si tratta di DJJ Technology, il più potente costruttore di droni al mondo con sede a Shenzen. Ma la duplice funzione è condivisa da tutte le ditte costruttrici di armi… o altri marchingegni apparentemente innocui come il Parrot Anafi della DJJ.
  • Un’altra richiesta di cancellazione di embargo sulle armi che è un’evidente necessità di alleanza – o almeno neutralità – è quella da parte di Abyi che si fa latore per conto della Somalia di Mohamud (legato mani e piedi al regime di Ankara, ma anche con l’Egitto, che ha un contenzioso pericoloso con Addis Abeba per la diga Gerd) di questa istanza, come riporta “Meridiano42”. Se Abyi riuscisse nell’intento disinnescherebbe una alleanza scomoda di Mogadiscio, soprattutto durante la guerra in corso contro il Tigray. Dunque gli embarghi risultano utili in particolare come merce di scambio e strategie diplomatiche, mentre il regime somalo non riesce ad avere ragione di al-Shabaab.
  • Il fatto che embarghi e sanzioni siano unilaterali li rende un’arma esclusiva dell’Occidente; infatti diventa offensiva la consapevolezza che il paravento delle sanzioni è un gioco affaristico, come quello del governo tedesco di Scholz, che approvando le esportazioni di armi verso Riyad ha interrotto l’embargo deciso nel 2018, a causa del ruolo saudita nella guerra in Yemen (“perplessità sulla vocazione democratica della famiglia saudita poi ribadite con l’assassinio di Khashoggi). Tutto rientra nel bisogno energetico scatenato dalla crisi sarmatica, come scrive “Anbamed” il 30 settembre:

 «L’Arabia Saudita, primo esportatore mondiale di petrolio, ha assunto un ruolo ulteriormente importante nel garantire fonti di energia per i paesi europei, dopo le sanzioni contro la Russia e lo stop di Mosca alle esportazioni di gas e petrolio. Uno dopo l’altro i capi di Stato occidentali si sono prostrati alla corte di Mohammed Bin Salman: prima di Scholz, Biden e Macron».

  • Mediapart” aveva rivelato il 24 settembre i garbugli internazionali che andavano permettendo al colosso di Monaco Hensoldt di aggirare l’embargo attraverso filiali straniere e di un accordo franco-tedesco.
  • Gli Usa avevano già stipulato accordi con la famiglia saudita per realizzare una rete di droni marittimi in funzione anti-iraniana insieme a Israele nel quadro degli Accordi di Abramo trumpiani e sfruttati dalla amministrazione Biden, come riportava il “Wall Street Journal”, un modello che Washington intenderebbe collaudare in Medio Oriente per esportarlo nel resto del mondo: entro la prossima estate US Navy prevede di poter contare su uno stormo di 100 piccoli droni di sorveglianza M5D-Airfox – forniti da vari paesi – che opereranno dal Canale di Suez in Egitto fino alle acque al largo della costa iraniana e forniranno informazioni a un centro di comando in Bahrein, sede della Quinta Flotta degli Stati Uniti. Evidente la necessità di operare un monitoraggio della tecnologia nucleare di Tehran.
    I droni attualmente in fase di test sono disarmati. Ma gli analisti della difesa si aspettano che la Marina si muova verso l’equipaggiamento di alcuni di essi con armi in futuro; tutto ciò nasce dalla preoccupazione per l’espansione dell’influenza dell’Iran in una delle rotte economiche più importanti del mondo. Teheran ha schierato navi e sottomarini equipaggiati con droni aerei.
    Invece la Marina degli Stati Uniti sta testando una serie di imbarcazioni senza pilota, tra cui una che assomiglia a un motoscafo e può raggiungere una velocità di quasi 90 miglia all’ora. Sta anche lavorando con droni aerei tipo Predator e con il Saildrone, che può rimanere in mare per sei mesi.
  • Saildrone

28 settembre

  • Il giro promozionale del sistema di artiglieria più desiderato

    Un sofisticato meccanismo logistico di trasporto “moltiplica” l’utilizzo dei sistemi lanciamissili aviotrasportati Himars, laddove è richiesto l’impiego immediato.
    Sistemi missilistici mobili in uso contemporaneamente grazie al delivery del sistema di arma a cui inneggiano le truppe ucraine per la risoluzione di situazioni difficili. Per ora il sistema di consegna aviotrasportato sta attuando un giro promozionale

  • L’High Mobility Artillery Rocket System (l’ormai mitico Himars) ha sparato martedì 27 settembre nel Grande Nord della Svezia durante una missione di breve durata iniziata ore prima con le truppe che hanno preso il volo a bordo di un C-130 per operazioni speciali partito dalla base aerea di Ramstein, in Germania. La missione è stata simile a quella effettuata giorni prima in Lettonia, dove gli Himars  americani sono stati inviati a sostegno delle esercitazioni di preparazione al combattimento nei paesi baltici. La Lituania  aveva già richiesto (a luglio quando Riga chiese di acquistare sistemi missilistici di difesa costiera e anche l’acquisto di sistemi di difesa aerea a medio raggio, valutando in 763 milioni di dollari gli stanziamenti in spese militari per il 2023).  una fornitura di Himars nel quadro di un cofinanziamento tra i paesi baltici per acquisti dalla Difesa americana; Durante l’estate, gli artiglieri statunitensi hanno fatto lo stesso in Danimarca. Questo ipermovimento è utile anche per lanciare segnali al “nemico”. Questa strategia di dimostrazione di muscoli, promozione commerciale e collaudo per eventuale delivery in situazione di guerra dichiarata è ben descritto da “Stars&Stripes”.

Il Pentagono ha annunciato mercoledì che stipulerà un contratto con l’industria per 1,1 miliardi di dollari in aiuti militari all’Ucraina, compresi 18 sistemi di razzi di artiglieria ad alta mobilità e altre armi per contrastare i droni che la Russia ha usato contro le truppe ucraine. (“DefenseNews”).

Le nuove armi e attrezzature, fornite nell’ambito dell’Iniziativa per l’assistenza alla sicurezza dell’Ucraina, sono destinate a soddisfare le esigenze di Kiev a medio e lungo termine e potrebbero richiedere dai sei ai 24 mesi per arrivare. L’amministrazione Biden, che ha stanziato aiuti per 17 miliardi di dollari per l’Ucraina, ha utilizzato l’autorità presidenziale di drawdown per inviare le armi più rapidamente. L’ultimo contratto comprende 18 Himars della Lockheed Martin, ma anche 12 Titan per il contrasto dei droni di fabbricazione iraniana adottati da Mosca; 20 radar multi-missione in grado di tracciare i colpi di artiglieria e di mortaio, tra gli altri oggetti in volo (l’approvvigionamento di radar è centrale in molti accordi di acquisto); 300 Humvee, i camion per trasporto di attrezzature e ordigni: evidentemente si prevede che la guerra si protrarrà almeno per un paio di anni; gli ucraini hanno ricevuto 16 Himars direttamente dal Pentagono e altri 10 dagli stati europei.

Sfruttando l’intelligenza artificiale e l’apprendimento automatico, il Titan è in grado di operare in modalità opzionale e di aumentare autonomamente le contromisure in qualunque situazione in cui sia individuato un ordigno volante

«Si tratta di un investimento davvero consistente, destinato a far sì che l’Ucraina disponga di ciò che le serve per il lungo periodo, per scoraggiare le minacce future», ha dichiarato un funzionario del Pentagono. «Ma non esclude in alcun modo che continuiamo a investire nelle loro forze attuali con capacità che sono disponibili oggi e che possiamo attingere oggi dalle scorte statunitensi»


  • Il vertice di Bruxelles

  • Nel frattempo a Bruxelles si sono riuniti per la prima volta i Direttori nazionali degli armamenti dei Paesi membri del Gruppo di contatto per la difesa dell’Ucraina, coordinati dal sottosegretario alla Difesa per l’acquisizione e il mantenimento degli Stati Uniti, William A. LaPlante. Alla riunione, a cui ha partecipato anche il Segretario generale della Difesa italiano, generale Luciano Portolano, erano presenti i rappresentanti di 45 nazioni, dell’Unione europea e della Nato, ed è servito ad affrontare le sfide della base industriale della difesa e sulle opportunità di aumentare la produzione di capacità critiche per la difesa a lungo termine dell’Ucraina. Formiche.it riportando la notizia del nuovo coordinamento dei paesi dediti al sostegno di Kyiv, aggiunge anche che lUcraina si rifornirà di sistemi missilistici Himars direttamente dal produttore, quindi trattando direttamente con Lockheed Martin sgravando l Pentagono dal bisogno di fornire con propri sistemi il paese belligerante (non è chiaro chi paghi i sistemi: cioè da dove Zelensky prenda i soldi per onorare tutte queste forniture direttamente dal produttore), permettendo una catena di rifornimenti sostenibile a lungo termine. La decisione, inoltre, riduce lo sforzo imposto agli arsenali Usa per rifornire le difese ucraine ma soprattutto di aggirare la burocrazia (e il controllo) del Congresso.
  • Questo sotterfugio fa parte di un braccio di ferro tra Pentagono e Congresso che si rinnova periodicamente e in periodi di inflazione durante un impegno bellico produce tensioni come quelle descritte da “DefenseNews”, quando le pressioni del Congresso sul Pentagono per mitigare gli effetti dell’inflazione si ritorcono contro i parlamentari (e le loro lobbies in contrasto con il desiderio militarista di una quantità sempre maggiore di giocattoli)

Perché i contratti di appalto pluriennali sono raramente approvati dal Congresso? Il personale addetto agli stanziamenti non vuole rinunciare al potere di mettere in discussione le spese negli anni successivi, e i membri scelgono di non scavalcare il potente personale

  • Il Dipartimento della Difesa americano apparentemente sta proponendo soluzioni per rispondere alla richiesta di fornire “sgravi contrattuali straordinari” alle aziende con contratti a prezzo fisso che stanno subendo l’inflazione al 9%; in realtà sfrutta la situazione perché proprio LaPlante ha invitato a dare ai federali una maggiore autorità per negoziare contratti di approvvigionamento pluriennali per munizioni e sistemi missilistici, eliminando la necessità di negoziare i contratti ogni anno con il Congresso (sottraendogli il controllo sulle forniture), mantenendo le linee di produzione “calde”, migliorando la capacità americana di rifornire le scorte svuotate dalla guerra in Ucraina. Secondo il Pentagono gli appaltatori hanno bisogno di stabilità per produrre sistemi a ritmi significativi per periodi di tempo prolungati. I dollari prevedibili generano stabilità e il modo più facile per ottenerla sarebbero i contratti di approvvigionamento pluriennali nell’ottica guerrafondaia più estremista e che quindi prevede una guerra aperta di lunga durata.
  • Contratti pluriennali: gli appaltatori si assicurano ordini quinquennali

  • Con questa autorità, gli appaltatori hanno una fonte di finanziamento costante, che segnala che i loro prodotti saranno acquistati per anni e crea un incentivo a investire nella forza lavoro, nella ricerca e nello sviluppo e nelle strutture della propria azienda costruttrice di armi, che poi dovranno essere usate e distrutte per continuare a mantenere elevata la richiesta e ottemperare al contratto.
  • Il sommergibile russo Yasen-M è più lungo del Virginia Block ma porta tubi per il lancio verticale di missili più piccoli, così l’imbarcazione americana può trasportare 40 missili Cruise della classe Tomahawk contro i 32 degli avversari russi

  • Un fulgido esempio del giro di affari che può rendere a uno o all’altro dei soggetti in commedia è il missile Tomahawk Block IV. Un contratto di approvvigionamento pluriennale contenuto nella legislazione sugli stanziamenti per l’anno fiscale 2004 ha portato a una produzione di circa 357 missili all’anno, con un prezzo medio di 1,4 milioni di dollari per missile in dollari dell’anno fiscale 2002. Dopo 16 anni, il Pentagono sta nuovamente acquistando lo stesso missile Tomahawk, ma questa volta senza un contratto pluriennale. Dall’anno fiscale 20 all’anno fiscale 22, il Dipartimento della Difesa ha acquistato circa 94 missili all’anno a un prezzo medio di 2,9 milioni di dollari per missile, con un aumento del 107.
  • Per l’anno fiscale 2023 questa procedura è stata approvata solo per il cacciatorpediniere guidato classe Arleigh Burke.
  • Nonostante l’ovvia necessità di acquisti sostenuti di munizioni, nelle tranche di aiuti all’Ucraina approvate dal Congresso dall’inizio della guerra non sono stati approvati appalti pluriennali.

“I dollari prevedibili generano stabilità e i contratti di approvvigionamento pluriennali dovrebbero essere il veicolo per ottenerla”

Costretta a una pianificazione annuale, l’industria della difesa rischia di non fare gli investimenti necessari oltre l’orizzonte di un anno secondo i sostenitori della filiera produttiva, considerando che altrimenti non s’incentiverebbero le aziende a migliorare la capacità e a ridurre i costi. Un modo in cui il Pentagono ha cercato di aggirare questo controllo è stato quello di stipulare contratti per un anno in cui sono stati stanziati dei fondi e poi avere una serie di opzioni per rinnovi automatici di un anno, con l’intento di triplicare la produzione di artiglieria, per le armi che i combattenti usano quotidianamente – le bombe, i missili, i razzi… (praticamente Dr. Strangelove).


Nel corso della riunione di Bruxelles, i direttori degli armamenti sono giunti a indicare la volontà di avviare dei gruppi di lavoro volti a definire strategie multinazionali per risolvere i problemi della catena di approvvigionamento e aumentare la produzione di armi che potrebbero essere inviate in Ucraina. La delegazione statunitense ha illustrato i propri piani per aumentare la produzione di armi a lungo raggio basate a terra, sistemi di difesa aerea, munizioni aria-terra e altre capacità. E così si torna all’inizio della scheda su questi Himars portati in giro come i carri armati di Mussolini: infatti Lockheed Martin non riesce a soddisfare la richiesta di Himars e secondo “BusinessInsider” è in cerca di aziende in grado di costruire più di 100 Himars all’anno: l’Esercito prevede un programma quinquennale che richiede quasi 500 nuovi HIMARS, attualmente costruiti dalla Lockheed Martin. Per gli anni fiscali dal 2024 al 2028, l’Esercito prevede un minimo di 24 nuovi lanciatori all’anno e un massimo di 96, per un totale di 120-480 in cinque anni. L’aggiunta di 480 nuovi lanciatori raddoppierebbe quasi la dotazione mondiale di Himars. L’esercito statunitense ne ha 363 e il Corpo dei Marines altri 47. L’Esercito ha dichiarato nel 2021 – prima che la Russia attaccasse l’Ucraina – che avrebbe cercato di aumentare la sua forza a 547 Himars. La Romania ha 18 Himars e l’approvazione degli Stati Uniti per acquistarne fino a 54. Singapore ha 18 lanciatori e la Giordania 12. Singapore ha 18 lanciatori e la Giordania 12. Oltre all’Ucraina, forse l’acquirente più importante sarebbe Taiwan, che ha in programma di ordinare 29 Himars.

27 settembre

  • Littoral Freedom-variant

  • Fincantieri aveva ottenuto l’appalto per la serie Lcs (Littoral Combat Ships) attraverso la controllata Marinette Marine Corporation, all’interno del consorzio guidato da Lockheed Martin Corporation, la prima nave multiruolo fu la Freedom (che poi ha dato nome alla variante) nel 2008. La consegna approvata dalla Marina militare americana in settembre è la dodicesima fregata, la USS Cooperstown LCS-23, l’importo per la quale si legge su “AdriaEco” del 2015 avrebbe dovuto essere fissato in 279 milioni di dollari, saldati alla consegna… ma ora nessuno ha fatto cenno all’effettiva somma conferita nelle casse di Fincantieri.
  • «Il prossimo passo per Cooperstown è la cerimonia di inaugurazione a New York, seguita dal trasferimento nel suo nuovo homeport di Mayport», questo l’incipit trionfalistico di “ShipMag” nel dare notizia del varo.


  • Scheda tecnica

  • LCS è una nave progettata sia per le attività di sorveglianza e difesa delle coste che per le operazioni in acque profonde, per affrontare minacce asimmetriche quali mine, battelli diesel silenziosi e navi di superficie veloci. Le unità sono allestite in base ad una logica modulare, ed i vari moduli possono essere adattati a seconda del tipo di missione. Le unità della classe LCS hanno una velocità massima di oltre 40 nodi e si configurano come tra le navi militari monoscafo più veloci al mondo.
  • LCS è una piattaforma veloce, agile e focalizzata sulla missione progettata per operare in ambienti costieri e oceanici aperti. Facile immaginare una destinazione d’uso in funzione antiterrorismo, contro i migranti e antinarcos, anche considerando che i porti a cui sono assegnate sono sparsi lungo tutte le coste interne degli Usa, dove dovranno operare queste che sono a tutti gli effetti navi da guerra, come dalle informationi tecniche di Fincantieri:
  • COMBAT SYSTEM

    Capabilities on the LCS in all configurations include self-defense, navigation and C4I.

    SELF-DEFENSE FEATURES INCLUDE:

    • RAM (Rolling-Airframe Missile) Launching System

    • 57 mm Main Gun

    • Mine, Torpedo Detection

    • Decoy System

  • I precedenti
      • USS Minneapolis St. Paul LCS-21 (2021)USS Cooperstown LCS-23 (2021)
      • USS Freedom LCS-1 (2008)USS Fort Worth LCS-3 (2012)USS Milwaukee LCS-5 (2015)USS Detroit LCS-7 (2016)USS Little Rock LCS-9 (2017)USS Sioux City LCS-11 (2018)USS Wichita LCS-13 (2018)

        USS Billings LCS-15 (2019)

        USS Indianapolis LCS-17 (2019)

        USS St. Louis LCS-19 (2020)

        USS Minneapolis St. Paul LCS-21 (2021)

        USS Cooperstown LCS-23 (2021)

        USS Canberra LCS-30 (2022)

        USS Santa Barbara LCS-32 (2022)

    • Interessante notare l’accelerazione nelle consegne e diverse altre varianti Freedom sono in costruzione presso il cantiere navale Fincantieri Marinette Marine, nel Wisconsin. La consegna della futura USS Marinette (LCS 25) è prevista per l’inizio del 2023. Altre navi in ​​varie fasi di costruzione includono le future navi USS Nantucket (LCS 27), USS Beloit (LCS 29) e USS Cleveland (LCS 31). LCS 31 sarà l’ultima LCS variante Freedom informa “AreaDifesa”.

21 settembre

  • Pavloviana reazione alle minacce nucleari del non bluff di Putin

    La reazione immediata del sistema neoliberista di cui fa parte la Russia stessa e il mondo intero alla mobilitazione ordinata dal Cremlino è stata un’immediata ascesa dei titoli legati alla Difesa e Sicurezza nel listini di borsa europei, come riporta “Fta. E in prospettiva il mercato sposterà molte risorse finanziarie a sostegno di titoli collegati alla guerra.
    Era ovvio, ma il riflesso pavloviano a fronte dell’escalation è stato immediato e automatico: la paura nucleare ha fatto scattare i rialzi di Leonardo (5,25%), Thales (5,26%), Bae Systems (4,41%) e Rheinmetall (10,14%).

  • I fantastici quattro

  • Leonardo superando area 8 euro ha completato il piccolo doppio minimo disegnato in area 7,50 dall’8 settembre. La figura si appoggia sul 61,8% di ritracciamento del rialzo dai minimi di novembre 2021, si tratta di un sostegno molto rilevante dal quale è lecito attendersi una reazione consistente. Sopra area 8,30 atteso il test di 8,48, lato alto del gap del 29 agosto, poi resistenza a 9 euro circa.
  • BAE Systems ha disegnato dal top di luglio una figura “triangolo” rialzista. La resistenza da battere è quella degli 810 pence, oltre quei livelli target a 900 circa. Solo sotto la base del “triangolo”, a 750, le prospettive di rialzo verrebbero negate, rischio di cali verso i 650 pence.
  • Thales segue un percorso orizzontale ormai dal massimo di aprile. La rottura (se confermata in chiusura di seduta) di area 119, linea mediana della fascia, permetterebbe il test della parte alta dell’intervallo, in area 128 euro. Resistenza successiva a 140 euro circa. Sotto 115 probabile invece il test della parte bassa del trading range, supporto critico di medio periodo, a 110 euro circa.
  • Rheinmetall ha superato a 158 euro la trend line ribassista disegnata dal top di luglio e sta testando in area 167 la media mobile esponenziale a 50 giorni. Il superamento della media, se confermato in chiusura di seduta, aprirebbe la strada a movimenti verso i 200 euro. Solo con la violazione di area 140 emergerebbe nuovamente il rischio di ribassi (target a 120 almeno). Dal 31 dicembre il titolo tedesco ha guadagnato il 130% del suo valore.

In particolare è quest’ultima a guadagnare di più per la decisione da parte del governo tedesco di investire 100 miliardi di euro che quindi ci si aspetta che sia Bundeswehr a spendere in particolare nel paese buona parte del bottino.

Oltre a Thales e Rheinmetall, anche il produttore di Rafale, Dassault Aviation, il produttore di armi britannico BAE Systems, l’italiana Leonardo (l’unico subappaltatore europeo a gestire una linea di assemblaggio finale per l’F-35 di Lockheed Martin) e la svedese Saab, che sviluppa jet da combattimento (“Gripen”) e droni, sono stati tra i maggiori rialzisti della sessione europea di mercoledì 21 settembre. (“LesEchos”).


  • Parallelismi in Borsa

  • Gli annunci di Mosca hanno avuto un immediato impatto sui prezzi del petrolio che «sono tornati a salire portando il Brent a 93 dollari al barile e il Wti sopra 86 dollari al barile e favorendo anche gli acquisti sui titoli dell’industria petrolifera: a Milano in evidenza Tenaris (+3,7%) e Eni (+2,5%) ma anche nel resto d’Europa Total (10,5% al Cac40), Bp, Repsol sono tra i migliori».

MQ-Reaper

3 settembre

  • A un mese dalla “bomba” Nancy sganciata nel Pacifico

    L’ebdomadario di Lorenzo Lamperti da Taipei per China files ha subito un climax qualitativo e quantitativo di notizie sempre più collegate a strategie belliche e produzioni di armi a partire dall’invasione russa dell’Ucraina, per le evidenti analogie, ma anche le differenze che Lamperti in un pezzo di fine aprile (dove già si citava un invito americano ad aumentare il Budget militare) – riprendendo “The Economist” – enumera insieme alle affinità: con la sua guida ricostruiamo il riarmo nell’Indopacifico nelle ultime settimane.
    Procedendo a ritroso troviamo nella rassegna del 3 settembre situazioni ricorrenti da aprile e che hanno registrato una escalation dopo il provocatorio viaggio di Nancy Pelosi, su cui qualche settimana fa Lamperti nel suo “Taipei Files” registrava l’irritazione dei taiwanesi, che avevano ascritto alla strategia statunitense per alzare deliberatamente la tensione.

  • Stanziamenti e budget

  • Una delle ricorrenze è la richiesta al Congresso da parte della Casa Bianca di approvare la vendita di un pacchetto di armi destinato a Taipei dell’ammontare di 1,1 miliardi di dollari; con il corollario di polemiche, perché tra gli annunci e le consegne passano molti anni. «Il pacchetto, comprende secondo “Politico” 60 missili AGM-84L Harpoon Block II per 355 milioni di dollari, 100 missili tattici aria-aria AIM-9X Block II Sidewinder per dotare gli F-16 per 85,6 milioni di dollari e 655,4 milioni di dollari per l’estensione del contratto per un radar di sorveglianza».
AGM-84L Harpoon Block II

Harpoon Block II è un missile antinave over-the-horizon prodotto da Boeing Defence, Space & Security

  • Soprattutto questa voce relativa ai radar è particolarmente sensibile, come documentato da un dossier pubblicato dal Project2049 Institute ad aprile che sottolinea l’importanza di poter contare su una immediata allerta a fronte di incursioni improvvise. “Formiche.net” segnala che secondo il Dipartimento della Difesa Usa «l’attrezzatura è necessaria per Taiwan per “mantenere una sufficiente capacità di autodifesa” a Taiwan» e corrisponde esattamente alla fornitura che Washington ha assicurato a Kyiv. Infatti, come riporta “Scmp”, il ministro della difesa taiwanese sta cercando 541 milioni di dollari in più per i prossimi 5 anni (guarda caso in linea con gli stanziamenti del Pentagono) per mantenere e sostenere il suo sistema radar di allerta precoce a lungo raggio Pave Paws (Precision Acquisition Vehicle Entry Phased Array Warning System), che secondo il Ministero ha tracciato efficacemente i missili della Pla sparati sopra l’isola il mese scorso; i fondi sono destinati a mantenere le prestazioni operative della stazione radar Leshan dell’aeronautica militare nella contea di Hsinchu, nel nord di Taiwan; ed «è molto importante non solo per dare a Taiwan un tempo di preavviso molto necessario per contrastare gli attacchi missilistici del nemico, ma anche per fornire agli Stati Uniti le informazioni necessarie sui movimenti del Pla».
è un complesso radar di allerta precoce e sistema informatico

Long-range UHF radar di allerta precoce in Leshan.

  • Di recente la stazione ha svolto un ruolo significativo per controllare la traiettoria e i punti di atterraggio degli 11 missili della serie Dongfeng lanciati dall’Esercito Popolare di Liberazione nelle acque su tre lati di Taiwan nel mese di agosto. Costruito dalla Raytheon nel 2003, il sistema di allarme ad arco di fase per l’acquisizione di precisione dei veicoli, del valore di 1,4 miliardi di dollari, è pienamente operativo dal 2013. Situato a un’altitudine di 2600 metri, il gigantesco sistema radar è in grado di rilevare un missile lanciato da una distanza di 5000 chilometri e di seguire i proiettili in movimento in modo estremamente dettagliato, anche da una distanza di 2000 chilometri, un raggio che copre la Cina continentale, il Mar Cinese Meridionale e la Corea del Nord.

Ovvie le rimostranze cinesi per voce di Liu Penguy: «Gli Usa devono smettere di vendere armi a Taiwan poiché qualsiasi contatto militare con l’isola viola il principio di “una sola Cina”». Secondo Pengyu gli Stati Uniti «devono smettere di creare fattori che potrebbero portare a tensioni nello Stretto di Taiwan e dovrebbero dar seguito alla dichiarazione del governo Usa di non sostenere l’“indipendenza di Taiwan”» (RaiNews).

  • Il portavoce dell’Ambasciata cinese ha anche affermato che Pechino continuerà ad adottare misure molto determinate per difendere fermamente la sovranità cinese e gli interessi di sicurezza. A Pechino il Dipartimento di Stato statunitense ha risposto che le vendite sono in linea con la politica statunitense di lunga data di fornire armi difensive all’isola in rispetto della “One China” e ha descritto la «rapida fornitura di tali armi come essenziale per la sicurezza di Taiwan» (Cnn). Proprio l’aggettivo “rapida” è motivo di polemica: infatti i miliardi per approvvigionare con le armi promesse, approvate dal Congresso, prodotte, stanziate… poi vedono una data di consegna procrastinata nel tempo, come nel caso del contratto firmato il 24 agosto per la dotazione di 4 droni, la cui operatività nello Stretto di Taiwan è prevista per il… 2029 (“FocusTaiwan”, 30 agosto).E allora viene da pensare che si tratti di una messinscena – per ora – che intende contenere da parte americana una Cina che sarebbe più ostile se indebolita politicamente ed economicamente e se Xi dovesse perdere la leadership al congresso di ottobre che sta preparando da un paio di anni, ma che sarebbe altrettanto aggressiva se molto ringalluzzita da strumenti di guerra incontrastabili, mancanza di reazioni o di provocazioni mal recitate (stile Pelosi) e potendo contare su alleanze importanti

  • Droni e sistemi per difendersi da incursioni Uav

  • Un altro tassello collocato dall’industria delle armi a Taiwan è la corsa ai sistemi di difesa dai droni più sofisticati (persino ipersonici).
  • Il governo di Taipei ha deciso di incrementare la propria spesa militare del 14 per cento, arrivando al 2,4 per cento del Pil (“Scmp”). Taiwan infatti è indotta a stanziare anche un proprio budget nel settore della Difesa, parallelo a quello imposto dalle forniture Usa: giunge infatti notizia di un sistema di produzione propria. Secondo “Scmp” Taiwan ha in programma di dispiegare un sistema di difesa contro i droni da 143 milioni di dollari sulle sue 45 isole offshore per evitare le frequenti incursioni da parte dei droni della Cina continentale, una mossa sottolineata dall’abbattimento di un drone non identificato il 1° settembre; finora si tratta di droni non militari, «senza logo identificativo», come riporta Lamperti su “il manifesto”, spiegando la situazione sulle isole più vicine al Fujian (arcipelago di Kinmen, a una ventina di chilometri dalla costa cinese), dove sempre più spesso volano questi disarmati droni ambigui, perché ufficialmente non si sa a chi appartengano: « Un’ambiguità sulla quale l’altra sponda dello Stretto sembra voglia giocare, in accordo con la strategia d’estensione dell’area grigia. Obiettivo: degradare i sistemi di difesa e disturbarne il contingente militare, esercitando pressione psicologica sull’opinione pubblica. E, ovviamente, presentare un rebus sui protocolli di risposta. Un conto cosa sarebbe abbattere un drone civile e un’altra abbatterne uno militare».
    Il sistema di difesa con veicoli aerei senza pilota controllati a distanza (Uav) è stato sviluppato dal National Chung-Shan Institute of Science and Technology (Ncsist), il principale ente di ricerca e sviluppo militare dell’isola, i cui altri prodotti includono i missili di difesa aerea Sky Bow e i missili antinave Hsiung Feng. Il radar di ricerca del drone è in grado di rilevare un Uav in avvicinamento identificandolo grazie a una telecamera e al rilevamento delle frequenze. Quando è chiaro che l’intruso è un drone nemico, un sistema di disturbo elettronico ne interrompe i comandi prima che un drone di recupero Asrd catturi l’invasore con una rete.
MU-1612 Uav taiwanese

I prototipi di Teng Yun, contrassegnati con le sigle MU-1611 e MU-1612, ognuno dei quali misura 8 metri di lunghezza con un’apertura alare di 18 metri, possiedono specifiche ufficiali che indicano come i veicoli aerei hanno un raggio d’azione superiore a 1000 chilometri, una durata di volo di 24 ore e un tetto massimo di 7620 metri.

  • A maggio il ministero ha firmato un accordo con l’Ncsist per il primo lotto di sistemi di difesa al costo di 657 milioni di dollari; dovrebbero essere installati nel 2023 dando priorità alle postazioni nelle isole offshore per affrontare le “minacce della zona grigia”.
  • Un altro approccio diffuso è quello di utilizzare i droni per contrastare altri droni. Il Coyote di Raytheon ne è un esempio. Quando vola vicino al suo bersaglio, fa esplodere la sua testata per distruggere il bersaglio o lo colpisce per annientarlo senza esplodere.
  • Con l’intensificarsi della propria presenza intorno a Taiwan, il Pla ha aumentato la frequenza dei voli Uav nell’area. In un caso recente, il Ministero della Difesa giapponese ha riferito di aver avvistato un drone da combattimento e ricognizione TB-001 a media altitudine e lungo raggio (Male) al largo della costa orientale di Taiwan.

  • Il TB-001 Twin-Tailed Scorpion ha una velocità massima di oltre 300 km/h, un tetto massimo di 8000 metri, un raggio d’azione di 3000 chilometri e una autonomia di 35 ore.
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]]> La guerra viene con le armi lo spaccio ad agosto https://ogzero.org/studium/la-guerra-viene-con-le-armi-lo-spaccio-ad-agosto/ Mon, 19 Sep 2022 09:46:18 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=8943 L'articolo La guerra viene con le armi lo spaccio ad agosto proviene da OGzero.

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Fiera dell’usato, basi e magazzini

Anche questo mese va rubricata una fiera tenutasi dal 14 al 20 agosto ad Armiya, significativa perché, come scrive l’“Atlante delle Guerre”, pur se emblema del degrado del complesso militare-industriale della Federazione russa e disorganizzata come l’esercito russo, avrebbe realizzato ricavi per 7 miliardi e 1500 espositori, riprendendo i numeri di “Kommersant”. Certo che anche il sito ufficiale non riporta immagini, video, articoli, articoli esibiti… la splash page usa immagini del 2021 e per il resto si lancia l’edizione 2023. Una fiera fantasma, da cui però sono trapelate alcune agghiaccianti particolarità nella stringata cronaca di “Diritti Globali”: i numerosi ospiti in arrivo da trentadue paesi sono seguiti da un sofisticato dispositivo di sorveglianza e possono osservare i tremendi progressi raggiunti attraverso il conflitto. La Russia è il secondo produttore di armi del pianeta dietro agli Stati uniti. L’export vale quindici miliardi di dollari all’anno. Dopo il discorso di Putin, Shoigu ha “rassicurato” i presenti sulla possibilità di usare in Ucraina armi nucleari: «Da un punto di vista strategico non è necessario farlo per raggiungere i nostro obiettivi». Infatti la reginetta di questa fiera, in base alle illustrazioni e agli articoli dedicati è un “nuovo” carrarmato ottenuto con un restyling di un blindato di epoca brezneviana: il T-62M, nuovamente modernizzato; “Defense Express” ipotizza un impiego adatto nei contesti siriani e libici: proxy war d’altri tempi.

A latere di Armiya si registrano gli interessi per il gas del Mediterraneo orientale con gli schieramenti contrapposti, le cui ripercussioni si avvertono in ambito militare con moltiplicazione di fronti: cioè da un lato la nuova fornitura di S-400 schierati dalla Turchia “a difesa” del fronte mediterraneo del gas – contesto in cui è esplicitamente alleata di Mosca (pur confinante con la Mesopotamia che vede i due alleati di Astana in reciproca tensione); i russi in cambio dell’operazione di intelligence attraverso gli S-400 (che i turchi schierano contro i greci, alleati nella Nato) pagano con Rosatom la nuova centrale atomica di Akkuyu, versando altri 15 miliardi che, insieme ai 20 promessi dai sauditi nell’inedita convergenza di interessi con Mbs, faranno vincere le elezioni a Erdogan, per continuare a fare affari, anche e soprattutto nel traffico di armi e infrastrutture. “Formiche” dà conto di questa fornitura russa per il secondo esercito della Nato, mettendola in relazione appunto con la corsa al riarmo greco.
Infatti dall’altro lato si assiste alla conseguente ulteriore spirale di armamenti greci con l’aereo spia EMB-145H AEW&C, ma anche e soprattutto con pressioni per il potenziamento di basi a Creta (Souda bay verrà raddoppiata per incrementare il numero di sommergibili) e a Cipro (Akrotiri); a questo proposito gli Usa hanno persino tolto l’embargo sulle armi per Nicosia, imposto nel 1987 per facilitare l’unificazione dell’isola, innescando così la corsa agli armamenti tra le due amministrazioni dell’isola; come se si perseguisse l’accensione di ogni minimo focolaio di guerra che contrappone gli schieramenti.
Questo ci ha spinto a dedicare l’attenzione dell’editoriale di agosto alla profusione e proliferazione di basi, una vera rincorsa in questo periodo in ogni quadrante, in preparazione di probabili interventi repentini in zone di improvvisa crisi. Il “New York Times” dà notizia sempre nell’Ellade di un ripristino dell’hub finora in sonno ad Alexandroupoli, riattivazione che ha scatenato le reazioni di Turchia e Russia.
Ma anche nel braccio di ferro Indopacifico spicca l’annuncio formulato su “Nikkei” dall’ambasciatore filippino di una nuova serie di basi americane nell’arcipelago di Manila, perché è evidente che si inserisce nelle tensioni relative alle esercitazioni del Pla attorno a Taiwan; da quando le forze armate statunitensi cercano di distribuire le forze lungo la cosiddetta prima catena di isole che si estende dal Giappone al Sudest asiatico, l’importanza geopolitica delle Filippine va crescendo e la prospettiva è che entro i prossimi 3 anni gli Usa possano contare su 8 nuove basi nelle Filippine, secondo “Stars and Stripes”.
Ma con la guerra scatenata in Europa orientale le basi assumono il ruolo di deposito e smistamento armi, oltre che di posizionamento al fronte come per i bombardieri Eurofighter italiani dislocati il 29 luglio a Malbork in Polonia a meno di 130 chilometri da Kaliningrad (come informa Antonio Mazzeo). E allora vanno ricordati i campi di smistamento di armi stoccate in Germania, Polonia e in Ucraina stessa, dove il 60 per cento delle forniture non sono arrivate in prima linea perché bloccate – o più spesso – scomparse, come denuncia “Armi e Tiro”. Questo perché la Germania intende mantenere il controllo diretto su sufficienti materiali bellici e non esacerbare ancora di più i rapporti con la Russia.
Ma è soprattutto il territorio polacco che si va trasformando in un magazzino di armi provenienti da tutti i 40 paesi che partecipano al rifornimento antirusso: il 3 agosto i russi hanno distrutto un magazzino di armi destinate all’Ucraina, stoccati a Radejiv nella regione di Lviv; la cellula nevralgica della distribuzione delle armi è il Centro di coordinamento internazionale dei donatori descritta dal “NYT”. Le spedizioni iniziali di armi, tra cui missili antiaerei Stinger e anticarro Javelin, sono arrivate in Polonia e sono state trasportate rapidamente oltre il confine. Ma man mano che vengono donate armi più grandi, pesanti e complesse, i pianificatori militari inviano le spedizioni anche via mare, ferrovia e camion.
A fine luglio il centro aveva spostato più di 78.000 tonnellate di armi, munizioni e attrezzature per un valore di oltre 10 miliardi di dollari, secondo i funzionari militari statunitensi e occidentali. Il centro organizza anche l’addestramento dei soldati ucraini all’uso e alla manutenzione delle armi, come l’HIMARS, che richiede almeno due settimane di addestramento.
Intanto Kiyv ha ricevuto 230 tank da Polonia e Repubblica ceca, provenienti dal Patto di Varsavia, dunque non necessitano di addestramento per ufficiali ucraini, e questo chiude il cerchio con la fiera di Armiya, che dimostra come quella in corso sia una guerra fatta con armi obsolete. Infatti i 250 carri armati Abrams in gran spolvero nel loro ultimissimo modello rimarranno all’esercito di Varsavia in cambio di 1,2 miliardi di dollari versati alla General Dynamics Land Systems (“DefenseNews”); ma sono in consegna per il 2025 – per la prossima guerra, più moderna dopo lo svuotamento degli arsenali.


General Dynamics M1A2 SEPv3 Abrams tank

Siti consultati:

  • Armiya: sito ufficiale della fiera russa delle armi
  • Atlante delle Guerre: Fiera delle armi russe: impantanata nel web (17 agosto)
  • Diritti Globali”: A Mosca la fiera delle armi, Putin fa affari: «Così libero il Donbass» (17 agosto)
  • Defense Express”: Armiya-2022: russia’s T-62M Tank Latest Modernization (18 agosto)
  • Breaking Defense”: A second S-400 deal with Turkey? Not so fast, insiders say (12 settembre)
  • Formiche”: Le conseguenze (serie) dell’arrivo di altri S-400 russi alla Turchia  (17 agosto)
  • Formiche”: Cipro, perché la decisione Usa sull’embargo fa indignare la Turchia (17 settembre)
  • New York Times”: Sleepy Greek Port Becomes U.S. Arms Hub, as Ukraine War Reshapes Region (18 agosto)
  • Nikkei”: Philippines may allow U.S. military access during Taiwan crisis (5 settembre)
  • Taiwan News”: Philippines could allow US troops access to military bases during Taiwan conflict (5 settembre)
  • Armi e Tiro”: Usa: il 70 per cento delle armi non ha raggiunto l’Ucraina? (14 agosto)
  • New York Times”: Special Military Cell Flows Weapons and Equipment Into Ukraine (27 luglio)
  • DefenseNews”: Abrams-maker GDLS announces $1.1 billion tank deal for Poland (25 agosto)

GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

100 %

Avanzamento



La Top Ten dei contratti del Dipartimento americano della Difesa in agosto

La rivista “ClearanceJobs” ogni mese elenca in ordine per importo i contratti di fornitura per il Dipartimento della Difesa americano con la distinzione del corpo dell’esercito e specifica dell’azienda produttrice che incassa cifre da capogiro; è una lettura interessante che vi sintetizziamo per avere un ordine di idee dell’enorme giro di affari, di produzione legata al comparto difensivo e di soggetti coinvolti (Agenzie, enti, aziende e poi logistica e magazzini, stoccaggio… ma soprattutto Università e laboratori di ricerca).

  1. US Navy il 12 agosto ha stipulato un contratto del valore di 7.630.940.571 con Lockhheed Martin Corp. di Fort Worth, Texas;
    l’accordo riguarda l’acquisto di 129 aerei del Lotto 15, come segue: 49 velivoli F-35A per l’Aeronautica; tre velivoli F-35B e 10 velivoli F-35C per il Corpo dei Marines; 15 velivoli F-35C per la Marina; 32 velivoli F-35A e quattro velivoli F-35B per i partecipanti non appartenenti al Dipartimento della Difesa (DOD) degli Stati Uniti; e sedici velivoli F-35A per i clienti delle Vendite militari estere, oltre a 69 kit di hardware tecnico.
  2. US Air Force il 30 agosto ha stipulato un contratto del valore di 5.712.635.494 con CACI NSS LLC, Chantilly, Virginia;
    l’Enterprise Information Technology fornisce servizi IT aziendali che dovranno essere conclusi entro il 2032.
  3. Missile Defense Agency il 30 agosto ha stipulato un contratto del valore di 5,021.000.000 con Boeing Co., Huntsville, Alabama;
    per l’integrazione, il collaudo e la preparazione del sistema (SITR), dell’ingegneria complessiva dell’elemento GMD (Ground-Based Midcourse Defense) e dell’integrazione del GMD con il sistema di difesa missilistica.
  4. US Navy il 22 agosto ha stipulato un contratto del valore di 4.396.000.000 con Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory, Laurel, Maryland;
    per la ricerca, lo sviluppo, l’ingegneria, il collaudo e la valutazione per i programmi del Dipartimento della Difesa nell’ambito delle sue aree di competenza principali, tra cui il collaudo e la valutazione dei sistemi strategici; sicurezza e sopravvivenza dei sottomarini; scienza e ingegneria spaziale; sistemi di combattimento e missili guidati; difesa aerea e missilistica e proiezione di potenza; tecnologia dell’informazione, simulazione, modellazione e analisi delle operazioni; ricerca, sviluppo, test e valutazione relativi alle missioni. Questo contratto include opzioni che, se esercitate, porterebbero il valore cumulativo del contratto a 10.600.000.000 di dollari. Il lavoro sarà svolto a Laurel, nel Maryland, e dovrebbe essere completato entro agosto 2027.
  5. US Special Operation Command il 1° agosto ha stipulato un contratto del valore di 3.000.000.000 con L3 Communications Integrated Systems, Greenville, Texas;
    la consociata Armed Overwatch fornirà alle Forze per le Operazioni Speciali sistemi di velivoli che soddisfino i requisiti di supporto aereo ravvicinato, attacco di precisione e intelligence armata, sorveglianza e ricognizione, per l’uso in operazioni di guerra irregolare a sostegno della Strategia di Difesa Nazionale
  6. US Air Force il 31 agosto ha stipulato un contratto del valore di 2.214.952.163 con Boeing Co., Defense, Space & Security, Seattle, Washington;
    per gli abbonamenti e licenze relativi agli aerei KC-46A Air Force Production Lot 8,. Il contratto prevede l’esercizio di un’opzione per un’ulteriore quantità di 15 aerei KC-46A. Il lavoro sarà svolto a Seattle, Washington, e si prevede che sarà completato entro il 30 novembre 2025
  7. US Transportation Command il 22 agosto ha stipulato un contratto del valore di 1.630.630.000 con Federal Express Team, Memphis, Tennessee;
    per la continuazione dei servizi di trasporto aereo charter internazionali a lungo e corto raggio per il Dipartimento della Difesa. Il periodo di opzione va dal 1° ottobre 2022 al 30 settembre 2024.
  8. La Disa il 2 agosto ha stipulato un contratto del valore di 1.500.000.000 con Lumen Technologies Government Solutions Inc., Herndon, Virginia;
    per fornire servizi e capacità di trasmissione end-to-end essenziali per la Defense Information System Network (DISN) Indo-Pacific, l’infrastruttura di telecomunicazioni consolidata a livello aziendale del Dipartimento della Difesa per l’area di responsabilità del Comando indopacifico degli Stati Uniti, che include l’Alaska. Il contratto prevede un periodo di esecuzione di 10 anni.
  9. US Transportation Command il 2 agosto ha stipulato un contratto del valore di 1.447.524.000 con Patriot Team, Tulsa, Oklahoma;
    per la continuazione dei servizi di trasporto aereo charter internazionali a lungo e corto raggio per il Dipartimento della Difesa. Il periodo di opzione va dal 1° ottobre 2022 al 30 settembre 2024. Il lavoro sarà svolto a livello globale.
  10. US Navy il 12 agosto ha stipulato un contratto del valore di 1.013.571.576 con Rolls-Royce Corp., Indianapolis, Indiana;
    Il contratto prevede la manutenzione intermedia a livello di deposito e il relativo supporto logistico per circa 210 motori T-45 F405-RR-401 Adour in servizio a supporto della Marina.

Agosto

31 agosto

  • Il risveglio del più militarista degli imperi

  • Budget e ipersonici

  • Oltre alla cifra record richiesta per il budget della Difesa di Taiwan, nell’Indopacifico l’altro budget di spesa militare con incrementi stellari è quello giapponese: «Il Giappone rafforzerà drasticamente le proprie capacità di difesa grazie a un forte aumento delle spese destinate al settore per fronteggiare il contesto di sicurezza globale deteriorato a partire dall’invasione russa dell’Ucraina», ha spiegato il premier Fumio Kishida. Si tratta dell’undicesimo aumento di seguito delle spese militari nipponiche richiesto dal partito liberal democratico al potere dettagliando un centinaio di voci di spesa, secondo “The Diplomat”, che aggiunge alla cifra diffusa durante il G7 dal primo ministro altri 10,3 miliardi richiesti dall’Atla, l’agenzia ministeriale per l’acquisizione tecnologica, per procedere nel suo programma di caccia di prossima generazione in collaborazione con il Regno Unito. Questo progetto non prevede la rinuncia all’acquisto di altri 6 Lockheed Martin F-35A Lightning II, su cui montare i missili norvegesi Joint Strike della Kongsberg (un’integrazione che proviene dal contratto stipulato da Kongsberg con Lockheed Martin che ha ricevuto 57,3 milioni per la certificazione, da quanto trapelato su “AreaDifesa” di un anno fa).

    La lista della spesa

    Ma le aggiunte non si fermano qui, perché la marina pretende come stanziamento a parte 3,6 miliardi per continuare a trasformare le sue due portaelicotteri di classe Izumo – JS Izumo e JS Kaga – in portaerei in grado di operare con i caccia F-35B Lightning multirole fighter, il cui numero dovrebbe essere incrementato (sempre fuori budget) di 6 apparecchi.

    A questi si aggiungerebbero 6 elicotteri da pattugliamento antisommergibile SH-60L, una variante aggiornata dell’elicottero navale multiruolo SH-60K sviluppato dall’ATLA e dalla società giapponese Mitsubishi Heavy Industries e 6 pattugliatori d’altura (OPV) di nuova generazione da 1920 tonnellate, che prevedono un equipaggio ridotto a un terzo delle vecchie fregate della classe Mogami. Una vera e propria lista della spesa che procede di mezza dozzina in mezza dozzina spizzando tra i banchetti del mercato delle armi, mossi dalla ossessione di difendere le isole agli estremi dell’arcipelago: le Nansei nel profondo sud e le contrastate Senkaku/Diaoyu, rivendicate da Pechino.

  • Anche “Formiche.net” ha ripreso la notizia, focalizzandosi sul fatto che a fronte di una richiesta di bilancio per il prossimo anno che ha raggiunto la cifra record – per l’undicesimo anno consecutivo – di oltre 788 miliardi di euro, per il ministero della Difesa sono stati preventivati più di 40 miliardi di euro. I fondi verrebbero destinati al riarmo e all’implementazione di misure di sicurezza per fronteggiare le minacce crescenti del panorama geopolitico, in particolare sarebbero possibili acquisti di missili terra-nave a lungo raggio, o Ssm, dotati di un raggio di tiro di circa mille chilometri ottimo deterrente verso le minacce esterne. “Stars&Stripes” è più dettagliato nella notizia, sommando al plafond alcuni spiccioli (circa 4 miliardi) che si vanno ad aggiungere al totale: «Tra questi, la produzione massiva di missili terra-nave e di bombe plananti ad alta velocità da utilizzare per la difesa delle isole e la costruzione di nuovi cacciatorpediniere dotati di una migliore capacità di intercettazione dei missili e del sistema di intercettazione missilistica Aegis con una maggiore capacità di abbattere i veicoli plananti ipersonici». Si arriverebbe a 43,2 miliardi, dal calcolo di “Mainichi Shinbun”, secondo il quale in risposta all’aumento delle spese per la difesa e le attività militari cinesi, il ministero avrebbe così elaborato questa dispendiosa strategia per garantire la “superiorità asimmetrica”, ossia impedire l’invasione sfruttando ed esaurendo le debolezze di un nemico temibile; a tale scopo il ministero stanzierà fondi per estendere il raggio d’azione dei missili guidati terra-nave Type-12 della Forza di autodifesa terrestre, mirando a difendersi dalla flotta di navi in affiancamento al sistema Aegis, che ha nel mirino i droni ipersonici.
  • I veicoli ipersonici sono la nuova ossessione occidentale nel Pacifico: “The Diplomat” riportava la richiesta di fondi giapponesi per continuare a condurre ricerche sia sul proiettile planante iperveloce, per la difesa di isole remote, sia sui missili ipersonici, che possono raggiungere velocità ipersoniche, oltre cinque volte la velocità del suono, come quelli cinesi, che tanto hanno impaurito il Giappone.
  • XAC X-20 al plasma, invisibile e ipersonico

  • Gli scienziati cinesi hanno utilizzato una galleria del vento per testare un dispositivo al plasma: una striscia di membrana gialla e luminosa che copre la parte anteriore dell’aereo. Secondo “Scmp” il dispositivo è in grado di stimolare il flusso d’aria e di aumentare il coefficiente di portanza di un aereo di quasi un terzo, impedendogli di stallare. Un bombardiere Stealth utilizza una cellula piatta senza coda per ridurre le possibilità di rilevamento radar. Tuttavia, questa configurazione del corpo alare rende più difficile il controllo del volo, soprattutto a bassa velocità.
  • Ma, riporta “NewsTrackLive.com” la Cina sta sviluppando la tecnologia al plasma proprio per il controllo dell’assetto degli aerei ipersonici e per migliorare l’invisibilità ai radar. Il dispositivo è una sottile striscia di membrana che copre la parte anteriore di un aereo con un’ala volante. La membrana rileva il pericolo in anticipo e ionizza le molecole d’aria con l’elettricità ad alto voltaggio, provocando una pioggia di plasma – o particelle elettricamente cariche – sulle ali quando la velocità del vento che soffia sopra le ali raggiunge un punto. Le docce al plasma possono aumentare il flusso d’aria e il coefficiente di portanza dell’aereo di circa un terzo. Secondo i ricercatori, questo potrebbe evitare uno stallo anche se l’aereo cadesse con il muso inclinato a una velocità insolitamente bassa (108 km/h), come è avvenuto nel 2008 a un B2 Stealth della base di Guam. Gli esperimenti nella galleria del vento del professor Niu Zhongguo paiono soddisfacenti; la Cina compete sugli stessi temi con la ricerca che si svolge nelle gallerie degli Usa, in Europa (secondo fonti di “DefenseNews” riguardante il progetto da 110 milioni European Hypersonic Defence Interceptor – EU HYDEF) e… in Giappone. Ma i loro dispositivi devono essere accesi o spenti manualmente: di qui il bisogno di correre ai ripari con affanno, visto che secondo alcuni esperti militari, lo XAC H-20 – che indiscrezioni (“GlobalTimes”) danno in procinto di essere collaudato – consentirà alla Cina di sfidare il dominio militare degli Stati Uniti in molte aree del mondo, poiché può percorrere lunghe distanze trasportando testate nucleari e missili ipersonici. Gli aerei ipersonici possono viaggiare a cinque volte la velocità del suono; un “mantello plasmatico” sarebbe in grado di migliorare l’invisibilità dei radar e un'”antenna al plasma” di formato più piccolo potrebbe captare segnali anche deboli.
  • Anche dallo Xinjiang fa capolino il pericolo che preoccupa americani e loro alleati del Pacifico: il Comando militare dello Xinjiang dell’esercito popolare ha testato un missile di difesa terra-aria di ultima generazione nell’altopiano della regione, come riferito dall’emittente statale CCTV, mentre gli Stati Uniti e l’India si preparano per le esercitazioni militari congiunte sull’Himalaya in ottobre.
  • Gli osservatori militari sentiti da “Scmp” hanno detto che dalle riprese sembravano essere missili di difesa aerea HQ-17A, parte di un sistema integrato che può stare in un singolo veicolo ed è considerato molto mobile e preciso. Uno di loro ha detto che i test nello Xinjiang erano una dimostrazione di deterrenza nel conto alla rovescia per le esercitazioni India-USA vicino al confine conteso tra India e Cina.
  • Esercitazioni

  • Preludio all’enorme stanziamento di miliardi da parte di Tokyo per le spese militari dei prossimi mesi è stato il primo lancio di un missile da parte dell’esercito americano sul territorio giapponese; la descrizione delle richieste di spesa del governo vedranno voci esclusivamente dedicate all’aeronautica e marina giapponese. Forse non si prevede alcuna possibilità di una possibile invasione da affrontare con truppe di terra, ma comincia a serpeggiare il bisogno di esercitazioni per la difesa di terra.

Infatti “Stars&Stripes” il giorno prima dell’annuncio di Kishida sulla richiesta di budget per la Difesa 2023 ha dato conto di una messinscena molto fotografata dalla stampa specializzata durante esercitazioni insieme all’esercito giapponese a Kumamoto a documentare il primo lancio di Javelin, che richiama potentemente i successi della difesa ucraina. Oltre ai Javelin sparati dalla 11ª Divisione aviotrasportata di Fort Wainwright, la Forza di autodifesa terrestre nipponica ha lanciato quattro dei suoi missili anticarro portatili, i Type 01 LMAT 01, durante le esercitazioni congiunte. Orient Shield è un’operazione speciale che ha preso il via quest’anno quando le tensioni nella regione hanno raggiunto i livelli più alti degli ultimi anni dopo la visita di Nancy Pelosi al parlamento di Taipei.

Le esercitazioni occupano in questo stadio di tensione e di misurazione tra contendenti ogni quadrante, ogni miglio marino e soprattutto i territori di frontiera sono i più ambiti per addestramenti congiunti e prove di invasione realizzate da eserciti che sanciscono o promuovono così alleanze, che nell’ondivago schieramento delle strategie geopolitiche attuali ritagliano i campi contrapposti nel presente prossimo.

Izumo

28 agosto

  • Italian early warning. Gli acquisti esclusivi presso Israel Aerospace Industry

    IAI ha venduto all’esercito italiano due altri CAEW G550 Gulfstream, velivoli ad allerta precoce (eufemismo per aerei spia) che l’Italia possiede in esclusiva all’interno delle forze armate europee, per 550 milioni di dollari. La notizia diffusa da “Haaretz” è sorprendente soprattutto perché è ufficializzata da Israele, mentre era stata mantenuta segreta da mesi; forse perché i due altri aerei-spia della stessa fattura in dotazione all’esercito italiano hanno sorvolato lo spazio romeno in funzione antirussa già l’8 marzo:

  • L’Aeronautica militare italiana schiera due G550 Caew, acquisiti da Israel Aerospace Industries, in linea ed operativi dal 2016/17. L’ordine fa parte di un accordo militare tra Italia e Israele del 2003. Quest’ultimo prevedeva due velivoli G550 Caew e un satellite di osservazione e controllo OPSAT 3000 a fronte della fornitura di 30 velivoli d’addestramento avanzato Leonardo M-346 alla Israeli Air Force (“StartMag”, 18 marzo).

  • G550

    La traccia che il satellite Perseo71 ha rilevato l’8 marzo del volo del CAEW G550 italiano partito dall’aeroporto di Pratica di Mare

  • I Gulfstream hanno poi partecipato ufficialmente all’esercitazione “Mare Aperto” sempre a marzo e poi alla sua seconda edizione di ottobre (come attestato da “Analisi Difesa”).

    Vocazione italiana all’intelligence militare nel Mediterraneo

    Proprio il 7 marzo l’Aeronautica ha ricevuto presso la base aerea di Pratica di Mare il primo degli 8 velivoli Gulfstream G550 versione green Jamms, ordinati dal governo Conte.
    A luglio di quest’anno IAI aveva annunciato di essersi aggiudicata un contratto di oltre 200 milioni di dollari per quella che descriveva come la fornitura di aerei da missione speciale a un paese europeo membro della Nato, senza però rivelare quale fosse, ma un’indagine di Haaretz ha rivelato che si tratta dell’Italia – e che l’aeronautica militare italiana è anche il cliente di un altro enorme accordo annunciato da IAI nel 2020

  • Il velivolo italiano G550 a missione speciale si aggiunge a una squadra di mezzi Nato – scrive “The Aviationist” –, tra cui gli E-8 JSTARS e gli RC-135V/W statunitensi e gli Airseeker ISR (Intelligence Surveillance Reconnaissance) britannici, che monitorano quasi costantemente la situazione a terra e in aria in Ucraina e lungo i confini con Bielorussia e Moldavia. Il 7 marzo 2022, inoltre, un’aerocisterna KC-767A dell’Aeronautica Militare Italiana ha effettuato la prima missione del tipo sull’Europa dell’Est a supporto dei jet da combattimento impegnati nella missione Nato di Air Policing rafforzata.
  • Intorno al 2005 l’aeronautica israeliana ha acquistato cinque velivoli Eitam basati su Gulfstream G550 per fungere da nuova piattaforma IDF per la nuova generazione di sistemi AEW. I nuovi velivoli utilizzano la suite di sensori a doppia banda EL/W-2085 e sono più capaci e meno costosi da utilizzare rispetto ai vecchi Boeing 707 basati su EL/M-2075. IAI ha apportato ampie modifiche alla fusoliera del Gulfstream, come l’aggiunta di radome sporgenti in materiale composito, per alloggiare le antenne radar in modifiche conformi al corpo. Basato presso la base aerea di Nevatim.
    Nel 2007, quattro velivoli simili al G550-EL/W-2085 sono stati acquistati dalla Republic of Singapore Air Force per sostituire i suoi E-2C Hawkeyes aggiornati. I nuovi G550 sono entrati in servizio il 13 aprile 2012, l’altro acquirente dell’articolo  di IAI, secondo “Thai Military and Asian Region”.

24 agosto

  • Medio Oriente. L’impiego di determinate armi a sostegno di strategie di accordi

    Una scheda difficile da strutturare sui movimenti di armi in Mena, perché deve raccogliere e far dialogare dati, schede tecniche, strategie e alleanze attorno a Jcpoa, nuove tecnologie di sperimentazione per droni iraniani, embrionali scudi protettivi ebraico-statunitensi… macchine belliche e diplomatiche, collegate tra loro perché in preparazione di rivolgimenti; attive – e anche un po’ a “fine vita” – invece le armi occidentali inviate in Ucraina e ritrovate in Palestina, più piccole e adatte per i conflitti a bassa intensità nella continuità tradizionale della proxy war locale. E sempre tra quelle sperimentati vanno annoverati i sistemi in uso nuovamente in Siria, dove va in scena una nuova tensione fatta di classici mortai e jet.

    Il campo siro-libanese

    E proprio da un paio di fronti mesopotamici traiamo alcuni spunti per mostrare come il conflitto in corso richieda quel tipo di armi in uso – per una volta non ordinato, o messo a bilancio in previsione di future battaglie.

  • Forse è utile cominciare inquadrando l’inspiegabile scontro armato tra Usa/Iran in Siria, se non collocato nella – appunto – più ampia trattativa che tenta di sottrarre Tehran all’abbraccio di Astana: gli accordi Jcpoa furono gestiti da Biden già da vicepresidente e ora silenziosamente, attraverso una raffinata diplomazia – che rassicura Israele con i miliardi per IronBeam –, concede e consente ai turbanti di spacciare per successo un accordo win-win. Forse ci sono le condizioni perché le parti si accordino sulla cancellazione di sanzioni all’Iran se disponibile a consentire le ispezioni Aiea.
    Questo avviene confrontandosi con prove di forza prima dei tavoli di trattativa in tutti quei panorami esterni al territorio iraniano ma controllati da Tehran. In particolare quella Siria su cui preme a Nord Erdoğan e a Sud si registrano bombardamenti di Tel Aviv («Il generale iraniano Abul-Fadhel ‘Yejeilan è stato ucciso all’alba del 22 agosto da bombardamenti israeliani») in risposta agli attacchi di droni delle milizie sciite su piattaforme di gas israeliane di Karish, , in una area di 860 chilometri quadrati del Mediterraneo disputata tra Israele e Libano: Omer Dostri, stratega militare del Jerusalem Post valuta le dotazioni di Hezbollah in 45.000 razzi a corto raggio che possono percorrere distanze fino a 40 km, escluse le bombe da mortaio, oltre a circa 80.000 razzi a medio e lungo raggio, decine dei quali sono precisi e circa 1500 sono i razzi lanciati ogni giorno. Quali droni sta adottando hezbollah verso le piattaforme israeliane? Il più efficace è Ayub, basato sull’iraniano Shahed 129, un modello “ispirato” al modello israeliano “Hermes 450” caduto a Beirut durante la Seconda guerra del Libano nell’estate del 2006; poi il Mirsad 1, basato sul Mohajer 2 iraniano, tranne che per alcune differenze esterne; ma soprattutto il Ma’arab, sul modello del Yasser iraniano. Inoltre Hezbollah può contare su droni di fabbricazione cinese
  • Israele contrappone sensori speciali per proteggere da azioni ostili non meglio definiti da Idf, probabilmente alternativi e meno costosi dei più sofisticati sistemi dell’IronDome e IronBeam: infatti già il 7 marzo 2022 riportando le reazioni per l’incursione dimostrativa di 3 droni sciiti proprio verso le piattaforme di Karish si poteva leggere su “Ynetnews”:
  • ««Con sede in Israele, Skylock Systems è specializzata nella progettazione e produzione di tecnologie per il rilevamento, la verifica e la neutralizzazione di droni non autorizzati. La tecnologia dell’azienda è stata impiegata in 31 paesi». Secondo Itzik Huber (Ceo della Skylock), «Israele deve adattare i sistemi di difesa missilistica esistenti per contrastare efficacemente i droni, anziché affidarsi ai costosi intercettori Iron Dome. Poiché questi piccoli velivoli sono diventati così facilmente disponibili, il problema diventerà sempre più pressante con il passare del tempo»

    • I sistemi speciali orientati ai droni sono dotati di sensori ottici in grado di identificare il tipo di veicolo aereo senza pilota in volo, il tipo di carico utile trasportato e altro ancora.

    «I droni richiedono attrezzature speciali e soluzioni speciali perché sono piccoli e i normali sistemi radar non li vedono; non sono un classico bersaglio aereo. Si possono disturbare le comunicazioni; si può sparare a un drone attivo per attaccare l’altro drone».

    Ma ci son anche altri leader del settore della rilevazione di incursioni dei droni. Per esempio Lior Segal, Ceo di ThirdEye Systems, ha affermato che un sistema di difesa laser come quello che l’Idf sta attualmente sviluppando potrebbe essere un buon modo per difendersi da un piccolo drone, ma ha notato che la tecnologia è ancora lontana da applicazioni pratiche. Per questo motivo, ritiene che l’Idf debba ricorrere a metodi antiaerei più tradizionali. Il mercato dei radar per il rilevamento dei droni sarà in costante espansione spiega “Jeunesexpress”, pubblicando un rapporto sul periodo 2022-2028.


  • Scontri che non inficiano la tendenza a ridimensionare le tensioni nell’area, che farebbero solo il gioco di Erdoğan?
    Il traffico di armi vede addirittura, come riporta Matrioska di Yurii Colombo, la cooperazione tra Mossad e Cremlino dove i servizi israeliani confermano la consegna di armi di provenienza occidentale da Kyiv a Gaza e la distruzione di 22 tonnellate di armi da parte dell’Idf; ma anche in questo caso è evidente che il traffico nell’area è quello di armi leggere, munizioni e giubbotti antiproiettile, che viaggiano in parallelo con i traffici di droga. Tanto che le consegne sarebbero passate attraverso il territorio giordano e le armi sarebbero arrivate dalla Romania; il presidente israeliano e russo hanno discusso le possibili opzioni di cooperazione per eliminare il contrabbando di droga e armi dall’Ucraina verso il Medio Oriente e il Sudest asiatico e hanno deciso di rafforzare la cooperazione tra i servizi speciali e l’intelligence militare

  • La Russia non ha poi mancato di rimarcare la sua presenza in Siria, schierandosi contro le provocazioni israelo-americane nel Sud controllato da hezbollah. Infatti anche gli Usa hanno “risposto” ad attacchi, come scrive “Anbamed”; la difficoltà a comporre un quadro attraverso la lente dello studio dei movimenti di armi proviene dal bisogno delle parti in campo di mostrare sistemi di difesa per cui Biden ha intrapreso il viaggio del 14 luglio a Tel Aviv
  • La potenza di fuoco israeliana
  • Questi muscoli van mostrati in schermaglie, che sono di preparazione per arrivare agli accordi da posizioni di forza; in quest’ottica vanno inseriti gli scontri tra Usa e Hezbollah nel sud della Siria e in questo caso gli ordigni usati sono diversi dagli Ayub che nella stessa area vedono contrapposti israeliani e Hezbollah. Gli americani hanno sfoderato elicotteri Apache, cannoniere volanti AC-130 e obici M777 – armi non propriamente tecnologicamente avanzate, ma utili per quella guerriglia di provocazione innescata da americani e milizie a metà agosto, per innescare la reazione e quindi alzare il costo delle trattative e evidenziare schieramenti.

«Gli Stati Uniti hanno iniziato a colpire il 24 agosto postazioni di milizie nella provincia di Deir Azzour, al confine con l’Iraq: una rappresaglia dopo l’attacco con razzi subito dalla base Usa. In risposta le milizie sciite hanno colpito con due razzi la base Usa all’interno del campo petrolifero di Coneco, di conseguenza caccia e elicotteri statunitensi hanno preso a sorvolare la zona, colpendo le basi delle milizie sciite per tre giorni consecutivamente, uccidendo 3 miliziani che stavano caricando un lanciarazzi mobile. Fajr-3 di produzione iraniana, la gittata di questo razzo terra-terra è di 45 chilometri e il peso della testata è di 45 chili. La Casa Bianca sostiene di aver colpito milizie filo iraniane, mentre il ministero degli esteri di Teheran ha negato qualsiasi legame con le milizie colpite» (“Anbamed”, 26 agosto 2022).

Negli stessi tre giorni si registrano i bombardamenti quotidiani israeliani nella zona Nordoccidentale della Siria, presso Hama e Tartous

A Sud anche hezbollah contro la base americana di At-Tanf con 900 truppe schierate a difesa dei campi petroliferi orientali del paese, adotta UAV diversi dagli Ayub che li contrappongono a Israele sulla costa: altri droni iraniani – che sono quelli adoperati come disturbo per la presenza americana nell’Oriente siriano.

L’Iran ha una flotta tra le più tecnologicamente avanzate e diversificate al mondo nella categoria MALE (European Council on Foreign Relations fornisce un completo elenco di medium altitude long endurance di produzione iraniana) e sembra in procinto di fornire anche l’esercito russo proprio con quei droni testati in Siria: i  Mohajer-6 e i Shahed-129, basati sul modello americano UAV RQ-170 catturato nel 2011. La base sotterranea sui monti Zagros al confine con l’Iraq è la più dotata di velivoli senza pilota, comprendente anche i nuovi Ababil 2, costruiti da Tehran in Tajikistan. L’Iran si aggiunge con forza alle altre forze regionali che fanno sempre più affidamento sui droni in diversi teatri, tra cui lo Yemen, l’Iraq, la Siria e lo Stretto di Hormuz. In questi ultimi giorni di agosto 2022 l’industria bellica iraniana sta testando le capacità di ricognizione e combattimento di 150 droni di sua produzione dal Golfo Persico a quello di Oman, come riporta “Formiche.net”.

Tutte strategie della tensione per preparare il terreno a quell’accordo per il nucleare iraniano che potrebbe spostare il mondo sciita se non sull’altro lato dello scacchiere, almeno non consegnarlo allo schieramento autocratico sino-russo; pur mantenendo una presenza nella regione a difesa del petrolio (o gas), caratterizzata da questo tipo di armi sul campo?

13 agosto

  • Ucraina. Metodi di intermediazione e sostegno bellico governativo

  • «Impossibile sapere quante e quali armi abbiamo inviato alle forze armate ucraine dopo l’invasione russa del 24 febbraio; è certo però che nel sanguinoso conflitto nell’Europa orientale Mosca e Kiev impiegano sistemi bellici prodotti in Italia»

      • Antonio Mazzeo aveva già ripetutamente rintracciato le innumerevoli vie (secretate dal Copasir presieduto dalla fiamma tricolore di D’Urso) di forniture belliche all’Ucraina da parte italiana – d’altra parte (come da modello turco) il rifornimento di armi non è negato nemmeno all’altro belligerante moscovita. Spesso si perdono in sentieri poco tracciati e rivoli infiniti, triangolazioni e consegne 🚛 🚚 fumose, per evitare tracciamenti e supervisione democratica da parte dei sudditi.
      • Oltre alla spedizione direttamente alle ong di Poroshenko documentate dal tweet, i mezzi corazzati di tipo LAV con cui alimentare la guerra di Zelensky seguono la via della triangolazione con la Norvegia, che inoltra verso Kiyv le abbondanti forniture degli anni scorsi (non tutti gli aiuti agli ucraini sono previsti dall’Agenda Draghi: fin dallo scoppio della guerra in Donbass Renzi si era premunito di rifornire con 90 blindati e corazzati Iveco italiani l’allora belligerante premier ucraino Poroshenko, lo stesso delle ong oggetto dell’elargizione odierna).
      • La via seguita da Poroshenko è molto battuta, quella del fondo su cui piovono soldi raccolti con lo scopo di rifornire le truppe antirusse: su “TopWar” si legge che il suo fondo ha raccolto 50 milioni di grivna e altri 45 si sono materializzati per l’acquisto di 11 veicoli blindati MLS SHIELD di fabbricazione italiana, l’ex presidente si vanta di aver ottenuto
        • «una licenza per l’acquisto di equipaggiamento militare della NATO a spese private. Secondo lui, questa è la prima volta che accade. Risultato: questi nuovissimi veicoli blindati MLS SHIELD di fabbricazione italiana imbottiti con le ultime tecnologie andranno presto in prima linea»

          • Corazzati Iveco made in Russia vs corazzati Iveco made in Italy via Norge

          • Tra i sistemi bellici più noti ci sono i carri Ariete e Centauro, i blindati Puma e Lince, i veicoli da combattimento della fanteria Dardo e diverse versioni di camion pesanti a quattro, sei e otto ruote motrici per il trasporto truppe e il supporto logistico alle unità. Recentemente sono stati prodotti camion Trakker dotati di “protezione balistica e antimine permanente”, mentre degli Eurocargo viene fornita una versione “militarizzata” a trazione integrale da 15 tonnellate con motore sino a 300 cavalli.
          • I mezzi corazzati LMV come quelli donati dalla Norvegia all’Ucraina sono stati esportati anche ad Albania, Austria, Belgio, Croazia, Repubblica ceca, Libano, Slovacchia, Spagna, Tunisia e Stati Uniti d’America. Dal 2012 ben 358 LMV sono in dotazione dell’esercito della Federazione Russa e alcuni di essi sono stati impiegati in Siria dopo il 2015 e in Ucraina dopo l’invasione del febbraio 2022. Secondo quanto aveva riportato “Analisi Difesa” nel 2014, la fornitura dei corazzati seguiva il contratto siglato nel giugno 2011 tra Iveco Defence Vehicles e Oboronservis, la controllata del ministero della Difesa russo responsabile per gli approvvigionamenti.

        • I fondi di investimento in grande stile

  • Ben altre cifre sono state stanziate in un solo incontro tra la Nato del Pacifico riunita straordinariamente a Copenhagen con i partner dell’Europa settentrionale. Un miliardo e mezzo per l’Ucraina è la cifra che secondo “EuroNews” è stata collocata su un fondo dai 26 paesi occidentali (tra cui Ue, Usa, Canada, Australia, Nuova Zelanda e Giappone) aperto per dare supporto militare all’Ucraina; il ministro della Difesa danese, Morten Bodskov ha poi annunciato. La creazione in Gran Bretagna del fondo International Fund for Ukraine (IFU) con la missione di aumentare la produzione di armi destinate a Kiyv; in quello stesso Regno unito che ha già donato all’Ucraina sistemi di armamento avanzati si è impegnata contestualmente a stanziare altri 300 milioni di euro in armi, tra cui sistemi missilistici a lancio multiplo e missili M31A1 a guida di precisione che possono colpire bersagli distanti fino a 80 km.E poi si stanno ammassando specialisti per addestrare truppe di questa che è sempre più evidentemente una proxy war come tante altre disseminate nel mondo. La produzione di armi innescherà una spirale “virtuosa” per i paesi che forniranno le nuove produzioni, spartendosi gli investimenti: Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca hanno segnalato la volontà di espandere la produzione di sistemi di artiglieria, munizioni e altre attrezzature.
  • «Da febbraio abbiamo fornito all’Ucraina oltre 600 milioni di dollari in aiuti militari completi, compreso il dispiegamento questa settimana di personale delle forze armate canadesi nel Regno Unito nell’ambito dell’operazione UNIFIER, e 39 veicoli corazzati di supporto al combattimento costruiti dall’industria canadese che inizieranno ad arrivare in Ucraina nelle prossime settimane» (Anita Anand, ministro della Difesa canadese – “Army Technology“)


11 agosto

    • Myanmar. Metodi di intermediazione e aggiramento degli embarghi

        • Justice For Myanmar ha identificato 116 società del Myanmar e di Singapore amministrate da 262 dirigenti e azionisti che hanno fatto da intermediari nella fornitura di armi e attrezzature militari per un valore di molti milioni di dollari all’esercito del Myanmar, anche dopo il colpo di stato del 1° febbraio 2021.Tra gli intermediari risultano 31 società gestite da 77 amministratori e azionisti che intrattengono rapporti commerciali con l’esercito dal tentativo di colpo di stato; a queste si aggiungono 27 società e i loro 51 amministratori e azionisti che hanno intermediato armi ed equipaggiamenti all’esercito del Myanmar dal 2017, anno del genocidio dei Rohingya, prima del colpo di stato. Dal colpo di stato, l’esercito ha effettuato bombardamenti e attacchi aerei indiscriminati, ha ucciso gli abitanti dei villaggi, ha commesso stupri, ha distrutto case e coltivazioni e ha sfollato con la forza circa 866.400 persone.Secondo il Trattato sul commercio delle armi, di cui fanno parte 111 Stati, è vietato trasferire armi sapendo che verrebbero usate per commettere genocidi, crimini contro l’umanità o crimini di guerra. L’Accordo di Wassenaar sul controllo delle esportazioni di armi convenzionali e di beni e tecnologie “dual” (cioè applicabili a duplice uso, civile e militare) mira a prevenirne il trasferimento a paesi sospettati di genocidio. Gli stati aderenti all’Accordo di Wassenaar sono 42, tuttavia tra questi non si annovera Singapore e nemmeno fa parte del Trattato sul commercio delle armi e quindi viene utilizzato come collettore dei prodotti sotto embargo.

          Il sistema di intermediazione

          • Per avere un’idea del sistema diffuso globalmente si può pescare a caso dal report e vedere come funziona il meccanismo di fornitura di elicotteri Mi-17, che coinvolge molti soggetti nel mondo:
            • «Dynasty Group of Companies ha svolto attività commerciali nell’Unione Europea (UE), fornendo aerei e pezzi di ricambio prodotti dall’azienda tedesca Grob all’aeronautica militare di Myanmar. Dynasty International Company Limited, è un’azienda sussidiaria di Dynasty Group e anche un importante fornitore di armi all’esercito del Myanmar, con legami con aziende in Russia, Bielorussia e Germania. Questa ha importato parti per gli elicotteri Mi-17 dopo il colpo di stato, secondo i dati del database commerciale ImportGenius; il direttore del gruppo, il dottor Aung Moe Myint, è il console onorario bielorusso in Myanmar. È molto probabile che la sua unità commerciale registrata a Singapore, Dynasty Excellency Pte Ltd, sia stata utilizzata per facilitare le transazioni di armi verso il Myanmar» (ulteriori dettagli si trovano qui).

              Oppure, per avere un’idea del sistema di intermediazione si può accedere alla documentazione di Justice for Myanmar riguardo al ruolo di Miya Win International, che ha acquistato droni di fabbricazione austriaca Schiebel Camcopter S-100 per l’esercito del Myanmar, in violazione dell’embargo sulle armi imposto dall’UE. E poi l’Asia Golden Phoenix Consultancy ha acquistato un simulatore di volo ATR dall’azienda austriaca Axis Simulation e lo ha registrato presso l’Autorità europea per la sicurezza aerea.


              Particolarmente significativo il caso della Myanmar Chemical & Machinery Company Ltd (MCM), di di proprietà del trafficante di armi Aung Hlaing Oo. Le filiali dell’azienda sono fornitori di armi e materiale correlato alle forze armate del Myanmar e sono anche coinvolte nella produzione di armi e in un progetto di trasferimento tecnico per la produzione di jet addestratori K-8 in Myanmar con l’azienda statale cinese CATIC, apparsi durante le celebrazioni per l’anniversario dell’aeronautica militare della giunta nel dicembre 2021.

          • MCM ha fatto parte di un progetto con il produttore statale ucraino di armi Ukroboronprom e la Direzione delle Industrie della Difesa dell’esercito per la produzione di veicoli corazzati BTR-4, carri armati leggeri MMT-40 e obici semoventi 2SIU. MCM ha fornito parti di ricambio, strumenti e accessori per i carri armati T-72 al Comandante in Capo della Direzione dell’Artiglieria e dei Corpi Armati dell’esercito di Myanmar.MCM ha anche acquistato armi dalla Serbia per l’esercito di Myanmar. Una proposta di MCM del 2019 per l’aeronautica militare di Myanmar descrive dettagliatamente lanciarazzi montati su aerei, razzi, bombe a caduta libera, un lanciatore di bombe multiple da usare “su grandi superfici” e spolette. Una filiale di Singapore della MCM Pacific Pte Ltd ha fornito parti di ricambio per elicotteri Mi-2, Mi-17 e Bell 206 alla Myanmar Air Force.L’azienda ha anche importato parti di ricambio per un motore diesel marino MTU12V 331TC 92, oltre a un’unità di visualizzazione del motore, un sistema di propulsione, un’attrezzatura di salvataggio e una sistemazione di poppa per un valore di milioni di dollari USA per la Marina Militare del Myanmar.MCM Pacific Pte Ltd ha fornito parti di veicoli blindati BTR-3U alla Direzione dell’artiglieria e dei corpi corazzati dell’esercito di Myanmar per un valore di milioni di euro
            • Insomma tutti sono coinvolti nell’ausilio alla repressione della giunta golpista di Naypyidaw

              Justice for Myanmar mette a disposizione una lista degli intermediari di armi verso Tatmadaw aggiornata all’11 agosto 2022, scaricabile qui.

              Il rapporto si basa su documenti trapelati dal dipartimento acquisti del Ministero della Difesa, oltre che su fonti industriali e su altre informazioni disponibili online e lo ha ripreso “The Diplomat”, che sottolinea come l’esercito abbia una lunga esperienza nel resistere all’isolamento internazionale e possa contare su vicini accomodanti, come Cina, India e Thailandia, per non parlare di Singapore, che ha a lungo resistito alle richieste degli attivisti di sequestrare il denaro sporco del Myanmar parcheggiato nel suo sistema bancario.

MI-17

4 agosto

    • Strategie e affari dietro a esibizioni muscolari e bluff a Taiwan

        • Oggi Nancy Pelosi arriva a Seul, da Taipei. Le famose rotte commerciali nel Mar Cinese, motivo essenziale della battaglia di Taiwan nella guerra dell’Indopacifico per l’egemonia commerciale e del controllo dei microchip e dei semiconduttori.
        • La missione che – un po’ superficialmente – secondo “Formiche” avrebbe mostrato il bluff di Xi, la cui “mancata” reazione alla visita dello speaker della Camera statunitense al parlamento della Cina nazionalista a ridosso del Congresso del partito comunista lo porrebbe nell’angolo, prosegue indomita toccando le capitali che contrastano il controllo cinese sull’area. Invece gli analisti dell’“Ispi” temono che se la visita di Pelosi non provocherà uno scontro diretto (e in ogni caso l’embargo della sabbia colpisce proprio l’industria dei microchip per cui Formosa è contesa) potrebbe comunque innescare un’escalation militare, potenzialmente distruttiva (“The Guardian”).
        • Va comunque registrata una ritorsione anche militare non così lasca come si è cercato di raccontare forse troppo precocemente dai media americani: secondo quanto riportato da “The Guardian” il Pla ha lanciato 11 missili DongFeng nelle acque di Taiwan tutt’intorno all’isola da nord-est a sud-ovest, intensificando le “esercitazioni” in un gioco di guerra che fa uso di proiettili e missili “veri” e non a salve, in modo che il blocco dell’isola è totale.

    • Il coinvolgimento coreano

      • Allora diamo uno sguardo agli ammodernamenti degli arsenali della Corea del Sud in funzione anticinese:
    • DefenseNews” riferisce che il 15 luglio il comitato di promozione del Defense Acquisition Program Administration, guidato dal Ministro della Difesa Jong-sup Lee, ha deciso formalmente di acquistare altri 20 F-35A per 3900 miliardi di won (quasi 3 miliardi di dollari) arrivando così a contare su 60 velivoli. La Corea del Sud prevede di acquistarli a cominciare da ora fino al 2028.
    • A questo il “South China Morning News” aggiunge il prototipo di un KF-21 “Boramae” o “Hawk” che avrebbe completato un volo di prova di 30 minuti dalla città meridionale di Sacheon, ma gli osservatori militari ritengono che questo nuovo caccia sia ben lungi dall’essere paragonabile ai caccia avanzati di quinta generazione come il Chengdu J-20 cinese. Tuttavia, se venisse impiegato in massa, il KF-21 potrebbe comunque alterare l’equilibrio di potenza delle forze aeree regionali, oltre ad avere il potenziale per diventare un forte concorrente nel mercato globale, ha affermato un analista di Macao.
        • «Durante il recente incontro trilaterale, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden si è detto “profondamente preoccupato” per i continui test di missili balistici della Corea del Nord e per l’apparente intenzione di condurre un test nucleare. Il presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol ha dichiarato che l’importanza della cooperazione trilaterale è cresciuta di fronte al programma nucleare avanzato della Corea del Nord, mentre il primo ministro giapponese Fumio Kishida ha affermato che le esercitazioni antimissile congiunte sarebbero importanti per scoraggiare le minacce nordcoreane» (“MilitaryTimes”).

          Il coinvolgimento giapponese

        • Infatti il rivale di Seul è Pyongyang, ma è soprattutto il Giappone l’alleato che sembra incaricato di guidare il fronte liberaldemocratico anticinese nel Pacifico e Tokyo sta bruciando le tappe per ammodernare l’esercito, cambiare la Costituzione pacifista e rafforzare la partnershiip con gli europei, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina.
      • Come ha ricordato “DefenseNews”, il Giappone prevede inoltre di acquisire 147 F-35, di cui 42 nella variante F-35B. Certo, come ha sottolineato il “Telegraph”, proseguire con il progetto di un caccia di prossima generazione a guida nazionale rafforzerebbe il settore della difesa del Giappone e ridurrebbe la dipendenza da altri paesi, dando a Tokyo la libertà di azione.

        Ma lavorare insieme potrebbe ridurre i costi

      • L’adesione della giapponese F-X (Mitsubishi) al progetto per il caccia stealth di sesta generazione Tempest, che vede coinvolte Rolls-Royce, il consorzio europeo MBDA e Leonardo, è, secondo “Formiche”, un tassello nel puzzle che internazionalizza il programma del caccia di sesta generazione che così permette agli europei di accedere a un mercato, quello giapponese, in piena crescita per l’aumento delle spese militari voluto da Abe Shinzo. La spinta a combinare i due programmi sarebbe guidata da Mitsubishi Heavy Industries, responsabile dell’F-X, e la britannica BAE Systems. Anche la Svezia e il produttore di caccia Gripen Saab AB rimangono coinvolti nel programma Tempest, in cui Londra ha già stanziato un budget di 2 miliardi di sterline.
        L’autorevolezza del progetto emerge anche dalla presentazione effettuata alla apertura – inaugurata da Boris Johnson in persona – del Farnborough International Airshow, come descritto da “Startmag”: «Si tratterà di un velivolo supersonico pilotato che testerà una serie di nuove tecnologie, tra cui l’integrazione di caratteristiche compatibili con lo stealth», ha aggiunto Bae Sistems durante la fiera. L’elemento comune tra UK, Giappone e Italia è l’uso degli F-35, in dotazione a tutt’e tre gli eserciti.

        «Sempre durante la prima giornata della fiera di Farnborough, Leonardo UK e Mitsubishi Electric hanno annunciato di aver raggiunto un accordo sul concept per il dimostratore di tecnologia radar Jaguar, presentato per la prima volta a febbraio scorso. Come sottolinea la nota del gruppo guidato da Alessandro Profumo: “Jaguar rappresenta il primo grande elemento di un programma radar internazionale che soddisfa gli ambiziosi requisiti espressi da Giappone e Regno Unito nell’ambito dei programmi F-X/Fcas”».




3 agosto

    • I bombardamenti sono dovunque terrorismo di stato

        • Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov è arrivato a Naypyidaw per una visita in cui ha affrontato con il suo omologo Wunna Maung Lwin temi relativi a sicurezza e scambi economici. La nota della Tass aggiunge che successivamente sarebbe ancora andato in Cambogia per partecipare al vertice Russia-Asean ed era reduce da un lungo tour volto a intessere una fitta rete di legami in funzione antioccidentale

      • Riportando la medesima notizia Associated Press sottolinea come la Russia sia il partner principale della giunta militare golpista e che nonostante l’embargo imposto dopo il golpe i rapporti tra i due governi non siano mutati.
        • «Abbiamo una base molto solida per sviluppare la cooperazione in un’ampia gamma di settori. Apprezziamo la natura tradizionalmente amichevole del nostro partenariato, che non è influenzato da alcun processo opportunistico», ha detto Lavrov (Associated Press).

      • Gli esperti delle Nazioni Unite hanno descritto il paese infitto in una guerra civile. E proprio 3 giorni prima dell’arrivo di Lavrov in Myanmar al-Jazeera aveva accusato Tatmadaw, l’esercito birmano, di usare gli Yak 130 di fabbricazione russa contro la popolazione civile, come documentato da un collettivo che monitora gli abusi in Myanmar:
      • «Myanmar Witness ha verificato il ripetuto impiego dello Yak-130 – un sofisticato jet da addestramento biposto di fabbricazione russa con una documentata capacità di attacco al suolo – in Myanmar. Durante questa indagine, rapporti credibili e la geolocalizzazione hanno rivelato l’uso dello Yak-130 all’interno di aree civili popolate».

        Un video condiviso su Facebook di Myanmar Witness il mese scorso ha mostrato uno Yak-130 eseguire due passaggi e lanciare diverse salve di razzi non guidati verso il suolo; un altro video ha mostrato uno Yak-130 eseguire cinque passaggi e sparare 18 salve di razzi non guidati. Myanmar Witness ha geolocalizzato i due video a 200 metri dal confine tra Thailandia e Myanmar, a sud di Myawaddy, nel Karen, dove i gruppi armati etnici da tempo combattono per l’autonomia e forniscono addestramento e sostegno alle milizie civili costituite per contrastare il colpo di stato del febbraio 2021.

Gli Yak 130 sono il risultato di una collaborazione tra Yakovlev e Aermacchi per la realizzazione di un addestratore avanzato, che è stato inaugurato nel 2009. In realtà è spesso usato come jet d’attacco leggero: quella forma light adatta a intimorire popolazioni riottose. Il velivolo è in dotazione degli eserciti di Russia, Algeria, Bangladesh, Bielorussia, Laos, Libia, Siria, Vietnam e… ovviamente Myanmar.

Yak-130

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]]> Brecce nei modelli dello status quo https://ogzero.org/brecce-nei-modelli-dello-status-quo/ Fri, 12 Aug 2022 08:53:28 +0000 https://ogzero.org/?p=8520 Si stanno indubbiamente aprendo brecce nell’equilibrio mondiale a cui s’ispira il modello che ha consentito finora all’Occidente di imporre la propria impronta sul mondo. Il multilateralismo faceva perno su una potenza globale come quella americana che assicurava la possibilità di intessere relazioni multilaterali, ora quel sistema vede erodere la propria incontrastata egemonia in particolare dalla […]

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Si stanno indubbiamente aprendo brecce nell’equilibrio mondiale a cui s’ispira il modello che ha consentito finora all’Occidente di imporre la propria impronta sul mondo. Il multilateralismo faceva perno su una potenza globale come quella americana che assicurava la possibilità di intessere relazioni multilaterali, ora quel sistema vede erodere la propria incontrastata egemonia in particolare dalla Cina e dal corredo di potenze locali in grado di portare sfide in aree specifiche. Nell’ultimo anno, dopo la caduta di Kabul il 15 agosto 2021, si è assistito a un’accelerazione inarrestabile della messa in discussione della globalizzazione e alla proposta di modelli socio-politici autocratici che si contrappongono alla “rassicurante” liberal-democrazia.
Era un sogno della sinistra libertaria aprire brecce nel capitalismo liberal-democratico per scardinarne il sistema, e ora chi metterebbe al centro l’emancipazione antitotalitaria dei popoli non riesce a interpretare l’attacco allo strapotere americano come una rivoluzione imposta dall’alto e realizzata dal nazionalismo autoritario, militarista e tecno-finanziario come quello statunitense. Infatti non sortisce di meglio che accettare la narrazione che vede ancora due blocchi contrapposti, da cui non si riesce a prescindere… né a evitare di schierarsi, non riconoscendo che si tratta della riproposta di schieramenti ottocenteschi: il superamento del “secolo breve” sta avvenendo, sì… ma in senso contrario, nel passato di oligarchie imperiali ottocentesche che controllano i propri territori, rinverdendo tradizioni culturali che si appropriano della critica alla globalizzazione.

Dopo un anno il regime talebano consegue il riconoscimento da parte di Cina e Russia. Quella capitolazione di Kabul alla più vieta e arcaica concezione religiosa e culturale locale del Waziristan ha dato la stura alla spartizione del mondo in aree di riferimento. OGzero ha pensato che ci fosse la necessità di ipotizzare e far dialogare processi in corso e possibili strategie adottate dai protagonisti del rivolgimento epocale, sperando così di avviare un dibattito che descriva la situazione prescindendo dalla versione parziale che scaturisce da un sistema in mutazione e quindi non in grado di fotografare il cambiamento che sta subendo.


Sostituzioni di modelli

Nelle infinite analisi del ribaltamento in corso di quell’equilibrato sistema di relazioni internazionali sancito da Yalta – e mantenuto invariato perché a nessuna delle potenze andava stretto o non avevano l’opportunità di imporre finora alcun rilievo – esistono un paio di elementi che sembrano non venir evidenziati a sufficienza nelle disamine della situazione geopolitica attuale: la rivoluzione è imposta dall’alto, è un pranzo di gala esclusivo dove gli invitati giocano a Risiko – e infatti si punta su una comunicazione che fondi la legittimità delle mosse sul confronto nazionalista; e al contrario di quel che avviene di solito in caso di conflitti, il contenzioso non coinvolge il Sud del mondo, sconvolgendolo. Le popolazioni alle quali ci si riferiva come Terzo mondo, ai tempi in cui lo spunto per molte speculazioni proveniva dall’internazionalismo non solo ora non si schierano a favore della “democrazia”, ma cominciano a considerare l’occasione ghiotta per ridimensionare la presenza e il condizionamento di un sistema, forgiato su un modello culturale ed economico sviluppato da una cultura estranea come quella europea, esportato in forma coloniale.

«Noi giovani abbiamo organizzato questa manifestazione per il ritiro delle forze armate francesi dal territorio nazionale del Mali. Vogliamo dare un contributo alla soluzione definitiva della crisi e ripristinare i valori della sovranità della nostra nazione. Non nascondiamo e riaffermiamo la nostra comune disponibilità con le nuove autorità di transizione a dare priorità alla cooperazione militare con la Russia per il rapido ripristino della Repubblica, in modo da poter lottare per la stabilità a lungo termine, che porterà alla nostra sovranità assoluta» (appello ad Assimi Goita pubblicato dalla piattaforma Debout sur les remparts, Yerewolo: giovani maliani, settembre 2021)

Ecco: un primo errore nella narrazione e nell’approccio al rivolgimento epocale sta nel vizio occidentale di voler imporre il proprio sguardo etico-politico anche sull’interpretazione dei conflitti globali, senza considerare le narrazioni sviluppate da altre tradizioni politico-culturali. Geopolitica chiederebbe di attenersi all’analisi di strategie messe in atto a seguito di bisogni e presunta potenza; invece la propaganda sia dal punto di vista liberal-capitalista, sia nell’ambito autocratico-capitalista sfrutta le spinte nazionaliste identitarie, inanellando tutti i più vieti luoghi comuni per salvaguardare la propria sussistenza entro i confini di riferimento di stati consorziati militarmente a fare da scudo al proprio ordine socio-culturale. Persino l’internazionalismo era caduto nella stessa trappola di avanzare una filosofia di emancipazione comunque sviluppata all’interno della cultura occidentale, nonostante l’intento meritevole di liberazione dell’Altro.

Vecchi sogni antimperialisti offuscati da modelli di imperialismi contrapposti

Infatti la sfida in corso al predominio americano e al suo sistema di sfruttamento mondiale era il sogno di ogni rivoluzionario degli anni Sessanta-Ottanta. Al contrario vediamo i regimi autocratici intenti a scalfire il potere americano, avendo ipotizzato, dopo la disfatta di Kabul, che si sia avviato allo stesso declino subito dall’Urss dopo il pantano afgano. Ma forse si tratta soltanto di una speculare reazione al pressing statunitense sui russi, volto a togliere alla potenza locale il terreno sotto i piedi; e questo cominciò con l’amministrazione Obama. In particolare l’esecuzione di Gheddafi ha suggestionato il capo del Cremlino: infatti dal 2011 Putin ha cambiato strategia geopolitica, convinto nel suo sospetto dalla costante cooptazione nel campo filoamericano di molte nazioni ex sovietiche, sottratte alla influenza russa; questo ha giocato un ruolo rilevante di intenzionale provocazione per la potenza militare moscovita.

Un po’ tutti hanno impugnato quelle forbici, che hanno innescato il cambiamento, tagliando i fili del multilateralismo che erano in tensione già da tempo.
Putin è stato forse indotto a credere nella possibilità di costituire un fronte antiamericano sufficientemente ampio e militarmente sostenibile: potrebbe essere credibile una sorta di accordo tacito di non belligeranza se non di reciproco sostegno con altre grandi potenze, come la Cina che invece – a cominciare dall’amministrazione Trump – è stata messa sotto pressione dal punto di vista economico. Si potrebbe adottare uno sguardo capace di spiegare le indubbie provocazioni americane (l’ultimo episodio è quello che ha visto protagonista Pelosi a Taiwan, imbarazzante per gli alleati coreano e giapponese, come si è visto nelle tappe successive del viaggio) per arrivare a un confronto di intensità variabile che consenta a Washington di ridimensionare gli sfidanti quando ancora gli Usa detengono la preminenza nei mezzi sia militari che economici (il “momento tucidideo” di cui parla Streeck su “New Left Review”, ripreso da “Internazionale”). I rivali non hanno potuto evitare di rispondere alle provocazioni e mettersi in gioco quando ancora gli Usa sono in grado di fronteggiarli.

«Gli Stati Uniti si stanno comportando da stupidi, ed effettivamente lo sono. Fingendo di esserlo significa che sanno quali sono gli interessi della Cina sulla questione di Taiwan e la sua linea rossa. Ma, nonostante questo, la calpestano ripetutamente» (Wang Wen dell’Università Renmin)

Si è arrivati alla guerra aperta perché a quel risultato erano improntati i piani strategici di tutti i protagonisti per rispondere all’esigenza da parte di potenze nucleari energivore di espandere il controllo di risorse e mercati e in nome di quelle dinamiche dominanti si sta tentando la scalata all’egemonia, la stessa che gli Usa intendono mantenere ancora per alcuni decenni, com’è avvenuto 30 anni fa quando a crescere al punto da sfidare la preminenza tecnologico-finanziaria fu il Giappone simboleggiato da Goldrake, allora detentore delle maggiori conoscenze sui semiconduttori e ora investito da Blinken del ruolo di gendarme del Pacifico; la sfida di Tokyo fu ridimensionata proprio con l’avvento della globalizzazione e agevolando la crescita della Cina ispirata a Deng in grado di eclissare prima e surclassare nel 2010 l’ascesa del Giappone – isolato e costituzionalmente privo di deterrenza militare; ora il conflitto appena scatenato rappresenta la fine della globalizzazione e l’industria nipponica torna a fare da testa di ponte per conservare al campo “occidentale” il controllo dei microchip, collaborando con le maggiori fabbriche di Taiwan. Premendo così in ambito tecnologico sulla possibilità di sviluppo dell’economia cinese, costretta a mostrare i muscoli a Nancy Pelosi (per uso interno, ma anche più pragmaticamente per salvaguardare le forniture tecnologiche di Formosa), come il pressing e la cooptazione degli stati satelliti dell’ex Urss lasciava poche chance alla sicurezza russa.

«Putin ha lanciato un’invasione per eliminare la minaccia che vedeva, perché la questione non è cosa dicono i leader occidentali sui propositi o le intenzioni della Nato: è come Mosca vede le azioni della Nato. la politica occidentale sta esacerbando i rischi di un conflitto allargato. Per i russi, l’Ucraina non è tanto importante perché ostacola le loro ambizioni imperiali, ma perché un suo distacco dalla sfera d’influenza di Mosca è “una minaccia diretta al futuro della Russia”» (John Mearsheimer da “The Economist”).
«Molti tendono a equiparare egemonia e imperialismo. In realtà imperialismo è una nazione che ne forza altre a entrare nella sua sfera, mentre egemonia è più una condizione che un proposito. Il problema di Putin e di coloro che sostengono l’esistenza di sfere d’influenza russa e cinese è che “tali sfere non sono ereditate, né sono create dalla geografia, dalla storia o dalla ‘tradizione’. Sono acquisite dal potere economico, politico e militare” che gli Stati Uniti possiedono più della Cina e che la Russia non ha» (Robert Kagan, “Foreign Affairs”).
(Ugo Tramballi, Ispi).

Conflitti collaterali e proxy wars

Ormai appare evidente che l’escalation di tensione costringe il mondo a uno stretto passaggio tramite il quale ogni area dello scacchiere internazionale è costretta a transitare, ovvero locali confronti tra protagonisti per definire gli schieramenti attraverso innumerevoli conflitti ristretti che ambiscono al controllo di territorio, risorse, commodities e mercati a cui attingere quando lo sforzo bellico sarà globale e a tutti i livelli.

Di tutti il confronto che maggiormente ha costituito la consapevolezza che si stava andando verso un rivolgimento globale è la crisi sarmatico-pontica, usata come grimaldello per coinvolgere anche l’Occidente europeo nel processo di trasformazione degli equilibri e delle supremazie su zone di influenza che si è innescato con l’attacco di Sarkozy a Gheddafi. Di lì discende la nuova strategia russa da un lato (innescata come già spiegò Bagnoli dalla paura di Putin di fare la stessa fine) e dall’altro la pulsione all’affrancamento nel Mediterraneo dei satrapi che nel 2011 erano ancora al guinzaglio di potenze globali e da allora invece sempre più autonomi e spregiudicati, come la Turchia, l’Arabia Saudita, gli Emirati… che hanno cominciato a sgomitare perseguendo strategie, alleanze, riarmo, penetrazioni in territori colonizzati proprio da quell’Occidente europeo da cui gli Usa si allontanavano, non avendo più interesse energetico derivante dal Mena, essendo divenuto autosufficiente durante l’amministrazione Obama con lo shale oil, e che ha optato in quel quadrante per la delega alle autocrazie locali. Si è venuta così a creare una pulsione all’autodeterminazione, all’affrancamento e all’autoaffermazione che passa attraverso un forte impulso al nazionalismo e al militarismo. Altra benzina sul fuoco.

Modelli sovranisti stanziano ad Astana

In questo quadro van rivisti a livello di potenze locali, tendenzialmente non più tali, la guerra siriana e i conseguenti accordi di Astana… Si sono svolti nelle ultime due settimane due atti di questo canovaccio, uno a Tehran e uno a Soci, di quest’ultimo Yurii Colombo ha parlato nel suo canale telegram Matrioska.info, sottolineando i due aspetti richiamati dal viceprimoministro Alexander Novak che rinsaldano i legami tra i due autocrati: le forniture di 26 miliardi di metri cubi annui di gas alla Turchia – il cui Turkish Stream diviene un hub del gas russo ad aggirare gli embarghi – e gli scambi in valuta nazionale: lira e rubli, entrambe in sofferenza. L’incontro in Iran è stato affiancato dall’Ispi agli sviluppi dell’attività diplomatica di Lavrov:

«A pochi giorni dall’incontro del terzetto di Astana dove oltre a Ebrahim Reisi Putin ha incontrato anche l’omologo turco Recep Tayyip Erdoğan, la visita di Lavrov sembra anche voler ribadire che la Russia non è isolata sulla scena internazionale. Al termine dell’incontro con il presidente egiziano Abdelfattah al Sisi e con il segretario generale della Lega araba, Ahmed Aboul Gheit, il ministro ha esortato il mondo arabo a sostenere la Russia “contro i tentativi palesi degli Stati Uniti e dei loro satelliti europei di prendere il sopravvento e di imporre un ordine mondiale unipolare”. Non è detto che in paesi in cui il sentimento antiamericano è forte (corroborato dall’invasione in Afghanistan e Iraq e dal sostegno storico a Israele) i suoi argomenti non facciano presa» (Alessia De Luca, Ispi).

Mosca è tutt’altro che isolata, se si ripensa al voto di marzo all’Onu sulla risoluzione di condanna dell’invasione ucraina.

Tutti contro tutti appassionatamente insieme

Ankara contemporaneamente è un nodo della gestione per procura americana del Medio Oriente insieme a Tel Aviv (il giorno dopo l’incontro con Herzog, Hamas è stato cacciato da Ankara, come avvenne ad Arafat a Beirut) – però Israele è schierato con Egitto, Cipro e Grecia per controllare il Mediterraneo orientale in contrasto con Ankara – e Riad, gradualmente disciogliendo il contenzioso yemenita come il corpo di Kasshoggi nell’abbraccio tra Erdoğan e Mbs (con sullo sfondo gli Accordi di Abramo voluti da Kushner e proseguiti da Blinken).  A maggio persino sauditi e iraniani hanno ripreso relazioni diplomatiche. Evoluzioni tutte previste da Antonella De Biasi in Astana e i 7 mari.

“Astana prepara crepe nell’asse mondiale sparigliando le polarità”.

Risulta sempre più importante districarsi tra alleanze interstatali, che in ogni caso – siano regimi liberal-democratici o democrature rette da autocrati e oligarchi, dinastie, latifondi o gruppi economico-industriali – soffocano le libertà civili e il controllo dei media impedisce ai sudditi di riconoscersi come tali e proporre una coalizione dei sottomessi che si sottraggano e levino il consenso alle istituzioni militari assassine.

Questa ricostruzione permane all’interno di un quadro a blocchi, ma lo fa diversamente dal rimpianto che si affaccia presso alcuni vecchi rivoluzionari per quella condizione semplice da leggere costituita da due imperi anche geograficamente divisi per blocchi contigui. Invece in realtà lo sconquasso operato con l’invasione ucraina ha sconvolto ogni possibile lettura di strategie e mosse sullo scacchiere internazionale, che va componendosi all’interno di quel quadro in una serie di alleanze militari (Quad, Aukus), cooptazioni (gli stati africani controllati da Wagner e quelli inseriti negli accordi di Abramo), scelte di campo fondate sui nemici dei nemici (Etiopia), attendismo neutralista (eclatante in questo senso la posizione dell’India), ambigue mediazioni (il ruolo che si è conferito Erdoğan).

Il rivolgimento globale registra soprattutto in Mena e in Europa (e nelle sue colonie africane) il rimescolamento di alleanze, controllo di risorse e sfere di influenza, mentre nell’Indopacifico si assiste a viaggi diplomatici che si inseguono per creare coalizioni in vista del confronto.

Orizzonti senza gloria

Però quei vecchi rivoluzionari ormai incanutiti dovrebbero leggere il presente con occhiali diversi da quelli adottati negli anni Settanta e proporre un pensiero estraneo all’ottica meramente mercantile di un capitalismo ancora più feroce di allora che permea tutte le innumerevoli parti in causa, le quali infatti si confrontano con i mezzi previsti dal Finanzcapitalismo (non a caso Gallino lo scrisse nel 2011, l’anno del tracollo libico, durante le Primavere arabe).

Un modello che sconfigga il sovranismo neototalitario non può certo affidarsi al nazionalismo dell’imperialismo di stampo americano in contrapposizione a quelli irricevibili di stampo cinese o russo o neo-ottomano o saudita, o viceversa: rispondono tutti ai medesimi criteri ed è come rivelare l’acqua calda la denuncia che la barbarie dell’esercito russo è identica a quella delle invasioni americane di Vietnam, Somalia, Iraq… Afghanistan. Quest’ultima, emblematicamente comune a quella sovietica, dovrebbe anche simbolicamente chiudere il cerchio e l’epoca.

Allora bisognerebbe riuscire a fabbricare una chiave per attribuire il fulcro delle strategie che regolano i rapporti nel mondo a valori diversi, esterni al capitalismo – o alla identità nazionale o religiosa. Per farlo andrebbe forse messa al centro della proposta di ricostruzione dei modelli mondiali l’emancipazione dei popoli e la loro difesa dagli imperi sovranisti che non solo ripropongono l’idea degli imperi ma anche la loro considerazione della carne da cannone, contrapponendogli quel ripudio delle guerre, militari o economiche che siano, sicuramente diffuso come all’inizio della Prima guerra mondiale su cui potrebbe costruirsi un modello che si sottrae agli interessi imperialistici.

Quindi innanzitutto vanno smontati i meccanismi e gli interessi militari che stanno informando le cancellerie del mondo. E per farlo vanno individuati e descritti nei particolari quegli stessi meccanismi per disinnescarli, come la bomba che gli imperialismi, cambiando gli equilibri di sistema dall’interno e ponendosi fuori dai blocchi, stanno preparando, intessendo l’ordito di trame e temporanei accordi che sfoceranno in nuovi focolai di guerra funzionali a uno di quei modello di mondo.

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La guerra viene con le armi lo spaccio a luglio https://ogzero.org/studium/la-guerra-viene-con-le-armi-lo-spaccio-a-luglio/ Thu, 11 Aug 2022 00:11:56 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=8546 L'articolo La guerra viene con le armi lo spaccio a luglio proviene da OGzero.

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Le aspettative per il futuro commisurate ai profitti per l’aumento della domanda

Il sito americano “Defense News” ha pubblicato la sua annuale classifica delle prime cento industrie al mondo della Difesa. Grazie ai suoi risultati positivi, Leonardo sale al 12esimo posto complessivo, diventando la prima azienda in Unione europea, un bel primato senz’altro. Ma le vere aspettative sono per il futuro, quando si potranno misurare gli impatti dell’aumento della domanda a seguito dell’invasione dell’Ucraina. Una precisazione questa contenuta nell’occhiello di “Formiche” che non ha bisogno di attendere i profitti che discendono dal moltiplicarsi degli ordini di ordigni “grazie” alla guerra per risultare agghiacciante.

Ma oltre alla classifica delle industrie sono importanti anche i dati relativi alla consistenza degli affari dell’industria delle armi a livello nazionale e un dato altrettanto interessante proviene dalla performance dell’export dell’industria delel armi turca: nei primi sei mesi Ankara avrebbe incassato più di 2 miliardi di dollari. E dalle schede che seguono è facile far risalire alla filiera dei droni, in cui Bayraktar è leader dopo i successi in Ucraina.

Un altro aspetto che balza agli occhi è la presenza nelle prime 5 posizioni di aziende statunitensi e nelle posizioni di rincalzo tra le prime 20 industrie belliche per guadagni – distanziate – 5 marchi cinesi: un’altra evidenza di cosa ci attende e chi possono essere i protagonisti dei prossimi incroci di armi. Per ora le prime 5 fabbriche di armi sono anche quelle che organizzano, pervadono, informano di sé, esibiscono, comunicano e indicono conferenze stampa interne alle fiere che promuovono i loro prodotti. Anche questo mese se n’è avuta una dimostrazione in Hampshire, il Farnborough Air International Show, che occupa un ampio spazio tra le schede che riprendono notizie su come la guerra si è preparata con le armi di luglio.


Ad ampio raggio è l’intervento del 21 luglio su Radio Blackout di Antonio Mazzeo che proponiamo qui, come inizio di una traccia di quanto lo stesso attento blogger e analista di traffici, strategie, accordi, missioni, fusioni, esposizioni di armi e modelli di sistema militare ci aiuterà a raccogliere nel libro bianco che è l’obiettivo di questo dossier annuale che stiamo allestendo

Ascolta “Il cambio di passo militare: acceleratori e corsa agli armamenti” su Spreaker.

100 %

Avanzamento



La Top Ten delle aziende più attrezzate a vendere morte stilata da “Defense News” con profitti precisi, paragoni annuali, performance, nomi di responsabili, nazioni di riferimento

GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

Luglio

24 luglio

      • Dopo l’inizio dell’operazione speciale il Kazakhstan starebbe riconsiderando le sue relazioni con la Russia secondo il “MoscowTimes”, che riprende un lancio del “WSJ”. Così avrebbe iniziato a cercare alleati – già ad aprile diversi funzionari statunitensi hanno visitato il Kazakistan, come il generale Michael Eric Kurilla; cercando di sfruttare l’aumento del budget per la difesa kazaka di 441 miliardi di tenge (circa 915 milioni di dollari, che si aggiungono a 1,7 miliardi già stanziati) per ammodernare gli strumenti della propria difesa: «Le autorità hanno tratto insegnamento dalla feroce resistenza dell’Ucraina e vedono la necessità di riformare l’esercito per renderlo più mobile e preparato alla “guerra ibrida”. Le ambizioni russe nell’ex spazio sovietico stanno causando crescenti timori», ha dichiarato al “WSJ” un alto funzionario dell’Asia centrale.
      • .

        Ma sono coinvolti nell’affare anche la Cina e… la Turchia.
        E proprio con Ankara sono in corso da maggio contatti per la produzione congiunta di droni Bayraktar in territorio kazako: Tokayev è difatti volato ad Ankara per firmare un accordo per la produzione congiunta di droni Bayraktar in Kazakistan. Questo è uno dei risultati dell’abile campagna promozionale della Bayraktar: “NikkeiAsia” informa che all’inizio di giugno, l’azienda aveva dichiarato che avrebbe inviato gratuitamente un TB2 alla Lituania, dopo essere venuta a conoscenza di uno sforzo di crowdfunding che in 3 giorni aveva raccolto 6,3 milioni di dollari per l’acquisto di un TB2 per l’Ucraina; con grande disappunto della Russia, l’azienda ha venduto per la prima volta il TB2 all’Ucraina nel 2019 e successivamente ha annunciato che lo avrebbe co-prodotto nel paese, poco prima dell’inizio della guerra. Anche in Polonia si sono raccolti quasi 5 milioni di dollari attraverso il crowdfunding avviato da “Zrzutka” per comprare droni da consegnare a Zelensky.
      • Baykar annuncia di aver firmato contratti di esportazione con 22 paesi per il TB2 e con altri quattro per il modello più avanzato Akıncı, che può trasportare un carico utile 10 volte superiore, comprese armi, telecamere e sensori. Il blog internazionale sull’industria della difesa “Oryx” afferma che ci sono 24 destinazioni di esportazione per il TB2, e che 13 sono state identificate attraverso fonti aperte.Per Baykar, l’Ucraina è fondamentale non solo come cliente ma anche come fornitore di componenti chiave per i suoi droni. L’Ucraina fornisce i motori per l’Akıncı e per il suo primo drone con motore a reazione, il Kizilelma (“Mela Rossa”), di cui Baykar sta producendo i prototipi. Precedentemente noto come MIUS, il Kizilelma sarà in grado di volare a velocità supersoniche, avrà capacità stealth e un carico massimo di quasi 1,5 tonnellate, secondo l’azienda. Un’alleanza militare con l’Ucraina, che Ankara ha speso in chiave di credibilità all’interno dello schieramento Nato, pur non rompendo tutti i ponti con Mosca nel quadro degli Accordi di Astana.
    • Anche verso il Kazakhstan si è registrata una donazione di 3 Anka – droni meno famosi, sempre prodotti dalla Bayrak, venduti anche ai tunisini, secondo “al-Monitor” – che ha reso possibili gli accordi tra Tokayev e Erdoğan. Ma forse ancora di più prelude a un’estensione di quel progetto di difesa dell’Asia centrale proposto da Ankara nell’ottobre 2020, chiamato “Turan Army”, che mira a sottrarre alla sfera d’influenza russa del Csto gli “stan”, cooptandoli in un sistema di collaborazione militare sotto egida turca.

Infatti la lettura che ne dà “Rurop” è di allarmata dietrologia – forse non del tutto errata: «Sulla base del Kazakistan stanno costruendo un bastione del futuro Turan. Non si può più parlare nemmeno di occupazione strisciante, senza considerare il fatto che il Kazakistan, essendo membro dell’Unione Eurasiatica, sta cercando di tirare le leve economiche e di ospitare le imprese che hanno lasciato la Russia, diventando una sorta di centro finanziario alternativo della Cee. Secondo le nostre informazioni, il Kazakistan è stato recentemente visitato dall’ex primo ministro britannico Tony Blair, che ha incontrato la leadership della repubblica. I due hanno discusso le misure per sabotare la partecipazione e il lavoro del Kazakistan nella CSTO».

18-22 luglio – Farnborough International Airshow

      • Dal 18 al 22 luglio in Hampshire (UK) si è potuto assistere alla Farnborough International Airshow, un’esposizione di velivoli ufficialmente dual (per uso falsamente civile o da guerra, d’altronde gli affari – soprattutto in questa edizione – sono appannaggio della componente bellica) molto pubblicizzata e partecipata non solo dagli organizzatori, ma da aziende rappresentate, governi e tutta la stampa specializzata. L’offerta ha visto molteplici occasioni di compravendita, di annunci di prototipi particolarmente letali, o di partnership proattive e accordi per ricerche sofisticate.
        In grande spolvero i velivoli senza pilota, che hanno la caratteristica di venire sviluppati in progetti che vedono molte aziende collaborare nel settore tecnologico di maggiore competenza. E gli immarcescibili F-35, di cui è moltiplicata la richiesta
      • Cominciamo dagli UAV
      • «Il futuro dell’aviazione da difesa è autonomo»


        Significa che il futuro dell’aviazione militare è rivolto all’espansione dell’uso dei droni.
        Quello è il ritornello ripetuto dai leader dell’industria aerospaziale in occasione di due fiere aeree gemelle tenutesi in Inghilterra questo mese – e attendono a breve quel futuro. Lo riprende “Defense News
        Il responsabile dell’Aeronautica Militare degli Stati Uniti, Frank Kendall, ha posto come priorità assoluta l’utilizzo sempre più frequente di velivoli autonomi, ovvero di veicoli aerei senza pilota (UAV) che utilizzano tecnologie come l’intelligenza artificiale per gestire le proprie missioni: infatti un esempio emblematico di queste nuove tecnologie è l’utilizzo di velivoli senza pilota per affiancare i caccia nelle missioni di combattimento. L’Air Force sta iniziando a chiamarli aerei da combattimento collaborativi, o CCA, e vuole che accompagnino gli F-35 e la segreta piattaforma di sesta generazione Next Generation Air Dominance, ora in fase di progettazione. Ciò che è preoccupante è il fatto che Kendall ammetta esplicitamente che rispondano all’attesa di combattimenti aerei con la flotta cinese, dove i droni fungerebbero da esche, oppure da ricognitori, o rispondere alle richieste del pilota inserito nello stormo

      • Ma l’immaginazione dei tecnici militari si spinge ancora oltre: Steve Nordlund, vicepresidente e direttore generale di Phantom Works per Boeing Defense, Space and Security, ha detto che la squadra uomo-non-pilota non deve essere necessariamente uno “sciame” di UAV intorno a un caccia pilotato, immagina piuttosto che questi droni autonomi possano essere “slegati” da una piattaforma e possano andare dove sono più necessari.
        Boeing collabora con Lockheed Martin nel Kratos Defense and Security Solutions, che ha presentato i recenti voli di prova di due dei suoi droni autonomi XQ-58A Valkyrie, nell’ambito del programma Skyborg. La Lockheed Martin sta studiando un mix di droni sacrificabili e sistemi autonomi più avanzati da affiancare ai caccia con equipaggio dell’Aeronautica Militare degli Stati Uniti. La versione base di ogni Valkyrie costerebbe tra i 3 e i 5 milioni di dollari, e con l’aggiunta di capacità che gli consentano di svolgere una missione specifica – come capacità di attacco, guerra elettronica o intelligence, sorveglianza e ricognizione – il prezzo potrebbe anche raddoppiare, senza superare i 10 milioni di dollari. La produzione potrebbe arrivare a 500 pezzi annui.
        Anche la Royal Australian Air Force ha un contratto di 115 milioni di dollari che prevede la sua collaborazione con Boeing attraverso il suo programma Loyal Wingman, per fornire tre droni autonomi da far volare accanto ai caccia con equipaggio.

La scheda di “Si vis pacem para bellum” per il XQ-58A Valkyrie: viene lanciato tramite razzi e, al termine della missione, viene recuperato tramite paracadute; è indipendente dalle piste aeroportuali e potrà aggiungere sensori ed armi supplementari rispetto a quelle dei caccia pilotati (F-22 ed F-35 e altri) che è destinato a supportare negli ambienti altamente ostili. La sua configurazione è relativamente convenzionale, con una fusoliera dotata di corte ali a freccia in posizione centrale, e di due impennaggi di coda a “V”. La presa d’aria per il propulsore è situata sulla parte superiore della fusoliera, ed alimenta il motore a reazione posto nella parte posteriore attraverso un tubo a “S”, al fine di impedire che le pale del reattore siano visibili alle onde radar. Due stive ventrali consentono il trasporto del carico offensivo, sotto le ali sono installati anche due punti di attacco esterni. La formazione tipo dovrebbe essere costituita da tre droni XQ-58a posizionati davanti a un cacciabombardiere guida F-15EX o F-35 Block 4. L’XQ-58 può anche volare in modalità semi-autonoma seguendo un rotta impostata, o diventare completamente autonomo.

«Il risultato del programma LCAAT, in base al quale viene creato l’attuale XQ-58A, potrebbe essere l’emergere di una tattica radicalmente nuova per l’uso dell’aviazione di prima linea. I compiti principali delle conquiste della difesa aerea e la distruzione di oggetti terrestri (anche la lotta per la superiorità aerea è possibile) saranno eseguiti da un collegamento misto, tra cui un cacciabombardiere con equipaggio di quarta o quinta generazione e un certo numero di UAV» (“TopWar“).


Ma anche l’Europa investe sui velivoli senza pilota e Airbus (Francia Germania Italia Spagna) presenta l’Eurodrone alla fiera britannica. E il protagonismo delle aziende di punta italiane standiste è imbarazzante per retorica nazionalista amplificata da “Formiche.net”: Eurodrone e celebrazione di dividendi in materia di arnesi di morte.

  • Avio Aero riunisce negli stand istituzionali a Farnborough la Difesa governativa per festeggiare i proventi del motore Catalyst made in Italy, selezionato a marzo da Airbus per equipaggiare il programma del drone europeo e il governo offre un palcoscenico straordinario alle aziende pesanti, a caccia di importanti ritorni industriali e tecnologici.ll Catalyst garantisce una diminuzione dei consumi fino al 20%, una potenza di crociera e una capacità di carico maggiore del 10% e fino a tre ore in più di autonomia in una tipica missione Uav, rispetto ai motori concorrenti nella stessa categoria. Il controllo del motore digitale Fadec (Full authority digital engine control) presente sul Catalyst, inoltre, semplifica l’integrazione tra l’avionica e l’elica, questa realizzata dalla tedesca MT-Propeller. Applicato all’Eurodrone, che è un velivolo a pilotaggio remoto (Uav) di classe Male (Medium altitude long endurance), con capacità versatili e adattabili. Le sue caratteristiche lo rendono la piattaforma perfetta per missioni cosiddette Istar (Intelligence, Surveillance, Target Acquisition, and Reconnaissance): cioè di Intelligence, sorveglianza, acquisizione obbiettivi e ricognizione e per operazioni di sicurezza nazionale. I siti coinvolti nel programma sono: Avio Aero in Italia e Polonia, GE Aviation Turboprop in Repubblica Ceca, GE Aviation Advanced Technology di Monaco di Baviera e il GE Engineering Design Center di Varsavia; come si diceva per i prodotti Aukus di Boeing-Lockheed, a dimostrazione della indispensabile collaborazione tra molte aziende ciascuna per le sue competenze tecnologiche, perché evidentemente bisogna fare in fretta e non solo per la complessità dei sistemi, visto che fino a momenti non di guerra si predilige mantenere segreto o comunque interna la tecnologia applicata evitando di dipendere da altri stati… significa che è elevata la domanda e pure i tempi di applicazione sono immediati.
  • L’attivissima industria italiana appare nel mercato dei velivoli senza pilota anche nella proposta americana: infatti Leonardo DRS era presente fresca di acquisizione della RADA israeliana: il 21 giugno la società a capo del complesso miltare-industriale nazionale ha comunicato che la controllata statunitense Leonardo DRS e l’azienda israeliana RADA Electronic Industries Ltd. (leader nella fornitura di radar tattici militari e software avanzati) hanno firmato un accordo vincolante di fusione, come ci informa Antonio Mazzeo, specificando anche produzione e maestranze del nuovo partner della filiale statunitense dell’azienda italiana di difesa Leonardo SpA.
      • «Secondo il presidente e amministratore delegato di Leonardo DRS, William Lynn, l’azienda sta lavorando sulle modalità di progresso delle capacità come l’integrazione dei sensori e l’uso dell’energia diretta e della guerra elettronica per eliminare gli sciami di droni».

    • Leonardo DRS è la filiale statunitense dell’azienda italiana di difesa Leonardo SpAa le attivissime aziende italiane sono presenti sul mercato dei droni sia in un prodotto che presso la sua concorrenza: anche Leonardo DRS era presente alla fiera e fresco dell’acquisizione di RADA Electronics Industries» (“Defense News”).
  • Ma Leonardo a giugno aveva allacciato altre relazioni collaborative con BAE Systems allo sviluppo di un dimostratore del Future Combat Air System, che il Ministero della Difesa britannico prevede di far volare entro il 2027. Il parlamento italiano si è impegnata a spendere 6 miliardi di euro per il programma nel prossimo decennio per questo nuovo Eurofighter Tempest, successore del Typhoon.
    Parlando il 19 luglio al Farnborough Airshow, il Segretario alla Difesa britannico Ben Wallace ha sottolineato la collaborazione della Gran Bretagna con l’Italia e il suo nuovo potenziale partner, il Giappone alla progettazione del Tempest, all’interno del quale è prevista una qualche partecipazione della Swedish Air Force.
  • Destino vuole che la fiera sembra sia fatta in casa dai soliti brand, che hanno atteso l’occasione per sbandierare le loro partnership: infatti subito al secondo giorno, rilanciata dalla grancassa della solita “Defense News” la stessa BAE Systems (il più grande appaltatore della difesa in Europa), ha annunciato l’ingresso nel settore del trasporto aereo militare attraverso un’alleanza strategica con il produttore brasiliano di aerei Embraer, con la quale ha annunciato di aver firmato un memorandum d’intesa per perseguire un potenziale accordo con l’Arabia Saudita per l’acquisto del bimotore per il trasporto aereo tattico C-390 dell’Embraer.
    Un’ubriacatura di armi per Riad proviene dal viaggio di Biden che apparentemente aveva solo ricevuto rifiuti (a incrementare la distribuzione di barili fuori dall’Opec, schierandosi in quel modo contro la Russia) e invece ha sbloccato 5 miliardi di dollari in armi: 3 per i 300 Patriot Interceptors (vendita già bocciata in passato dal Congresso per la pessima condotta dei wahabiti) e 2 nei Thaad Iterceprtors, prodotti da Raytheon Technologies «saranno utilizzati per rifornire quelli usati per abbattere i missili e i droni sparati nel regno dai ribelli Houthi nello Yemen», si legge in “DefenseOne”. Ma allora cosa se ne farà Mbs di una potenza di fuoco simile, se davvero reggesse la tregua in Yemen e si va verso rapporti amichevoli con Turchia, Israele…? Rimane solo uno scontro aperto contro l’Iran, a pensare male ci aiuta “Politico.eu”:

    «L’amministrazione Biden sta esortando le nazioni arabe a collaborare con Israele per contrastare i missili iraniani, ma la continua diffidenza e le differenze tecnologiche significano che qualsiasi tipo di alleanza potrebbe essere lontana anni. Secondo funzionari ed esperti, un obiettivo più realistico sarebbe che Israele condividesse alcune informazioni con gli Stati arabi, conducesse esercitazioni da tavolo insieme e magari acquistasse ulteriori armi compatibili. Si tratta di un obiettivo più raggiungibile rispetto a uno scudo di difesa regionale che colleghi i tiratori con radar, satelliti e altri sensori… Ma un problema è che anche Sauditi ed Emirati Arabi Uniti utilizzano sistemi cinesi e russi, che non possono integrarsi con le apparecchiature occidentali… L’idea di un’alleanza di difesa missilistica allentata riflette un cambiamento verso la normalizzazione tra ex avversari che si coalizzano intorno a un atteggiamento più falco nei confronti dell’Iran, ha affermato Caroline Rose, analista del New Lines Institute».


  • Gli UAV rappresentano il futuro business, ma quello consolidato e che rappresenta miliardi cash – tanti sporchi e subito – è il mercato degli F35 che anche a Farnborough sono stati un vero successo. Formiche poi esagera rivendicando strumentalmente quale vantaggio trarrebbe lo stabilimento di Cameri. Comunque è un bottino formidabile indotto dall’attenzione per situazioni di guerra.
    In Europa i paesi che hanno scelto di affidare la difesa aerea agli F-35 sono Germania (sostituendo i vecchi Tornado per un totale di 8 miliardi), Finlandia (10 miliardi in cambio di 64 F-35, per disfarsi dei vecchi F-18 Hornet McDonnel), Repubblica ceca (a rimpiazzare i suoi Saab JAS 39 Gripens), Svizzera (6,5 miliardi stanziati un anno fa) e Grecia (un ordine di almeno 20 F-35 entro il 2028) aderendo al programma del Joint Strike Fighter. L’anno scorso, inoltre, è stato consegnato il primo caccia alla Danimarca e l’Aeronautica militare olandese è diventata ufficialmente la nona nazione al mondo a dichiarare operativa la propria flotta di caccia.

  • E di nuovo un ruolo particolare se lo ritaglia l’Italia, tornando a una rivelazione di “Formiche.net
  • «Lockheed Martin si è aggiudicata un contratto del valore di 524 milioni di dollari per il supporto ai caccia di quinta generazione F-35 italiani. A darne notizia un comunicato del dipartimento della Difesa americano, che ha registrato la modifica che aumenta il massimale per l’approvvigionamento di materiali, parti, componenti e sforzi a lungo termine per la produzione di sette velivoli F-35A e due F-35B del lotto 15 e sette F-35A e due F-35B del lotto 16 destinati alle Forze armate del nostro Paese. Il lavoro sarà svolto principalmente negli Stati Uniti, ma vedrà la partecipazione anche del sito produttivo italiano di Cameri, in Piemonte, dove si trova una delle uniche due Faco al di fuori degli Usa (l’altro è in Giappone) e si prevede che sarà completato nel giugno 2025. L’Italia ha fino ad oggi ordinato sessanta caccia a decollo e atterraggio convenzionale F-35A e trenta nella variante a decollo corto e atterraggio verticale F-35B.
    Secondo il Pentagono, la quantità finale di velivoli potrebbe cambiare in base a eventuali “aggiustamenti apportati dal Congresso degli Stati Uniti nel bilancio 2023 e a eventuali ordini richiesti dai partner internazionali».

    (certo: li forniremo, se rimangono fondi di magazzino, vista la richiesta indotta dagli orizzonti bellici, che si approvvigionano grazie anche a Farnborough)



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19 luglio

      • Nel quadro dell’attivismo turco, nell’area del Mediterraneo orientale, si registra da tempo (si trova qui un possibile riassunto di Mariano Giustino per Radio Radicale del 10 giugno 2022) la richiesta di Ankara di rendere effettiva la smilitarizzazione delle isole dell’Egeo, che sarebbe regolata dall’accordo di Losanna risalente al 1947 (all’articolo 13 prevede che nessuna base navale o fortificazione debba essere stabilita a Mitilene, Chio, Samo –isole sulle rotte dei migranti e che potrebbero produrre un incidente “ibrido”). La smilitarizzazione dunque è sempre stata disattesa dalla Grecia che rivendica la scadenza ormai avvenuta delle regole di disarmo e il diritto all’“autodifesa” dall’espansionismo turco – che peraltro non è tra i firmatari dell’Accordo di Losanna, proprio perché rivendica quella che il nazionalismo turco chiama “Patria blu”, mettendo in discussione le Zone assegnate ai singoli paesi dell’area, con gas, pesci e cavi di comunicazione annessi.
      • Non a caso la Grecia ha il maggior rapporto percentuale tra i paesi UE di assorbimento del pil dalla spesa militare. Dopo i Rafele dalla Francia (24 marzo 2022) e gli F-35 della Lockheed (30 giugno 2022), l’ordine di tre corvette sono contese tra la francese Gowind del Gruppo Navale (lo stesso che costruisce le fregate Belharra, ma soprattutto la Francia ha un alleanza militare con Atene), gli italiani di Fincantieri supportati anche dagli Usa con le potenti corvette FCX-30 di classe Doha (la soluzione più accreditata anche per il ritorno geopolitico e per la presenza americana che duplicherebbe la consegna degli F-35) e gli olandesi con le Corvette Sigma 10514 Damen (4 luglio 2022), il tutto per chi si aggiudicherà la commessa per un totale di circa 2 miliardi.
    • Le scelte del governo di Mitsotakis sembrano optare per una cooperazione sempre maggiore con Cipro ed Egitto in funzione antiottomana, sotto l’ombrello americano che sta implementando lo scalo di Alexandropolis adibendolo soprattutto a logistica militare.

Il capo del governo turco, al di là delle mire espansionistiche, sa che dalle parti di Cipro sono stati scoperti importanti giacimenti di gas che in un momento di crisi energetica globale risolverebbero un bel po’ di problemi di approvvigionamento (da Formiche.net).

ma Francia e Germania sono apertamente schierate a difesa di Atene:

«Molte questioni di diritto internazionale sono complicate, ma alcune sono anche molto semplici”, ha premesso Annalena Baerbock, ministro degli Esteri tedesco. “Le isole greche di Lesbo, Chios, Rodi e molte altre sono territorio greco. E nessuno ha il diritto di sollevare dubbi e questioni su questo punto».

e anche negli Usa le simpatie vanno maggiormente ai greci: infatti da “DefenseNews” si viene a sapere che il senatore Menendez del New Jersey (stato con folte comunità armene e greche) ha tentato di usare le sue notevoli influenze nel campo della vendita di armi per impedire che  possa andare in porto una commessa per 70 jet della Lockheed F-16, su cui Erdoğan ha dovuto ripiegare nel 1979, perché estromesso dal progetto F-35 dopo aver acquistato gli S-400 di Putin.

Anche i curdi stanno facendo pressioni sul Congresso perché non vengano consegnati altri F-16 ad Ankara, essendo riusciti a documentare l’uso fatto su strutture civili nel Nordest della Siria

19 luglio

      • Putin ha incontrato Raisi e Erdoğan a Tehran il 19 luglio. In quell’occasione secondo i Servizi americani ripresi dall’“Hindustan Times” si sono precisati i contorni dell’accordo che vede l’Iran pronto a vendere 300 droni letali a Mosca; macchine utilissime nelle operazioni  militari in Ucraina a contrasto di quei droni che il terzo protagonista, Ankara, vende a Kiyv. La Casa Bianca ha prontamente condiviso 3 immagini che attestano l’interesse da parte di una delegazione russa che si è recata a Kashan in Iran almeno due volte per l’acquisto di droni, la prima a giugno e la seconda il 5 luglio. In particolare l’Iran ha mostrato agli inviati russi i droni Shahed-191 e Shahed-129.

        • L’esercito russo ha finanziato diversi programmi di droni per missioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione (ISR) e di attacco, ma la limitata disponibilità di tecnologie avanzate e le carenze tecnologiche nel settore dei droni, come l’ottica, l’elettronica e i materiali compositi, impongono l’acquisto da altri partner e l’Iran è il fornitore giusto in un reciproco accordo win-win, vista la condizione di embargo in cui si trova e il nuovo mercato che si spalanca per le casse iraniane.
        • .

      Secondo il sito specializzato “GagadgetShahed-129 è in grado di trasportare fino a 200 kg di carico utile, compresi i missili anticarro Triste-1 (simile all’israeliano arpione-E.R) e bombe di precisione Triste-345. In una guerra su vasta scala, i droni iraniani non sono ancora stati utilizzati, mentre i primi a essere abbattuti dall’aviazione israeliana risalgono a 10 anni fa ed erano in dotazione a hezbollah.

Secondo “InsideOver”: «Un carico di questi velivoli, che farebbero la differenza nella guerra in corso, sarebbe già stato inviato in Russia attraverso il Mar Caspio verso Astrakhan. Il nucleo della spedizione dovrebbe essere costituito dai droni d’attacco pesanti Shahed 129, realizzati sulla base dell’UAV israeliano Hermes 450, dell’americano MQ-1 Predator e del cinese Wing Loong II. L’equipaggiamento di base dovrebbe essere la bomba Sadid a guida di precisione, sempre iraniana, con testata a frammentazione».

18 luglio

    • Difficile capire se vengono prima le molte tensioni innescate dai politici da un lato e dall’altro della barricata del Pacifico, che allarmano il Pentagono da un lato o dall’altro il People Liberation Army; oppure se quelle provocazioni sorgono in seguito al riarmo che si è già operato e agli stanziamenti miliardari per i vari Corpi degli eserciti.
      • Il corpo dei Marines attraverso la sua rivista (“MarineTimes”) ha pubblicato un lungo articolo di richieste con le quali intende sestuplicare il fondo per la progettazione di prototipi per il 2023: 63 milioni di dollari così suddivisi tra tre progetti: “Family of Integrated Targeting Cells”, o FITC (cellule di puntamento integrate), con 20,5 milioni di dollari; il potenziamento del drone MQ-9A Block 5 Reaper, con 14,5 milioni di dollari; e lo sviluppo di velivoli attrattivi a basso costo, con 14,4 milioni di dollari. Tutti sono operativi o quasi e comunque applicabili in situazione di ingaggio.E tutti i progetti sono selezionati in previsione di una loro applicazione in ambiente Indopacifico; a questo proposito è interessante che questi stanziamenti si aggiungano ai 245 milioni già stanziati dal senato per il Joint All Domain Command and Control, o JADC2, che comprende la creazione di un quartier generale della forza congiunta presso il comando indopacifico e l’accelerazione di queste cellule di puntamento va iscritta nella previsione di missioni incentrate sui litorali e da piccole basi, sollecitate dalla minaccia cinese nel Pacifico.Per maggiore efficacia queste cellule di puntamento dovrebbero essere affiancate da droni “leali gregari”, come quelli sviluppati da Northrop Grumman e Boeing, a lungo raggio, in grado di trasportare carichi letali e di operare sia da navi che da terra: nel 2023 saranno operativi 2 nuovi MQ-9A Block 5 Reaper della Atomic ASI. E infatti il primo atterraggio senza controllo da terra per un MQ-9 è avvenuto il 3 agosto 2022 sull’isola di Palau, non a caso  nell’Oceano Pacifico, arrivando da Guam e diventando ATLC (automatic takeoff and landing capability).
    • Michael Chmielewski, comandante di uno squadrone di MQ-9A ha detto che una base permanente sarà probabilmente allestita in una base aerea in Giappone entro l’autunno del 2022. Il comandante ha anche detto che ciò porrebbe l’asset nella prima catena di isole più vicina alla Cina, con accesso al Mar Cinese Orientale, ma probabilmente non al Mar Cinese Meridionale. Il 556 TES sta preparando un rapporto postazione con le sue raccomandazioni su come impiegare meglio il Reaper nelle esercitazioni future e nelle missioni reali. Chmielewski ha detto che l’AAR chiederà quali capacità tattiche possono ancora essere aggiunte alla piattaforma per soddisfare le esigenze specifiche del teatro del Pacifico (“AirForceMag”)

      • Il comandante dei Marines, gen. David Berger ha annunciato che il servizio avrebbe allestito un primo squadrone di Reaper alle Hawaii, come parte del suo impegno nel Pacifico. Nel 2021 GA-ASI ha anche presentato una versione a decollo e atterraggio corto, o STOL, dell’MQ-9 che può essere lanciata dalle navi, una modifica che consentirebbe al drone di supportare meglio le unità di spedizione dei Marines e di fornire copertura e intelligence, sorveglianza e ricognizione mentre i Marines si spostano dalla nave alla costa.

Scott Smith, vicepresidente regionale GA-ASI per l’Europa, aveva dichiarato nel maggio 2021 per “AresDifesa” che «L’Aeronautica Militare italiana è da tempo leader nell’utilizzo di MQ-9 RPA per supportare un’ampia gamma di missioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione (ISR) in Italia, nel Mediterraneo e a sostegno delle operazioni Nato. Questi miglioramenti danno alle forze italiane la possibilità di vedere meglio e più chiaramente che mai con i loro MQ-9 RPA e siamo orgogliosi di lavorare con l’ITAF per aggiornare la loro flotta.”».

16 luglio

    • Intorno alle 19 un cargo Antonov An-12BK ucraino della Meridian partito da Ni, nel Sud della Serbia, su cui erano caricate 11 tonnellate di munizioni, mortai e mine serbe destinate al Bangladesh si è schiantato a Pangaios Kavalas in Grecia, come descritto da “Flight Radar”, prima dello scalo tecnico previsto nella capitale giordana Amman; non si hanno notizie ulteriori di una sostanza bianca su cui ha indagato lo Special Interbranch Nuclear Biological Chemical Defense Company, comunque 2 pompieri sono stati ricoverati con difficoltà respiratorie.
      • E dopo la prima notizia diffusa da molte testate tra il 18 e il 21 luglio, la notizia non è più stata ripresa, anzi non c’è traccia di inchieste giornalistiche. Eppure “Deutsche Welle” – che ipotizza come destinazione finale l’esercito ucraino sulla base della nazionalità del velivolo precipitato – ironizza sul fatto che sembra un plot di un thriller: infatti le domande potrebbero essere innumerevoli a cominciare dal numero di nazioni coinvolte; ma anche dal produttore di quelle munizioni (Slobodan Tesik, uno dei maggiori trafficanti di armi dei Balcani e da tempo presente nella lista delle sanzioni statunitensi, è un sostenitore del partito al potere di Vucic, l’Sns, e le elargizioni a questo corrisponderebbero a transazioni commerciali tra aziende di armi di proprietà statale e aziende private); e poi soprattutto chi fosse il fruitore finale, vista la attestata tradizione pluriennale per la capitale bengalese come sede di transito delle armi illegali destinate al Nordest dell’India, ma soprattutto… al Myanmar, come si evince da un’interessante analisi di “ResearchGate”.
        Incrociando questa con altre notizie legate al traffico di armi a favore del Tatmadaw birmano dopo il golpe si scopre facilmente che la Serbia è stata condannata dal parlamento europeo, come riportato da “BalkanInsight”, una testata che ha pubblicato il 22 febbraio 2022 una precisa e documentata inchiesta sugli stretti rapporti commerciali di materiale bellico tra Belgrado e Naypyidaw; il rapporto, scritto in collaborazione con Myanmar Witness, il Center for Investigative Journalism in Serbia e Lighthouse Reports, fondata su immagini, video e documenti open source, dava conto di una rotta simile, pur facendo scalo tecnico a Il Cairo.
      • Traffico d'armi tra Serbia e Myanmar

        Cargo partito dalla Serbia, riconoscibile nelle operazione di scarico a Yangoon

David DesRoches, professor alla National Defense University, ha dichiarato ad “Al Jazeera” che «Ci sono anche segnalazioni che alcuni dei proiettili sono proiettili da mortaio, che non sono normali esplosivi da esplosione – tendono a frammentare finemente i pezzi di metallo, che sono estremamente infiammabili. Quindi, ancora una volta, questo creerebbe alcuni problemi ai vigili del fuoco e ai soccorritori».
Ha aggiunto che, fino all’invasione russa, l’Ucraina era tra i leader mondiali nei servizi di trasporto aereo di merci.«Non si tratta di un’operazione losca e in sordina; è una pratica consolidata e ben accettata, anche se non è soggetta agli stessi controlli di un paese occidentale, perché non fa parte di alcuna istituzione europea».

Antonov-AN12BK

11 luglio

  • Durante il Summit tra ministri degli interni dei paesi comunitari tenutosi l’11 luglio la commissaria europea Ylva Johansson ha annunciato la creazione di un hub in Moldavia per combattere le organizzazioni criminali che hanno riconvertito il loro core business nello storno di armi inviate in Ucraina.
    Interessante come la Commissione già il 28 marzo avesse stilato un piano in 10 punti per migliorare il coordinamento tra gli stati nell’accoglienza dei profughi in fuga dalla guerra, agganciandolo al piano contro il comune traffico… di esseri umani, di qui l’allusione al coinvolgimento di Frontex. Ora si applicano gli stessi criteri per la “fuga di armi”, attraverso l’European Multidisciplinary Platform Against Criminal Threats (EMPACT) per indirizzare un’azione operativa congiunta contro le nuove minacce criminali legate all’aggressione della Russia all’Ucraina.

  • Riporta “EU-Observer”: «È difficile evitare il contrabbando di armi. Cerchiamo di tenerne traccia, ma mentirei se dicessi che ci riusciremo. Abbiamo fallito dopo la guerra in Jugoslavia, e non possiamo impedirlo ora», ha dichiarato a EUobserver un funzionario dell’UE che parla in forma anonima.

    Ogni Stato membro dispiegherà inoltre agenti di polizia presso la sede centrale dell’hub, che opererà dalla capitale moldava Chișinău, aumentando la capacità locale e mirando a contrastare anche il traffico di esseri umani.

  • Aija Kalnaja, responsabile ad interim di Frontex, ha dichiarato che la Moldova è stata scelta come base operativa «perché è qui che può arrivare soprattutto il traffico di armi».

    Lo scenario ucraino può rappresentare un enorme bacino di approvvigionamento militare nel cuore dell’Europa, tra l’altro con armamenti ben più efficaci rispetto a quelli tradizionalmente rinvenuti come AK 47, Uzi, AR15 e M12, per non parlare degli esplosivi di nuova generazione, dice Arje Antinori a “Ristretti Orizzonti”.

11 luglio

  • Il ministro svedese dell’immigrazione Anders Ygeman ha dichiarato all’EU-Observerche la maggior parte delle armi fornite all’Ucraina erano nelle mani dell’esercito ucraino.

    Ma parlando alla Anglo-American Press Association di Parigi il 10 giugno, il capo dell’Interpol Jürgen Stock ha avvertito che «una volta che le armi taceranno, assisteremo a una proliferazione di armi nella fase postbellica, dando un enorme potere ai gruppi di criminalità organizzata della regione. Arriveranno le armi illegali. I criminali si stanno concentrando su quelle. Dovremmo essere allertati e aspettarci che queste armi vengano scambiate nei paesi vicini e in altri continenti». E allora ha esortato i paesi a «tracciare e rintracciare» le armi.

  • L’Ucraina ha una lunga storia di commercio illegale di armi; il caso più eclatante è quello della MV Faina, una nave da carico ucraina che nel 2009 è stata sorpresa a trafficare carri armati, artiglieria e fucili d’assalto AKM verso il Sudan – fatto che è venuto alla luce quando la nave è stata catturata dai pirati somali. Se si considera che già soltanto i 40 miliardi stanziati a maggio dagli Usa si sono andati ad aggiungere alle scorte di armi inviate in Ucraina dagli Usa tra cui si annoveravano secondo il “Washington Post”: 1400 sistemi antiaerei Stinger, 5500 missili anticarro, 700 droni Switchblade, 90 sistemi di artiglieria Howitzers a lungo raggio, 7000 armi leggere, 50 milioni di munizioni e numerose altre mine, esplosivi e sistemi di razzi a guida laser.

    Senza considerare  le consegne di ordigni da altre potenze occidentali che hanno visto transitare in territorio ucraino una quantità di strumenti bellici in questi 4 mesi maggiore di quelle spedite in Afghanistan in 20 anni; consegnate a un destinatario che per tradizione vede l’esercito stesso (e le sue milizie affiliate a maggior ragione) dedito al contrabbando.

    • come sottolineava il “Washington Post: «La storia dell’Ucraina come centro di traffico di armi risale alla caduta dell’Unione Sovietica, quando l’esercito sovietico lasciò in Ucraina grandi quantità di armi leggere e di piccolo calibro senza un’adeguata registrazione e controllo dell’inventario. Secondo lo Small Arms Survey, un’organizzazione di ricerca con sede a Ginevra, una parte dei 7,1 milioni di armi leggere dell’esercito ucraino nel 1992 “sono state dirottate verso le aree di conflitto”, sottolineando “il rischio di fuga verso il mercato nero locale”»

    • Il nuovo hub in Moldavia arriva nel momento in cui il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha chiesto con urgenza di aumentare le forniture di armi e munizioni per contrastare l’avanzata russa nell’est e nel sud del paese. I missili Stinger a spalla, in grado di abbattere aerei di linea, sono solo uno dei sistemi d’arma che gli esperti temono possano entrare in possesso di gruppi terroristici che cercano di provocare incidenti di massa.

      E l’escalation in corso attorno a Kherson vede protagonisti gli Himars che hanno gittata maggiore, ottima precisione e rapidità di fuoco superiore a quella del corrispondente russo… vanno a sostituire il Bayrakhtar turco e allargano il mercato delle armi alimentato da quegli articoli un po’ meno sotto i riflettori.

    • Nell’altro campo si vede in questi giorni il mercato animato dalle fughe di notizie di forniture dell’Iran per l’esercito russo, ma già era risaputo che proprio con armi riciclate da Tehran si approvvigionasse Mosca («Missili anticarro e RPG, oltre a sistemi lanciarazzi di progettazione brasiliana forniti attraverso reti sotto copertura in Iraq», “The Guardian“: cioè le milizie sciite irachene trasferiscono all’esercito russo armi di contrabbando con l’aiuto dei servizi iraniani); mentre a marzo Shoigu aveva proposto a Putin di girare ai separatisti filorussi del Donbass i missili americani Javelin e Stinger catturati.
      Un sistema missilistico Bavar-373 di fabbricazione iraniana, simile all’S-300 russo, è stato donato a Mosca dalle autorità di Teheran.


7 luglio

  • L’“Associated Press” ha ripreso una dichiarazione della Royal Navy britannica secondo la quale una sua nave avrebbe sequestrato un sofisticato carico di missili iraniani nel Golfo di Oman all’inizio del 2022, in questo modo usando l’interdizione come prova del sostegno di Teheran ai ribelli Houthi in Yemen. Interessante che l’annuncio venga a distanza di mesi dall’evento nel giorno delel dimissioni del governo di Boris Johnson. L’annuncio del governo britannico segna un’escalation, poiché in passato i funzionari occidentali hanno evitato di rilasciare dichiarazioni pubbliche che incolpassero direttamente l’Iran di aver armato gli Houthi. Il percorso dei carichi sulle rotte del contrabbando attraverso il Mar Arabico o il Golfo di Aden avrebbero suggerito la loro destinazione.
    Citando un’analisi forense, la Marina britannica ha quindi collegato il lotto di motori a razzo sequestrati a un missile da crociera di fabbricazione iraniana con una gittata di 1000 chilometri, che secondo la Marina sarebbe stato usato dai ribelli colpendo Abu Dhabi (come dalla nostra scheda del 17 gennaio).
    Secondo “Expartibus.it” le operazioni si sarebbero svolte il 25 gennaio e il 28 febbraio 2022 nelle prime ore del mattino. Mentre l’elicottero dell’HMS Montrose, dotato dei più recenti sistemi radar, era alla ricerca di navi che contrabbandano merci illegali ha individuato piccole navi che si allontanavano rapidamente dalla costa iraniana. Una squadra di Royal Marines si è avvicinata alle navi su due barche con decine di casse contenenti armi avanzate, che sono state scoperte e confiscate. Anche il cacciatorpediniere della US Navy USS Gridley ha partecipato schierando un elicottero per fornire un monitoraggio durante l’operazione.
    .
  • A sua volta, come riferisce “Anbamed” il ministero iraniano smentisce la ricostruzione dei fatti. Per Teheran, il comunicato britannico è un’azione di propaganda per coprire il coinvolgimento di Londra nelle azioni di spionaggio contro la repubblica islamica. Uno dei punti controversi degli accordi di tregua è la libera circolazione da e per la città di Taez, assediata dagli Houthi. Per garantire il libero passaggio dei civili, gli Houthi chiedono la resa dei soldati governativi ancora presenti per la difesa della città. Questo nuovo contenzioso rischia di impedire il rinnovo della tregua il prossimo 2 agosto.
  • Londra aveva affermato che nei mesi passati sono stati sequestrati missili terra-aria sofisticati di fabbricazione iraniana diretti in Yemen e capaci di minacciare i caccia sauditi che dominano lo spazio aereo yemenita. La Gran Bretagna è uno dei maggiori esportatori di armi verso l’Arabia Saudita e gli Emirati arabi uniti, i due paesi implicati nel campo avverso ai turbanti nella guerra yemenita. Dunque si evidenzia in questa “guerra” di comunicati come il traffico d’armi crei conflitti di annunci fumosi a orologeria. In questo caso è sicuramente palese che l’Iran fornisca il movimento houthi di ogni tipo di arma e quindi la notizia di un’intercettazione viene adoperata al momento più opportuno per far precipitare la situazione.


1° luglio

    • L’agenzia per la difesa sudcoreana sostiene l’acquisto dalla Lockheed Martin di altri 20 jet F-35A entro il 2030. Ne dà notizia “DefenseNews”, aggiungendo che la Defense Acquisition Program Administration ha appoggiato questo acquisto nell’ambito del progetto F-X del paese, che comprende la strategia di attacco preventivo “Kill Chain” del governo, volta a contrastare le minacce nucleari e missilistiche della Corea del Nord. Se l’ordine verrà eseguito, il paese spenderà entro il prossimo anno 3 miliardi di dollari per questa commessa.
  • Lockheed Martin ha consegnato tutti i 40 caccia F-35A Block 3 ordinati dalla Corea, a partire dal dicembre 2021. Ma i 20 jet in più dovrebbero arrivare nella variante Block 4, che è in grado di compromettere i radar nemici e altre apparecchiature elettroniche, dispone di un sistema elettro-ottico migliorato e può trasportare un maggior numero di ordigni. Forse, visto quello che riporta “DefenseDaily” relativamente alle consegne di F35-A in corso per US Air Force: «Il Technology Refresh 3 (TR3) è la spina dorsale del computer per il Block 4, che deve avere 88 caratteristiche uniche e integrare 16 nuove armi sull’F-35. Una grande sfida per il TR3 è rappresentata dal processore integrato L3Harris [LHX] e il Government Accountability Office si è detto preoccupato per la possibilità di ulteriori ritardi nelle consegne del processore e per la scarsa qualità del software del Block 4». Il primo volo del processore su un F-35 è previsto per luglio, ma l’aeronautica militare statunitense ha ridotto i previsti 48 aerei in ordine per il 2023 (per una spesa di più di 5 miliardi) a soli 33 (in cambio di 4 miliardi e mezzo.


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]]> La guerra viene con le armi lo spaccio a giugno https://ogzero.org/studium/traffico-di-armi-lo-spaccio-a-giugno/ Fri, 08 Jul 2022 22:24:13 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=8138 L'articolo La guerra viene con le armi lo spaccio a giugno proviene da OGzero.

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Non siamo responsabili dell’uso delle armi che vendiamo

A inizio giugno “AnalisiDifesa” titolava Segreti di Pulcinella l’articolo in cui si sbertucciava il Copasir che manteneva il segreto sulle armi donate agli ucraini dall’esercito italiano, le stesse documentate da video diffusi dai russi: «obici da 155 mm FH-70 in azione, proiettili da mortaio da 120 mm, munizioni calibro 7,62 per mitragliatrici MG42 e missili anticarro Milan, tutti surplus dell’Esercito Italiano trasferiti agli ucraini e poi caduti in mano al nemico» (inteso come russo, ma tanto sarebbero state in mano ai non meno inquietanti combattenti del battaglione Azov).
Seguendo spedizioni e trasferimenti di ordigni – ma anche esercitazioni congiunte e collaborazioni in missioni – si può redigere una mappa delle aree a rischio: scontato il corso del Don, e poi il mar Cinese meridionale, gli stretti delle Molucche e di Hormuz (Emasoh: esercitazioni antiraniane a guida italiana), completamento del muro antipolisario con la missione congiunta al largo del confine tra Marocco e Mauritania con la US Air, ma soprattutto gli equilibri di un mar Mediterraneo attraversato da traffici di umani, droga e armi; come capita in tutti i mari, visto che US Navy è disposta a versare una taglia di 100.000 dollari a chiunque fornisca informazioni relative a traffici di armi e droga nei pressi del Golfo di Aden, dove nel 2021 la marina americana ha sequestrato 9000 ordigni (il triplo del 2020) e parallelamente il corrispondente di 500 milioni in droga.
Sono 57 i conflitti già esplosi in corso nel mondo. E forse non è un caso che il 6 luglio sia stato ucciso con modalità da intelligence Hashi Omar Hassan, il capro espiatorio per la morte di Ilaria Alpi, causata dalla sua inchiesta sul traffico di armi legato al cargo Shifco carico di militari italo-croati; e, come rileva Michele Giorgio: «anche le violazioni dell’embargo sulle armi non trovano un epilogo. È del 5 luglio la notizia dell’emittente televisivo somalo “Al-Arabya”, dove si denunciava il sequestro di due barche yemenite che trasportavano armi al gruppo terroristico “Al-Shabaab”. Le barche sarebbero risultate di proprietà di un contrabbandiere somalo, Ahmed Matan, che già in passato avrebbe fornito materiale esplosivo allo stesso gruppo terroristico probabilmente direzionandole al Golfo di Aden».
In un mondo sempre meno neutrale persino due vascelli militari giapponesi si sono avventurati nel Mediterraneo, interconnettendo ancora di più i conflitti dell’Indo-Pacifico con quelli mediterranei e lo hanno fatto all’inizio di giugno nell’ambito di una cooperazione che sancisce l’allargamento della Nato al Pacifico conferendo a Tokyo la direzione di quella che si può chiamare “Nato dell’Est”, affidata alla terza più potente flotta al mondo. Questa cooperazione è significativo si sia manifestata attraverso le esercitazioni delle “JS Kashima” e “JS Shimakaz” insieme alla fregata antisommergibili italiana “Nave Margottini” (strategicamente disposta contro il nemico russo che infesta il Mediterraneo con sommergibili dotati di missili Kalib) e la fregata “Salihreis” della marina turca che ha raddoppiato le proprie unità. Un’integrazione operativa che arriva nel giorno in cui il capo di stato maggiore della Difesa giapponese, il generale Koji Yamazaki, che aveva partecipato all’incontro tra gli omologhi dell’alleanza a maggio, ha ospitato a Tokyo l’ammiraglio Rob Bauer, presidente del comitato militare della Nato. Tutto a poche settimane dalla partecipazione di Tokyo — con il premier Fumio Kishida — al vertice Nato di Madrid; e dopo che ad aprile il ministro della Difesa Yoshimasa Hayashi aveva preso parte al vertice ministeriale dell’Alleanza Atlantica.
Questo allargamento della Nato sta costruendo un bipolarismo militare scollato dal multipolarismo geoeconomico, ma che invece risponde agli interessi contrapposti della geopolitica, che agevolano la liquidità dei confini delle scelte di campo; gli schieramenti poi non tengono conto del traffico d’armi. Gli acquisti degli ordigni non tengono conto dei campi avversi; pur di piazzare qualche affare miliardario si corre il rischio di vendere armi a chi potrebbe puntarle contro chi le vende. Sembra assurdo, ma risponde alla logica per cui il costruttore vende un prodotto del cui uso non si sente corresponsabile, per questo il banchiere Draghi può scambiare contenimento di migranti in cambio di miliardi utili per pagare gli elicotteri Agusta utilizzati nello sterminio dei curdi, rimanendo oltretutto all’interno della medesima coalizione, cosa che comunque non spaventa il leader turco che vende droni in entrambi i campi e acquista aerei e sistemi antimissile contrapposti da entrambi i rivali.
E questo mese abbiamo assistito anche alla fiera dell’industria bellica parigina Eurosatory, a tre mesi dal suo omologo Word Defense Show tenuto a Riyadh; anche qui un dato interessante è quello sulla provenienza degli espositori, che registra un aumento di quelli dell’Est e del Nord europei: «i soldati e le delegazioni ufficiali non sono qui per guardare ma per fare acquisti. In funzione di bisogni concreti e a medio termine ma senza preoccuparsi dei prezzi, che anche in questo settore subiscono l’impennata del costo delle materie prime. Perché sanno che oggi, per i loro governi, la difesa e la sicurezza sono settori in cui non si bada a spese» (“Radiopopolare”)
E l’articolo più gettonato è l’Intelligenza Artificiale e la guerra del microchip.

Approfondimenti



Ospitati dall’Eirenefest abbiamo potuto raccogliere alcune idee sul traffico d’armi e su questo dossier in preparazione con Emanuele Giordana e Alessandro De Pascale: ne è scaturito un intenso racconto di alcune delle motivazioni che ci hanno spinto a raccogliere questi dati che gradualmente pubblichiamo lungo tutto questo anno fatale, mentre i nostri amici di “Atlante delle Guerre” hanno fornito analisi e dati provenienti dalle loro inchieste

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Giugno

30 giugno

    • F-35: un intero squadrone greco entro il decennio. Come se si sentisse il bisogno… oppure no? “Formiche.net” ne dà notizia attribuendo a Kyriakos Mitsotakis la richiesta di 20 caccia della quinta generazione Lockheed, a cui si potrebbe aggiungere una seconda opzione su un numero imprecisato di jet in seguito – sempre che esista ancora il Mediterraneo orientale dopo il 2030.L’anno scorso Atene ha ordinato dalla Francia 24 jet Dassault Rafale, per due miliardi e mezzo di euro, e tre fregate per la sua Marina militare, con un’opzione per una quarta fregata, per circa tre miliardi di euro. Il ministero della Difesa greco ha inoltre dichiarato la propria volontà di procedere all’aggiornamento dei suoi 38 caccia F-16: forse che il quadrante orientale del Mediterraneo è interessato a qualche sconquasso bellico prossimo venturo e i greci rispolverano il baluardo orientalista attraverso l’adesione al programma Joint strike fighter per la loro Polemikí aeroporía? Quali informazioni di intelligence allarmano le autorità elleniche? Quanto è semplice precauzione rispetto alla potenziale ambizione di Erdoğan e quanto è invece una prospettiva probabile di scontro tra potenze del quadrante che si stanno schierando attraverso serie di apparentamenti, accordi, scambi commerciali e interazioni militari (agganciandosi a una fazione, immaginando ribaltamenti indotti dagli inneschi bellici sparsi nel mondo).“Kathimerini” ritiene che l’acquisto degli F-35 «rafforzerebbe le capacità di difesa della Grecia e approfondirebbe l’interoperabilità tra Stati Uniti e Grecia nell’ambito della NATO, garantendo la stabilità regionale», ha dichiarato in un tweet l’ambasciatore statunitense in Grecia George Tsunis, a seguito di un incontro avvenuto la scorsa settimana tra Panagiotopoulos e i funzionari del Joint Strike Fighter Program Office, a cui Tsunis ha partecipato.Le autorità turche accusano secondo “Defensepost” la Grecia di stazionare truppe sulle isole dell’Egeo in violazione dei trattati di pace seguiti alla prima e alla seconda guerra mondiale.
      Atene ribatte che le truppe sono stanziate in risposta alla presenza di unità militari, aerei e mezzi da sbarco turchi sulla costa opposta [prove tecniche di belligeranza]

I caccia F35 Lightning II - Lockheed-Martin

25 giugno

        • DefenseNews” informa del fatto che Putin ha dichiarato che la Russia fornirà missili Iskander-M a capacità nucleare alla Bielorussia e modificherà i jet da combattimento del paese per consentire loro di trasportare armi atomiche tattiche. Evidente la prospettiva di un prossimo maggiore coinvolgimento di Minsk nei conflitti di Mosca.
          La decisione è stata presa unilateralmente dal Cremlino e comunicata da Putin il 25 giugno dopo un incontro con Lukashenka.
        • traffico di armi
        • Durante lo stesso incontro, il presidente bielorusso ha chiesto al premier russo di aggiornare i caccia Sukhoi Su-25 a sua disposizione per consentire il trasporto di armi nucleari, sostenendo che questo consentirebbe alle forze aeree bielorusse di monitorare le esercitazioni della Nato che si esercitano a trasportare testate e armi nucleari.
          Sottolineando – come riporta una nota dell’Agi – che nei magazzini di 6 stati europei sono stivate 200 armi nucleari tattiche con 257 aerei pronti ad armarsene, Putin ha ribadito che i jet da combattimento bielorussi potrebbero essere dotati di equipaggiamenti supplementari presso gli stabilimenti aeronautici russi e che le forze armate russe potrebbero fornire addestramento ai loro piloti.
      • I missili Iskander-M sono una variante del sistema balistico mobile a corto raggio utilizzato dalle forze armate russe in Ucraina con una “misteriosa” peculiarità tradotta da “Fanpage” e ripresa dal “New York Times” che cita fonti dell’intelligence statunitense: oltre ad effettuare manovre evasive nella fase terminale del volo, sarebbero in grado di rilasciare dispositivi di 30 centimetri (9B899) in grado di eludere i sistemi radar e antimissilistici, simili alle esche anti-radar della Guerra Fredda.

      • Ogni dispositivo produrrebbe «segnali radio in grado di confondere i radar che tentano di localizzare l’Iskander-M e conterrebbero una fonte di calore in grado di attirare i missili in arrivo».



20 giugno

        • Bacini di carenaggio e basi per la marina militare; con la nuova corsa al riarmo si stanno moltiplicando i cantieri navali, qui un paio di esempi nel quadrante indopacifico.il 20 giugno stripes.com riprende un annuncio di Austal Usa di un contratto da 128 milioni di dollari per il bacino di carenaggio galleggiante ausiliario (AFDM) della Marina degli Stati Uniti per vascelli snelli, che sarà costruito a Mobile, Alabama.
          L’AFDM ha una capacità di sollevamento di 18.000 tonnellate e un’area di lavoro libera sul ponte di 90.800 piedi quadrati.
        • traffico di armi
          Notizia significativa per portare un nuovo tassello alla costruzione del mosaico che descrive la stretta collaborazione militare tra Usa e Australia, soprattutto se si accede al sito di Austal e la descrizione che l’azienda di Perth dà di se stessa:«Austal da oltre 30 anni è un costruttore navale globale, capocommessa nel settore della difesa e partner di riferimento per le tecnologie marittime; progetta, costruisce e supporta navi rivoluzionarie per la difesa e il commercio per i principali operatori mondiali.
          Austal progetta e costruisce più di 300 navi per oltre 100 operatori in 54 paesi in cantieri navali sicuri e moderni situati in Australia, negli Stati Uniti d’America e nelle Filippine».
        • Questa commessa va ad aggiungersi all’acquisto – di cui accenna Rusty Murdaugh – per 145 milioni da parte della US Navy di due vascelli di classe T-ATS (Towing, Salvage, and Rescue Ship) in costruzione da Austal nel nuovo stabilimento all’avanguardia di produzione di navi in acciaio inaugurato in aprile.

      • Nello stesso ambito e nell’altro campo va registrata la consueta guerra satellitare volta a dimostrare come i sospetti sulla costruzione da parte cinese di una base navale a Ream in Cambogia siano fondati. Come sottolinea “Formiche.net” sarebbe il secondo avamposto di Pechino dopo la imponente presenza a Gibuti, nodi di una rete destinata ad ampliarsi. Significativi entrambi i chokepoint: uno all’imbocco del Mar Rosso e l’altro nei pressi dello stretto di Malacca, gli snodi più critici sui percorsi delle navi di Cosco, come scriveva “Nikkei Asia” il 13 maggio scorso.

      • Il governo di Phnom Penn ha subito smentito  le indiscrezioni che il “Wahington Post” aveva pubblicato il 6 giugno, sottolineando la folta presenza di personale cinese senza divisa dell’esercito popolare cinese e metteva in relazione anche l’interesse per le isole Salomone: tutto inquadrabile in un intento di ampliare la propria influenza regionale.
        Ma il Pla non sarebbe il fruitore finale della base militare che la Cina finanzia e costruisce.Infatti il “South China Morning Post” scrive che la Cina può anche contribuire al potenziamento della più grande base navale della Cambogia, ma questo non significa che le navi da guerra e le forze dell’Esercito Popolare di Liberazione vi saranno sistemate di routine, riprendendo le parole dell’ambasciatore cinese Wang Wentian: «Il progetto della base navale di Ream non è rivolto a terzi», sottolineando la ferma opposizione di Pechino ai tentativi di alcuni paesi di infangare i normali scambi con Phnom Penh. «Il progetto è un simbolo di rispetto reciproco e di comunicazione paritaria tra la Cina e la Cambogia», ha dichiarato Wang l’8 giugno durante la cerimonia di inaugurazione della base.
  • Anche questi sono traffici di dispositivi bellici, non solo le consuete armi fornite dalla industria bellica.





18 giugno

        • Fincantieri Marinette Marine, consociata americana della produttrice di navi da guerra di stato italiana, ha annunciato la costruzione della terza fregata lanciamissili della classe Constellation, la Chesapeake (FFG-64), per un valore di 536 milioni di dollari. L’AgenziaNova descrive nei particolari il programma “Constellation”: è stato assegnato nel 2020 a Fmm, con un contratto per la prima fregata con l’opzione per 9 ulteriori navi, oltre al supporto postvendita e l’addestramento degli equipaggi, del valore complessivo di circa 5,5 miliardi di dollari. Nell’ambito del programma, la US Navy prevede la costruzione di ulteriori 10 unità, per un totale di 20.Il contratto è tanto succulento che Fincantieri ha aggiornato appositamente i suoi cantieri – negli Usa, assicurando così occupazione alle maestranze oltreoceano (Fincantieri Bay Shipbuilding e Fincantieri Ace Marine, siti nel Winsconsin), per quanto dovunque siano solo braccia al soldo dei guerrafondai – per arrivare a costruire 2 fregate all’anno, dimostrando così l’imminenza della necessità di potersi avvalere di questi strumenti per una guerra alle viste.

          Esaltato il sito guerrafondaio “aresdifesa”: L’USS Chesapeake (FFG-64), terza unità dopo l’USS Constellation (FFG-62) e l’USS Congress (FFG-63), raggiungerà una velocità massima di 26 nodi e 6000 miglia nautiche di autonomia a 16 nodi.
          L’armamento della classe Constellation sarà costituito da un cannone BAE/Bofors Mk 110 da 57 mm, un sistema VLS Mk 41 a 32 celle per missili RIM-66 Standard SM2 Block IIIC, RIM-162 ESSM Block 2 e/o RIM-174 Standard ERAM, 16 lanciatori per missili antinave (Naval Strike Missile) e un sistema RIM-116 RAM a 21 celle per la difesa di punto ravvicinata. Inoltre, è prevista la predisposizione per un’arma laser fino a 150 kW di potenza.
          La dotazione elettronica sarà composta da un sistema di gestione del combattimento del tipo AEGIS Baseline 10 compatibile con il radar AN/SPY-6(V)3 Enterprise Air Surveillance Radar (EASR), un radar AN/SPS-73(V)18 di ricerca di superficie di nuova generazione, un sonar leggero trainato AN/SLQ-61, un sonar a profondità variabile AN/SQS-62 ed un sistema AN / SQQ-89F per la lotta antisommergibile, oltre la suite di guerra elettronica AN/SLQ-32(V)6 Block 2 e sistemi Mk 53 per il lancio di inganni Nulka.
          Le unità del tipo Constellation avranno a disposizione hangar e ponte di volo per un elicottero multiruolo MH-60R Seahawk e un UAS rotorcraft MQ-8C Firescout.

          Fmm è impegnata anche nei programmi Littoral Combat Ships (che vede pure Lockheed-Martin impegnata), sempre per la US Navy, e nel suo derivato sempre con Lockheed per i sauditi, la Multi-Mission Surface Combatants (Mmsc), nell’ambito del piano Foreign Military Sales degli Stati Uniti, il più imponente programma di trasferimento di armi e tecnologie belliche

17 giugno

Pressenza” ha segnalato in concomitanza con la fiera Eurosatory il numero di Alternatives Non-Violentes volto a ricordare che «le armi non sono merci come tutte le altre. Non sono beni di consumo, ma beni di distruzione. Vendere armi non è altro che esportare la guerra e aumentare la minaccia di guerra ai quattro angoli del pianeta. Significa alimentare, indefinitamente, i conflitti regionali con armi sempre più sofisticate, a scapito dei bisogni reali delle popolazioni che sono le prime vittime di queste esportazioni di armi».

Eurosatory 2022 chiude e dà appuntamento per il 2024. Non ha avuto la medesima visibilità di altre fiere, come per esempio Farnborough.
Si possono però individuare 3 ambiti precipui in cui la fiera parigina funge da levatrice a proposte letalmente rivoluzionarie in tre campi, dichiarati nel video promozionale della rassegna francese:

  1. il primo è il dominio della connettività c4sr
  2. il secondo quello dei sistemi per veicoli
  3. e poi le soluzioni per le armi intelligenti

Dei tre dominii quello che sembra al centro dell’attenzione di una guerra europea improntata ancora agli stilemi novecentisti è quello legato ai veicoli sul terreno, a giudicare dalle molte vendite e acquisizioni di carri armati denunciate nei giorni successivi; ciò nondimeno le attrezzature fondamentali sono quelle che consentono la trasmissione, meno appariscenti, ma le radio sono in grado di dare quelle informazioni per gli attacchi mirati che fanno la differenza. Ma è soprattutto il sistema della Collins Aerospace a costituire la curiosità degli addetti per gli ausili degli smartweapon: questo sistema è stato presentato per la prima volta all’Eurosatory  2022 a evidenziare una soluzione che è un’integrazione che può andarsi a coordinare con parecchie costellazioni, principalmente Leonardo allo scopo di condurre le munizioni tattiche, strategiche e Uavs sull’obiettivo. Di nuovo un sistema di navigazione compatibile con il codice M per veicoli militari terrestri, il primo disponibile in Europa: il NavHub™-200M.

NavHub-200M offre capacità di posizionamento, navigazione e temporizzazione assicurati (Apnt), migliorando al contempo la resistenza complessiva alle minacce esistenti ed emergenti ai sistemi di posizionamento globale (Gps), come il jamming e lo spoofing; include anche gli standard di interfaccia aperti e le capacità di fusione dei sensori necessarie per un percorso di aggiornamento del sistema globale di navigazione satellitare (Gnss), come quello per la costellazione europea Galileo, nonché l’interfacciamento con i principali sensori del veicolo, come l’unità di misura inerziale (Imu)

    1. Dunque si è trattato di una fiera con ogni evidenza incentrata su apparati che operano a terra, eurocentrica e con uno sguardo verso l’Ucraina.

La presenza della Francia, padrona di casa

Ancora su “Pressenza” si legge: «La Francia vende armi all’Arabia Saudita, all’Egitto, all’India, al Qatar, al Brasile e agli Emirati Arabi Uniti, paesi “dalla dubbia fama in fatto di violazioni dei diritti umani”, afferma Alice Privey, ricercatrice dell’associazione Stop Fuelling War. Apprendiamo dal suo articolo che le esportazioni di armi francesi hanno fatto un balzo del 59% dal 2012. Ci ricorda i processi di autorizzazione per la vendita di armi all’estero, sottolineando la mancanza di trasparenza e l’assenza di controllo del parlamento. Ufficialmente, l’esportazione di armi e materiale bellico è proibita in Francia… Per essere autorizzate, queste vendite devono passare attraverso il filtro di una commissione chiamata Cieemg (Commissione interministeriale per lo studio delle esportazioni di materiali bellici), composta da diversi rappresentanti dei ministeri e dell’ufficio del primo ministro. Né il parlamento né la società civile hanno accesso alle informazioni e alle decisioni di questa commissione».

La presenza dell’Italia, produttrice ed esportatrice di primo piano

AreaDifesa” ha prodotto una velina in cui è palese che le «40 realtà imprenditoriali italiane, tra le quali Fincantieri, Leonardo, Elettronica, Mbda, Iveco Defence Vehicles, Intermarine, Gem Elettronica, Rina, Polo Marconi, Beretta ed altri nonché la Federazione delle Aziende Italiane Aerospazio, Difesa e Sicurezza (Aiad)» hanno potuto avvalersi degli spazi organizzata all’Eurosatory dal governo, infatti: «Per l’Italia, le istituzioni nazionali sono rappresentate dal Sottosegretario alla Difesa, Senatore Stefania Pucciarelli, dall’Ambasciatore italiana a Parigi, Teresa Castaldo, e da una delegazione del Segretariato Generale della Difesa e Direzione Nazionale degli Armamenti, presieduta dal Generale di Divisione Rodolfo Sganga, Capo del III Reparto».

16 giugno

        • Scatenando il conflitto nell’Europa orientale si è ovviamente dato luogo a innumerevoli profitti derivanti dalla quantità di armi che senza criterio l’Occidente etichettato come liberal-democratico ha riversato, originando traffici illeciti e incontrollabili anche per le mafie di quell’area geografica. Tra le innumerevoli filiere “Left” denuncia la consegna di munizioni al torio e all’uranio impoverito provenienti da Francia – alla luce del sole – e dall’Italia, nel segreto del Copasir a guida fascista di D’Urso, per nulla all’opposizione di un governo che ha nel suo primo ministro (senza mandato elettorale, ma indicato dal presidente della repubblica rieletto) il massimo sostenitore dell’impegno bellico… e dell’approvvigionamento di armi.

        • L’abnorme quantità di armi che circola in Ucraina sta già diventando oggetto di un traffico criminale e mafioso: il mercato globalizzato dei proiettili radioattivi. Tra le armi partite dagli arsenali di parecchi paesi della Nato verso l’Ucraina (e che potremmo ritrovarci nelle nostre strade) ci sono anche i missili anticarro portatili Milan, di produzione franco-tedesca.

          I vecchi modelli di questi missili, oggetto dei trasferimenti in questione, hanno un sistema di puntamento che contiene e rilascia torio, un metallo pesante altamente radioattivo, come si sono accorti i militari esposti all’uranio impoverito della dimenticata guerra balcanica, che ha coinvolto nell’oblio anche le loro morti, e anche i sardi che vivevano nei pressi dei poligoni di Capo Teulada e Quirra, per le conseguenze devastanti dei tiri sono stati mandati a processo diversi generali, uno dei quali (Claudio Graziano) per questo è stato ad aprile promosso da Draghi alla guida di Fincantieri, industria di morte all’avanguardia in Italia.


14 giugno

        • Eurosatory 2022, risposta parigina al World Defense Show svoltosi a Riyad dal 6 al 9 marzo, si manifesta come la fiera in cui si possono ammirare i sistemi creati in contrapposizione delle potenziali nocività provenienti da quei marchingegni che hanno avuto enorme successo nei teatri di guerra ultimamente. (i droni) e che più si sono esibiti nelle altre fiere di ordigni
          In occasione di Eurosatory Leonardo presenta per la prima volta il nuovo radar multi-missione di ridotte dimensioni e pesi per impiego tattico denominato TMMR (Tactical Multi Mission Radar). Infatti TMMR è un sensore multidominio, una soluzione valida in molti scenari, come il radar israeliano DaiR, presentato nella medesima kermesse francese. “ReportDifesa” esplicita meglio l’utilizzo dell’antenna AESA e della camera elettro-ottica NERIO: soluzioni efficaci antidrone e che richiedono mobilità e rapidità di dispiegamento, ma anche per la difesa aerea a corto raggio, per la sorveglianza e protezione di piattaforme e veicoli, confini, territori e infrastrutture critiche


        • Nel linguaggio criptico degli addetti ai lavori “AnalisiDifesa” spiega con tecnicismi di cosa si tratta:  una soluzione ‘all-in-one’ costituita da un radar completamente digitale (fully digital) e ‘software defined’ in banda ‘C’ con antenna, processing ed elettronica in un solo modulo o pannello dalle ridotte dimensioni, pesi e consumi che, sfruttando le più avanzate tecnologie del settore e concezione modulare può essere impiegato come singolo modulo o diversi insieme per assicurare una completa copertura del mezzo o sito da proteggere. TMMR presenta la microelettronica applicata di ultima generazione, un’architettura d’antenna a scansione elettronica attiva (AESA, Active Electronically Scanned Array) completamente digitale con campionamento del segnale direttamente all’antenna che utilizza la tecnologia dei moduli trasmettitori-ricevitori di ultima generazione al Nitruro di Gallio (GaN, Gallium Nitride).

          Un aspetto interessante e che può gettare una nuova luce sui motivi per cui certi paesi (Kazakhstan e Ucraina) siano oggetto di attenzioni maggiori di altri (Armenia) è che i principali paesi produttori di gallio sono la Repubblica Popolare Cinese, la Germania, il Kazakistan e l’Ucraina, per il riciclaggio del gallio anche Stati Uniti, Giappone e Regno Unito.

        • Tra i radar Leonardo presenta anche il Kronos nelle versioni fissa e mobile, punto di riferimento per la sorveglianza e difesa aerea, con circa 50 unità attualmente in servizio nel mondo. Il Kronos Land è più piccolo e viene gestito da un sistema di Comando e Controllo dentro uno shelter. Può arrivare fino a 16 metri. L’altro è il Kronos Mobile Hp è più avanzato dal punto di vista tecnologico in quanto il radar ha una tecnologia GaN.

9 giugno

        • Mentre molti giustamente riprendono dal “Fatto Quotidiano” l’infamante notizia che «L’Italia diserta il meeting mondiale sull’abolizione delle armi atomiche. E riceve il primo F35 che sgancia le nuove bombe nucleari B61-12» e che di bombe nucleari B-61 gli Usa ne hanno circa 150 stanziate in 5 nazioni Nato, oltre a quelle a disposizione di Francia, GB, Usa in grado di portare attacchi nucleari a lunga gittata; “heritage” informa che la Russia ha un vantaggio di 10 a 1 sulle forze nucleari occidentali nell’ambito dei missili non strategici nucleari (NSNWs). Nel contempo di questa dimostrazione muscolare che cancellerebbe intere aree geografiche, “Defensehere” informa che l’aeronautica militare statunitense ha assegnato a Lockheed Martin, Northrop Grumman e L3Harris Technologies 2 milioni di dollari a testa per  la progettazione di una nuova arma da installare sugli F-35 in grado di distruggere i sistemi antiaerei (area denial), come lanciatori di missili balistici o da crociera, jammer di segnali satellitari, armi anti-satellite (Asat) e in generale i sistemi integrati di difesa aerea e impedire al nemico di garantirsi delle zone aeree sicure (“Formiche.net”). E questo è semplicemente prepararsi al confronto tradizionale con russi e cinesi, adoperando quegli stessi velivoli, centrali in ogni transazione (che sempre sanciscono l’alleanza stretta con gli Usa: l’oggetto del patto col diavolo) e che l’Italia sta acquistando nella loro quinta generazione per allestirli anche con quelle armi nucleari di cui parla “Il Fatto Quotidiano”. Ma un classico esempio di come si approntino armi micidiali è l’altro approccio dell’F-35, che si troverebbe a utilizzare la nuova arma Siaw solo dopo aver penetrato lo spazio aereo nemico ed essersi avvicinato all’obiettivo, sfruttando le capacità stealth proprie del caccia della Lockheed, andando a colpire quei mezzi semoventi dotati di molteplici testate lanciamissili, tipicamente da crociera e da offesa e che quindi richiamano l’impegno della ricerca per annientarli, innescando un ingaggio che si avvale di mezzi costruiti apposta per contrastare le ricerche messe in campo per costruire i mezzi di difesa a ordigni a loro volta da offesa: la spirale perfetta per la corsa al riarmo.

          Il progetto dell’Usaf era in realtà in cantiere già da tempo, ed è supportato dalle previsioni di bilancio per l’anno fiscale per il 2023 che ha stanziato, come richiesto dal Pentagono, 78 milioni di dollari per l’acquisizione di 42 sistemi d’arma; un nuovo segnale di come si stia modificando l’industria bellica, da specializzata in lotta al terrorismo in una industria in grado di fornire mezzi da adottare contro avversari considerati “near-peer” come Russia e, soprattutto, Cina

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9 giugno

        • Cominciano a configurarsi i contorni di una Nato meridionale: il Patto di Baghdad – che però tiene fuori proprio l’Iraq – sancisce il vecchio sogno statunitense come spiega bene “Anbamed”: «Tutto nel nome del contrasto ad eventuale lancio di missili dall’Iran», dove il paese dei turbanti svolge il ruolo di spauracchio scatenante che per la Nato storica è stato interpretato da Mosca. La cooperazione militare antimissilistica è già in atto da mesi, – i prodromi sono negli accordi di Abraham – ed è stata utile per il preavviso del lancio di un drone iraniano contro Israele che è stato intercettato e abbattuto nei cieli dell’Iraq. I radar sofisticati saranno installati negli Emirati, Bahrein e in altri paesi che non hanno ancora relazioni diplomatiche con Tel Aviv.
          Sbrigativo “Tellereport” annuncia uno dei primi prodotti di questi accordi arabo-israeliani: «Il primo ministro israeliano ha concluso una breve visita negli Emirati Arabi Uniti, durante la quale ha incontrato il presidente Mohammed bin Zayed. L’Iran è stato uno dei dossier discussi dalle due parti, mentre i media israeliani hanno riferito che Tel Aviv ha dispiegato un sistema radar nei paesi del Golfo». Si tratta del sistema ELM 2084 MMR, prodotto dall’azienda israeliana ELTA, che è parte del sistema di difesa missilistica David’s Sling.


Il tema è ovviamente legato alla questione del nucleare iraniano, ma soprattutto risponde alle richieste americane di creare un fronte antiraniano delle forze mediorientali, nascondendolo dietro la foglia di fico della «cooperazione bilaterale, soprattutto per quanto riguarda gli investimenti e gli aspetti economici, la sicurezza alimentare e la salute». Il dato però proviene dai dati di navigazione che hanno rivelato 5 voli cargo di due aerei “Ilyushin” di proprietà della “Fly Sky Airlines” tra gli Emirati e Israele.

L’israeliano “Channel 12” ha rivelato che l’esercito israeliano ha dispiegato un sistema radar in diversi paesi mediorientali, tra cui gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, nell’ambito di una visione di cooperazione. Il canale ha sottolineato che questo sistema è riuscito a fornire un preavviso alcuni mesi fa, quando l’Iran ha lanciato droni con trappole esplosive verso Israele, che sono stati abbattuti nello spazio aereo iracheno.

In questo contesto, il “Wall Street Journal” ha riferito che i legislatori statunitensi dei partiti democratico e repubblicano hanno presentato al Congresso una proposta di legge che prevede che il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti (Pentagono) collabori con Israele e alcuni paesi arabi per integrare le difese al fine di contrastare quelle che ha descritto come minacce iraniane.

  • Il produttore israeliano di armi Elbit Systems il 12 giugno ha inoltre presentato all’Eurosatory parigino il suo nuovo radar tattico che si avvale di intelligenza artificiale, algoritmi sofisticati e centinaia di ricevitori digitali. DaiR è in grado di tracciare migliaia di bersagli di diverse dimensioni e a diverse velocità a chilometri di distanza.

6 giugno

        • La guerra dei droni prosegue nella preparazione al confronto bellico esteso. La parte del leone è svolta da Ankara che li vende anche ai finlandesi ai quali sta minacciando di impedire l’ingresso nella Nato – si configura come estorsione –, ma oltre all’uso spregiudicato di velivoli senza pilota a basso costo per legittimare una politica aggressiva e “comprare” il silenzio riguardo al piegare a proprio vantaggio, sterminando i curdi siriani, una guerra mediatica che serve da preludio ad altre correlate anche – per ora – dalla tipologia di arma, poiché si immagina che pure in altri teatri di guerra si seguirà lo stesso canovaccio per evitare di usare quelle letali, limitandosi a massacri ristretti alle aree volta per volta interessate.
          Notando l’efficacia della flotta di droni dell’Ucraina nel contrastare l’invasione russa, il presidente taiwanese Tsai Ing-wen ha chiesto un più rapido sviluppo degli UAV sia civili che militari. Le tensioni sono in aumento perché negli ultimi mesi l’esercito di liberazione popolare cinese ha intensificato le esercitazioni militari nella regione e si sono registrate numerose sortite di jet da combattimento nella zona di difesa aerea di Taiwan.Il “South China Morning Post” ci informa che l’esercito taiwanese riceverà la prima serie di droni a corto raggio di produzione locale. Il National Chung-Shan Institute of Science and Technology, il principale produttore di armi di Taiwan, dovrebbe consegnare 14 set di veicoli aerei tattici a corto raggio senza equipaggio (UAV) nel corso dell’anno, secondo un rapporto di revisione del bilancio del ministero della Difesa recentemente inviato al legislatore. I restanti 36 sets arriveranno l’anno prossimo, consentendo la formazione di divisioni di droni per aumentare la capacità di ricognizione e di risposta in battaglia. Ogni battaglione sarà dotato di un reparto UAV di quattro persone e l’Istituto Chung-Shan sarà incaricato di contribuire alla formazione degli operatori di droni per questo ruolo.
          Il governo ha indicato un budget di 779,9 milioni di dollari taiwanesi (26,5 milioni di dollari) per l’acquisto di 50 set di droni per i suoi 23 battaglioni di armi combinate. La consegna prevista arriva mentre le forze armate taiwanesi cercano di aumentare le capacità di ricognizione e di risposta alle battaglie di fronte alle crescenti minacce di Pechino. Gli esperti di Taiwan e degli Stati Uniti, il principale fornitore di armi dell’isola, sostengono che gli UAV armati – la cui tecnologia proviene probabilmente da scambi tra le due industrie belliche – potrebbero rivelarsi efficaci nel respingere un attacco dalla Cina continentale. Ed è un piano che procede dal giugno 2019 con una previsione di spesa denunciata da “Taiwan News” di 2 miliardi e mezzo di dollari in 5 anni
        • traffico di armi

          Teng Yun 2 Cloudrider

        • La collaborazione è evidente se si pensa che Il 17 maggio l’Istituto Chung-Shan ha anche testato le capacità di volo a medio e lungo raggio del drone Teng Yun 2 (Cloudrider), in grado di essere utilizzato sia in modalità di sorveglianza che di attacco e dovrà unirsi agli MQ-9B Sea Guardian di produzione statunitense per formare una forza di combattimento a più lungo raggio. Gli Stati Uniti hanno approvato la vendita a Taiwan di quattro droni armati MQ-9B e delle relative attrezzature per un valore di 600 milioni di dollari nel novembre 2020. E infatti il Teng Yun assomiglia al drone statunitense MQ-1 Predator e può utilizzare gli stessi missili AGM-114 Hellfire da esso impiegati..




6 giugno

          • Nel momento in cui Boris Johnson affrontava il giudizio della House of Commons, i media britannici più autorevoli (Bbc e “The Guardian”) diffondevano la notizia che Londra era in procinto di inviare inizialmente 3 sistemi di rampe missilistiche multilancio di ultima generazione di produzione statunitense M270 a Kiyv, complete di corso di addestramento per le truppe ucraine; evidentemente la guerra serve anche per difendersi da tracolli interni, assumendo il ruolo del Comander in Chief.Sembra che nel gioco delle parti si alzi a turno il livello di provocazione per innescare una “escalation controllata” per arrivare a una guerra semifredda di lunga durata con focolai di battaglie aspre volte a ridisegnare le sfere di influenza e a misurare il reale peso specifico delle singole potenze: infatti questa è una consegna che fa seguito a quella già effettuata dagli Usa la scorsa settimana del proprio sistema di artiglieria a razzo ad alta mobilità (HIMARS) M142 (gli stessi per i quali l’Australia ha ottenuto dal Dipartimento di stato americano il permesso alla vendita il 7 giugno secondo “19fortyfive”, che adduce le stesse spiegazioni valide per l’integrazione di questi lanciarazzi tra le forniture dell’esercito ucraino) ha già irritato Mosca e domenica il presidente russo Vladimir Putin ha minacciato dalla Tv di stato di ampliare l’elenco degli obiettivi che la Russia attaccherà in Ucraina in risposta a questi approvvigionamenti.

      • Il sistema di razzi a lancio multiplo può sparare 12 missili terra-superficie in un minuto e può colpire bersagli nel raggio di 80 km con precisione millimetrica, molto più lontano dell’artiglieria attualmente in possesso dell’Ucraina.
        Secondo il sito di notizie americano “Politico”, l’amministrazione Biden stava ritardando il trasferimento dell’artiglieria missilistica all’Ucraina, temendo che potesse essere utilizzata per lanciare attacchi all’interno della Russia e questo interpretato dal Cremlino come una “escalation”. Questo porterebbe presumibilmente all’espansione o al prolungamento della guerra o «al ricorso da parte della Russia all’uso di armi chimiche o di altre armi di distruzione di massa». Ma con giugno ogni remora è caduta, come dopo l’affondamento della Moskva il 12 aprile l’ipotesi di prevalere sull’esercito russo può aver convinto il Pentagono a estendere il conflitto: infatti il 14 aprile alla Casa Bianca le industrie belliche coinvolte sono anche quelle che producono missili a lungo raggio, non solo quelli di una guerra localmente ristretta.

2 giugno

        • Scacchiere indopacifico, caldissimo: cantieri navali Jaingan. Immagini satellitari scattate da Planet Labs il 31 maggio e confrontate da “Center for Strategic & International Studies” dimostrano che la nuova ammiraglia (320 x 78 metri) della marina cinese è pronta al varo, nonostante i ritardi dovuti al lockdown da pandemia che ha coinvolto anche l’area di Shangai (“Scmp”, 17 aprile).
          traffico di armi

Le indicazioni per le operazioni di attracco sullo Yangtze segnalano che il 31 maggio la foce doveva essere liberata per il transito della terza portaerei in dotazione all’Esercito polare di classe Type 003 dotata nella descrizione di “InsideOver” del sistema Catobar (Catapult Assisted Take Off Barrier Arrested Recovery) costituito da 3 catapulte Emals per aerei di tipo elettromagnetico – non nucleare come le omologhe statunitensi; le due precedenti portaerei sono la Shandong (varata nel 2017) e la Liaoning (2016). In prospettiva si legge su “InsideOver” che la marina cinese – già più numerosa come unità navali – ha nei piani di sviluppo la prossima presenza di due unità a propulsione nucleare Type004.

  • Il varo è avvenuto due settimane dopo, come da questo video attestato.

1° giugno

        • Il traffico di elicotteri sembra aver avuto un exploit negli ultimi tempi: riguardo ai Chinook “AgenziaNova” riporta una doppia notizia: il Regno Unito ritarda l’acquisto da Boeing di 14 elicotteri CH-47 Chinook per risparmiare e la polemica minacciosa è che costerà ai contribuenti 300 milioni di sterline (circa 352,6 milioni di euro) perché in seguito saranno più costosi. Proprio come nelle fiere quando si lascia velatamente intuire che i prezzi lieviteranno e di cogliere le offerte speciali, solo che in questo caso si tratta dell’ufficialità proveniente da un rapporto del National Audit Office, secondo cui il ministero della Difesa starebbe peccando di “compiacimento” nella gestione del bilancio.
        • traffico di armi

          Forse per questo motivo la Bundeswehr si è fatta attirare ad acquistare 60 CH-47 al prezzo di 5 dei 100 miliardi dello stanziamento speciale del nuovo governo a guida Spd, come anticipato da “Frankfurter Allgemeine Zeitung“. Questi elicotteri sostituiranno i CH-53 che, prodotti dall’azienda aerospaziale statunitense Sikorsky (ora Lockheed), sono in servizio nella Bundeswehr dal 1972. Alle forze aeree sonbo destinati 40,9 miliardi di euro dei 100 stanziati per la guerra tedesca. Questo include l’acquisto dell’aereo americano F-35 come successore del Tornado, nonché lo sviluppo e l’acquisizione dell’Eurofighter ECR.

        • Gli elicotteri sono considerati cavalli di battaglia per il trasporto aereo rapido di veicoli, materiale e soldati e sono importanti per la difesa nazionale e dell’alleanza, ma anche per le missioni all’estero. Il CH nella denominazione del modello sta per “elicottero da carico”. Il CH-47 è facilmente riconoscibile per la sua caratteristica forma a banana e due rotori principali.


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]]> N. 20 – Polonia e Unione Europea: il segnale non intercettato dell’imminente conflitto in Ucraina https://ogzero.org/polonia-e-unione-europea-il-segnale-non-intercettato/ Mon, 27 Jun 2022 17:33:53 +0000 https://ogzero.org/?p=7994 I campanelli di allarme che non sono stati ascoltati erano tutti nel vacillare degli assetti politici dell’Europa centrale. Attraverso una lettura attenta anche dal punto di vista giuridico delle normative, Fabiana Triburgo fa emergere i cavilli e le deroghe che rendono possibile una strumentalizzazione del migrante che corrisponde alle strategie politiche e geopolitiche degli stati […]

L'articolo N. 20 – Polonia e Unione Europea: il segnale non intercettato dell’imminente conflitto in Ucraina proviene da OGzero.

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I campanelli di allarme che non sono stati ascoltati erano tutti nel vacillare degli assetti politici dell’Europa centrale. Attraverso una lettura attenta anche dal punto di vista giuridico delle normative, Fabiana Triburgo fa emergere i cavilli e le deroghe che rendono possibile una strumentalizzazione del migrante che corrisponde alle strategie politiche e geopolitiche degli stati membri (e non) dell’Unione Europea in difficoltà attraverso patti e accordi che rendono possibile attuare respingimenti illegali, costruire ancora muri e campi di detenzione con la scusa di false emergenze. In questo saggio si analizza il caso di Polonia e Unione Europea, nel suo sviluppo all’interno di un contesto più ampio di interessi internazionali scatenatisi con la guerra ucraina.


Risulta sempre più evidente come i flussi dei movimenti umani non siano semplicemente fenomeni da valutare nell’ambito dei temi riguardanti le politiche migratorie di uno o più stati o più specificatamente rispetto al sistema normativo in materia ma piuttosto qualificabili quali eventi che nascondono questioni, giochi di forza e interessi geopolitici dei quali sono la diretta conseguenza e, non come si potrebbe superficialmente pensare, la causa. Ciò emerge anche rispetto al conflitto armato in corso in Ucraina: rileggere all’indietro alcuni accadimenti della storia degli ultimi due anni dell’Europa orientale ci consente di comprendere come il fenomeno migratorio, così come era andato strutturandosi già nell’agosto del 2021 e ancor prima – almeno negli intenti di due attori statali dell’area ossia Russia e Bielorussia – fosse uno dei primi e più rilevanti campanelli d’allarme che gli assetti politici – apparentemente calcificati a livello geografico lungo la nuova cortina di ferro – stavano cominciando a vacillare. Gli eventi verificatisi a partire dal 2020 potrebbero dunque essere definiti iniziali scosse di terremoto che, a distanza di oltre trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, hanno risvegliato il sottosuolo degli equilibri internazionali creando delle faglie o – visti gli attuali sviluppi del conflitto ucraino – vere e proprie voragini, simbolo di questioni silenti ma non certo più esistenti. Occorre dunque per l’analisi dei flussi migratori nell’Europa orientale – certamente anomali, per come sono andati delineandosi, ma non particolarmente emergenziali quantitativamente come invece si è voluto lasciare intendere – tornare indietro all’estate del 2020 quando il presidente bielorusso Lukashenko, in carica dal 1994, è stato rieletto con circa l’80% dei voti favorevoli ma al contempo accusato di brogli elettorali al punto da essere destinatario di violente proteste da parte della popolazione civile finalizzate a far cadere il regime. A questo punto il primo elemento rilevante è che l’ondata di proteste che interessò gran parte della popolazione bielorussa anche prima delle elezioni venne foraggiata dalla Lituania e dalla Polonia.

Proteste a gennaio 2014 a Kiev (foto Roman Mikhailiuk / Shutterstock).

La strumentalizzazione dei migranti

In particolare, la Polonia costituisce l’ultimo avamposto dell’Alleanza Atlantica o meglio ancora l’ultimo stato satellite degli Stati Uniti a livello militare in quell’area. Con gli Stati Uniti la Polonia vanta solidi patti di cooperazione e intese che non sono esattamente speculari rispetto al tipo di relazioni che la Polonia intrattiene con l’Unione, pur essendone a tutti gli effetti un paese membro.

Il tentativo quindi di Polonia e Lituania in quel momento di voler far entrare la Bielorussia nella sfera di influenza posta dall’altro lato della cosiddetta “nuova cortina di ferro”, cercando di rafforzarla a proprio vantaggio, è stata percepita come una pericolosa provocazione dal regime di Lukashenko che ha quindi prontamente provveduto a chiedere il sostegno militare e politico del capo del Cremlino Vladimir Putin che è riuscito a sedare le proteste popolari nel paese a lui alleato e con il quale ha successivamente sottoscritto 28 programmi per l’unione statale.

Si pensi come negli ultimi anni il presidente russo prima in Siria ma a gennaio del 2021 anche in Kazakistan, sia intervenuto su esplicita richiesta dei leader al potere per mantenere lo status quo a livello politico, spesso con il beneplacito di buona parte della comunità internazionale, sebbene non palesemente espresso. Tutto questo per far riflettere che a livello politico il leader di uno stato acquisisce sempre più potere nella misura in cui altri attori statali gli attribuiscono un ruolo fondamentale nel dirimere talune annose questioni internazionali. Tuttavia, la crisi di governo bielorussa e l’intervento del capo del Cremlino che in un primo momento sembrava fosse una vicenda eccezionale – risolta ristabilendo l’allineamento al preesistente asse della cortina di ferro – nascondeva evidentemente proiezioni geopolitiche molto più ambiziose, emerse un anno dopo, proprio mediante quella che è stata definita “strumentalizzazione della questione migratoria”.

Le proteste in Kazakhstan.

Il piano orchestrato

Iniziata apparentemente come una pressione migratoria che Minsk intendeva porre limitatamente al confine lituano e che, come si scrisse allora, venne attuata per lanciare un messaggio all’Unione Europea in ragione delle sanzioni applicate alla Bielorussia in seguito al dirottamento dell’aereo della Ryanair con a bordo i due dissidenti del regime di Lukashenko, a settembre dello stesso anno raggiungeva invero risvolti ben più allarmanti. Infatti, con la spinta dei migranti attuata da Minsk al confine con la Polonia si delineavano più nettamente i profili di un piano orchestrato ad hoc del quale – anche qualora il presidente russo non si voglia definire il regista – non si può non qualificare quale complice, avendo mostrato di non voler intervenire nella vicenda, nonostante – considerati  i rapporti con la Bielorussia – avrebbe potuto fermarla in qualsiasi momento e tenuto conto degli ignorati appelli di sostegno più volte avanzati telefonicamente dall’allora cancelliera tedesca Angela Merkel.

In realtà si può affermare che l’appoggio della Russia a Minsk nella questione migratoria è stato la conditio sine qua non affinché essa si realizzasse. Al riguardo non si dimentichi che la quasi totalità dei migranti, prima spinti al confine bielorusso verso la Lituania e in seguito verso la Polonia, provenissero dal Medioriente – principalmente iracheni curdi, afghani e siriani – e che beneficiarono di un rilevante numero di rilasci di visti turistici per la Bielorussia nella quale arrivarono attraverso compagnie aeree turche. Non si può sottovalutare infatti che la Russia vanti un rapporto privilegiato con la Turchia: i due paesi – come più volte detto – sono in una condizione di continuo antagonismo nello scacchiere internazionale ma dimostrano di avere un reciproco rispetto nelle decisioni in politica estera. Ciò si traduce nel fatto che quando le circostanze lo richiedono sono in grado di stringere accordi, compromessi, alleanze per fronteggiare le questioni che man mano si presentano, soprattutto in situazioni di conflitti armati come in Nagorno Karabakh o ancor di più in Siria relativamente alla questione dei curdi.

Ascolta “Mosca chiude: autarchia senza prospettive” su Spreaker.

Il ruolo della Turchia

Non si può del tutto escludere dunque il coinvolgimento, almeno in un primo momento, della Turchia in questa specifica strumentalizzazione dei migranti portata avanti da Minsk. D’altra parte la Turchia è già avvezza a tattiche, o meglio strategie, basate sulla questione migratoria per il soddisfacimento dei propri interessi espansionistici ma anche puramente economici. Basti pensare al più volte citato accordo di 6 miliardi di euro elargiti dall’Unione Europea alla Turchia – recentemente rinnovato – per “l’accoglienza/trattenimento” nel proprio territorio dei profughi siriani per scongiurare la solita “invasione” che avrebbe coinvolto il vecchio continente.

E, di nuovo, i diritti violati

Come si può tristemente constatare tuttavia la cosiddetta invasione non sarebbe mai avvenuta e non ci sarebbe alcuna questione geopolitica in merito sulla quale discutere nell’ipotesi di obbligatoria ed equa ripartizione dei flussi migratori nei 28 stati dell’Unione, attraverso piani di ricollocamento, ancorati a indici demografici e del prodotto interno lordo dei paesi di destinazione. In questa sede ciò che interessa è la continua violazione dei diritti fondamentali dei migranti attuata dalla Polonia a partire da settembre 2021 quando le forze armate bielorusse cominciarono a scortarli verso quel tratto di confine tra i due stati. Va preliminarmente sottolineato che la Polonia – trovatasi in tale situazione – ha deciso di agire fin da subito in completa autonomia, senza consultare o dar seguito alle istanze – come vedremo in seguito prevalentemente di facciata – provenienti dalle istituzioni dell’Unione rispetto alla “crisi migratoria (?!)” che si stava verificando sul proprio territorio. A settembre del 2021 quindi il capo di stato polacco con l’approvazione del Parlamento proclama lo stato di emergenza che poi rinnova prontamente nel mese di novembre. Ai migranti dunque – anche richiedenti asilo – non viene data la possibilità di entrare nel territorio polacco e di presentare la domanda di protezione internazionale. Uomini singoli, soggetti vulnerabili tra cui minori, nuclei familiari e donne incinte vengono fatti stazionare al di fuori dei check point polacchi all’addiaccio.

Tuttavia, l’intento di ignorare esseri umani in difficoltà e respingerli prima dell’ingresso, oltre a violazioni formali del diritto internazionale – primo tra tutti il principio di non-refoulement – e del diritto europeo in materia d’asilo, ha causato la morte nel 2021 di ben 21 persone!

Ci si potrebbe fermare su questo dato che per la sua gravità non ammette giustificazioni di sorta e non solo con riferimento all’Unione ma a tutti i paesi membri che non sono intervenuti nella vicenda. La discussione invece in modo sterile si è sviluppata sul fatto che a Spagna, Grecia e Italia non è stato mai offerto alcun sostegno con arrivi numericamente più elevati. Ci si chiede perché in tali situazioni invece di fare confronti non si convoglino le forze politiche dell’Unione per cogliere l’occasione  di un atteggiamento politico diverso e per rivedere gli assiomi europei attuati – diversi da quelli teorizzati – dando un segnale forte, in modo tale che nessuna strumentalizzazione dei migranti produca più effetti sull’Unione o su uno dei paesi membri e non perché venga ignorata o repressa ma perché vengano rispettate le norme sul diritto d’asilo già vigenti e finalmente messo in atto il principio di solidarietà di cui all’art. 78 del trattato sul funzionamento dell’Unione.

Il punto debole dell’Unione

È chiaro infatti che a livello internazionale gli stati che hanno proiezioni egemoniche, spesso in contrasto con gli interessi del vecchio continente, hanno ben compreso – vedi Russia e Turchia – come la questione migratoria sia il vero, grande punto debole dell’Unione con il quale ricattarla, dato che non riesce in alcun modo a gestirla, se non cercando di renderla invisibile e traghettandola al di là dei propri confini. Tuttavia, visto che a quanto pare il fatto che degli esseri umani siano lasciati in tali indegne e mortifere condizioni non desta alcuna indignazione e non comporta mutamenti delle tattiche degli stati membri forse è il caso di cominciare più cinicamente a riflettere sulle conseguenze politiche ed economiche (che forse interessano maggiormente) che il perpetrare di tali comportamenti implicano e che sono ben più gravi rispetto all’adozione di un’accoglienza condivisa dei migranti soprattutto in un  caso come quello della Polonia rispetto al quale, data anche l’estensione del suo territorio e il numero di rifugiati accolti è un’eresia definire crisi o situazione di emergenza migratoria l’arrivo di 10.000 migranti!

Muri e centri di detenzione

Nonostante ciò sono stati apportati emendamenti alla normativa nazionale polacca in materia di migrazione – che a quanto pare però non vengono applicati (fortunatamente, anche se non si capisce la differenza con gli altri profughi) ai profughi ucraini – rendendola più restrittiva così come era avvenuto in Lituania e sempre alla stessa stregua si è realizzata la costruzione di un muro al confine con la Bielorussia lungo circa 186 chilometri e alto 5 metri e mezzo oltre, alla costruzione di ulteriori tre centri di detenzione all’interno dei quali in ogni stanza sono ammassate circa 22 persone in meno di 2 metri quadri ciascuno per potersi muovere.

Istituzioni in difficoltà

Nessuna novità quindi o quasi. Infatti, per quanto riguarda l’analisi dei profili giuridici, rispetto a tale vicenda, va posta attenzione sulla proposta di regolamento avanzata alla fine del 2021 dalla Commissione europea riguardo le misure che gli stati membri possono adottare in caso di strumentalizzazione dei flussi migratori ossia la “Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio volta ad affrontare le situazioni di strumentalizzazioni nel settore della migrazione e l’asilo”.

Prima di entrare nel merito del testo va preliminarmente detto che se un’istituzione europea “alla bisogna” compone un testo giuridico ad hoc per fronteggiare una situazione squisitamente politica – quando tra l’altro si è presentata già una proposta di regolamento europeo nei casi di crisi e di forza maggiore nel settore della migrazione e dell’asilo” – dimostra di essere in palese difficoltà.

Tuttavia, anche in questo testo normativo non solo non si evidenzia alcun cambiamento di visione ma si è andati ben oltre ogni limite del rispetto dei diritti fondamentali degli individui migranti per cui si auspica vivamente che il Parlamento europeo non approvi tale proposta, assurda sotto il profilo giuridico.

Nella relazione introduttiva alla proposta di regolamento viene delineato l’ambito di applicazione del medesimo ancorandolo a quelle situazioni nelle quali gli attori statali utilizzino «i flussi migratori come strumento per fini politici, per destabilizzare l’Unione europea e i suoi Stati membri».

Il diavolo sta nei dettagli

A conferma della singolarità del testo normativo in oggetto e del suo contenuto squisitamente politico – dettato da un evidente senso di preoccupazione rispetto alla situazione allora in corso – si noti come in esso vi siano, in modo del tutto inconsueto per un atto giuridico, addirittura specifici riferimenti alla situazione geopolitica in prossimità di quel confine che emergono mediante l’impiego di espressioni quali «in risposta alla strumentalizzazione delle persone da parte del regime bielorusso» o mediante l’utilizzo di termini politici – o ancor meglio propri del gergo militare – per definire la  strumentalizzazione, come per esempio «attacco ibrido in corso lanciato dal regime bielorusso alle frontiere dell’UE».

C’è da dire infatti che nella proposta di regolamento non viene data alcuna puntuale definizione giuridica del termine “strumentalizzazione” – rendendo più estesa e quindi più pericolosa l’applicazione del regolamento a situazioni che potrebbero verificarsi in futuro – tanto che per ricavarla è necessario far riferimento ad un altro testo giuridico (già analizzato nell’articolo relativo ai flussi migratori al confine Ventimiglia-Menton) ossia la proposta di modifica del Regolamento Shenghen del 14 dicembre 2021 che all’art. 2 (con l’introduzione del punto 27) stabilisce che

la «strumentalizzazione dei migranti è la situazione in cui un paese terzo istiga flussi migratori irregolari  verso l’Unione incoraggiando o favorendo attivamente lo spostamento verso le frontiere esterne di cittadini di paesi terzi già presenti sul suo territorio o che transitino sul suo territorio se tali azioni denotano l’intenzione del paese terzo di destabilizzare l’Unione».

Per quanto attiene alle conseguenze della “strumentalizzazione” inoltre è necessario che la natura delle azioni del paese terzo sia potenzialmente tale «da mettere a repentaglio le funzioni essenziali dello stato quali la sua integrità territoriale, il mantenimento dell’ordine pubblico o la salvaguardia della sicurezza nazionale». Sono chiaramente delle conseguenze gravissime ma dato che la proposta di regolamento in esame è stata stilata specificatamente per la situazione al confine polacco-bielorusso, o comunque in conseguenza di questa, ci si chiede:

può realmente l’arrivo di circa 10.000 migranti in Polonia potenzialmente mettere a repentaglio l’integrità del suo territorio, il mantenimento del suo ordine pubblico o mettere a rischio la sicurezza nazionale?!

Anomalie e volute mancanze

Inoltre, si fa riferimento alla solita dizione “migranti irregolari” quando, come noto, il richiedente asilo è irregolare nella quasi totalità dei casi perché in fuga dal proprio paese d’origine – e non è certamente ammissibile che nell’ipotesi della strumentalizzazione attuata da uno stato terzo – non abbia il medesimo diritto di altri richiedenti a presentare la domanda di protezione internazionale! Per di più altre anomalie – o meglio volute mancanze – si rilevano nel testo del regolamento: non vi è alcuna menzione di indicatori, in particolare di tipo quantistico, con i quali delineare la strumentalizzazione, per cui – ragionando per assurdo – anche due soli migranti strumentalizzati potrebbero portare all’applicazione del regolamento. Ancora più pericoloso è che il regolamento, qualora venga applicato, sia idoneo a comportare gravissime deroghe al rispetto dei diritti fondamentali in materia d’asilo.

Deroghe e cavilli

La prima deroga è relativa alla registrazione delle domande d’asilo prevista all’art. 2 (“Procedura di emergenza per la gestione dell’asilo in una situazione di strumentalizzazione”): in caso di domande presentate alla frontiera, tra l’altro in punti specifici, il termine è di ben 4 settimane per la loro registrazione (e non per l’esame!), durante le quali ovviamente i profughi restano al di fuori del territorio dell’Unione. In secondo luogo, lo stato può decidere alle sue frontiere o più genericamente nelle zone di transito, «sull’ammissibilità e il merito di tutte le domande» registrate nell’arco del periodo in cui il regolamento viene applicato. Ciò quindi senza alcun riferimento alla nazionalità di alcuni profughi come i cittadini afgani per i quali sarebbe facilmente ipotizzabile una palese fondatezza della domanda di protezione internazionale.

L’unica priorità legata alla visibile fondatezza delle domande è quella data a quelle presentate dai minori o dai nuclei familiari ma ciò che è fondamentale ricordare è che comunque tutta la procedura anche in questi casi è una procedura squisitamente di frontiera! All’art. 4 (“Procedura di emergenza per la gestione dei rimpatri in una situazione di strumentalizzazione”) si deroga inoltre rispetto al regolamento sulla procedura d’asilo e all’applicazione della direttiva rimpatri: viene meno in questo modo il diritto ad un ricorso effettivo in caso di rigetto della domanda di protezione internazionale.

Più esattamente resta il diritto alla presentazione del ricorso ma senza che questo implichi un diritto di permanenza nel territorio dell’Unione nelle more dell’attesa di una decisione in merito e ciò a meno che non venga accolta un’istanza di sospensiva degli effetti della decisione di rigetto del ricorso.

Si precisa tuttavia che qualora l’istanza di sospensiva non venga comunque accolta è disposto l’allontanamento immediato del richiedente asilo, pur se «nel rispetto del principio di non refoulement».

Inoltre, l’ipocrisia di questa proposta di regolamento si riscontra tanto nell’articolo 3 che nell’articolo 5. Nel primo infatti (“Condizioni materiali di accoglienza”) si fa riferimento a misure di accoglienza «diverse» nel caso di applicazione del regolamento e non inferiori come in realtà sono – cercando di celare i propri intenti – dietro l’espressione «in grado di soddisfare le esigenze essenziali del migrante»: si noti al riguardo quanta discrezionalità possa nascondersi dietro al termine «esigenze essenziali». Nell’articolo 5 invece (“Misure di sostegno e solidarietà”) si raggiunge l’apice dell’assurdo. La solidarietà degli altri paesi membri, qualora venga richiesta, prevista nei confronti dello stato membro vittima di una strumentalizzazione dei migranti – anche se per inciso le vere vittime della strumentalizzazione sono i migranti stessi – non è certamente quella di una ripartizione per quote dei profughi tra gli stati ma l’impiego di «misure di sviluppo delle capacità, misure a supporto dei rimpatri» che vuol dire il semplice invio di funzionari e personale appartenenti agli altri stati membri per fronteggiare la situazione “emergenziale” nonché  provvedimenti operativi a sostegno dei rimpatri.

È chiaro quindi come anche in questa circostanza l’intento reale della Commissione, con tale proposta, non sia quello di offrire a livello europeo un supporto allo stato in una situazione “emergenziale” dal punto di vista migratorio, ma quello di assicurarsi il rinforzo delle misure di frontiera al fine di porre velocemente fine a tale situazione cercando di attuare il rinvio degli individui arrivati alle porte del territorio dell’Unione il più velocemente possibile.

Gli eventi tuttavia sono sempre un passo avanti nell’imprevedibilità del loro verificarsi rispetto a qualsiasi logica o tentativo di controllo sia esso da parte degli esseri umani, degli attori statali o delle istituzioni europee e internazionali.

La solidarietà “mirata”

Alla fine del 2021 si scrisse tale proposta per l’arrivo di circa 10.000 migranti, inconsapevoli che da lì a poco si sarebbe scatenato un conflitto di portata internazionale in Ucraina alle porte dell’Unione in ragione del quale, per l’arrivo di milioni di profughi, sarebbero caduti di fatto come le tessere di un domino gli emendamenti polacchi in materia di migrazione insieme ad ogni velleità europea di contenimento e con la conseguente apertura dei confini degli stati membri. Perché dunque non pensare prima a rendere effettiva la solidarietà europea per esseri umani che avevano e hanno gli stessi diritti dei cittadini ucraini? E ancora, non conviene riflettere come per interessi economici ed energetici si è scesi a patti e sotto ricatto del leader del Cremlino e come forse non si stia facendo lo stesso errore individuando Erdoǧan come mediatore per la risoluzione di tale conflitto, considerato come detto che egli stesso è sospettato di essere stato complice della pressione iniziale dei flussi migratori al confine con la Lituania? Corsi e ricorsi storici a quanto pare spesso nulla insegnano.

barriere e ostacoli

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La strategia del grano https://ogzero.org/la-strategia-del-grano/ Fri, 10 Jun 2022 16:01:50 +0000 https://ogzero.org/?p=7867 Sulla scorta della proverbiale definizione di “granaio del mondo” l’Occidente sta attribuendo integralmente alla guerra in Ucraina la responsabilità della fame che si sta annunciando per carenza di grano (ma non si parla del fatto che la Russia è il maggior esportatore di fertilizzanti), senza considerare che il prezzo dei cereali era già in aumento […]

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Sulla scorta della proverbiale definizione di “granaio del mondo” l’Occidente sta attribuendo integralmente alla guerra in Ucraina la responsabilità della fame che si sta annunciando per carenza di grano (ma non si parla del fatto che la Russia è il maggior esportatore di fertilizzanti), senza considerare che il prezzo dei cereali era già in aumento prima del 24 febbraio e che sono periodiche le rivolte del pane (anche dopo il 2011 delle Primavere arabe).
La guerra è stata solo il la ciliegina su una torta immangiabile per i 20 milioni di potenziali morti per fame che la contingenza può creare e i due autocrati di Astana si stanno mettendo d’accordo anche in questo caso per spartirsi guadagni e prestigio nei paesi africani sbloccando la situazione del Mar Nero con il blocco delle tonnellate di grano ammassato nei silos ucraini che rappresentano comunque soltanto l’8 per cento del prodotto annuale mondiale. Un’arma ibrida come le bombe di migranti gettate ai confini, che si produrranno anche attraverso questa nuova fame indotta dalla guerra sarmatica. Ma non solo: esistono infinite esponenziali conseguenze al conflitto (e allo scellerato agribusiness, all’intollerabile landgrabbing, allo sfruttamento coloniale, che hanno preparato il terreno alla fame globale) che portano alle scelte strategiche dei singoli stati vincolati in qualche modo ai prodotti russi (per esempio il Brasile) e il ritorno d’immagine per i popoli affamati d’Africa che si troveranno a ringraziare i garanti russo-turchi delle forniture alimentari di cui sono responsabili per l’improvvisa carenza; senza contare la stagflazione ormai globale e l’indebitamento generalizzato.
Per questo riprendiamo, con l’accordo dell’autore – che ringraziamo –, un pezzo di Angelo Ferrari scritto per l’Agi sul ritorno delle mosse russo-turche nei paesi africani a rischio di carestia per la carenza di approvvigionamenti di cereali, a cui alleghiamo il podcast di un intervento di Alfredo Somoza su Radio Blackout a proposito delle cause globali della carestia.


La guerra del grano deve essere risolta nel più breve tempo possibile e vincerla non è solo una questione di “buon cuore”, ma anche strategica. I numeri dimostrano che la carestia potrebbe colpire oltre 400 milioni di persone. A questi si debbono aggiungere tutti coloro che vivono con gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite. Il Corno d’Africa e gran parte del Sahel si apprestano ad affrontare una carestia senza precedenti (Human rights watch) che, indubbiamente, sarà aggravata dalla guerra in Ucraina. Sbloccare centinaia di milioni di tonnellate di grano nei silos nei porti ucraini è dunque una priorità per scongiurare una catastrofe umanitaria che avrà ripercussioni globali che potrebbero durare anni. Molto attivi su questo fronte sono i turchi e i russi, anche se un accordo chiaro che garantisca tutti, in primo luogo gli ucraini, sembra lontano dall’essere siglato.

La penetrazione russa

La Russia, come stiamo vedendo in questi giorni, ha tutto l’interesse a scaricare sull’Occidente la responsabilità di una possibile crisi alimentare globale. Un interesse che non deve stupire. Di sicuro, come è già avvenuto, farà partire le sue navi cariche di grano dai porti ucraini conquistati sul mar d’Azov. Grano rubato, secondo gli ucraini. Grano di loro proprietà secondo Mosca. Al di là di chi abbia ragione questa è la realtà. Le navi hanno fatto rotta verso l’Africa dove la presenza russa si fa sempre più penetrante.
Il caso del Mali, nel Sahel, è l’aspetto più eclatante. È riuscita a “cacciare” la Francia da un’ex colonia. Poi c’è la Repubblica Centrafricana, anch’essa ex colonia francese. Qui la presenza russa è ancora più evidente. Senza dimenticare il Burkina Faso e ancora i recenti accordi militari e di sicurezza tra il Camerun e Mosca. Nel mirino di Putin c’è anche il Ciad, dove nella capitale N’Djamena ci sono state manifestazioni antifrancesi molto violente. Il sentimento antifrancese e antioccidentale sta dilagando in gran parte del Sahel e Mosca lo cavalca e incoraggia abilmente.

L’attivismo turco

Dall’altra parte del tavolo negoziale c’è la Turchia, il sultano Recep Erdoğan, che non fa nulla senza che ne abbia un tornaconto significativo. Anche Ankara ha interessi diffusi in Africa. Oramai è un po’ ovunque, ha stretto accordi commerciali, di fornitura di armi, ma anche si sta impegnando molto sul fronte dell’aiuto alimentare, come in Somalia. La forza della Turchia in Africa è assai maggiore di quella russa. Dal 2004 Erdoğan ha fatto più di 50 viaggi nel continente africano e visitato oltre 30 nazioni. Solo nell’ottobre del 2021 il capo di stato turco ha visitato Angola, Nigeria e Togo e nello stesso mese, Istanbul ha ospitato leader aziendali e dozzine di ministri degli stati africani per un vertice volto specificatamente ad aumentare il commercio. Nei primi mesi del 2021 il commercio bilaterale Turchia-Africa ha raggiunto i 30 miliardi di dollari e l’obiettivo della Turchia è di aumentarlo ad almeno 50-75 miliardi di dollari nei prossimi anni. Inoltre circa 25.000 lavoratori africani sono attualmente impiegati nel continente da aziende turche in progetti del valore di 78 miliardi di dollari e più di 14.000 studenti africani hanno studiato in Turchia. Il numero degli ambasciatori turchi distaccati nel continente è passato dai 12 del 2005 ai 43 nel 2021, mentre il numero degli ambasciatori africani ad Ankara è passato da 10 a 37. «Miriamo ad aumentare il numero dei nostri ambasciatori fino a 49», ha detto Erdoğan, affermando che il vertice di Istanbul ha dato luogo a sessioni congiunte a livello ministeriale nei settori della sanità, dell’istruzione, dell’agricoltura e della difesa. Turkish Airlines vola verso 61 destinazioni in Africa, l’Agenzia turca di cooperazione e coordinamento (Tika) ha 22 uffici locali, la Fondazione Maarif gestisce 175 scuole in 16 paesi e la presidenza dei turchi all’estero e delle comunità correlate offre borse di studio a oltre 5000 studenti africani. Una potenza di fuoco enorme che ha anche lo scopo di ottenere il sostegno africano per un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.Per Ankara, dunque, arrivare a una soluzione negoziata sul grano ucraino sarebbe un grande successo e rafforzerebbe i legami già molto stretti con l’intero continente. Obiettivo che ha anche lo zar di Mosca. Putin e Erdoğan, su questa partita si intendono benissimo. Tutto ciò avrebbe, inoltre, anche lo scopo di allontanare sempre di più il continente africano dall’influenza occidentale, sostituendola con quella turca e russa. La Cina, vera padrona del continente, sta a guardare anche perché non ha competitor. Vincere la guerra del grano non è solo una questione di buon cuore, ma ha una valenza strategica tale da spostare gli equilibri anche in Africa, dove quasi la metà degli stati non ha votato o si è astenuta per la risoluzione delle Nazioni Unite di condanna all’invasione russa dell’Ucraina. Di sicuro, se Erdoğan avrà ragione in questa partita, sarebbe la sconfitta dell’occidente – oltre che quella dell’Onu – la cui diplomazia non fa altro che accusare Mosca della catastrofe alimentare. Non basta. Agli africani di certo non basta.

Ascolta “Dormi sepolto in un campo di grano” su Spreaker.

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LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A MAGGIO https://ogzero.org/studium/7813/ Fri, 03 Jun 2022 19:29:08 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7813 L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A MAGGIO proviene da OGzero.

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Rimangono 8 secondi per non sbagliare

I famosi Javelin americani in dotazione degli ucraini stanno scarseggiando, i baraktyar tb2 turchi vengono usati da tutti i coinvolti anche in campi avversi, la logistica ha ricevuto anche un’impennata di richieste come dimostrano le tante notizie relative a compravendite di elicotteri (soprattutto da trasporto truppe, come quelli per il posizionamento dei militari che hanno incrementato gli ordini per mezzi d’assalto e di sbarco)

L’occasione ghiotta di una vera guerra, con morti e coinvolgimento di civili e distruzione reale di armamenti e scambi di tecnologie e know-how tra nazioni oltre a aumentare fortemente la richiesta di costruzione e vendita di armi, ha dato una spinta ai più avanzati laboratori scientifici: abbiamo documentato in maggio anche e soprattutto l’avanzamento della ricerca applicata in particolare ai velivoli ipersonici. Che vede contrapposti gli scienziati delle due superpotenze nella costruzione dei missili che superano il muro del suono 5 volte, ma ora spunta la notizia che – come sempre nella corsa agli armamenti –, ottenuto il risultato di spingere un propulsore al punto di portare un qualsiasi ordigno da una parte all’altra del mondo in meno di un’ora, si è ricercato da parte degli scienziati del Air Force Early Warning Academy l’antidoto nella possibilità di stimare la traiettoria di un missile ipersonico a planata mentre si dirige verso un bersaglio a una velocità superiore a cinque volte quella del suono, sviluppando una tecnologia di intelligenza artificiale in grado di avviare una risposta di contrasto con un anticipo di tre minuti. Rimangono 8 secondi per non sbagliare l’intercettazione.

Neutralismo: Giappone, Svezia, Finlandia… Svizzera! Abbandonano il proverbiale neutralismo, sancendo un coinvolgimento di parte che solo la volontà di nascondersi dietro l’ipocrisia di facciata aveva salvaguardato finora e che la guerra dichiarata ha frantumato: vero cambio epocale dal 24 febbraio. Puramente mediatico, perché lo sbandierato neutralismo era solo una facciata che salvaguardava l’immagine di un mondo congelato in uno specchio ormai in frantumi da tempo e i cui frammenti non sono più in grado di restituire una visione unica per quanto multilaterale. La consapevolezza di questa quinta scenica che si dissolve ha mostrato le strategie belliche che erano in atto consentendo ai protagonisti di cercare alleanze stipulate anche attraverso l’adozione di armi di produzione nazionale che possono agevolare scelte di campo nella grande campagna acquisti in atto sullo scacchiere internazionale. Si vedano in particolare gli arcipelaghi del Pacifico meridionale o le manovre intorno all’Artico e l’estensione dell’ombrello Nato agli Scandinavi e le industrie militari coinvolte dalla Casa Bianca il 14 aprile: una riunione che prelude a guerre di più vasta portata, se richiedono i servigi di costruttori di testate a medio e lungo raggio.
E ogni protagonista recita un ruolo, corrispondente alle caratteristiche e alle ambizioni di ognuno ma uguale per tutti rispetto al carattere che sostiene ciascuno dei potenti mossi al riarmo: la hybris.

90 %

Avanzamento



Monica Quirico ci ha aiutato nella puntata di Transatlantica24 di maggio per fare il punto sul presunto neutralismo ormai sfumato nei bastioni scandinavi del non allineamento.

GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

Maggio

29 maggio

        • Mettendo in gioco notizie diverse provenienti da fonti diverse si possono ricostruire scambi e giri di soldi e traffici tra singoli stati che vedono nella guerra in Ucraina un’opportunità di rammodernamento delle risorse militari e finanziamenti. Questo è il caso della Polonia dell’accoglienza esclusiva per migranti bianchi, in cambio per esempio di 18 obici semoventi Krab, come rende noto l’agenzia di stampa “Iar”. Secondo le fonti governative polacche consultate dall’agenzia, Varsavia ha anche addestrato cento artiglieri ucraini al loro uso. Grazie all’assistenza polacca l’Ucraina dispone attualmente di almeno 24 obici semoventi occidentali. Altri sei Caesar sono stati infatti forniti dalla Francia; Germania e Paesi Bassi hanno inoltre annunciato l’invio di altri 12.
        • Sempre un’emittente polacca, “Polsat News”, il 24 maggio aveva dato notizia di una richiesta di Varsavia di altri 6 missili Patriot, confermata dal dipartimento della Difesa americana e ripresa da “AgenziaNova“:
          «Non parlerò dei dettagli, ma occorre che Kiev, possa resistere efficacemente all’invasione russa», così ha esordito il ministro della Difesa polacco, Mariusz Blaszczak, e subito dopo ha aggiunto – mettendo lui stesso in relazione la resistenza ucraina (e dunque le forniture di obici polacchi) – con le richieste di Varsavia: «è stata firmata una lettera di intenti ma questa rappresenta solo l’inizio di una trattativa nella quale “i termini di consegna devono essere ancora discussi”. Confiniamo con Kaliningrad, e quindi con la Russia, a nordest, mentre la Bielorussia è di fatto una parte della Russia. La garanzia della nostra sicurezza e ragion di Stato è che il confine sudoccidentale sia con l’Ucraina e non con la Russia”.

25 maggio

        • “Procurement militaire”: interessante il pudore che traspare dall’uso dell’espressione inglese da parte di “Insidertrend” (ripresa dalla evidente velina del ministero della Difesa), anziché il tecnico “approvvigionamenti”, o meglio ancora l’esplicito “traffico d’armi”. Quest’ultimo caso riguarda l’ineffabile generale Luciano Portolano, comandante di Segredifesa, che ha incontrato Venance Salvatori Mabeyo, comandante in capo della Tanzanian People’s Defence Force (TPDF), ovviamente «nel quadro dei consolidati rapporti bilaterali di amicizia e cooperazione tra i due paesi»: infatti, come attesta “ReportDifesa”, una volta delineato il ruolo geopolitico svolto dal porto di Dar es Salaam: «discussione si è poi incentrata sull’interesse della nazione dell’Africa orientale per il velivolo M-345, in sostituzione dei velivoli K-8, gli aeromobili C-27J e gli elicotteri AW139 e AW109».
        • AW-139 in volo in una sua funzione antincendio

        • Si tratta di prodotti di Leonardo.spa, la controllata dello stato italiano che consentirà di aumentare le sporadiche relazioni tra le due nazioni: evidente per Antonio Mazzeo su “Africa Express” l’intenzione «di inserire il governo di Dar Es Salaam tra i partner-chiave con cui rafforzare la penetrazione del Sistema Italia nel continente africano».  Infatti un paio di mesi fa l’ambasciatore italiano a Dodoma, Marco Lombardi diceva: «Grazie alla sua strategica posizione geografica ed alla sua sostenuta crescita economica, la Tanzania sta continuando ad acquisire un ruolo di rilievo nella Regione». Ecco allora che potrebbero arrivare redditizie commesse per le maggiori holding nazionali, soprattutto quelle armiere a capitale statale come Leonardo e Fincantieri SpA, chiosa Mazzeo.


25 maggio

        • Kongsberg Aviation Maintenance Services (KAMS) ha esteso il contratto in corso con l’Agenzia norvegese per i materiali della difesa (NDMA) per la revisione e la messa in vendita di un ulteriore lotto di velivoli F-16. “ADSNews” informa che il contratto di 200 milioni di corone norvegesi (circa 19 milioni di euro) comprende anche la revisione dei motori da effettuarsi presso le strutture del KAMS per garantire il mantenimento delle competenze in Norvegia.
          Questo contratto è conseguente a quello stipulato dall’Agenzia norvegese per i materiali di difesa con Draken International per la vendita di 12 ex F-16 norvegesi e sta completando la vendita di altri 32 velivoli alla Romania. In attesa dell’approvazione ufficiale delle autorità norvegesi e americane, si prevede che i primi velivoli saranno consegnati a Draken quest’anno e alla Romania nel 2023. Non è nemmeno casuale che questi accordi siano intercorsi in questo periodo in cui la Romania assume un ruolo particolare.
        • «I nostri aerei da combattimento sono tra i meglio mantenuti al mondo e la manutenzione continua e gli aggiornamenti forniti da KAMS sono stati fondamentali per questo lavoro. Sono quindi fiducioso che i nostri aerei serviranno bene Draken e la Romania per molti anni a venire. Inoltre, questo contratto contribuisce a mantenere l’esperienza industriale norvegese nella manutenzione dei velivoli da combattimento», afferma Magnus Hansvold, direttore dell’Agenzia norvegese per lo smaltimento dei materiali della Difesa.

25 maggio

        • Le esercitazioni navali cinesi attorno a Taiwan effettuate il 24 maggio insieme alla Russia (coinvolti bombardieri strategici russi Tu-95Ms e cinesi Xian H-6K, scortati da caccia Su-30 Sm russi), effettuando un pattugliamento sul Mar del Giappone in concomitanza con il vertice Quad, sono il corollario del programma di riarmo della marina, in particolare anfibio. Secondo quanto pubblicato dal sito ufficiale delle forze armate cinesi, “China Military Online”, Pechino avrebbe messo in servizio una nuova unità da trasporto militare semisommergibile capace di lanciare dei mezzi da sbarco marittimo. Secondo il sito cinese, l’unità, identificata come Hull 834 (Yinmahu), stava trasportando un hovercraft anfibio Type 958, inserito nelle unità del Comando del teatro meridionale dell’Esercito popolare di liberazione, come la maggior parte delle moderne unità della flotta anfibia di Pechino.
          Yinmahu, di classe “Hansa Sonderberg modificata”, pesa 20.000 tonnellate, misura 175,5 metri per 32,4 e trasporta mezzi da sbarco Type 958, pensati per permettere operazioni da sbarco in aree prive di strutture portuali: le dimensioni sono 57 x 25,6 metri per un peso di 555 tonnellate. I mezzi sono stati acquistati da Pechino all’inizio dall’Ucraina (Project 1232.2 della classe russa Zubr), ma dal 2014, dopo l’annessione russa della Crimea dov’erano prodotti, il contratto è passato a Mosca. Questi natanti sono in grado di portare a pieno carico tre carri armati da battaglia o 500 soldati, più o meno un battaglione. La Cina è dotata di una mezza dozzina di questi super-mezzi da sbarco.


23 maggio

        • Circa 20 paesi, tra cui l’Italia, hanno annunciato nuovi pacchetti di armi e assistenza alla sicurezza in favore dell’Ucraina. Lo ha annunciato il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin, parlando in conferenza stampa a margine della riunione virtuale del Gruppo di contatto con l’Ucraina, tenutasi virtualmente oggi a quasi tre mesi dall’inizio della guerra in Ucraina. Oltre all’Italia, tra i paesi che hanno annunciato ulteriori aiuti ci sono Danimarca, Grecia, Norvegia e Polonia, ha detto Austin, precisando che la Danimarca fornirà un lanciatore di arpioni e missili per difendere la costa ucraina.
        • DefenseNews” precisa meglio i contorni dell’operazione, proprio a cominciare dagli arpioni (RGM-84L-4 Harpoon Block IIs), che non solo sono in grado di colpire vascelli in navigazione, ma anche in porto con un aggiornamento fornito dalla Boeing Advanced Harpoon Weapon Control System. Questo ulteriore palese coinvolgimento delle nazioni scandinave, oltre a dimostrare l’intensità e l’importanza del Mar Nero, dove questi arpioni sono essenziali, perché l’Ucraina, un importante produttore di grano, non ha potuto utilizzare Odessa come punto di transito per 90 giorni a causa della flotta russa.
        • «Questo blocco ha tagliato l’accesso dell’Ucraina al Mar Nero, bloccando le esportazioni di grano ucraine, soffocando la principale industria di esportazione del Paese e portando i prezzi globali dei prodotti alimentari a livelli record», ha scritto Tayfun Ozberk per Naval News.«Se l’Ucraina fosse in grado di stabilire una negazione dell’area di accesso in quest’area con missili antinave terrestri e di condurre ingaggi di successo contro le forze navali russe che entrano nella zona A2/AD, il blocco russo probabilmente finirebbe e i corridoi di trasporto verrebbero aperti».

        • Ma gli Usa non intendono intervenire direttamente. Così Mark Milley, capo di stato maggiore americano ha dichiarato: «Per quanto riguarda le nostre azioni, al momento non abbiamo mezzi navali nel Mar Nero e non intendiamo spostarceli. Ora c’è una situazione di stallo tra gli ucraini che vogliono assicurarsi che non ci sia uno sbarco anfibio intorno a Odessa e un impedimento della navigazione commerciale».
          Tuttavia oltre a questo si vuole evidentemente allargare il conflitto a latitudini baltiche (più palesemente domestiche per il Cremlino): infatti è la provenienza di questi Harpoon danesi a lasciar immaginare che la provocazione stia nel portare il conflitto nel Nord, quello che era feudo glaciale russo e invece a cominciare dal mar Baltico ormai è diventato un lago Otan e in prospettiva con la liberazione dai ghiacci delle rotte artiche si sta trasformando in zona militare presidiata, da zona della collaborazione internazionale di pace che era.
        • La quantità di armi riversate dall’occidente in Ucraina e contenute in quell’articolo di “DefenseNews”non riesce a stare in questa scheda, ma invitiamo a consultare l’articolo per la dovizia di informazioni fornite e che vengono condensate nella prossima scheda.


23 maggio

        • Riprendiamo dunque l’articolo di “DefenseNews” con l’elenco stilato dal segretario alla Difesa Lloyd Austin dei trasferimenti di armi all’esercito per procura ucraino: Italia, Grecia, Norvegia e Polonia starebbero donando sistemi di artiglieria e munizioni, ma summa cum laude è la Repubblica Ceca per il trasferimento di elicotteri d’attacco, carri armati e sistemi missilistici a Kyiv.
          La scorsa settimana il ministro ucraino della Difesa Reznikov ha dichiarato che l’Ucraina ha bisogno di carri armati e veicoli corazzati, nonché di sistemi missilistici a lancio multiplo, artiglieria pesante, aerei e missili. La lista della spesa continua con proiettili a lunga gittata, blindature e capacità aeree senza pilota. A Ramstein, il mese scorso, Australia e Canada si sono impegnati a fornire obici M777, che sono stati poi consegnati alle forze ucraine. Il Regno Unito ha consegnato missili Brimstone e un sistema di difesa aerea a corto raggio.
        • Nei giorni scorsi Biden ha firmato un pacchetto di aiuti all’Ucraina da 40 miliardi di dollari e ha inviato gli ultimi 100 milioni di dollari di obici e altre armi del precedente pacchetto da 13,6 miliardi di dollari approvato dal Congresso a marzo. Si tratta della decima tranche di aiuti statunitensi. Il pacchetto è l’equivalente dell’artiglieria di un battaglione americano – 18 obici da 155 mm, 18 veicoli tattici per trainarli e 18 tubi d’artiglieria – insieme a tre radar di contro artiglieria AN/TPQ-36, ha dichiarato il segretario stampa del Pentagono John Kirby.


20 maggio

        • Il protagonismo di Erdoğan dal 24 febbraio si è orientato verso il tentativo di ottenere il massimo di visibilità, di riconoscimenti e alzare le richieste, come quelle imposte ai paesi scandinavi; intanto ha dato prova di essere il leader più in grado di ottemperare alle richieste occidentali – come la chiusura del Bosforo come da Trattato di Montreux – ma anche senza dispiacere troppo al compare di tanti accordi di Astana, presentandosi come il più titolato a fungere da mediatore tra i belligeranti (intanto si annette altro Rojava nel silenzio di chi scambia L’adesione di Svezia e Finlandia con il territorio curdo in Siria), con uno dei quali spartisce l’area con accordi bilaterali ventennali, come pubblica “Le Point” il 3 giugno.
        • Ma soprattutto vende droni a tutti: ucraini e non… il “Centro Studi Internazionali” rileva che diversi Stati dell’Asia centrale, stanno aumentando sempre di più le proprie richieste di acquisizione per droni turchi di ultima generazione. L’anno scorso, il Kirghizistan ha firmato un accordo per l’acquisto di droni armati, diventando il primo paese dell’Asia centrale ad acquistare il sistema militare turco. In base all’accordo, il governo di Biškek ha ordinato droni Bayraktar Tb2 prodotti dall’azienda del genero del presidente turco.
          Inoltre, la Turchia e il Kazakhstan hanno concordato di avviare una coproduzione di droni turchi: il modello è il drone Anka, che sarà prodotto congiuntamente da esperti turchi e kazaki in un impianto di prossima apertura in Kazakhstan, secondo quanto dichiarato l’11 maggio dalla Turkish Aerospace Industries (Tai), produttrice dell’Anka e ripreso da “Daily Sabah”. L’azienda turca ha firmato un memorandum d’intesa con la società statale Kazakhstan Engineering per il trasferimento di tecnologia, comprese le operazioni di manutenzione e di riparazione. L’accordo farà del Kazakistan la prima base produttiva di droni Anka al di fuori della Turchia. Lo scorso novembre, il governo di Nur-Sultan ha acquistato tre unità di droni a media altitudine e lunga resistenza (Male) in seguito a un accordo stipulato a ottobre. Il drone in questione può condurre una serie di missioni, tra cui operazioni di sorveglianza, ricognizione, trasmissione di comunicazioni, acquisizione di obiettivi e tracciamento.


18 maggio

        • Esistono altre forme di fornitura per paesi magari sotto embargo. Per esempio l’Iran rifornisce la famigerata Guardia Rivoluzionaria ristrutturando vascelli adibiti ad altri compiti. Secondo l’analista della difesa Aurora Intel, l’IRGC (Guardia Rivoluzionaria Islamica), che ha una propria marina parallela a quella regolare, sta commissionando una nuova nave. L’I.R.I.S. Shahid Mahdavi (110-3) è nata come grande nave container. Ora sta subendo un refit che le conferirà un ruolo logistico bellico. Questa nave portacontainer battente bandiera iraniana era in precedenza la Dandle. È stata costruita nel 2000 e misura 240,2 metri fuori tutto e 32,2 metri di larghezza. In base all’analisi delle immagini, sembra che si trovasse fuori dalla base navale di Bandar Abbas, nell’ancoraggio civile, dalla metà del 2019. Si trovava nel suo posto definitivo dal marzo 2021. In base all’analisi delle immagini satellitari, la nave è stata portata in cantiere alla fine di gennaio 2022. I lavori sono probabilmente iniziati poco dopo.
        • La conversione prevede l’aggiunta di cannoni antiaerei con equipaggio. Si noti la bandiera dell’IRGC sulla sovrastruttura durante i lavori.

          Il blogger H.I.Sutton ha studiato a fondo le ristrutturazioni di navi iraniane viene effettuato nello stesso cantiere in cui era stata convertita la nave da base avanzata della Marina militare iraniana, l’I.R.I.N.S. Makran (441), che in origine era una nave cisterna. L’IRGC ha già tre navi da base avanzata. La I.R.I.S. Shahid-Roudaki è la più piccola, con una lunghezza di 150 metri. Le altre due sono più nascoste, la Saviz e la Behshad, e sono utilizzate come navi base nel Mar Rosso. La Behshad ha sostituito la Saviz dopo che quest’ultima è stata minata nel 2021.
          Wikiwand esibisce un elenco delle navi a disposizione della Guardia Rivoluzionaria.

16 maggio

        • La propaganda delle industrie belliche nazionali trova in India una delle manifestazioni più smaccate e che si tratti di una velina dei servizi militari indiani è dimostrato dal fatto che il medesimo testo si trova anche su “The IgMp”, dove la fonte viene dichiarata: Indo-Asian News Service (IANS). A ridosso delle elezioni vinte a Manila da Ferdinand “Bongbong” Marcos, il giorno stesso dei risultati elettorali l’“Indian Defence Research Wing” annuncia (con lo stesso testo di “India’s growing Military power”) un accordo che le Filippine avevano preso e che l’India spera venga mantenuto dal “nuovo” presidente; il memorandum era stato firmato all’indomani di un contratto da 368 milioni di dollari per i missili antinave supersonici Brahmos (come specifica “Aerotime Hub”). L’accordo tra India e Filippine è stato firmato nel gennaio 2022. Dopo l’acquisto dei missili antinave Brahmos – che l’estensore dell’articolo dichiara essere «l’arma che la Cina teme maggiormente, essendo considerato il più letale al mondo» – il governo delle Filippine sembrerebbe interessato a potenziare la propria flotta di aerei militari con l’aiuto della Hindustan Aeronautics Ltd, che aveva firmato ad aprile un Memorandum of Understanding (MoU) con la Philippine Aerospace Development Corporation (PADC) – pacta servanda sunt anche in sanscrito – che potrebbe portare all’esportazione dei velivoli leggeri: da combattimento (LCA), elicotteri da combattimento (LCH), elicotteri avanzati (ALH) e utilitari (LUH) indiani.

          Come viene spiegato da Sabrina Moles in questo podcast, la situazione si fa complessa nel Mar cinese meridionale e anche le alleanze sono in bilico, tanto che Xi è stato il primo a congratularsi con il figlio di Marcos, nonostante la Cina si opponga al riconoscimento della sentenza arbitrale che concede alle Filippine la sovranità sul Mar delle Filippine occidentali (considerandolo Zee filippina), lo stesso tratto di oceano che Pechino chiama Mar cinese meridionale.

    “A volte tornano. Marcos 2 l’amnesia”.

          • L’organo di propaganda indiano giunge a minacciare di rappresaglia interna alle Filippine un’eventuale rinuncia di Marcos; e suggerisce al neoeletto di onorare gli impegni di riarmo. Non è strano questo accanimento, perché se si proseguirà in questa direzione, si tratterà del primo ordine di esportazione del Tejas. Numerosi paesi hanno preso in considerazione l’acquisto del Tejas, in particolare la Malesia – riferisce “Aerotime Hub” – che avrebbe ricevuto l’offerta di HAL nella gara d’appalto in corso per i caccia leggeri. Ma attualmente l’aeronautica indiana rimane l’unico operatore del Tejas.
            In campagna elettorale Marcos aveva dichiarato l’intento di risolvere la diatriba con il dialogo, ma l’organo indiano gli ricorda che non è intervenuto a favore della Cina, anche se non ha aderito al Quad (di cui invece l’India è parte, proprio in funzione anticinese), che ha inviato navi da guerra per stabilire i diritti di passaggio in quella lingua di mare contesa.
            La maestria “diplomatica” dei piazzisti di armi è ancora più evidente nel sottolineare la valutazione delle antiquate armi fornite alle Filippine dalla Corea del Sud (gli FA-50PH) o gli obsoleti elicotteri turchi, con il velenoso confronto con il Pakistan che ha acquisito armamenti cinesi per contrapporsi all’esercito indiano, che si proporrebbe come terzo affidabile fornitore rispetto a Nato e Rpc.

14 maggio

      • Boeing CH-47 Chinook sono elicotteri da guerra per trasporto truppe che sono transitati dal porto di Genova tentando di mantenere l’incognito. Si trovavano sulla Bahri Houf, nave saudita e la destinazione di questi aerei costruiti dalla Boeing negli Usa era proprio l’Arabia saudita.
      • «La banchina è un’area off-limits, e il guardiano dell’agenzia marittima Delta, la società che detiene il contratto con Bahri, alza la sbarra solo per chi ha il permesso di entrare. Bahri è una società controllata dal governo saudita. Fondata nel 1978 come National Shipping Company of Saudi Arabia, è il più grande proprietario e operatore di grandi petroliere al mondo. Sebbene la sua attività principale sia il trasporto di petrolio, dal 2014 gestisce il monopolio della logistica militare di Riyadh. Delle sue 90 navi, sei sono utilizzate per il trasporto di armi. Fanno sempre la stessa rotta, dagli Stati Uniti all’Arabia Saudita, passando per l’Italia e, più raramente, per la Spagna. Un viaggio che richiede due mesi per arrivare e due mesi per tornare. Ciascuna delle navi porta il nome di una città saudita: Abha, Hofuf, Jazan, Jeddah, Tabuk e Yanbu.
        Le esportazioni di armi non sono illegali. Ma i trattati internazionali vietano i trasferimenti internazionali di armi che potrebbero essere utilizzate per commettere crimini di guerra, come gli attacchi diretti alla popolazione civile. L’Arabia Saudita è profondamente coinvolta nella guerra nel vicino Yemen. Questo conflitto rimane una delle più grandi crisi umanitarie del mondo. L’economia è stata distrutta e le infrastrutture civili distrutte. Alla fine dello scorso anno, le Nazioni Unite hanno previsto che entro la fine dell’anno sarebbero state uccise 377.000 persone, direttamente e indirettamente a causa della guerra. Otto yemeniti su dieci hanno bisogno di aiuti d’emergenza e la carestia è imminente, secondo Oxfam»(“Investigate Europe“).

      • «È facile capire quando arriverà la prossima nave Bahri. Basta guardare la fila di camionette della polizia davanti alla banchina, che sono lì per evitare proteste e occhi indiscreti», dice un camallo. Si tratterebbe di proteste contro il carico della nave: carri armati, veicoli blindati, elicotteri Apache ed esplosivi
      • Contropiano” nel darne notizia aggiunge che dopo segnalazioni e richieste di accesso agli atti, gli attivisti di Calp (@CalpGe Porto), Usb e The Weapon Watch si sono rivolti alla magistratura con un esposto

    • L’elicottero Boeing CH-47 Chinook è un elicottero per il trasporto pesante con due motori e rotori in tandem, creato dall’azienda americana di rotorcraft Vertol e prodotto da Boeing Vertol.
      Può viaggiare a 315 km/h trasportando anche 55 militari 


11 maggio

    • South China Morning Post” ha dato notizia dei test su un motore per velivoli ipersonici con propulsione esplosiva di un motore a soffio d’aria, azionato dall’esplosione di un combustibile idrocarburico a basso costo: ha raggiunto un funzionamento stabile.
      Utilizzando un carburante economico a base di idrocarburi, i ricercatori del China Aerodynamics Research and Development Center di Mianyang (nel Sichuan) affermano che il motore che produce migliaia di esplosioni controllate al secondo ha raggiunto un funzionamento stabile durante una simulazione di volo a bassa quota, sostenendo che il loro motore a detonazione rotante potrebbe alimentare un aereo o un missile a una velocità cinque volte superiore a quella del suono o più veloce, consentendo il trasporto di persone o mezzi da una parte all’altra del globo in un’ora.

11 maggio

    • Airbus Helicopters è in trattativa con l’Iraq per la vendita di 12 elicotteri H225M anche se il ministero dell’Economia di Parigi è scettico. Lo scrive in anteprima il quotidiano “La Tribune”. Secondo quanto riferisce la testata economica, il bilancio del ministero della Difesa di Baghdad non è in grado di ottemperare a un simile esborso. Nel primo trimestre del 2022 Airbus Helicopters ha registrato 56 commesse contro le 40 dei primi tre mesi dell’anno precedente: alla fine del 2021 erano stati venduti 12 Caracal agli Emirati.
    • H225M può essere equipaggiato con il sistema di armamento HForce. Quattro diversi pacchetti offrono ai combattenti una scelta di armamenti per espandere la capacità del velivolo da quella delle armi balistiche all’uso di munizioni guidate con sparo attraverso il sistema elettro-ottico (EOS) o l’helmet mounted sight display (HMSD)

10 maggio

    • Si trova su “Le Point” la conferma che l’esercito francese ha dato luogo all’acquisto di 3000 droni annunciato dal generale Hervé Gomart il 7 febbraio 2022 durante una conferenza stampa all’Association des journalistes de défense (come riportava la testata specializzata Enderi). Il costo dell’equipaggiamento di 6 unità antidroni è previsto intorno ai 33 milioni di euro per microdroni del peso inferiore a 800 grammi e minidroni da 25 chili; i droni tattici del tipo Patroller arriveranno entro la fine dell’anno.
      Si tratta di velivoli di piccolo taglio già largamente utilizzati dall’Armée de Terre e lungamente testati in Sahel nel quadro della operazione Barkhane. Il modello SMDR per i minidroni e dl NX70 per i microdroni; altri modelli, come i droni quasi-consumabili, dovrebbero anche ingrossare le fila di questi dispositivi progettati per fornire ai fanti una visione globale del campo di battaglia in pochi minuti.


7 maggio

    • Il nome adottato è inquietante: Gladius evoca un’epoca eversiva del sistema golpista massonico-istituzionale che a livello internazionale ordiva piani di attacco all’impianto liberal-democratico dell’Occidente dal suo interno (Kossiga ne era un fervido sostenitore) che avevano tutto sommato gli stessi intenti della attuale strategia bellica sovranista – in fondo sempre di fascismo si tratta. Nel caso della notizia annunciata da “AresDifesa” si tratta di un sistema di ricerca e attacco a pilotaggio remoto CUAS Gladius che verrà fornito all’esercito polacco (non a caso in prima linea al confine ucraino, dove verranno dislocati questi droni); il ministro della Difesa nazionale Mariusz Błaszczak ha approvato il contratto con WB Electronics (produttrice del Gladius) e Agenzia degli Armamenti italiana. Un accordo che prevede la consegna entro l’anno all’artiglieria polacca di 4 moduli per sistemi di ricerca e attacco costituiti da droni FT-5 dotati di teste optoelettroniche che consentono la registrazione dell’immagine, sia alla luce del giorno che in termografia – i bersagli così individuati sono attaccati dalle loitering munitions di cui l’Esercito Polacco si sta dotando.


6 maggio

    • Analisi Difesa” annuncia che Leonardo è stata scelta per gestire e monitorare la cybersicurezza dei sistemi informatici di Eu-Lisa, l’agenzia europea responsabile della gestione operativa dei sistemi IT su larga scala negli ambiti della sicurezza e della giustizia. L’agenzia, in particolare, gestisce la sicurezza interna e alle frontiere dell’area Schengen, oltre che i flussi migratori all’interno dell’Ue, comprese le politiche di asilo europee.
      Il contratto prevede la fornitura dei servizi di cybersecurity integrati per proteggere tutte le diverse sedi di Eu-Lisa, dal quartier generale di Tallin al centro operativo di Strasburgo, dal sito per la business continuity di Sankt Johann im Pongau (Austria) all’ufficio di collegamento con le altre istituzioni europee di Bruxelles.
    • Sarà il Global security operation center di Leonardo a Chieti a tenere sotto costante controllo le vulnerabilità e le minacce per anticipare gli attacchi, identificare il responsabile e rispondere agli incidenti in modo efficace, cercando di mitigarne gli impatti. I ricavi del Cyber and security academy di Genova ammontano a 3 miliardi annui.

cyber

4 maggio

    • Spizzando “Nova News” (agenzia giornalistica sempre molto ben informata in materia di “sicurezza”) si può scoprire come il ministro della Difesa giapponese Kishi ha menzionato piani di maggior coinvolgimento del Giappone rispetto alle priorità di sicurezza degli Stati Uniti, spianando la strada per una cooperazione più stretta nel campo della sicurezza informatica e di altri comparti emergenti della sicurezza nazionale. In primis droni da guerra inquadrati nelle dinamiche operative delle Forze di autodifesa, a cui l’esercito di Tokyo dovrebbe essere limitato. Infatti il Giappone ha adottato il drone di sorveglianza RQ-4B Global Hawk, ma si è tenuto lontano dai droni da combattimento; nel bilancio dell’anno fiscale 2022 ha stanziato solo 30 milioni di yen (231.000 dollari) per la ricerca su questi dispositivi. Ma in questo periodo di stravolgimenti epocali – e la contingenza sta restituendo al Giappone un nuovo ruolo nell’Indopacifico – anche il Giappone sancisce uno stato di potenziale belligerante non ufficiale e i droni sono un’opzione relativamente comoda ed economica rispetto ai jet da combattimento e ai carri armati, potendo venire utilizzati in aree troppo rischiose per i tradizionali velivoli pilotati.

      Il Giappone sta accelerando il processo di superamento del pacifismo sancito dall’art.9 della sua Costituzione postbellica. Tale processo, perseguito con convinzione dall’ex primo ministro Abe Shinzo, ha avuto un impulso dal peggioramento del quadro di sicurezza regionale e globale, e con le crescenti tensioni che oppongono il Giappone a Cina, Corea del Nord e Russia. Il governo del premier Kishida è attualmente impegnato a studiare una riforma della Strategia di sicurezza nazionale, che includerà anche la controversa proposta di dotare il Paese di sistemi d’arma per la proiezione offensiva della forza, come i missili da crociera, e potrebbe prevedere persino il raddoppio del bilancio della difesa al 2 per cento del Pil, sul modello dei paesi membri della Nato, partecipando agli ultimi due summit della Nato.
    • il Giappone ha siglato infatti un accordo col Regno Unito per lo sviluppo congiunto di motori a reazione per aerei da combattimento di nuova generazione: Tokyo è entrata così indirettamente nel novero dei paesi che partecipano allo sviluppo del caccia Tempest, un programma aerospaziale all’avanguardia che vede protagonista anche l’Italia.

RQ-4B

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Deterrenza integrata nello cyberspazio bellico

La cyberwar è il panorama che in Ucraina ha sostituito i carri armati usati in Afghanistan 40 anni fa; è avvenuto con l’affondamento della Moskva, l’ammiraglia della flotta russa del Mar Nero, episodio ricostruito da “The Times” (e ripreso da Antonio Mazzeo) durante il quale è sempre più evidente l’apporto delle tecnologie sofisticate di scambio di dati tattici (L16). Ma non è solo lo scambio di informazioni multifunzionale tra entità belliche o la presenza dei Poseidon decollati da Sigonella che non ci vengono documentate – e anzi sono secretate dal governo Draghi, seguendo protocolli atlantici, non repubblicani –: infatti trapela da articoli di analisti entusiasti l’accelerazione degli investimenti in tecnologie emergenti basate su 5G, intelligenza artificiale, blockchain (registro digitale con voci raggruppate in blocchi e crittografate), cloud computing «per generare nuove capacità di combattimento»; su “Formiche.net” si può leggere la descrizione dettagliata delle filosofie sottese all’avanzata del processo decisionale nell’intervento militare grazie alla compenetrazione della “collaborazione uomo-macchina”. Insomma il parterre di armati in combattimento si va componendo di brutali mercenari tagliagole contrapposti o sommati a professionisti guidati e condizionati dai dati forniti sui loro display.
Per estendere e rendere efficace questa rete informatica di dati a disposizione della guerra degli alleati, la Nato sta cooptando e creando centri di ricerca in tecnologie di frontiera attraverso il programma Diana, che – apprendiamo da “Wired” – nel 2021 ha sviluppato strategie relative all’intelligenza artificiale, il 2022 è dedicato allo sviluppo dei computer quantistici e il 2023 alle biotecnologie e all’ingegneria applicata all’uomo.
Un nodo delle reti di acceleratori è stato individuato nello stabilimento Alenia di corso Marche a Torino. “Difesa.it” descrive pudicamente l’operazione come “Sinergia per l’innovazione tra Industria Mondo Accademico e Difesa”. E prosegue: «L’offerta nazionale per la partecipazione all’iniziativa, lanciata dai capi di Stato e di Governo al summit di Bruxelles del giugno 2021 nell’ambito dell’agenda NATO 2030, consiste nella realizzazione di una rete federata di centri di sperimentazione e acceleratori d’innovazione con il compito di supportare la NATO e i paesi alleati nel proprio processo di innovazione, sostenendo le start-up a sviluppare le tecnologie necessarie a preservare la superiorità tecnologica e facilitando la cooperazione tra settore privato e realtà militari.
L’Italia propone di ospitare il Regional Office presso le strutture nella costituenda Città dello Spazio, dove si insedierà, a fianco dei laboratori e degli spazi per le start-up, il Business Incubation Centre dell’Agenzia Spaziale Europea. Nelle more del completamento della Città dello Spazio, saranno comunque disponibili per l’immediato degli uffici presso le Officine Grandi Riparazioni di Torino.
Lo stesso generale Portolano ha ribadito a fine aprile l’importanza di Diana, confermando la candidatura del Piemonte, del suo Politecnico e l’industria bellica già strettamente interconnessi (come puntualmente stigmatizzato da “Umanità Nova”) a e ha confermato anche la denuncia di co-belligeranza di Antonio Mazzeo, relativa a quel coinvolgimento di Sigonella nelle operazioni di guerra nel Mar Nero, che nelle parole del generale di corpo d’armata riportate da “AnalisiDifesa” diventa: « il forte impegno dell’Italia nel sostenere il programma Air Ground Surveillance (AGS), evidenziando quanto esso sia indispensabile per l’Alleanza, poiché permette di espletare le fondamentali attività interforze di intelligence, surveillance e reconnaisance sia al livello strategico che operativo. Ciò assume una rilevanza ancora maggiore in questo momento storico con l’attuale conflitto in Ucraina».

100 %

Avanzamento



Approfondimenti


Neutralismo annientato dalle armi

Il triste caso della capitolazione scandinava nella delusione di Monica Quirico:
“Fine di un mito: la neutralità scandinava”.


Excusatio non petita, la debolezza di un destino presunto

Il tentativo di essere catalizzatore di ogni forma nazionalista e sovranista esibisce una parodia di parata sulla Piazza Rossa, cercando di spiegare cosa ci fa l’esercito d’occupazione russo in Ucraina:

GENNAIO FEBBRAIO MARZO MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

Aprile

28 aprile

    • Gaia Ravazzolo su “Formiche.net” ha descritto la consegna della seconda corvetta (la Damsah) delle 4 ordinate nel 2016 dal Qatar a Fincantieri. L’accordo prevedeva la costruzione secondo le regole Rinamil di altri 2 pattugliatori d’altura (Opv) e 1 nave anfibia (Lpd) per un controvalore di 4 miliardi di euro.
      Le corvette possono ospitare 112 militari d’equipaggio e un elicottero NH90.

Tra le attività a supporto del programma addestrativo a favore degli equipaggi delle QENF, previsto nel contratto, rientra la costruzione di un simulatore navale integrato preposto ad integrare le lezioni di carattere teorico previste per i frequentatori; il SiNaI.

23 aprile

  • Focus.de” informa che il cancelliere Olaf Scholz, insieme al ministero della difesa, ha deciso di acquistare elicotteri da trasporto pesanti per la Bundeswehr. Per cinque miliardi di euro, l’esercito tedesco riceverà 60 elicotteri da trasporto pesante CH-47F Chinook dal produttore americano Boeing, che rifornisce quasi tutti i paesi aderenti al patto atlantico; il costo stimato è di circa 5 miliardi di euro. Gli elicotteri saranno finanziati dal pacchetto di 100 miliardi per la Bundeswehr. La prossima settimana, il parlamento sarà informato dal ministro Christine Lambrecht (Spd); l’agenzia Reuters informa che gli elicotteri saranno finanziati dal fondo speciale previsto di 100 miliardi di euro per i militari che il cancelliere Olaf Scholz ha annunciato a seguito dell’invasione della Russia in Ucraina, ha detto il giornale. Gli elicotteri Chinook potrebbero essere consegnati al più presto nel 2025 e sostituiranno gli elicotteri CH-53G del produttore americano Sikorsky, che hanno circa 50 anniLa decisione pone fine a una disputa durata anni sul fatto che le truppe debbano ottenere il Chinook o il modello Sikorsky CH-53K, più nuovo ma anche più costoso. Secondo le informazioni di “Bild am Sonntag”, il prezzo ha fatto pendere la bilancia a favore di Boeing. Per la stessa somma di denaro, l’aviazione tedesca avrebbe ricevuto solo 40 aerei Sikorsky.


22 aprile

  • Da “ArmadaInternational” apprendiamo che il nuovo governo cileno del presidente Gabriel Boric ha acquistato 22 veicoli anfibi d’assalto modello AAV7 per trasporto truppe dall’esercito neozelandese al costo di 19,8 milioni di dollari. L’intento è di rafforzare le capacità di spedizione e di spiegamento rapido della brigata di spedizione anfibia della marina cilena, forte di 1200 uomini.
    La Nuova Zelanda aveva offerto il suo surplus di veicoli corazzati leggeri neozelandesi nel 2020. Dopo aver identificato il NZLAV come la soluzione più conveniente, il Cile ha iniziato i negoziati nel 2021.Si tratta di un derivato della serie LAV III di General Dynamics, il NZLAV è un veicolo da 17 tonnellate, a otto ruote motrici, tutto fuoristrada e corazzato. Armato con un cannone automatico Bushmaster da 25 mm, mitragliatrici secondarie e lanciagranate, ogni NZLAV può trasportare un equipaggio di tre persone e può ospitare e trasportare sette fucilieri. L’acquisizione di questo tipo di anfibio per il trasporto truppe prevede anche la spesa per 4 nuove navi da 9800 tonnellate.


22 aprile

  • Global Times” ha annunciato l’acquisizione da parte dell’esercito cinese di 2 cacciatorpediniere di classe 055 Renhai da 10.000 tonnellate equipaggiate con il missile balistico antinave ipersonico YJ-21 (testato in aprile dal People’s Liberation Army Navy nel report del Centro Studi Internazionali), costituito di 112 celle missilistiche a lancio verticale a bordo (un connubio difensivo efficace secondo “Agenzia Nova” per contenere l’egemonia Usa e scoraggiare un eventuale intervento a sostegno di Taiwan, dotata a sua volta di missili Hsiung Feng 3, inquadrata nel sistema Harpoon), 1 lanciamissili 052D e una nave d’assalto anfibia di classe 075, dichiarando esplicitamente che verranno dislocate nell’Indopacifico a causa della pressante rivalità statunitense nell’area, che però (secondo il “South China Morning Post”) non trova nessun alleato nella regione – Australia, Giappone, Filippine, Corea del Sud e Thailandia – disposto a ospitare missili a medio raggio con una portata fino a 5000 km con base a terra.


21 aprile

  • Triangolazioni del governo Usa per trasferire articoli e servizi di Difesa ai paesi alleati: l’holding italiana Leonardo vende a Tzahal, l’esercito israeliano, una fornitura di elicotteri da guerra AW119Kx della classe “Koala” fabbricati a Philadelphia (Penn.) attraverso il Dipartimento della Difesa americano (Foreign Military Sales) per 29 milioni di dollari; la notizia diffusa dalla rivista specializzata “Helis” è stata ripresa da Antonio Mazzeo nel suo blog, aggiungendo che «nel settembre 2020 il gruppo italiano e le forze armate israeliane avevano avviato una trattativa per la fornitura di altri elicotteri modello “Koala” e di due simulatori per la Scuola di Volo dell’Aeronautica militare ospitata nella base aerea di Hatzerim, nel deserto del Negev». Ma Israele è già cliente di Agusta Westland dal 2019, quando ne aveva acquisiti 7 per un controvalore di 350 milioni di dollari con compiti di sicurezza.

    Formiche.net” spiega che «tramite questi accordi l’acquirente non tratta direttamente con le industrie appaltatrici, ed è invece la Defense security cooperation agency americana a fungere da intermediario, gestendo l’approvvigionamento, la logistica e la consegna. Dal punto di vista contrattuale, saranno responsabili le Forze armate Usa», che hanno adottato questi elicotteri sulle unità navali della US Navy, sulle guardie costiere e per il corpo dei Marines; e sono già 104 i velivoli operativi nelle forze armate statunitensi e 470 sono i “Koala” venduti agli eserciti di Algeria, Bangladesh, Ecuador, Portogallo e Stati Uniti d’America; alla polizia della Corea del Sud e di tre stati brasiliani (Goias, Santa Catarina e Rio Grande do Sul); oltreché alle unità di controllo delle frontiere della Finlandia e della Lettonia. L’elenco è desunto dal blog di Antonio Mazzeo, che aggiunge: «Quello degli elicotteri “Koala” non è l’unico grande affare degli ultimi anni in Israele del gruppo militare-industriale italiano. Nel maggio 2020 Leonardo ha concluso un accordo con l’holding israeliana Rafael Advanced Defense Systems Ltd., per acquisire le tecnologie per il funzionamento dei sistemi d’arma e la ricerca dei bersagli dei nuovi aerei da combattimento leggero M-346FA, la variante di combattimento multi-ruolo dell’addestratore già in servizio con le forze armate di Italia, Polonia, Singapore e Israele. Nello specifico gli israeliani si sono impegnati a fornire i pod di quinta generazione Litening-5 e RecceLite per consentire ai caccia di Leonardo “di eseguire la ricerca del bersaglio utilizzando l’intelligenza artificiale per il suo rilevamento e tracciamento automatico”, secondo quanto dichiarato dai dirigenti di Rafael Advanced Defense Systems».

19 aprile

    • L’esercito americano ha annunciato che SIG Sauer  ha vinto il contratto per fornire le armi dei soldati statunitensi per il prossimo decennio; “DefenseNews” riporta che il fucile mitragliatore NGSW anche nella versione automatica è stato scelto dopo 27 mesi di valutazioni e test. È stato assegnato un contratto di ordine di consegna iniziale del valore di 20,4 milioni di dollari. L’MCX 6.8 Spear di SIG sarà designato come “XM5 Rifle” e l’LMG-6.8 belt-fed sarà designato come “XM250” – designazioni che seguono direttamente la M4/M4A1 Carbine e la M249 SAW che le nuove armi sostituiranno. Entrambe le armi sparano munizioni comuni da 6,8 millimetri utilizzando proiettili forniti dal governo e cartucce progettate dal fornitore. Le nuove munizioni includono diversi tipi di proiettili tattici e da addestramento che aumentano la precisione e sono più letali: infatti il nuovo proiettile da 6,8 mm dell’esercito americano sarà basato su un bossolo metallico ibrido, non sul design basato sui polimeri sviluppato da True Velocity.

Il sito specializzato “ModernFireArms” specifica che la mitragliatrice SIG SAUER NGSW-AR usa il blocco dell’otturatore rotante, e l’otturatore si aggancia all’estensione della canna. La pistola spara dall’otturatore aperto e, insolitamente per armi di questa classe, può sparare sia raffiche continue che colpi singoli. Il sistema a gas si trova sotto la canna e dispone di un pistone a corsa breve con un regolatore di gas manuale. La canna raffreddata ad aria può essere rapidamente sostituita se surriscaldata o usurata. Nella maggior parte dei casi, le canne sono dotate di soppressori di suono e flash rimovibili (moderatori), che sono necessari a causa delle alte pressioni delle munizioni militari da 6,8 mm.

La SIG Sauer ha sviluppato un proiettile con bossolo ibrido 6,8x51mm, commercializzato per i civili come 277 Fury, la munizione ha un corpo in ottone e una base in acciaio. Nel gennaio 2022, SIG ha annunciato che il fucile MCX SPEAR sarebbe stato disponibile sul mercato civile nel prossimo futuro.

19 aprile

  • Il Dipartimento di stato americano evidenzia sempre nei dispacci del Defense security cooperation agency che le forniture di armi sono proposte di vendita sono a sostegno della politica estera e degli obiettivi di sicurezza nazionale degli Usa. Nel caso della vendita per 42 milioni di dollari di articoli relativi al sistema di distribuzione delle informazioni multifunzionale Joint Tactical Radio Systems e relative attrezzature servirà per interoperare con le forze degli Stati Uniti e scambiare i dati tattici sicuri e avrà funzioni di deterrenza alle minacce regionali e rafforzerà la sua difesa interna. Tutti dati essenziali per rendere la transazione allineata con gli interessi americani e quindi ottenere il via libera da parte del Dipartimento di difesa, e sarebbero gli stessi criteri per ottenere dal Congresso permessi per eventuali acquisti di armi da parte degli americani.In questo caso le ditte coinvolte sono la californiana Viasat, Carlsbad e la Data Link Solutions, Cedar Rapids, una joint venture tra BAE Systems and Collins Aerospace di stanza in Iowa. Il governo australiano ha richiesto l’acquisto di 106 terminali MIDS JTRS; 15 terminali MIDS JTRS 6; e 7 kit di retrofit MIDS-Low Volume Terminal (MIDS-LVT); 4 Block Upgrade Two (BU2) del Multifunctional Information Distribution System. Sono inclusi anche i moduli crittografici (LCM) del terminale a basso volume (LVT). MIDS JTRS sostituisce numerose radio legacy, riducendo la necessità di ricambi eccessivi e di supporto logistico. Il MIDS JTRS è una radio a 4 canali progettata per eseguire la complessa forma d’onda Link 16, che consente una maggiore efficacia operativa senza consumare spazio, peso o potenza aggiuntivi. Aerei come caccia, petroliere, trasporto, comando e controllo e ala rotante, insieme a siti marittimi e fissi, possono tutti avvalersi dell’ottimizzazione offerta dal nuovo terminale di comunicazione e collegamento dati.

14 aprile

  • Venduti 12 elicotteri d’attacco AH-1 Cobra tutto compreso per 1 miliardo di dollari. La rivista “Nigrizia” riprendendo la notizia ricorda che 25 milioni del pacchetto comprendono una formazione sui Diritti umani (impartita dagli americani!!!): infatti a luglio “Foreign Policy” il Congresso aveva ritardato la vendita perché il governo Buhari stava intraprendendo una china autoritaria; ma ora è considerato un partner affidabile nella lotta contro il terrorismo. La vendita – riporta “DefenseNews” – include i Cobra prodotti dalla Bell; 28 motori T700-401C prodotti dalla General Electric; 2mila sistemi di armi di precisione avanzata usati per convertire missili non guidati, in missili a guida di precisione; e sistemi di visione notturna, puntamento e navigazione.
    Il nuovo elicottero va ad aggiungersi ai russi Mil Mu-24/35 “Hind” e agli italiani Agusta A109 power light attack helicopters.


13 aprile

  • L’altro Ouattara, Téné Birahima (il fratello che per ora fa il ministro della Difesa), ha dotato – secondo “Jeune Afrique” – l’esercito ivoriano di 10 nuovi elicotteri, 3 dei quali in consegna dopo pasqua: già alla fine del 2021 si sarebbe conclusa l’intermediazione eseguita attraverso un faccendiere maliano un contratto con l’azienda israeliana TAR Ideal Concepts per 5 MD-500 e 5 Agusta, a cui si aggiungerebbero alcuni droni; la C4 System assicurerebbe la formazione degli operatori dei velivoli senza pilota a bordo.
    Il paese tenta così di evitare l’insediamento di basi jihadiste nel Nord al confine con il Mali e il Burkina. Una base militare ivoriana è stata insediata a Tengrela.


11 aprile

  • Non si era ancora arrivati a richiedere l’ingresso nella Nato, ma già fughe di notizie (“Militaryleak”) riportavano la volontà anche della ancora neutrale Svezia di rammodernare la flotta aerea.
    La Saab si è aggiudicata un contratto dalla Defence Materiel Administration svedese per modernizzare il caccia JAS 39 Gripen C/D dell’aeronautica militare svedese: «fornirà miglioramenti di capacità» per estendere la vita utile del velivolo fino al 2035. L’ordine ha un valore di 52 milioni di dollari.Il JAS 39 Gripen è un caccia leggero multiruolo sviluppato dal costruttore svedese Saab. Oltre al Gripen C/D, l’aeronautica svedese dovrebbe ricevere 60 JAS 39 E/F, l’ultima variante del caccia, entro il 2027. Le consegne di serie sono iniziate il 24 novembre 2021.
    Il Gripen ha una configurazione ad ala a delta e canard con un design a stabilità rilassata e controlli di volo fly-by-wire. I velivoli successivi sono completamente interoperabili con la NATO. Nel 2006 infatti gli aerei Gripen svedesi hanno partecipato a Red Flag – Alaska, un’esercitazione multinazionale di combattimento aereo ospitata dall’Aeronautica degli Stati Uniti. I Gripen hanno effettuato sortite di combattimento simulato contro F-16 Block 50, Eurofighter Typhoon e F-15C, ottenendo dieci uccisioni senza subire perdite.


10 aprile

  • La Serbia di Vucic ha ribadito la sua intenzione di acquisire droni da combattimento turchi; secondo “klix.ba” il suo presidente ha promesso di rafforzare ulteriormente le difese del paese, tra le tensioni nei Balcani e l’invasione russa dell’Ucraina. Quando Erdoğan ha telefonato al presidente serbo per complimentarsi per la rielezione Vucic gli ha ricordato la promessa di forniture di droni Bayraktar Tb2, ottenendo assicurazioni che sarebbe stato accontentato. Gli stessi velivoli senza pilota venduti dalla Turchia a tutti i belligeranti del mondo, dagli alleati azeri agli ucraini, dal Marocco al Qatar, Polonia… e ad un’altra decina di paesi.

    Non è casuale poi che dopo l’acquisto di 12 Rafale da parte croata nel novembre 2021, Vucic ha annunciato nella stessa occasione che pure la Serbia è interessata all’acquisto di 12 velivoli della Dassault Aviation, anzi…

drone turco

8-9 aprile

  • Il 14 aprile il governo filoatlantista di Mitsotakis, tra i più impegnati a stanziare fondi in bilancio nell’acquisto di armi, ha fatto sapere (“EuropaToday ha diffuso la notizia) che sospende le forniture belliche a Kyiv, a cui sono già stati inviati due C-130 carichi di Kalashnikov e lanciarazzi. Questo perché ritiene di non poter sguarnire le proprie difese nel momento in cui la Turchia ha violato lo spazio aereo greco 11 volte in un solo giorno, come riferisce il ministro della Difesa greco, Nikos Panagiotopoulos.
    Già il 4 aprile secondo “GreekcityTimes” il 66% dei greci erano contrari all’invio di armi in Ucraina e i macchinisti ferrovieri di Trainose (proprietà di FS italiane) railway workers si rifiutavano di trasportare ordigni statunitensi e della Nato dal porto di Alexandropoulis.
    Dall’inizio degli eventi militari in Ucraina, più di 3000 soldati statunitensi e centinaia di veicoli corazzati e carri armati sono arrivati al porto greco di Alessandropoli. Da lì continuano in treno verso la Romania e altri paesi dell’Europa dell’Est membri della NATO: «I carri armati statunitensi appartenenti alle forze NATO, scaricati dall’enorme traghetto “Liberty Passion” nel porto di Alessandropoli, sono stati trasportati con la ferrovia attraverso la prefettura di Evros verso i paesi dell’Europa dell’Est. I carri armati delle forze NATO sono stati trasportati con la ferrovia da Alessandroupolis alla Romania attraverso la Bulgaria» (“in”).
  • Altro episodio di “resistenza” in terra ellenica contro la consegna di armi agli ucraini è avvenuto al porto di Thessaloniki, da dove provengono notizie (riprese da Osservatorio Repressione) di pressioni sui lavoratori perché si spostino ad Alexandropoulis a fare i crumiri al posto dei colleghi in mobilitazione


8-9 aprile

  • Come parte della cooperazione annuale tra i due paesi aerei dell’Esercito Popolare di Liberazione è stato effettuato un ponte aereo di due giorni (Pechino-Baku-Istanbul-Belgrado) con 6 pesanti Xi’an Y-20 della People’s Liberation Army Air Force per consegnare alla Serbia missili antiaerei a medio raggio cinesi HQ-22/FK-3 come parte di un contratto che Belgrado ha firmato con la Cina e che comprende anche droni CH-92 della China Aerospace Science and Technology Corporation, lo ha riferito “Defense news”.

    Un aereo da trasporto militare Y20 usato per il ponte aereo tra Pechino e Belgrado

    Il sistema (assimilabile ai Patriot americani e agli S-300 russi) è dotato di un nuovo missile ha una velocità di mach 6, può ingaggiare aerei, elicotteri, missili balistici e da crociera essendo condotto da un veicolo radar accoppiato a 3 veicoli lanciarazzi dotati di 4 missili a testa, quindi possono essere inquadrati 6 obiettivi in volo contemporaneamente

    Il neo rieletto presidente serbo Aleksandar Vučić ha respinto in un video sul  suo sito ufficiale le preoccupazioni dei paesi limitrofi per il “nuovo gioiello” dell’esercito serbo: «Non sono in grado di dire come li minacciamo con le armi difensive, perché è un sistema che serve a difendere dai missili da crociera e dagli aerei che violerebbero lo spazio aereo della Serbia».
    Montenegro e Kosovo sono molto preoccupati.
    Ma comunque non è il primo paese in Europa a dotarsi di missili cinesi: già in Turchia e Bulgaria sono state effettuate consegne, “Agenzia Nova” ritiene che si tratti di una dimostrazione di forza cinese nell’attuale contesto geopolitico balcanico, dove si stanno accumulando enormi quantità di armi .


8 aprile

  • Un programma di sostituzione del sistema missilistico di difesa americano Fim-92 Stinger  Reprogrammable Microprocessor (RMP) è stato avviato e si è ipotizzata la disponibilità per US Army e alleati di missili Maneuver-Short Range Air Defense (M-SHORAD Increment 3) operativi entro il 2027 quando ne saranno sfornati 10.000, secondo le informazioni di “Formiche.net”.
    Ma già il 23 aprile 2021 “Defense News” aveva dato notizia che i primi sistemi Shorad erano stati consegnati al battaglione dislocato ad Ansbach in Germania per testarne l’affidabilità.

    Nonostante il massivo utilizzo di Stinger nelle operazioni di guerra in Ucraina – o forse proprio in seguito a quell’esaurimento di fondi di magazzino – i missili spalleggiabili entrati nell’immaginario bellico delle milizie di Kyiv sono giudicati ormai obsoleti e quindi è automatico per il sistema di approvvigionamento mettere in cantiere il nuovo prodotto, i cui obiettivi da neutralizzare saranno aerei del tipo Rotary Wing (RW), Group 2-3 Unmanned Aircraft Systems (UAS) e velivoli da attacco al suolo Fixed Wing (FW); dovranno essere trasportabili dai soliti Stinger Vehicle Universal Launcher (SVUL) e comunque lanciabili da un solo uomo. Solo che, come riportato da “AresDifesa” ci sarà una maggiore precisione e intervalli di lancio più ravvicinati.
    Leonardo era già capofila per queste forniture del sistema di difesa antiaereo: l’M-SHORAD Mission Equipment Package (MEP) di Leonardo DRS è un sistema basato su un veicolo da combattimento Stryker A1 che include un pacchetto di attrezzature di missione progettato da Leonardo Drs. A settembre aveva conseguito un contratto da General Dynamics per fornire nuovi Mission Equipment Packages per M-Shorad a fronte di un ricavo di 204 milioni di dollari.


7 aprile

  • Una struttura di formazione sulla sicurezza finanziata dagli Stati Uniti per il Mediterraneo orientale, il Cyprus Centre for Land, Open-seas, and Port Security (CyCLOPS) è stata inaugurata a Larnaca. Secondo l’agenzia di France Press ripreso da “al-MonitorIl centro di alta formazione ispirato dagli Usa nasce per preparare in materia di controlli doganali, di sicurezza portuale, marittima e informatica e si rivolge a funzionari di stati dell’Unione Europea e del Mena; è fornito di piattaforme per la formazione, tra cui un finto passaggio di frontiera terrestre, un’area di screening dei passeggeri e un laboratorio mobile di formazione sulla cybersicurezza.

    Avviato dal Dipartimento di Stato americano ai tempi di Mike Pompeo, nel 2019, che scelse Cipro per incentivare il partenariato energetico con Grecia, Egitto, Israele e perché la posizione può difendere l’intera area del Mediterraneo orientale, inserendo nell’accordo anche la revoca di un embargo di 33 anni sulle armi degli Stati Uniti a Cipro per permettere l’esportazione di hardware militare “non letale”.


5 aprile

  • Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia si accordano per una collaborazione per creare armi ipersoniche (a Mach5) e anti-ipersoniche chiamata SCIFiRE (Southern Cross Integrated Flight Research Experiment) a sottolineare il patto di difesa che ha dato luogo all’Aukus. Si tratta di un lancio della Reuters, ripreso da “Infobae” e il sito delle forze armate aeree statunitensi rimarca i 15 anni di collaborazioni tra Usa e Australia per arrivare a jet ipersonici, motori a razzo, sensori… la nuova arma di precisione ipersonica, lanciata a propulsione e alimentata da un motore scramjet a soffio d’aria. Questa tecnologia, sviluppata dall’onnipresente Raytheon, sarà in grado di essere trasportato da aerei da combattimento tattici come l’F/A-18F Super Hornet, EA-18G Growler e F-35A Lightning II, così come l’aereo di sorveglianza marittima P-8A Poseidon.

    L’etichetta conferita a questi accordi è Air Warfare, Global.



5 aprile

  • Il 5 aprile l’Agenzia per la cooperazione di difesa e sicurezza del Dipartimento della Difesa degli Usa ha approvato una nuova vendita di armi a Taiwan per un valore di 95 milioni di dollari in attrezzature relative al sistema di difesa aerea Patriot, compreso l’addestramento. Infatti l’Ufficio di Rappresentanza Economica e Culturale di Taipei negli Stati Uniti (Tecro). ha richiesto l’acquisto del Contractor Technical Assistance, ovvero di addestramento, pianificazione, messa in campo, dispiegamento, funzionamento, manutenzione e sostegno del sistema di difesa aerea Patriot, delle attrezzature associate e degli elementi di supporto logistico. Oltre a questo Taiwan ha anche richiesto il Patriot Ground Support Equipment, pezzi di ricambio e materiali di consumo necessari a supporto delle attività di assistenza tecnica. L’appaltatore principale sarà Raytheon Technologies.

    Il Dipartimento degli Esteri taiwanese ha ringraziato gli Usa, sottolineando che si è trattato della terza volta in cui l’amministrazione del presidente Joe Biden, in carica dal 21 gennaio 2021, ha approvato vendite di armi a Taiwan.



5 aprile

  • L’Australia accelera i piani per l’acquisto di missili d’attacco a lungo raggio anni prima del previsto a causa delle crescenti minacce poste da Russia e Cina. L’“Associated Press” lo conferma con il fatto che i caccia FA-18F Super Hornet della Boeing sarebbero armati con missili aria-superficie JASSM-ER prodotti negli Stati Uniti da Lockheed entro il 2024, tre anni prima del previsto.
    Questi missili migliorati permetterebbero ai caccia di ingaggiare obiettivi a una distanza di 900 chilometri (560 miglia). Inoltre le fregate australiane di classe ANZAC e i cacciatorpediniere di classe Hobart è stato annunciato che saranno dotati di missili di fabbricazione norvegese Kongsberg NSM, che raddoppiano il raggio d’azione, entro il 2024, cinque anni prima del previsto.
    Il riarmo accelerato dei jet da combattimento e delle navi da guerra costerebbe 3,5 miliardi di dollari australiani (2,6 miliardi di dollari) e aumenterebbe la deterrenza dell’Australia nei confronti dei potenziali avversari: infatti il nuovo calendario di riarmo arriva dopo che le Isole Salomone hanno annunciato un progetto di patto di sicurezza con la Cina. Secondo i suoi termini, la Cina potrebbe inviare personale militare nelle isole del Sud Pacifico, per aiutare a mantenere l’ordine e per altre ragioni, anche navi da guerra per scali e rifornimenti, il che ha portato a immaginare la costruzione di una base navale cinese lì.

JASSM-ER

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  • David di ArmaLite

Il marketing di Marzo eccitato dallo svuotamento degli arsenali. Sfilate primavera-estate

Se per l’editoriale di febbraio la notizia di punta era l’invasione dell’Ukraina, per quello di marzo l’evento emblematico è stata la fiera di Riyad, dove tutti gli stati che si sentono sotto attacco (ovvero l’unanimità, perché altrimenti non legittimano la spesa pubblica per i dispositivi militari) si possono riarmare. Ed è emblematico che l’esercito ucraino in questi 8 anni si sia attrezzato al punto da resistere ai carri armati mal organizzati di Mosca: non c’è da stupirsi. L’Ucraina è il nono esportatore di armi (soprattutto leggere), in particolare in Africa, dove fa da triangolazione per conto della produzione polacca che è costretta dalle regole comunitarie a non procurare armi a paesi belligeranti, ma Kyiv può – finché non entra nella EU (e forse non gli conviene); e attraverso quelle triangolazioni ha potuto riarmarsi con ordigni micidiali come i droni turchi – già risolutori in Nagorno – o sofisticati come gli Stinger americani.
La moltiplicazione di Fiere di ordigni in tutto il mondo (e a Riyadh in particolare) non può che terrorizzarci, perché è un segnale che… c’è mercato e la richiesta aumenta, come prima di ogni conflitto mondiale.
Il marketing militare poi non ha limitazioni, perché proprio l’attributo testosteronico “militare” sfonda tutte le porte e penetra qualsiasi pudore, persino quelli dell’altrimenti sacro diritto d’autore: l’immagine in copertina proviene da un articolo de “Il giornale dell’arte” (8 marzo 2022), giustamente perplesso per il fatto che si possa trascendere dalle normative che regolano l’uso delle riproduzioni artistiche (ricordate Walter Benjamin, un altro che, preconizzando il disastro nazista precedente, preferì farsi fuori da solo): quell’immagine del David “influencer” attrezzato con la protesi fallica di ArmaLite per poter essere usata ha sicuramente pagato tantissime royalties – e quelle provengono dai cadaveri che tanto sensibilizzano le coscienze – ma soprattutto quei soldi hanno pagato l’autorizzazione degli Uffizi.


Come i soldi sauditi hanno imposto l’ennesima sagra dello strumento di morte violenta: dal 6 al 9 marzo si è svolta a Riyadh la prima edizione del World Defense Show (Wds), fiera biennale internazionale in più del settore militare di cui non si sentiva l’esigenza diretta da Andrew Pearcey: 590 aziende di 42 paesi diversi. Gami, l’Autorità Generale per le industrie militari del Regno saudita, è la sigla che ha patrocinato la kermesse con i ministeri della Difesa e dell’Interno, la Guardia Nazionale e l’intelligence saudita. Mbs in persona – Mohammed bin Salman al-Saud, primo viceministro e ministro della Difesa – ha sovrinteso ai lavori che puntano a competere con altri appuntamenti dell’industria militare, della sicurezza e spaziale, come il Farnborough International Airshow o il Paris Air Show.

«Ci sono esposizioni militari in tutto il mondo e l’Arabia Saudita ha pensato bene che fosse giunto il momento di portare uno di quegli eventi qui in Arabia. Vogliamo rappresentare l’intero ecosistema della filiera militare, dalle piccole aziende che forniscono le medie aziende alle medie realtà che forniscono le grandi corporations. Ci aspettiamo di vedere ordini dai grandi player del settore, ma ci aspettiamo anche risultati entusiasmanti dai competitors più piccoli», ha detto Andrew Pearcey.

Il budget per la difesa dell’Arabia Saudita quest’anno è stato di 171 miliardi riyal (46 miliardi di dollari circa), con una diminuzione del 10% rispetto al 2021, ma è una cifra che si colloca ancora tra le prime dieci spese militari al mondo. I vertici militari sauditi, che hanno voluto appositamente l’organizzazione in terra saudita perché hanno annusato il momento propizio e il fatto che chi ospita è privilegiato nei traffici. Sia di acquisto che di vendita: 23 contratti sono stati firmati da Riyadh per 3,4 miliardi di dollari.

“I nuovi sistemi d’arma rafforzeranno la prontezza delle forze armate e i sistemi di difesa e ci saranno ricadute importanti per le industrie militari nazionali», ha commentato Khaled Al-Biyariresponsabile del settore acquisizioni del ministero della Difesa saudita«I contratti stipulati rispondono all’ambiziosa visione della leadership del Regno di rafforzamento della produzione e dell’efficienza industriale e del settore militare, nota come Vision 2030».

Lanciata dalla casa regnante con il fine di diversificare l’economia e renderla sempre meno dipendente dall’estrazione petrolifera, Vision 2030 punta in particolare a destinare entro la fine del decennio la metà della spesa militare all’acquisto di sistemi e apparecchiature prodotti da industrie localizzate nel territorio saudita. Nel corso del World Defense Show, il ministero per gli investimenti del paese mediorientale ha firmato 12 memorandum di collaborazione con altrettante aziende internazionali per promuovere progetti di ricerca e sviluppo nel settore industriale aerospaziale e militare. «Le attività di business saranno sviluppate grazie alla partnership con alcuni importanti gruppi, come Hanwha Corporation (sudcoreana)Expal Milkor (spagnola), Naval Group (francese) e  Leonardo (italiana)», riferisce “Arabnews.

Dal sito della Luiss ricaviamo poi che 2 contratti sono stati conclusi con la statunitense Raytheon Company, per 533 milioni di dollari, per rafforzare le capacità dell’aviazione del Regno. Altri due accordi, per un valore di 400 milioni di dollari, sono stati poi stretti con Thales Group, una società francese che fornisce servizi per i mercati della difesa e della sicurezza.

Tra gli altri partner riportati da “al-Arabiya” con cui il Ministero della Difesa di Riad ha stretto accordi vi è il conglomerato sudcoreano Hanwha, con il quale è stato stipulato un contratto da circa 800 milioni di dollari, per rafforzare le capacità di difesa del Regno e le catene di approvvigionamento.Un’altra intesa da 114 milioni è stata invece firmata con la cinese China North Industries Corporation Limited (Norinco) e altri due, del valore di 122 milioni, sono stati firmati con la sudcoreana Poongsan Corporation.

Antonio Mazzeo ha riepilogato tutte le armi esibite da Leonardo in quell’occasione in un articolo su “Stampalibera.it” aggiungendo che per sapere se e cosa Leonardo riuscirà poi realmente a vendere agli organizzatori e ai visitatori del World Defense Show bisognerà attendere ancora del tempo. Di certo è che proprio alla vigila della kermesse il gruppo italiano ha ottenuto due importanti successi con le autorità saudite. Il 7 febbraio, in occasione del meeting organizzato ancora dall’Autorità Generale per le industrie militari (Gapi) per lanciare la Roadmap di promozione del capitale umano dell’industria bellica nell’ambito di Vision 2030, Leonardo ha firmato con i sauditi un accordo di collaborazione nel settore della ricerca e dello scambio di know how.

Infine notazioni interessanti provengono da un articolo di “AfricaExpress”, dove si leggono nomi ricorrenti nel mondo della produzione delle armi (come si può rilevare dalla lista riprodotta qui di seguito che riporta nomi che in questo testo sono tutti citati), ed è straniante rilevare come Russia e Ucraina si trovino fianco a fianco in questa rassegna di “sporchi affari”, in quanto due tra i massimi produttori di armi al mondo:

«Tra le aziende blue chip presenti al Wds ci sono il gruppo brasiliano aerospaziale e della difesa Embraer, i giganti statunitensi Raytheon, General Dynamics e Lockheed Martin (che ha già annunciato di voler investire in Arabia Saudita più di 1 miliardo di dollari nella produzione militare) e il produttore britannico Rolls Royce. Tra i tanti espositori a contendersi la clientela anche aziende militari Russe (Almaz, IBZ, Rostec, Technodinamika, Rosoboroneexport, Russian Defence Export) e aziende miliari Ukraine (STM, STE, Progress)».

100%

Avanzamento



Die letzten Tage der Menschheit

Leader mondiali e nazionali del traffico di armi.

La corsa agli armamenti e i sistemi di addestramento. La sofisticazione della millenaria Arte della Guerra trasformata in Guerra di Robot attraverso il coinvolgimento di laboratori di ricerca… attenzione “Guerra di Robot” non “Guerra tra Robot”: i droni uccidono umani. Alcuni di questi punti si trovano in questo intervento di Antonio Mazzeo su Radio Blackout:

“Utopia del contingente da disarmare”.

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Marzo

29 marzo

  • Secondo “Athens News” la Grecia ha firmato un’alleanza difensiva con la Francia, in base alla quale ha acquistato 24 aerei (diciotto+6) Rafale di quinta generazione e 6 navi da guerra: 3 fregate Belharra e 3 corvette classe Gowind. I primi 6 aerei sono già arrivati in Grecia. La commessa è di 4 miliardi che si vanno ad aggiungere ai 3,4 miliardi dell’accordo di gennaio per la fornitura di altri 18 Rafale.
    L’incrociatore corazzato Georgios Averof è la nave più gloriosa della flotta greca, attualmente una nave museo nel parcheggio eterno di Paleon-Faliron nel sud di Atene, teatro di questa lugubre pantomima della firma.

    Battleship Averof, nave museo

    Battleship Averof è il luogo in cui sono state apposte le firme dei ministri della difesa greco Nikos Panagiotopoulos e francese Florence Parly

    L’intesa arriva mentre Atene rafforza le sue Forze Armate in risposta alle tensioni con la vicina Turchia. I caccia Rafale saranno venduti dalla società Dassault Aviation e saranno consegnati a partire dall’estate del 2024, portando la flotta dell’aeronautica militare ellenica a 24 Rafale; inoltre la marina greca acquista con questo stesso contratto tre fregate francesi Belharra di classe FDI, che saranno costruite dall’appaltatore della difesa Naval Group a Lorient, nella Francia Occidentale. La consegna è prevista entro il 2026.


26 marzo

  • “The Economist” ha annunciato il prossimo utilizzo in Ucraina di bombe volanti delle dimensioni di una baguette.
    I machisti sarmatici potranno applicarsi a una nuova canzone sciovinista, inneggiante stavolta agli Switchblade, i missili suicidi inclusi tra gli ordigni che gli Usa stanno inviando a Kyiv, dopo l’annuncio fatto da Biden il 16 marzo, relativo alla spedizione di 100 droni utili per il contenimento dell’avanzata delle truppe di terra.
    Si tratta dei droni prodotti da AeroVironment, con una precisione millimetrica e molto più sottili dei Javelin della canzone.

    La differenza tra Javelin e Switchblade è data dal fatto che il primo viene programmato per colpire un bersaglio, mentre la nuova fornitura riguarda missili che possono volare verso una pletora di potenziali bersagli e l’operatore può scegliere il più appetitoso da distruggere attraverso telecamere e rilevatori termici all’infrarosso che trasmettono via Gps le immagini. Ci sono due modelli di queste “munizioni predatrici”, entrambi in grado di confondere i radar, di interfacciarsi con altri droni e sono configurabili in pochi minuti attraverso un tablet. Rispetto ai Bayrakhtar TB2 turchi la differenza è nelle dimensioni e nel bisogno di piste di atterraggio dei velivoli costruiti ad Ankara.

    Lo Switchblade 300 è il più piccolo. Misura circa 30 centimetri e pesa quasi 2 chili e mezzo, vengono lanciati da un piccolo tubo simile a un mortaio. Con un attacco di precisione e munizioni avanzate; hanno una portata di 10 chilometri e un’autonomia di 15 minuti. La loro velocità di crociera è di 101 chilometri all’ora e la loro velocità operativa è di 161 chilometri all’ora. Volano a un’altitudine inferiore ai 152 metri. La loro testata, delle dimensioni di una granata, è efficace contro i veicoli non corazzati e i gruppi di truppe; non può penetrare la corazza dei carri armati.

    lo Switchblade 600 è più grande e più efficace contro bersagli corazzati: pesa 10 volte tanto e misura 1,3 metri; dotati di un attacco di precisione con una testata anticarro, l’altitudine operativa è meno di 200 metri,con una portata di 40 chilometri e un’autonomia di volo di 40 minuti. Le velocità di crociera e di corsa sono 113 e 185 chilometri all’ora, rispettivamente.


25 marzo

  • L’improvvisamente atlantista Erdoğan, nel pieno della sua trasfigurazione diplomatica: globale sull’Ucraina come emissario degli interessi Nato; medio orientale della normalizzazione con i paesi del golfo; le nuove relazioni distese con Israele e la riconciliazione con gli Emirati per spartirsi Libia e Corno d’Africa. In una fase simile non si possono non riallacciare gli accordi firmati nel 2018 per acquisire il sistema franco-italiano di difesa aerea e missilistica a lungo raggio SAMP/T, che erano stati interrotti per l’ostilità francese nei confronti di Ankara. E infatti “Daily Sabah” riferisce della ripresa degli incontri per l’acquisto. Il sistema è particolarmente versato nell’annientamento di Stealth, droni e missili; basato sul nuovo missile intercettore ASTER 30 B1NT, con capacità d’ingaggio anche di missili balistici a medio raggio, categoria NODONG/SHAHAAB-3, e sul nuovo radar ci sarà il Thales GF-300 della Dassault Aviation.

    Samp/NT

    Il consorzio Eurosam è composto dal produttore europeo di missili MBDA, a sua volta una joint venture tra l’Airbus e l’italiana Leonardo e la britannica BAE Systems, e l’appaltatore francese della difesa Thales, i cui principali azionisti sono lo stato francese e il produttore di jet da combattimento Dassault Aviation.


24 marzo

  • In Cina, con l’avanzamento della ricerca ipersonica a Mach 8 e oltre, la quantità di dati sperimentali da elaborare e analizzare è aumentata significativamente, Quindi i ricercatori stanno costruendo un sistema di intelligenza artificiale (AI) che può progettare nuove armi ipersoniche da solo, identificando le onde d’urto che si verificano nei test della galleria del vento per simulare le condizioni di volo estreme, anche se non hanno ricevuto istruzioni su cosa cercare.

    Secondo il team di ricerca guidato dal professor Le Jialing del China Aerodynamics Research and Development Centre di Mianyang, nel Sichuan, che ha pubblicato i suoi risultati il 16 marzo nel “Journal of Propulsion Technology”, una pubblicazione peer-reviewed gestita dall’industria cinese della difesa aerospaziale, senza intervento umano, la loro macchina AI, basata su una scheda grafica a basso costo di tre anni fa, ha impiegato circa 9 secondi per elaborare un’immagine e ha costruito una base di conoscenza propria per aiutare lo sviluppo di nuovi motori per missili ipersonici o aerei che potrebbero percorrere distanze maggiori a velocità molto più elevate.

    L’informazione del “South China Morning Post” del 24 marzo è stata ripresa dalla rivista “AI Supremacy” 4 giorni dopo. Questa conoscenza permetterebbe all’AI di prevedere il verificarsi di onde d’urto e di elaborare progetti di armi ipersoniche per controllare meglio il flusso d’aria: la precisione delle armi ipersoniche potrebbe essere migliorata di più di 10 volte se il controllo venisse tolto dalle mani dell’uomo e dato a una macchina. A.I. come ingegnere capo, generale capo e capo delle comunicazioni alla fine per “programmi speciali militari”, proprio alla fine diventa un gioco da ragazzi. Ciò significa che l’I.A., man mano che diventa più sofisticata, diventa anche esponenzialmente più pericolosa per il mondo.

    L'Intelligenza artficiale soppianta i tecnici e può accelerare di 10 volte l'analisi delle sperimentazioni nella galleria del vento

18 marzo

  • Janes” ha annunciato che il Niger ha ordinato veicoli corazzati APC dalla Nurol Makina da aggiungersi ai droni Bayraktar TB2 e agli aerei d’addestramento e attacco leggero Hurkus. Mohamed Bazoum, il presidente del Niger era stato in Turchia all’inizio di marzo visitando gli stabilimenti Baykar, che fabbricano i TB2, e poi alla Havelsan, alla Turkish Aerospace, alla Aselsan, e anche Roketsan, specializzato nella fabbricazione di missili e razzi intelligenti.

    Il Niger è la terra dei traffici illeciti: denaro, droga, armi, esseri umani. Un paese che ha fatto dell’illecito la ragione dei propri guadagni; il paese più povero al mondo, ma, Mohammadou Issoufou, ex presidente nigerino aveva speso milioni e milioni di dollari per acquistare armi, elicotteri e aerei da combattimento russi e francesi, tradendo la sua piattaforma elettorale di stampo progressista che lo ha portato al vertice dello stato, impoverendo ancora di più la sua gente. Il neoeletto Mohamed Bazoum va nella stessa direzione, non a caso sul finire del 2021 ha acquistato dalla Turchia nuovi droni. L’impegno e le spese militari prevalgono su tutto, pur di mantenere i privilegi ereditati dal suo predecessore e allora si aggiungono altri denari sperperati in questo Apc.

    APC-Nurol

    Bazoum mentre ispeziona gli Ejder Yalçin dotati di stazioni d’arma Aselsan Serdar, ma dipinti con la mimetica usata dal Comando congiunto delle forze speciali del Qatar, che ne ha fatto un grosso ordine.

17 marzo

  • Il “Daily Sabah” ha scritto che l’esercito indonesiano ha ricevuto dalla Turchia il primo lotto di Kaplan MT/Harimau Hitam medium weight tank prodotto congiuntamente da FNSS Savunma Sistemleri di Ankara e dall’indonesiana PT Pindad, con la collaborazione dell’azienda belga costruttrice della CMI Defence Cockerill® 3105, una torretta integrata sul blindato ed equipaggiata con un cannone ad alta pressione da 105 millimetri Cockerill® CT-CV 105HP; è anche dotato di un sistema IFF, Hunter Killer System per la selezione del bersaglio, e Auto Target Locking System per assistere il puntatore, inoltre il serbatoio può resistere a proiettili AP 14,5×114mm a 200 metri con 911 m/s di velocità. Il ventre del serbatoio utilizza lo scafo a V, in grado di resistere a 10 kg di mine AT sotto i cingoli e sotto il centro.
    Kaplan in turco è sinonimo di Harimau che in indonesiano significa “Tigre”.
    Si tratta della prima esportazione di carri armati dalla repubblica di Turchia dopo l’embargo tedesco sui cingolati di Ankara dovuto alle operazioni belliche in Rojava: infatti in precedenza l’industria bellica FNSS montava sul carro armato MBT motori diesel da 1500 cavalli della MTU Friedrichshafen GmbH, ora sostituito dal motore della sudcoreana Defense Industries (SSB).


15 marzo

  • “DefenseNews” dà notizia che il Dipartimento di Stato approva la possibile vendita di 8 elicotteri MH-60R prodotti dalla Lockheed Martin Rotary and Mission Systems alla Marina spagnola a fronte di un preventivo di spesa di 950 milioni di dollari. La vendita includerebbe anche una gamma di armi e sistemi – missili Hellfire aria-superficie, 100 sezioni di guida WGU-59/B Advanced Precision Kill Weapon System (APKWS) II, apparecchiature di comunicazione, 4 sonar a bassa frequenza (ALFS), radar multimodo APS-153, boe soniche e 20 motori T-700-GE-401C – per consentire la guerra di superficie, la guerra antisommergibile e la guerra elettronica da questi elicotteri già basati sulle navi della US Navy, della Royal Danish Navy, della Royal Australian Navy, della Royal Saudi Naval Forces, della Marina ellenica. Nel 2021 anche la Corea del Sud e l’India hanno opzionato questo MH-60R-Romeo, che sarebbe particolarmente adatto al sistema di combattimento Aegis della Lockheed-Martin in dotazione alla fregata di difesa aerea della classe Álvaro de Bazán in forza alla Marina spagnola.



14 marzo

  • Scholz continua a far discendere le scelte tedesche da quelle della Nato. L’agenzia Reuters ha annunciato che la Luftwaffe adotterà gli F35 di quinta generazione in sostituzione dei vecchi Tornado: la Bundeswehr – secondo quanto riportato da “Aviation Report” possiede ancora 93 Tornado, dopo aver ricevuto originariamente un totale di 357 unità, dei quali 83 sono ancora operativi ma il loro utilizzo sta diventando sempre più costoso. Infatti l’opzione americana ha avuto successo in quanto il caccia della Lockheed-Martin è più adatto in uno scenario di “nuclear sharing”, in base a quanto previsto dalla “condivisione nucleare” tra paesi della Nato: cioè sono predisposti a caricare ordigni nucleari.
    E questo acquisto di 35 velivoli (secondo il calcolo di “Deutsche Welle”)  fa seguito all’innalzamento del budget degli stanziamenti per la Difesa tedesca, innalzati a 70 miliardi di euro (il 2 per cento del pil annuo), a cui si aggiungono 100 miliardi di fondo speciale. Con questa potenza armata Berlino si prospetta come base per il costruendo esercito europeo comunitario. E cominciano dagli F-35 assemblati a Cameri (Novara).


I caccia F35 Lightning II - Lockheed-Martin

9 marzo

  • La Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha superato il 9 marzo le controversie politiche che avevano ritardato l’approvazione del finanziamento del sistema di difesa missilistica israeliano Iron Dome per una somma di 1 miliardo di dollari. A riferirlo con soddisfazione è stato il giorno successivo “The Times of Israel”. Il denaro finanzierà missili intercettori per quel sistema difensivo che si è contrapposto ai 4300 razzi sparati da Hamas in 11 giorni nel 2021, annientandone il 90 per cento.

    Il governo di Zhelensky aveva chiesto a più riprese il sistema in previsione dell’invasione russa, ma senza successo per il timore di Bennett che si potessero danneggiare le relazioni israeliane con Mosca: infatti “EurasianTimes” riporta che fu Tel Aviv a fermare un tentativo degli Stati Uniti di trasferire batterie di missili Iron Dome all’Ucraina.

    Agenzia Nova” fornisce le specifiche tecniche del sistema: creato dalle aziende israeliane, Rafael Advanced Defense Systems e Israel Aerospace Industries, con il sostegno degli Stati Uniti, l’Iron Dome è diventato operativo nel 2011. Israele ha ora dieci batterie dispiegate in tutto il paese, ciascuna con tre o quattro lanciatori in grado di sparare 20 missili intercettori. Il sistema ha poi subito evoluzioni fino ad essere adattabile alle operazioni navali.

    La Camera statunitense ha inoltre approvato un finanziamento annuale alla difesa israeliana di 3,8 miliardi di dollari per la sicurezza senza scopo di lucro.


Iron Dome, sistema di protezione missilistica in dotazione a Tzahal, pagato dal governo americano

7 marzo

  • Il 7 marzo a Sidney il governo australiano ha annunciato un preventivo di spesa di almeno 7,4 miliardi di dollari americani per la costruzione di una nuova base sulla costa orientale che possa ospitare la nuova flotta di sottomarini a propulsione nucleare, frutto dell’accordo Aukus, che il 15 settembre aveva spinto gli australiani a stracciare il contratto siglato con Parigi per la fornitura di 12 sommergibili Barracuda a propulsione diesel/elettrica del costo di 56 miliardi per mettere in conto l’acquisto dagli Usa (o dalla Gran Bretagna) di 8 sottomarini a propulsione nucleare nell’ambito dell’accordo trilaterale Aukus (Australia, Uk, Usa).

    Ne dà notizia South China Morning Post; l’esistenza della nuova base prevista per il 2040 non contempla la chiusura di quella occidentale nei pressi di Perth che ospita i vecchi SSK Collins (varati nel 1996), per i quali è previsto uno stanziamento per l’ammodernamento. A breve la Royal Australian Navy comunicherà se la scelta sarà caduta su gli Astute della Royal Navy, oppure i Virginia in servizio presso la US Navy.
    Il motivo per la scelta di tempi per l’annuncio è rivelato indirettamente dalle parole del premier australiano Scott Morrison per il quale la
    guerra in Ucraina si estenderà inevitabilmente all’Indopacifico: «Stanno crescendo la militarizzazione dell’area e gli attacchi alle democrazie liberali nella regione Asia-Pacifico e l’Australia deve affrontare l’ambiente di sicurezza più difficile e pericoloso degli ultimi 80 anni. Ci saranno anche vantaggi significativi per l’industria locale e nazionale nel supportare la nuova base e la flotta di sottomarini a propulsione nucleare». A lui fa eco Andrew Shearer con l’affermazione che il presidente cinese Xi Jinping sembra pianificare di dominare la regione Indo-Pacifica e usarla per dare luogo a un “arco di autocrazia” che sta rimodellando il mondo.



6 marzo

  • La KCNA, agenzia nordcoreana di informazione annuncia che sabato 5 marzo è avvenuto un secondo test di lancio di razzi in una settimana. L’esperimento si colloca nell’ambito dei sistemi satellitari di ricognizione per nascondere il collaudo di missili balistici vietati dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. L’esercito sudcoreano ha affermato che il missile nordcoreano lanciato da Sunan ha raggiunto un’altezza di circa 560 km e ha volato per 270 km verso il mar del Giappone. “South China Morning Post” ricorda che questi blitz di test di armi riprendono dopo un mese di relativa calma durante le Olimpiadi invernali di Pechino, e mentre il mondo sta concentrando sull’Ucraina ogni attenzione. Il lancio di domenica è il nono di Pyongyang finora quest’anno, compreso il test del suo missile più potente dai negoziati del 2017.
    La Corea del Nord, inoltre, continua presumibilmente a produrre materiali fissili per armi nucleari nel suo principale Centro di ricerca scientifica nucleare di Yongbyon. È quanto ritiene il sito web di monitoraggio statunitense “38 North”: «Le recenti immagini satellitari commerciali del Centro indicano la produzione in corso di materiale fissile, sia plutonio che uranio arricchito; queste attività, così come la graduale espansione e l’evidente occupazione di alloggi per il personale negli ultimi anni, suggeriscono tutte che il complesso è pronto per l’espansione».



4 marzo

  • Il servizio di notizie di difesa internazionale “Battlespace” annuncia l’attesa scelta della marina polacca che aveva indetto una gara per l’acquisto di una nuova classe di fregate. Se l’è aggiudicata il progetto britannico Arrowhead 140 di Babcock International.

    L’azienda londinese ha detto di aver concluso una serie di accordi di partenariato di cooperazione strategica con il consorzio PGZ-Miecznik responsabile della consegna di tre fregate dai cantieri navali della città portuale polacca di Gdynia. Anche i fornitori di sistemi chiave nel programma Miecznik sono coinvolti: Thales UK, insieme al suo partner locale OBR CTM, fornirà il sistema di gestione del combattimento Tacticos, mentre il missile Sea Ceptor di MBDA UK fornirà capacità antiaeree.
    La decisione a favore di Babcock significa che è stata declinata la proposta Meko A-300PL di ThyssenKrupp Marine Systems. Un segnale di rivalità tra le due nazioni mitteleuropee, che affonda nella storia di infiniti conflitti tra nazionalismi locali durante i quali le popolazioni sarmatiche, dei Carpazi e anche dei Sudeti si sono sempre sentite schiacciate tra Prussia e Russia.


Babcock sta costruendo cinque fregate di tipo 31 per la Royal Navy britannica utilizzando la piattaforma Arrowhead 140. E l'anno scorso pure l'Indonesia ha selezionato la Arrowhead 140 per il prossimo programma di fregate

3 marzo

  • Moses Khanyile, coordinatore del Consiglio Nazionale dell’Industria della Difesa sudafricano (Ndic), ha informato il 3 marzo il Comitato Permanente Congiunto sulla Difesa che erano state superate le remore morali alla vendita di armi verso alcuni paesi del Medio Oriente (Eau, Turchia, Oman, Arabia saudita) per i quali le consegne erano bloccate dal 2019, quando il National Conventional Arms Control Committee (Ncacc, l’organismo di controllo che il Sudafrica di Mandela si è dato a causa della tradizionale esportazione di armi immorali dell’epoca dell’apartheid) insisteva nella pretesa di verificare che i compratori non vendessero le armi a terzi belligeranti (per esempio in Yemen); il sito “Defenceweb”, vicino al ministero della Difesa sudafricano, compiaciuto ha dato notizia che sono stati così subito sbloccati 5,5 miliardi di rand in prodotti bellici da consegnare a emiratini e sauditi e altri 21 miliardi di euro di armi devono ancora essere destinati.
    Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti rappresentano almeno un terzo delle esportazioni di armi del Sudafrica e avevano rifiutato le ispezioni considerandole una violazione della loro sovranità e anche l’Oman e l’Algeria le avevano rifiutato, trovandosi con le importazioni bloccate. Contemporaneamente Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania hanno esportato in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, tra il 2016 e il 2020, attrezzature per un valore di 135 miliardi.
    C’è stato un forte calo in termini di consumo locale di difesa, ora l’industria bellica di Pretoria può tornare a fare affidamento sulle esportazioni… in Yemen, senza infingimenti.

Mortaio 120 mm Rheinmetall - Pretoria

Mortaio 120 mm Rheinmetall – azienda tedesca sussidiaria italiana su brevetto sudafricano; l’arma usata dai miliziani antihouthi nella strage dell’ospedale di Hodeida



3 marzo

  • Primo carico di armi consegnato dall’Italia all’Ucraina: tracciato da Italmiradar, il decollo di un C-130 dell’Aeronautica Militare italiana dallo scalo di Pisa e atterrato all’hub Nato in Polonia di Rzeszow Jasionka. A più riprese “PagineEsteri” ha portato l’attenzione su questa consegna a domicilio conto terzi. Nonostante i fumosi tentativi del ministero della Difesa italiano di occultare o perlomeno secretare l’entità e il dettaglio della spedizione di armi, Antonio Mazzeo già il 1° marzo aveva ricostruito almeno la tipologia, se non la quantità: missili terra-aria Stinger; missili Spike anticarro e elicotteri; missili antitank Milan e lanciarazzi tedeschi Dynamit-Nobel Panzerfaust 3; mitragliatrici MG 42/59 e Browing cal. 12,7; munizioni calibro 7,62 Nato; sofisticati apparati elettronici “anti-IED” per individuare ordigni nascosti.
    Questi ultimi – palesemente gli unici materiali bellici non letali – sono gli unici equipaggiamenti in consegna denunciati ufficialmente dal documento della Camera che autorizzava il 25 febbraio una spesa di 12 milioni di euro, messi a disposizione dal sito “Starmag

    Documenti ufficiali Camera deputati per le armi non letali

    Documenti ufficiali Camera deputati per le armi non letali consegnate al paese belligerante Ucraina

    Per il decreto del 28 febbraio – che estende anche lo stato di emergenza a fine anno – che stanzia 110 milioni non sono stati divulgati documenti in cui si specifichi di preciso quali armi letali invece vengono regalate a una nazione impegnata in un conflitto.
    Si era spergiurato nei giorni scorsi che nessun militare italiano avrebbe messo gli stivali sul terreno. Infatti “Il Sole 24 ore” informa che 500 unità di personale altamente addestrato scelto dal Comando operativo Forze speciali appartenenti agli incursori della Marina (Comsubin), Col Moschin, alle Forze speciali dell’Aeronautica e alla Task Force 45 si vanno ad aggiungere ai 400 uomini già impiegati sul fronte Est della Nato, ossia i 240 alpini in Lettonia e i 138 uomini dell’Aeronautica in Romania


2 marzo

  • Africa-Express” dà notizia che il 2 marzo si è tenuto il dodicesimo Comitato bilaterale Italia-Algeria del settore della difesa, il direttore nazionale degli Armamenti italiani generale di corpo d’armata Luciano Portolano, insieme all’omologo algerino, generale Mohamed Salah Benbicha, il cui scopo principale era la firma su un protocollo di intenti per una joint venture tra Leonardo e l’azienda algerina Establissement Public de Caractère Industriel/Establissement de Developement des Industries Aeronautiques (Epic/Edia) per la realizzazione di uno stabilimento di elicotteri da guerra a Aïn Arnat, nella provincia di Sétif.Il Comitato bilaterale trae origine dall’accordo nel settore della Difesa tra il governo della Repubblica Italiana e il governo della Repubblica algerina democratica e popolare, firmato a Roma il 15 maggio 2003. L’incontro ha anche avuto un momento di confronto sul conflitto in Ucraina (che ha visto l’astensione dell’Algeria). L’Algeria vede l’Italia come un importante partner di riferimento, dal punto di vista degli equipaggiamenti militari, sia per l’elevata affidabilità dei prodotti italiani e sia per la disponibilità delle industrie italiane ad avviare collaborazioni che prevedano la cooperazione mediante l’interscambio, il trasferimento di tecnologie e la formazione di equipaggi, di personale tecnico e delle maestranze in Algeria…. Invece l’Italia vede l’Algeria come una prateria di gas alternativo alle pipeline che riforniscono di gas russo i serbatoi italiani, forse in cambio di tecnologie belliche (eventualmente utili per un’ipotetica guerra contro il Marocco per la questione del Saharawi)?

1° marzo

  • L’esercito statunitense aveva stanziato 50 milioni di dollari nel progetto dell’anno fiscale 2022 avviato per sviluppare una tecnologia da integrare negli armamenti in dotazione dell’esercito entro il 2023, basata sullo sviluppo e integrazione di un emettitore di microonde ad alta potenza (High-power Microwaves – HPM) in grado di neutralizzare droni in volo singolo o in stormo. Il prototipo aveva evidenziato problemi nel contenimento degli effetti collaterali di questi intercettori.

    L’arma conosciuta come THOR – ovvero Tactical High Power Operational Responder – era stata presentata già alla Kirtland Air Force Base, New Mexico, nel febbraio 2021: un’arma contraerea specificamente indirizzata all’annientamento di droni attraverso onde elettromagnetiche. “The Defense Post” ne aveva accennato nel giugno 2021,

    Il 1° marzo 2022 sempre “The Defense Post“, ha dato notizia che l’Air Force Research Laboratory ha assegnato a Leidos Inc. un contratto da 26 milioni di dollari per la prossima generazione di controdroni, chiamato da Adrian Lucero (il responsabile del progetto per Afrl) significativamente Mjölnir, che sarebbe il mitico martello di Thor nella saga scandinava, questo sistema userà la tecnologia di THOR, con miglioramenti che secondo l’AFRL lo renderanno più capace e affidabile: con una gamma migliorata e una tecnologia per rilevare e seguire i droni: i militari abbatterebbero i droni anche con pallottole tradizionali, ma le raffiche radio hanno un raggio d’azione più ampio, sono silenziose e istantanee.


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]]> Il “nuovo” ordine mondiale e il gioco delle parti da Astana a Kyiv https://ogzero.org/il-gioco-delle-parti-e-il-nuovo-ordine-mondiale/ Sun, 27 Mar 2022 21:52:07 +0000 https://ogzero.org/?p=6901 Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 […]

L'articolo Il “nuovo” ordine mondiale e il gioco delle parti da Astana a Kyiv proviene da OGzero.

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Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 spunti offerti da Eric Salerno e Sabrina Moles, che ci hanno rievocato le intuizioni messe in gioco in Astana e i 7 mari di Antonella De Biasi. Così “OGzero” nel momento dell’annuncio di un tavolo di pace imbandito a Istanbul comincia a credere che lo spirito di Astana non è sfumato del tutto e su questo dubbio ha cercato di ricostruire i cocci prodotti dall’esplosione del multilateralismo nei rapporti tra stati, dallo scardinamento di alleanze esili, dalla individuazione del momento in cui il Cremlino ha pensato che fosse più opportuno far saltare gli equilibri. Un istante che Antonella nel suo scritto, steso a ottobre, preconizzava individuando nella ignominiosa ritirata americana dall’Afghanistan il segnale della debolezza per cui era possibile azzardare il morso del serpente.

Salvo poi accorgerci che ciascuno ha tratto vantaggio o imponendo spese militari, o annettendosi nuovi territori rivieraschi, o soffiando su un nazionalismo sovranista, cancellando piani ecologisti e ridistribuendo energia con un maggior profitto per i produttori. Distribuito sciovinismo e testosterone in tutti i paesi del primo mondo.

Perciò a partire dalla chiosa del libro, proviamo con questo editoriale a mettere in fila gli eventi di queste ultime 5 settimane sulla scorta di quello che il volume di Antonella De Biasi aveva già individuati come potenziali snodi critici; andremo a trovare nel libro verifiche delle analisi prodotte a posteriori dagli equilibri scaturiti dalla “spezial operazy” di Putin, così da inserirla nell’annoso flusso geopolitico senza gli isterismi cavalcati dal profitto guerrafondaio. Infatti il volume si chiude con una frase emblematica: «Il gioco di Astana, seppur precario, in fondo è anche un gioco delle parti» e le dichiarazioni e le mosse diplomatiche di fine marzo seguono il canovaccio.


Il conflitto in corso è figlio della interpretazione data da una nazione come la Russia al periodo governato da una sorta di multilateralismo: se ne riconoscono i metodi inseguendo i gangli della dottrina Gerasimov (mai realmente scritta o teorizzata, ma resa evidente dalla prassi bellica russa), il cui scopo principale era quello di spezzare l’unilateralismo derivato dalla fine della Prima guerra fredda, in particolare: la soluzione cecena, da cui deriva la carriera del generale; Georgia e Crimea, rimaste senza risposta da parte delle altre potenze… ancora più palese l’uso strumentale del Donbass oggi, come 8 anni fa a suffragio della considerazione dei territori a est del Dnepr come giardino di casa.

Nel caso del conflitto in Nagorno-Karabakh gli armeni hanno pensato erroneamente che Mosca li avrebbe difesi “contro una minaccia turca e musulmana”, come sostiene il professore francese esperto di islam Olivier Roy. Così non è stato perché in fondo l’immagine di una Russia cristiana, ultimo argine all’islam di cui l’Armenia si sente avamposto, serve solo a intermittenza e sempre più raramente come topic/pedina intercambiabile per la personale partita a scacchi di Putin, per ristabilire la grandezza della Russia agli occhi degli occidentali e dei paesi rappresentati dalle economie emergenti. Alcune reazioni caute e sottotono lasciano pensare che Putin non solo fosse al corrente dell’offensiva azera ma che ne abbia addirittura discusso i limiti con il regime di Aliyev così da riprendere solo i territori che, secondo il diritto internazionale, sono azeri. L’estrema destra occidentale ha sempre visto la Russia di Putin, costruita a sua immagine e somiglianza negli ultimi vent’anni, come il baluardo dei valori cristiani minacciati dall’islam. Il Cremlino sfrutta quando servono queste simpatie da sempliciotti. L’obiettivo di Putin è riprendersi e controllare his back-yard.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 49)

Ma anche e soprattutto andava preso nella giusta considerazione l’interventismo in Siria. E in Libia: non si dimentichi il voto del 3 marzo all’Onu che ha visto la metà di paesi africani compromessi per armi, sicurezza e traffici con la Russia compattamente astenuti, in particolare allarmanti le astensioni dei paesi maghrebini fornitori di gas e con interessi – anche militari – intrecciati con il Sud dell’Europa; tutto questo dinamismo del Volga sullo scacchiere internazionale è un prodotto degli accordi di Astana, che è l’altro snodo diplomatico-pragmatico attraverso cui passa la strategia russa di questo periodo e che ha finora imposto i dossier al mondo.

Ma la preparazione alla guerra classica, dotandosi di armi sofisticate, da parte dell’Ucraina attraverso gli stessi meccanismi di alleanze e accordi ibridi con ciascuna potenza locale (e talvolta globale, ma cambiando ogni volta campo contrapposto) ha scombinato il disegno di Shoigu, Gerasimov e Putin. Questa si può considerare una conseguenza del fatto che la Nato si è risvegliata dal coma (indotto da Trump, sodale della deriva reazionaria putiniana mondiale) di cui parlava Macron, ma lo ha fatto predisponendosi a rispondere alla guerra che Bruxelles (e soprattutto Arlington e Langley) sapeva sarebbe stata scatenata: in che modo si preparava? armando gli ucraini con ogni ordigno convenzionale o meno, sia attraverso le armi in dotazione agli alleati europei (baltici in primis), sia con i droni turchi, che con alcune armi di fabbricazione israeliana – ma non tutte, come vedremo – e producendo una propaganda nazionalista identitaria per sollevare lo spirito bellico dell’Europa. Addirittura gli S-400 che furono motivo di sanzioni americane contro la Turchia potrebbero diventare paradossalmente strumenti di difesa per gli ucraini se Ankara si farà convincere a passarle a Zelensky, o le porrà sulla bilancia della trattativa: la tecnologia di cui sono dotate sicuramente è efficace contro le macchine belliche del cui impianto sono parte.

L’amministrazione Biden è ben consapevole che deve tenere la Turchia dentro l’asse Nato per impedire che passi nell’orbita russo-cinese. Così Erdoğan userà questo punto per ottenere vantaggi almeno nelle relazioni bilaterali. La questione critica più importante per gli Usa è il sistema missilistico S-400 che Erdoğan ha acquistato da Putin, non compatibile con quello Nato

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 84).

Si può dunque parlare di una proxy war combattuta in territorio europeo e con obiettivi gli interessi europei, che vede gli Usa defilati e non interventisti, ma guerrafondai e impegnati a far esporre l’UE, tagliando così tutti i ponti (e gli oleodotti) euro-russi che in particolare la Germania merkeliana (e di Schroeder) avevano costruito: doppio risultato per gli americani che vendono all’altra sponda atlantica il loro gas poco ambientalista, piazzando (o affittando a caro prezzo) anche le navi che trasportano i rigasificatori.

Ora che gli altri protagonisti in commedia hanno appreso come prendere le misure al sistema bellico ordito da Mosca dalla Cecenia in avanti, accettando una vera e propria guerra con migliaia di morti e smaltimento di magazzini di armi novecentesche; ora che si è dimostrata la marginalità della UE e la sua riduzione a mera potenza locale succube della Nato, mentre la Russia – pur non sfondando e rimettendoci in immagine guerresca e di efficienza militare, piangendo molti più morti e dissanguandosi in spese  – si prende tutte le coste del Mar Nero settentrionale e del mar d’Azov; ora rimane in piedi il modello di rapporti e accordi spartitori; scambi e traffici multilaterali che han funzionato per spartirsi territori di confine, operazioni militari e aree di riferimento tra potenze locali: quel sistema di accordi, che Antonella De Biasi ha correttamente descritto nel suo testo dedicato agli Accordi di Astana, e dove si possono rintracciare in nuce le dinamiche e gli equilibri che ora dopo la guerra spiccano nella narrazione della resistenza ucraina, trova una riproposizione nella fornitura di armi e nelle candidature alla composizione del conflitto da parte di potenze “locali”. Insomma: gli Accordi di Astana vedono trasformati gradualmente i ruoli dei singoli attori e la chiave che ne promana vede protagonisti Turchia (che ospita sia gli yacht degli oligarchi – magari sfuggiti al Novichok dell’Fsb –, sia le denunce dei dissidenti) e Israele (che accoglie ebrei russi e ebrei ucraini), nella totale assenza di strategia Usa/EU.

In fondo la prospettiva di incontri bilaterali russo-ucraini riferita da David Arakhamia, leader parlamentare ucraino e partecipante ai negoziati, previsti per il 28-30 marzo a Istanbul (e/o successivamente a Gerusalemme, probabilmente) con padrini gli equidistanti Turchia e Israele che stanno facendo avance l’un l’altro per ritessere reciproci rapporti diplomatici dopo l’incidente della Mavi Marmara evocato da Murat Cinar nel suo articolo, appare come i memoranda d’intesa stipulati durante il vuoto trumpiano riempito ad Astana, evocati da Antonella De Biasi:

Erdoğan e Putin per primi, e a seguire l’appena eletto Raisi, cercheranno di mantenere l’influenza guadagnata negli ultimi quattro anni della presidenza Trump facendo buon viso a cattivo gioco. Si sa che le alleanze non sono per sempre – anche e soprattutto tra leader autoritari e populisti –, ma ogni volta che ci sarà una crisi, e quindi anche un’occasione per aumentare l’influenza nello scacchiere internazionale, si farà sempre in tempo a scrivere inediti memorandum d’intesa e scegliere una nuova suggestiva località per sottoscriverli.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85)

 

E il terzo protagonista degli Accordi di Astana, l’Iran, che vi ha partecipato da potenza locale impegnata a mantenere la preminenza sulla mezzaluna sciita e con l’intento di contribuire alla marginalizzazione delle potenze europee, non ha avuto reazioni dopo la crisi afgana e non prende posizione in quella attuale: è apparso chiaro che la repubblica islamica viene tenuta in sospeso per il fatto proprio che a Putin serve l’appoggio di Bennett e quindi potrebbe far pesare un veto alla ripresa degli accordi Jcpoa, nel momento in cui pare che l’amministrazione Biden sarebbe invece disponibile a riprendere i negoziati sul nucleare iraniano, per focalizzarsi sull’indo-pacifico. Come per gli altri teatri delle guerre scatenate e composte ad Astana, il ruolo iraniano è stato in genere di supporto non attivo agli accordi: una sorta di notaio che assicura il proprio assenso in cambio della non intromissione nei propri affari.

Gilles Kepel su “Le Grand Continent” anticipando stralci del suo ultimo libro: «L’amministrazione Biden, il cui primo impulso diplomatico è consistito nel relativizzare il peso del Medio Oriente nella sua agenda politica estera a favore delle questioni cinesi e russe, e nel far prevalere nella regione la riattivazione del Jcpoa sull’antagonismo israelo-palestinese, le cui asperità si pensava fossero state cancellate dagli Accordi di Abramo, si trova così costretta a giocare dietro le quinte durante la guerra del maggio 2021», chiamata dal professore francese “la guerra degli undici giorni”. In questo nuovo caos con gli smottamenti nei paesi dell’area mediorientale, caucasica e mediterranea la Libia e quel che accadrà a cavallo del nuovo anno, determineranno i confini geopolitici degli attori di Astana, nello specifico la Turchia e la Russia.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85).

Applicazione di un modello

Qui infatti ritroviamo attivo come sempre il compare di Putin di tanti incontri ad Astana: Erdoğan ha mantenuto lo stesso atteggiamento ambiguo che lo ha contraddistinto in Siria, in Libia, in Nagorno-Karabakh – non a caso di nuovo gli azeri stanno sfruttando l’occasione che impedisce a Mosca di difendere l’alleato armeno – quando ha sostenuto in genere la parte avversa al fantoccio locale di Putin, salvo poi comporre ogni questione attraverso una spartizione de facto di territori, interessi, occupazioni. Anche in questo caso Erdoğan ha fornito a Zelensky armi e sostegno da appartenente alla Nato, ha mantenuto un ruolo ambiguo sui Dardanelli e sull’accesso al Mar Nero in relazione alla Convenzione di Montreux – e anche in questo caso la sottolineatura di Antonella De Biasi di p. 48 di Astana e i 7 mari, relativa all’appoggio russo ad abkhazi e agiari che solleva questioni ataviche in contrapposizione russi e turchi, sostenitori dell’etnia tatara, poneva già il problema di schieramenti – ma poi non aderisce a sanzioni ed embarghi… e questo consente ad Ankara di proseguire la diplomazia di Astana verso Mosca e di proporsi come mediatore, forse per la sua esperienza di occupazione del Rojava e strage di curdi. Ruolo che è in grado di svolgere l’altro campione di democrazia: Israele che da 55 anni occupa territorio palestinese e applica l’apartheid. Anche Israele compare 49 volte nel libro di Antonella De Biasi, pur non essendo tra gli ospiti di Astana, se non in veste di Convitato di Pietra: infatti Tel Aviv ha mantenuto un profilo basso, senza contrariare il Cremlino, sia per i milioni di russi e ucraini immigrati in Israele, sia per gli innumerevoli interessi che legano i due paesi; peraltro ha fornito qualche ordigno a Kyiv, senza consentire l’uso di Pegasus o di Blue Wolf, e tantomeno Iron Dome, sistema di difesa antiaerea richiesto dall’Ucraina fin dal 2019 (per dire da quanto si stavano preparando alla “sorprendente” aggressione russa). E soprattutto, come dice Eric Salerno: «Israele ha bisogno di alleati» e questo è reso ancora più evidente dall’accoglienza per gli Accordi di Abramo che ha stipulato prontamente con alcuni paesi arabi.

Israele e Turchia evidenziano il proseguimento sotto altre forme del multilateralismo sotto il cappello della crisi russo-ucraina: come ci ha detto Eric Salerno nella puntata di Transatlantica24 per quanto riguarda Tel Aviv – ma vale anche per Ankara, nonostante il disastro economico: se va in porto l’occupazione coloniale di tutte le zone in cui la Turchia è impegnata, il colonialismo predatorio può rimpinguare le casse. A entrambe il ruolo di potenze locali va stretto e sia nell’area interessata dalle operazioni belliche, sia nel resto dei 7 mari presi in considerazione nel volume dedicato da OGzero ad Astana, si propongono come interlocutori privilegiati, spesso in sostituzione degli interessi delle potenze coloniali europee classiche, assurgendo a un ruolo di potenze più ampia di quella locale mediterranea.

Il ridimensionamento del ruolo dell’Occidente nel panorama internazionale è determinato soprattutto dalla radicale contestazione del suo modello politico, economico e culturale attuata dalla Cina e in secondo luogo dalla Russia. Non è un caso che Cina e Russia siano tra i principali sostenitori di due organizzazioni multilaterali come i Brics e la Shangai Cooperation Organization (Sco). Di recente i due paesi hanno iniziato a collaborare per ridurre la loro dipendenza dal dollaro.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Dunque di nuovo le potenze asiatiche evidenziano la inadeguatezza della prosopopea dell’UE, che preferisce riarmarsi, dissanguandosi e riducendo a nulla il sistema welfare liberal-democratico, pur di rincorrere sul piano militare le altre potenze guerrafondaie e venditrici di tecnologie militari per sostenere le industrie belliche anche europee, ringalluzzite dalla guerra per procura al confine eurasiatico, evocativo di altre invasioni, ma che sembra preludere a un ridimensionamento tanto dell’Europa, quanto della Russia stessa, ridotti a belligeranti locali di una guerra a cui stanno alla finestra le due vere potenze globali, che preparano il confronto in ambito indo-pacifico. Gli Usa ottengono – dopo che da due amministrazioni lo richiedono – che tutti gli europei destinino il 2% del pil alla “sicurezza”, sgravando gli americani di parte della spesa militare; la Cina – come ci spiegava Sabrina Moles nell’incontro di Transatlantica24 – senza schierarsi, ma lanciando segnali di propensione per l’invasore, pur facendo attenzione a non confondersi con una potenza sull’orlo del fallimento come la Russia che ha il pil di una provincia cinese (il Guandong), può trarre vantaggi, se non si prolunga troppo la crisi e se non si propone come mediatrice, perché rischierebbe di venire degradata al rango di potenza intermedia come appunto Turchia e Israele. I mediatori nel gioco delle parti.

Dopo la normalizzazione delle relazioni sino-russe alla fine della Guerra Fredda, la Russia è emersa come un importante fornitore di armi e tecnologia per la Cina. Quella relazione era un’ancora di salvezza finanziaria per l’industria della difesa russa in un momento in cui gli ordini di approvvigionamento nazionali si erano prosciugati. Ma da allora le vendite russe alla Cina sono diminuite man mano che l’industria della difesa cinese è maturata «in misura significativa grazie al trasferimento di tecnologia e al furto dalla Russia», commentano Eugene Rumer e Richard Sokolski sul sito di Carnegie Endowment for international peace. La Cina ora compete con la Russia nei mercati delle armi. Attualmente le vendite di armi dalla Russia alla Cina rappresentano solo il 3% del commercio totale annuo dei due paesi, che supera i 100 miliardi di dollari. Con l’accesso alla tecnologia occidentale tagliato a causa delle sanzioni, l’industria della difesa russa ha guardato alla Cina come una fonte alternativa di innovazione che non ha la capacità di sviluppare a livello locale.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Può essere che il prossimo teatro di questo “Risiko per procura” torni in zona balcanico-caucasica (Nagorno Karabakh ed enclave etniche della Repubblika Srpska, oppure le tensioni panslavistein Bosnia); può darsi si inaspriscano le dispute che in Africa vedono impegnati militari turchi e miliziani della Wagner in contrasto – soprattutto in Françafrique – con gli eserciti coloniali classici; sicuramente Russia e Cina stanno collaborando assiduamente per spartirsi il Sudamerica, grazie alla distrazione di Biden che prosegue il disimpegno del suo predecessore.

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La guerra in Ucraina cambierà le scelte di Ankara? https://ogzero.org/la-posizione-di-ankara-nel-conflitto-russo-ucraino/ Fri, 18 Mar 2022 14:40:19 +0000 https://ogzero.org/?p=6806 Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di […]

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Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di accordi per spartire senza problemi le aree lasciate “libere” dal disimpegno dell’America trumpiana, dimostrando forse un inizio di affanno a svolgere il ruolo di grande potenza. Forse si può inquadrare la “spezial operazy” come una delle tappe delle spartizioni di Astana, che hanno visto diversamente impegnati gli eserciti e le milizie di Ankara e Mosca e quindi l’equidistanza  tra i contendenti da parte di Erdoğan fa il paio con l’interposizione di Putin in finale di conflitto in Nagorno Karabakh concluso a favore dell’Azerbaijan dai droni Bayraktar, protagonisti anche nel confronto bellico in Ucraina. L’equilibrio di Ankara, apparentemente sbilanciato a favore di Kiev (in chiave atlantista), ma attento a lasciare ampi spiragli di apertura a Mosca per proporsi come mediatore – forse per esperienza diretta nell’occupazione imperiale di territori limitrofi al proprio come il Rojava –, può ottenere riconoscimento internazionale, premiando l’ambiguità e la politica dei due forni di Erdoğan? Ed è vera competizione tra Israele e Turchia per ottenere il ruolo di paciere («proprio loro!?!», diranno curdi e palestinesi), o non è il gioco delle parti, per cui ognuno appare come campione valido per ciascuno dei due contendenti, perché tutti legati a filo doppio dallo scambio delle armi?

Vera rivalità tra Israele e Turchia per il ruolo di mediatore?

L’ossessione di OGzero per Astana arriva fin qui, lasciando spazio alle intuizioni di Murat Cinar…


Due paesi importanti per la Turchia sono in piena guerra; Ucraina e Russia. Dai droni ai pomodori, dalla centrale nucleare agli S-400, dal turismo al grano… e dal gas al riciclaggio di denaro. Per il governo centrale della Turchia, Mosca e Kiev sono due partner strategici con i quali ha consolidato dei rapporti economici, politici e militari in questi ultimi anni.
Ora invece questi due vicini stanno attraversando un forte conflitto armato tra loro. Dunque qual è stata, finora, la posizione di Ankara?

Le prime scelte

La politica della Turchia, dal 24 febbraio, quando la Russia ha iniziato a invadere l’Ucraina, mostra che rimarrà in armonia e coordinamento con l’occidente e la Nato, ma senza mettere in pericolo il suo legame con questi due paesi.

Atlantismo

La Turchia, che ha attuato la Convenzione di Montreux e ha impedito a più navi da guerra russe di accedere al Mar Nero, attraverso il mar di Marmara e gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo, afferma che non intende imporre sanzioni alla Russia e che farà del suo meglio per mantenere aperti i canali di dialogo con Mosca per la soluzione del problema, accolto con favore anche dall’Occidente.
Con le dichiarazioni rese il giorno dell’inizio dell’operazione, che la Russia definisce “operazione militare speciale”, la Turchia ha chiesto il rispetto dell’integrità territoriale e dell’unità politica dell’Ucraina e ha dichiarato di rifiutare l’attacco russo. La Turchia, che non ha riconosciuto l’invasione e l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014, ha rivelato che continuerà ad agire insieme all’opinione pubblica internazionale con questa posizione che ha assunto. La Turchia ha anche appoggiato il testo della risoluzione di condanna della Russia all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (Onu).

Oltre a condannare la Russia, la Turchia ha anche fornito all’Ucraina il massimo livello di sostegno. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan, il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky e i ministri degli Esteri e della Difesa turchi si sono incontrati spesso con le loro controparti ucraine e hanno discusso degli sviluppi riguardanti l’occupazione russa esprimendo il sostegno della Turchia alla sovranità dell’Ucraina.
L’uso efficace dei droni armati “made in Turkey”, Bayraktar venduti dalla Turchia, che negli ultimi anni ha approfondito la cooperazione con l’Ucraina nel campo dell’industria della difesa, ha reso ancora più importante il dialogo tra i ministri della Difesa dei due paesi. Le dichiarazioni delle autorità ucraine di voler acquistare più droni dalla Turchia si sono riflesse anche sulla stampa durante questo processo.

Droni autarchici turchi: l'esercito di Ankara si fornisce di ogni dettaglio tecnologico dall'industria nazionale per equipaggiare il proprio gioiello bellico: i sistemi aerei senza pilota

Bayraktar-TB2 Sịha, che fanno strame dei carri armati russi incolonnati.

Sin dall’inizio della guerra, la Turchia ha annunciato di aver iniziato a inviare aiuti umanitari in Ucraina. Con tutti questi passi, la Turchia ha dimostrato di sostenere l’Ucraina.

Caro amico Putin

Il presidente della Repubblica di Turchia, prima e dopo l’inizio dell’operazione, ha dichiarato: «Non rinunceremo alle nostre relazioni speciali né con l’Ucraina né con la Russia» e ha lanciato il messaggio che cercherà di mantenere una politica equilibrata anche se la crisi approfondisse.

Tuttavia, ciò non ha impedito ad Ankara di «invitare Mosca a interrompere l’operazione il prima possibile». Nelle loro dichiarazioni, il presidente Erdoğan e il ministro degli Esteri Mevlüt Çavuşoğlu hanno sottolineato che l’operazione militare ha messo in pericolo la sicurezza sia regionale che mondiale e che la Russia dovrebbe rinunciarvi il prima possibile. Nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa è stato anche affermato che Çavuşoğlu ha trasmesso direttamente questo richiamo al ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, con il quale aveva parlato al telefono.
La Turchia è stata anche tra i paesi che hanno criticato le minacce sventolate da Putin sull’eventuale utilizzo delle armi nucleari. İbrahim Kalın, il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, ha definito “sconcertante” il fatto che Mosca abbia messo sul tavolo la carta nucleare.

Con la Nato ma…

La dedizione della Turchia al patto transatlantico è molto discutibile da parecchi anni. Sia Trump sia Biden, diverse volte hanno criticato Ankara per le sue scelte militari e politiche in Siria e per le sue relazioni con la Russia. Mentre gli Usa sono arrivati anche alle sanzioni economiche e militari, con la Grecia e la Francia ci sono stati dei momenti di grande tensione e reciproche minacce in questi ultimi 2 anni.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Settembre 2020, dispute tra appartenenti alla Nato nel Mediterraneo orientale: Grecia e Francia contro Turchia.

Tuttavia dalla guerra in Libia fino al caso degli uiguri, dall’Afghanistan alla produzione militare joint venture con gli alleati, dall’occupazione russa in Crimea e ora con l’appoggio a Kiev, possiamo dire che la Turchia ha seguito molto fedelmente la linea politica, economica e militare della Nato.

… It’s the economy…

La guerra in Ucraina arriva in un momento molto importante per la Turchia; sia per le sue relazioni forti con Mosca sia per la devastante situazione economica e politica che Erdoğan deve affrontare a casa. Un governo ai minimi storici nei sondaggi (meno di 35%) un anno prima delle elezioni presidenziali e parlamentari, sia per il lavoro di grande successo che portano avanti i sindaci delle opposizioni eletti nelle grandi città nel 2019 sia per l’enorme corruzione sempre più conosciuta e evidente che rappresenta il governo e la famiglia del presidente della Repubblica. Ovviamente a questa situazione catastrofica politica bisognerà aggiungere anche la crisi economica senza precedenti. Un’inflazione che supera la soglia del 130%, una Lira che perde il suo valore ogni giorno davanti alle monete straniere, una povertà diffusa e terribile e un vuoto nel fisco che spinge Ankara a svendere qualsiasi cosa al capitale russo, cinese e mediorientale.

… l’intermediario

Insomma: le scelte discutibili, radicali e pericolose di Erdoğan, operate in questi ultimi anni per consolidare un rapporto forte con Putin, fanno paradossalmente sì che la Nato trovi in Ankara un alleato a cui attribuire un ruolo chiave in questo conflitto. Quello del mediatore. Dall’altro lato Erdoğan non vorrebbe assolutamente perdere l’occasione per fare una forte propaganda elettorale nella politica interna portando a casa prestigio, rispetto e forse anche un po’ di soldi, vista la situazione economica e elettorale devastante.

Mediazione

Infatti l’incontro importante ma non fruttifero, avvenuto ad Antalya in Turchia, tra il ministro degli Esteri russo Lavrov e quello ucraino Kubela il 10 marzo è una delle dimostrazioni del fatto che il governo centrale vorrebbe lavorare come mediatore in questo conflitto, molto probabilmente per portare a casa un paio di carte vincenti. L’impegno apprezzato sia da Zelensky sia da Putin ha ricevuto anche gli applausi dal segretario generale della Nato, Stoltenberg che ha espresso la sua gratitudine direttamente al presidente della repubblica di Turchia quando l’ha incontrato durante la sua visita ad Ankara l’11 marzo.
Inoltre, la Turchia si era astenuta, il 26 febbraio, dal votare contro la sospensione della Russia nel Consiglio d’Europa, sulla base del fatto che «una completa interruzione del dialogo e la demolizione dei ponti non sarebbe vantaggiosa». Il ministro Çavuşoğlu ha dichiarato: «Non dovremmo concordare sull’interruzione del dialogo. C’è qualche vantaggio per il Consiglio d’Europa nel rompere i legami con la Russia qui? No. Ecco perché ci siamo astenuti nella votazione. Perché questo comporterebbe la chiusura del dialogo». Tuttavia il 17 marzo, durante una riunione straordinaria: «Il Comitato dei Ministri ha deciso, nel quadro della procedura avviata in virtù dell’articolo 8 dello Statuto del Consiglio d’Europa, che la Federazione russa cessa di essere membro del Consiglio d’Europa a partire da oggi, 26 anni dopo la sua adesione».

La diplomazia di Twitter e le telefonate private

Ankara, sin dall’inizio della guerra, ha mantenuto l’opinione secondo la quale tenere aperti i canali di dialogo con Mosca avrà un impatto positivo sul processo negoziale avviato tra funzionari russi e ucraini. Il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, İbrahim Kalın, in una dichiarazione alla stampa turca, ha affermato che la Turchia segue da vicino il processo negoziale tra le parti in guerra e trasmette i suoi suggerimenti alla Russia, soprattutto grazie al dialogo in corso.
A tutti questi passi e dichiarazioni ovviamente dovremmo aggiungere il continuo traffico di telefonate tra Ankara, Mosca e Kiev e i ringraziamenti di Zelensky direttamente verso Erdoğan comunicati ripetutamente su Twitter, per il suo sostegno

Importanti relazioni sia con Kiev sia con Mosca

In un’intervista rilasciata alla Cnn International, İbrahim Kalın ha dichiarato di non volere che i loro forti legami economici con Mosca, inclusi settori come l’energia, il turismo e l’agricoltura, siano danneggiati, e ha sottolineato che credono nei vantaggio provenienti da una condizione di dialogo alternativa all’imposizione di sanzioni.

La Turchia, che l’anno scorso ha ospitato circa 5 milioni di turisti russi (e 2 milioni di ucraini), ha preferito non assecondare i paesi occidentali che hanno chiuso il loro spazio aereo.

La Russia è il più grande fornitore di gas naturale della Turchia e sta anche costruendo la prima centrale nucleare del paese. I primi reattori dovrebbero essere messi in servizio nel 2023. Il volume degli scambi tra Turchia e Russia supera i 20 miliardi di dollari. I due paesi puntano ad aumentare questa cifra a 100 miliardi di dollari.

Questo rapporto commerciale in crescita vale anche per l’Ucraina. Secondo la Camera di Commercio di Istanbul (Ito) nel 2021 il volume commerciale superava i 7,4 miliardi di dollari Usa e nel 2022 l’obiettivo è raggiungere i 10. Solo nell’ultimo incontro avvenuto il 3 febbraio sono stati firmati ben 8 accordi commerciali tra Erdoğan e Zelensky. La collaborazione tra questi due paesi è in forte crescita anche nel campo militare.

Mediatori sì ma non da soli

La crisi energetica, l’interruzione dei rapporti commerciali, degli investimenti finanziari e del gigantesco riciclaggio di soldi nelle banche europee e in collaborazione con le mafie europee e la minaccia sulla sicurezza cibernetica sono solo alcuni punti che necessitano un piano B nel caso in cui le cose si mettessero molto male a lungo termine con Mosca. Dunque a questo punto insieme ad Ankara subentrano nel gioco due altri attori insospettabili: Grecia e Israele.
La Turchia, ultimamente, sembra che stia ricucendo i suoi rapporti con questi due “alleati”/vicini.

Israele, una volta “razzista” e ”terrorista” per Erdoğan

Infatti non è un caso che il presidente della Repubblica d’Israele, Isaac Herzog, abbia visitato la Turchia, incontrando il suo omologo turco il 9 di marzo. Una visita che era stata già organizzata ma ovviamente ha assunto un’importanza particolare in questo periodo esattamente come il contenuto delle dichiarazioni finali.

«Sia l’inizio di una nuova fase nelle relazioni tra questi due paesi. Dobbiamo rafforzare i nostri obiettivi commerciali soprattutto nel campo dell’energia»: erano alcune parole pronunciate da Erdoğan alla fine dell’incontro. Herzog invece ha voluto parlare anche della convivenza dei popoli, la pace tra le religioni e ha pure citato una poesia di Hikmet.

Secondo il conduttore televisivo israeliano, Mohammad Micedle, questi due paesi hanno obiettivi in comune in Siria e in Ucraina. Quindi devono lavorare insieme. Invece secondo, Jonathan Freeman, uno dei professori dell’Università di Gerusalemme il ruolo di questi due paesi acquisisce un valore aggiunto derivante dalla guerra in Ucraina soprattutto nell’ambito della sicurezza, dell’energia e dal punto di vista economico.

«Grecia e Cipro avranno le risposte che meritano» (Erdoğan, 14 ottobre 2020)

Lo stesso tipo di visita a Istanbul è stato effettuato il 13 di marzo anche dal primo ministro greco Kyriakos Mītsotakīs con Erdoğan.

L’incontro si è concluso con una serie di buoni intenti e progetti legati al «nuovo piano di sicurezza in Europa alla luce della guerra in Ucraina, lotta contro l’immigrazione irregolare e rafforzamento dei rapporti commerciali».

Una nuova fase, una nuova era positiva e felice meno di 2 anni dopo quel famoso momento di crisi registrato nelle acque dell’Egeo che portava quasi alla guerra questi due vicini storici; come l’incontro tra Erdoğan e Herzog mette la parola fine ai dissapori sorti nel maggio 2010 con la vicenda della Freedom Flotilla e l’assalto alla Mavi Marmara, nave turca assaltata dai servizi israeliani che causarono la morte di 9 marinai turchi.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Assalto del Mossad alla nave turca Mavi Marmara in rotta verso Gaza nel maggio 2010: causarono 9 morti tra l’equipaggio e il pretesto al presidente turco per ergersi a paladino della causa palestinese.

Oligarchi e oppositori già in Turchia

Approfittare della fuga dei capitali dai paesi in conflitto e isolati è una scelta ormai molto diffusa in diversi angoli del mondo. Esattamente come quello di aprire le porte agli oppositori che a lungo andare potrebbero rappresentare una “carta” politica importante nei confronti dell’alleato di oggi. La Turchia ha fatto queste mosse ospitando quell’enorme quantità di denaro dello stato libico e di quello venezuelano nei momenti di grande crisi economica, politica e militare. Questa scelta fatta da Tripoli e Caracas comporta fedeltà e collaborazione e per Ankara la parziale disponibilità di questi due paesi rappresenta anche un elemento di forza nei confronti dei suoi alleati. In merito alla presenza degli oppositori invece possiamo citare il caso degli uiguri in fuga dallo Xinjiang e dei tatari scappati dalla Crimea in due tempi diversi in questi ultimi anni, rendendo così la Turchia rifugio degli oppositori e degli oppressi per quegli attivisti che rappresentano “minaccia e problema” per gli alleati Cina e Russia.

La storica attrazione per Istanbul

Secondo il professore universitario, Aydin Sezer, la vicinanza geografica della Turchia fa sì che per chi volesse portare via il suo capitale dalla Russia la rende più accessibile e attraente rispetto alla Cina e ai paesi del Golfo. Nel suo intervento fatto in diretta il 7 marzo, organizzato dal portale di notizie “Gazete Duvar, Sezer sostiene che numerose aziende russe stanno già avviando operazioni di acquisto dei beni di lusso, immobili costosi e vari investimenti finanziari a Istanbul. La stessa notizia è stata approfondita il 15 marzo in un articolo di Nuran Erkul Kaya ed Emre Gurkan Abay anche sul sito dell’agenzia di stato “Anadolou Ajansi” e un’esaustiva carrellata di patrimoni investiti in Turchia da parte di oligarchi russi molto vicini a Putin è stata redatta da su “medyascope”.
In una notizia firmata da “Euronews”, il 15 marzo, invece si parlava di quelle migliaia di “benestanti” russi che hanno deciso di lasciare la Russia per via della loro opposizione contro la guerra ma anche perché pensano che una catastrofe economica sia in arrivo. Lo stesso argomento era stato reso pubblico il giorno prima anche da “The New York Times”. In questo articolo, firmato da Anton Troianovski e Patrick Kingsley, si citavano i principali paesi di destinazione come Armenia, Georgia, Uzbekistan, Kirghizistan e Kazakistan ma anche la Turchia. Perché?

Profughi russi a Istanbul

Un turco trasporta nella neve stambulina materassi comprati da organizzazioni umanitarie per aiutare profughi russi contrari alla guerra e timorosi della catastrofe economica russa.

I motivi sono parecchi. Per esempio, nonostante il fatto che i paesi europei abbiano chiuso i loro spazi aerei agli aerei russi, la Turchia non l’ha fatto e questa scelta rende Istanbul una delle alternative per i russi che vogliono lasciare il paese. Solo la Turkish Airlines continua a organizzare 5 voli al giorno per Mosca e, insieme ad altre compagnie, questo numero supera i 30 in alcuni giorni. Kirill Nabutov, un commentatore sportivo di 64 anni fuggito a Istanbul, nell’intervista rilasciata al quotidiano statunitense afferma che la storia si ripete. Anche la cugina della madre di Nabutov fuggì a Istanbul nel 1920 e da lì andò in Tunisia. Anche se non grande come gli ucraini, questa fuga ricorda quelle 100.000 persone in fuga dalla guerra civile negli anni Venti, dopo la rivoluzione bolscevica, rifugiate a Istanbul.

Politica interna appesa ai colpacci internazionali

Il ruolo della Turchia, da diversi punti di vista, possiede un peso importante in questa fase storica che sta attraversando prima di tutti l’Ucraina poi il resto del mondo. Questo ruolo senz’altro è dovuto alle relazioni che Ankara ha costruito in questi ultimi anni, quelle relazioni basate sul reciproco sfruttamento, esattamente come diversi leader mondiali fanno da tempo. A questo fattore sarebbe opportuno aggiungere anche la crisi diplomatica, economica, energetica e politica in cui si trovano alcuni alleati della Turchia. Come abbiamo visto nell’esperienza della “gestione dei migranti” e nei conflitti armati in Libia e Azerbaigian/Armenia, dove l’incapacità oppure l’indifferenza dell’Unione europea e della Nato subalterna, Ankara approfitta dell’occasione. Infine la situazione economica e politica, devastante, in cui si trova il governo di Erdoğan deve fare qualcosa. Un leader che ha sempre fatto alimentare la politica interna con quella estera non può perdere quest’occasione sperando di perdere a casa qualche vittoria. Ce la farà? Questo dipende anche dagli alleati e dai partner della Turchia.

L'articolo La guerra in Ucraina cambierà le scelte di Ankara? proviene da OGzero.

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LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A FEBBRAIO https://ogzero.org/studium/la-guerra-viene-con-le-armi-lo-spaccio-a-febbraio/ Wed, 02 Mar 2022 18:16:02 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=6583 L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A FEBBRAIO proviene da OGzero.

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La guerra è venuta con le armi: 24 febbraio 2022 invasione dell’Ucraina

Era nell’aria come un drone, la preparazione dell’aggressione della Russia ai danni dell’Ucraina erano chiari; forse i calcoli geopolitici sono stati sbagliati, non considerando il fattore umano o l’improvviso interesse pretestuoso dell’Occidente a cavalcare l’opportunità di smerciare armi e fondare l’esercito europeo, sottraendo risorse allo stato sociale.
Certo invece che chi ha scatenato il delirio bellico contava su numeri ben precisi di ordigni e sistemi di offesa per una guerra novecentesca, fatta di blindati, tank, mezzi di trasporto truppe (un esercito ben equipaggiato di 150.000 uomini) risalenti ancora all’Urss, la cui linea cupa e inquietante è inconfondibile. Però l’armata russa può contare su armi di fattura recentissima, dotate di tecnologie sofisticate, come il Sukhoi-57 “Felon”, un caccia invisibile multiruolo di V generazione con cannoncino frontale, usato in Siria, integrato dal drone da combattimento S-70 Okhotnik. E poi ci sono i missili ipersonici Zircon (in dotazione sui sottomarini con una gittata di 620 miglia) e Kinzhal (montati sui Mig-16), che volano a una velocità superiore a Mach 5 (cioè 9 volte più veloce del suono) e i razzi termobarici TOS-1, che contengono solo carburante e sfruttano l’ossigeno dell’atmosfera come ossidante; il TOS-1 opera in due fasi: nella prima, l’ordigno disperde idrocarburi affinché si crei una miscela nell’aria; una volta innescata, avviene la seconda fase per cui l’aerosol infiammabile brucia rapidamente e crea una violenta corrente d’aria diretta verso il centro di una depressione creata proprio dall’ordigno. Sono sufficienti pochi millisecondi per fare sì che la nuvola si incendi, crei l’esplosione e la conseguente onda d’urto; e riesce a infiltrarsi in ripari e tunnel.
I sistemi balistici lanciati da terra, da sottomarini vanno a unirsi ai bombardieri strategici come unico strumento di deterrenza che ha Mosca: l’RS-28 Sarmat.

100%

Avanzamento

GENNAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

Febbraio

24 febbraio

  • Oltre alle sanzioni sbandierate reciprocamente nel contesto della Guerra ucraina nello scacchiere indopacifico quelle registrate da “The Defense Post” che sono state imposte dalla Cina a Lockheed Martin e Raytheon Technologies per aver venduto a Taiwan manutenzione e supporto alle batterie missilistiche di difesa anitiaerea Patriot e per la proroga della manutenzione dei missili antinave a volo radente del sistema di difesa costiera Harpoon, secondo una discussa interpretazione dell’accordo del 1979 (Taiwan Relations Act) che regola la fornitura di armi al governo di Taipei. Un contratto da 100 milioni di dollari ratificato dal Dipartimento americano il 7 febbraio.

    Scaramucce, punte di spillo in un’area dove l’accumulo di armi, interessi e rapporti di forza hanno una portata ben maggiore del Risiko carpatico, a cui però si possono correlare attraverso la corsa al riarmo globale.


24 febbraio

  • Il portavoce di Umex e Simtex, Abdulnaser Al Humeidi (colonnello delle forze aeree degli Emirati) ha informato “Breaking Defenseche il ministro della difesa emiratino ha annunciato  durante la quinta edizione di Umex – la fiera delle armi di Abu Dhabi – l’acquisto di 12  addestratori avanzati L-15 della cinese Chinese National Aero-Technology Imports and Export Corporation (Catic), che si possono convertire in velivoli per combattimento leggero, con l’opzione per altri 36; con un carico utile di 3000 chilogrammi, l’aereo L15 ha sei punti di attacco per armi e può trasportare esternamente anche missili aria-aria, missili aria-superficie e bombe a guida di precisione.
    Gli Emirati avevano già interrotto l’esclusività occidentale delle forniture belliche nel 2017, quando gli Usa rifiutarono la consegna di Ucav perché Abu Dhabi li impegnava nella guerra in Yemen. Anche allora si erano rivolti a Pechino (comprando droni da combattimento Wing Loong II del gruppo cinese Chengdu Aircraft Industry Group) e a maggior ragione si ripetono stavolta che Biden ha subordinato la vendita di F-35 e MQ-9B alla cancellazione della rete 5G di Huawei.




21 febbraio

  • Il Marocco ha acquisito un nuovo sistema di difesa aerea che svolge funzioni di antimissile nel raggio di 150 chilometri. Riportato da molte testate giornalistiche, sia internazionali – come l’interessato “Globes, Israel business news”– che spagnofone (“El Espagnol”), anche perché si è scatenato un dibattito nel parlamento madrileno, visto che la collocazione del Barak MX è nei pressi dell’enclave di Ceuta, minacciando il territorio spagnolo. l paese maghrebino avrebbe investito più di mezzo miliardo di dollari nel sistema israeliano di difesa da qualsiasi minaccia aerea, dunque anche efficace contro i droni; si compone di tre parti. Nella cupola del sistema si trova la prima che gestisce una immagine aerea multispettro, coordinando le reti di operazione, impostando il lancio; la seconda parte del sistema è l’intera matrice di radar incorporati, a cui è demandato il compito di individuare la minaccia aerea; infine la componente deterrente fornita da Israel Aerospace Industries è costituita da missili a lancio verticale con copertura a 360 gradi, a intervento rapido e un radar di radiofrequenza in grado di cogliere anche oggetti in volo radente: il Barak MRAD può colpire nel raggio di 35 chilometri, il Barak LRAD arriva a 70 e infine il Barak ER colpisce a 150 chilometri di distanza (valido contro aerei da caccia, o missili da crociera come balistici).

    La collaborazione tra Israele e Marocco si allarga alla fabbricazione di droni suicidi in territorio marocchino, che si va ad aggiungere agli impianti per lo IAI Heron, un drone di spionaggio già operativo dal 2020: cioè da quando sono riprese le tensioni con l’Algeria, tanto che in febbraio la frontiera è stata militarizzata da ambo i lati. Le Forze armate reali (Far) hanno recentemente inaugurato la “Zona Est”, perché sia consentita una maggiore fluidità e libertà d’azione all’esercito (“Jeune Afrique”)




20 febbraio

  • Secondo un’agenzia “Reuters” del 20 febbraio il Dipartimento di stato statunitense ha chiarito che è consentito alle repubbliche baltiche trasferire missili e altri ordigni all’Ucraina; l’accordo per consegnare a paesi terzi armamenti permette alla Estonia di rifornire i missili anticarro a guida infrarossi FGM-148F Javelin, mentre alla Lituania di trasferire i missili Stinger all’Ucraina. Le repubbliche baltiche hanno recentemente visitato Kiev promettendo armi e il governo di Biden ha approvato a dicembre 200 ulteriori milioni di dollari per l’assistenza militare all’Ucraina da estrarre dai magazzini statunitensi (le guerre servono per smaltire gli arsenali.

    Il 21 dicembre 2021 il Dipartimento di stato statunitense aveva approvato la potenziale vendita di 30 sistemi anticarro Javelin e 341 missili FGM-148F alla Lituania per un valore di 125 milioni di dollari in previsione della crisi russo/ucraina.



FGM-148 Javelin della Lockheed Martin (LMT.N) e Raytheon Technologies (RTX.N)

18 febbraio

  • DefenseNews” ha riportato dal Singapore Airshow che si prospettano nuovi affari per il C-130J Super Hercules della Lockheed, che nella sua ultima versione ottiene una promettente attenzione in particolare da parte di potenze regionali come Indonesia (che ha appena fatto incetta di attrezzature belliche da Francia e Usa) e Nuova Zelanda: 5 apparecchi a testa sarebbero gli ordini che si vanno ad aggiungere ai 495 velivoli consegnati negli ultimi 6 decenni. A questi si vanno ad aggiungere altre potenze locali interessate all’acquisto: Bangladesh, India, Corea del Sud e Australia; quest’ultima avrebbe avviato una trattativa per 24 C-130J e anche per 6 carri armati KC-130J, sempre di fabbricazione Lockheed. La Thailandia avrebbe opzionato 3 tranche di 4 aerei ciascuna da qui al 2029.
    La domanda che sorge spontanea è a cosa si stano preparando i paesi dell’Indopacifico?



C-130J super Hercules

16 febbraio

  • Il 16 febbraio durante un’apparizione in video in occasione di una cerimonia religiosa il leader libanese di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha dichiarato che il gruppo sta producendo droni ed è in grado di trasformare migliaia di razzi in missili di precisione. La produzione sarebbe in risposta al crescente uso della tecnologia dei droni da parte di Israele, che ha spesso rivendicato l’abbattimento di droni di Hezbollah, l’ultimo episodio risaliva al 4 gennaio.
    Il 17 febbraio 2022
    un nuovo episodio della guerra di droni tra Libano e Israele: per 40 minuti un drone destinato a operazioni di spionaggio lanciato da Hezbollah sul nord di Israele è riuscito a dribblare il sistema di difesa, la cosiddetta cupola d’acciaio, ed è tornato alla base. In un tweet di Avichay Adraee, il portavoce militare dell’organizzazione sciita il drone ha le apparenze di un quadrirotore commercializzato dall’azienda cinese DJI Air 2S



Il drone di Hezbollah che il 17 febbraio ha aggirato la cupola di difesa di Israele, tornando poi alla base indenne

16 febbraio

  • Asia Times” ha lanciato l’allarme per un cargo della Qeshm Fars Airlines, una compagnia iraniana legata ai Guardiani della Rivoluzione sotto embargo decollato da Mashhad, che avrebbe di nuovo scaricato armi a Naypyidaw, dove è atterrato il 16 febbraio alle 9,24; era già stata segnalata una consegna il 21 gennaio per un altro carico di dotazioni belliche per Tatmadaw; il canale in lingua farsi “Tazheit Nizami” su Telegram paventava che si potesse trattare di una partita dei nuovi droni Qods Mohajer 6, utilizzati contro le milizie etniche.

  • Si tratterebbe soltanto di un’ulteriore aggiunta di forniture e tipologie di ordigno rispetto a questa solo parziale carrellata di sistemi di offesa acquistata dai militari birmani.

    Le forniture di varia provenienza in dotazione a Tatmadaw fino dal 2018 nella ricostruzione ufficiale dell’Ohchr, redatta dopo un anno dal golpe



15 febbraio

  • Martin Sonderegger è il capo dell’armamento della Federazione svizzera che ha guidato la delegazione di Armasuisse giunta a Cameri per incontrare l’omologo responsabile dell’approvvigionamento per l’esercito italiano, Luciano Portolano, in vista della dotazione di 36 F-35 Lightning II per l’Aeronautica di Berna per il valore di 7 miliardi, secondo le indiscrezioni di “Formiche”.
    Dopo l’Olanda sarebbe il secondo paese europeo a produrre i propri caccia su licenza della Lockheed-Martin nello stabilimento novarese, dove il valore del programma F-35 è stato ribadito anche dal Documento programmatico pluriennale (Dpp) della Difesa per il triennio 2021-2023, firmato ad agosto del 2021 dal ministro Lorenzo Guerini.

I caccia F35 Lightning II - Lockheed-Martin

13 febbraio

  • Una fornitura di missili antiaerei Stinger dalla Lituania ha raggiunto l’Ukraina; si aggiunge nelle agenzie che il ministero della Difesa ucraino consiglia di circumnavigare il Mar Nero, attribuendo la cautela alle esercitazioni navali russe che si svolgono lì. La premier lituana Ingrida Simonyte ha fatto una conferenza stampa al confine con la Bielorussia (Kapciamiestis), mentre sui palazzi di Vilnius garrivano le bandiere della Nato, la cui posizione non risulta comunque univoca. La consegna era annunciata dal 10 febbraio su “U.S.News
    «Se la Russia invadesse l’Ucraina, i lituani sarebbero costretti a chiedersi: siamo noi i prossimi? Nel 2008 il governo lituano aveva abolito la leva obbligatoria, ma nel 2015, un anno dopo l’invasione della Crimea da parte della Russia, l’ha reintrodotta. La bandiera blu con la rosa dei venti bianca dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del Nord sventola davanti al palazzo del presidente Gitanas Nauseda». (Giulia Pompili, Ai confini della Democrazia, “Il Foglio”, 14 febbraio 2022: un articolo che rilancia il parallelismo tra Taipei e Vilnius nel quadro della guerra della Nato ai regimi autocratici)

Missile manuale terra-aria Stinger antiaereo fornito dal membro Nato Lituania all'Ukraina

10 febbraio

  • «C’est officiel: l’Indonésie commande 42 Rafale»


    Rilanciato da “l’Usine Nouvelle”, il tweet proviene dalla ministra della Difesa francese che poi ha proseguito precisando che si è avviata una cooperazione con Giacarta, che ha ordinato 42 aerei da caccia multiruolo Rafele e 2 sottomarini convenzionali d’attacco Scorpène del costo totale di 8,1 miliardi. L’accordo annunciato sui social a così alto livello è stato firmato dall’Amministratore delegato di Dassault Aviation, Eric Trappier, e prevede una consegna chiavi in mano, comprensiva di un sostegno logistico e un centro di addestramento attrezzato con due simulatori. L’accordo arriva quando Parigi, che si considera una potenza marittima globale, cerca di espandere i suoi legami geopolitici nell’Indo-Pacifico per reagire alla creazione della nuova alleanza strategica tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia; per questo la ministra Parly ha sottolineato l’accordo anche sui sommergibili ed Emanuele Giordana ha iniziato il suo articolo su “L’Atlante delle Guerre” proprio rievocando l’Aukus e spiegando come mai Subianto intenda triplicare la sua dotazione di sottomarini, nonostante Widodo propenda all’’equidistanza tra i contendenti nell’Indopacifico.

Sottomarino convenzionale francese Scorpène

10 febbraio

  • Reuters annuncia che il Dipartimento di stato degli Usa ha approvato la potenziale vendita di velivoli F-15ID e delle relative apparecchiature all’Indonesia, il 10 febbraio, in un accordo per un valore di 13,9 miliardi di dollari dove Boeing sarà l’appaltatore principale per gli F-15 e il pacchetto includerebbe 36 velivoli, motori di riserva, radar, addestramento per visori notturni e supporto tecnico. Come lo stesso giorno la ministra della Difesa francese annunciava la vendita di 6 Rafale, gli Usa rincorrono affermando che la proposta di vendita sosterrà gli obiettivi di politica estera e di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, migliorando la sicurezza di un importante partner regionale, ritenuto una forza per la stabilità politica e il progresso economico in un quadro aereo e marittimo molto complesso. Ma perché l’Indonesia ha bisogno di tutti questi ordigni? 

F15ID per l'Indonesia Boeing ne costruirà 16, ma perché l'Indonesia compra tutti questi ordigni volanti?

9 febbraio

  • Le Guardie rivoluzionarie iraniane (Irgc) hanno presentato il missile balistico strategico a lunga gettata, a combustibile solido, Khaybar Shekan. La notizia è stata annunciata dall’agenzia stampa “Tansim” non a caso alla vigilia della ripresa degli incontri per i negoziati di Vienna sul nucleare e durante i festeggiamenti per il 43esimo anniversario della vittoria della rivoluzione iraniana alla presenza del capo di stato maggiore delle FFAA, gen. Mohammad Baqeri. Il nuovo missile è in grado di mettere sotto tiro Israele e anche le basi americane nella regione, avendo una gettata di 1450 chilometri; il missile balistico ha una sua traiettoria predeterminata e un suo obiettivo, che possono essere guidati durante il volo per avvicinarsi il più possibile al bersaglio.




6 febbraio

  • Daily Sabah” ha ripreso una notizia diffusa da Anadolu News Agency: secondo quanto affermato da İsmail Demir, il presidente delle industrie della difesa turca (Ssb), questa ha consegnato al comando delle forze terrestri turche una nuova fornitura di droni Bayraktar-TB2 Sịha equipaggiati con il Common Aperture Targeting System (Cats), sviluppato dalla principale società di difesa Aselsan. La rilevanza è data dal fatto che il Cats è un sistema di ricognizione, sorveglianza e puntamento elettro-ottico ad alte prestazioni progettato per piattaforme aeree ad ala fissa e ad ala rotante, inclusi sistemi aerei senza pilota (Uas), elicotteri e aeromobili. In precedenza, i droni turchi utilizzavano sistemi elettro-ottici acquistati dall’estero, ma i relativi embarghi su tali esportazioni hanno portato le aziende del settore della difesa turca a sviluppare le apparecchiature con risorse locali all’interno del paese, secondo quanto affermato dal presidente delle industrie della difesa (Ssb) Ismail Demir.

4 febbraio

  • Il gruppo industriale Leonardo S.p.A. ha confermato al sito specializzato “Defense News” la consegna, pochi mesi fa, di sei caccia addestratori avanzati M-346 “Master” all’Aeronautica militare qatarina (a gennaio la notizia dell’addestramento su M-346 prodotti da Leonardo riguardava la messa a disposizione degli stessi per ufficiali egiziani). Leonardo aveva mantenuto segreta la vendita all’emirato, impegnato nella guerra yemenita.L’accordo tecnico Italia-Qatar è stato stipulato a Doha il 10 novembre 2020 e prevede la formazione dei qatarioti per i prossimi cinque anni nelle maggiori basi aeree italiane: Galatina, Decimomannu, Salto di Quirra.

3 febbraio

  • Il ministro della Difesa ucraino Oleksii Reznikov ha annunciato che è prevista la firma di un accordo per impiantare una fabbrica in territorio ucraino dove saranno prodotti motori per velivoli senza pilota di fabbricazione turca. Droni Bayraktar SİHA che Kiev aveva già acquistato e usato contro i separatisti filo-russi nell’Est.

Droni Bayraktar Siha turchi venduti all'Ukraina

3 febbraio

  • Il network qatariota Al-Arabiya ha reso noto che il Dipartimento di stato degli Usa ha approvato la vendita di 12 caccia F-16 C Block 70 della Lockheed Martin, tecnologie connesse e componenti di munizioni, compresi i kit di coda di missili guidati e relative attrezzature alla Giordania per un costo stimato di 4,21 miliardi di dollari; 31 terminali multifunzionali per sistemi di distribuzione di informazioni a basso volume (Mids-Lvt) per un massimo di 23,7 milioni di dollari sarebbero destinati all’Arabia Saudita per aggiornare i suoi sistemi di difesa missilistica; agli Emirati Arabi Uniti è stato approvato l’acquisto per 30 milioni di dollari di pezzi di ricambio e di riparazione per i suoi sistemi di difesa missilistica Homing All the Way Killer (Hawk).

terminali multifunzionali per sistemi di distribuzione di informazioni a basso volume (MIDS-LVT)

2 febbraio

  • L’Egitto acquista 200 obici semoventi K9, insieme a decine di veicoli di supporto – come i mezzi per il trasporto e rifornimento di munizioni K10 e veicoli K11 per il controllo della direzione di fuoco – dalla sudcoreana Hanwha Defense, gruppo numero uno dell’industria militare di Seul: l’accordo del valore di 1,7 miliardi di dollari è considerato storico, ma nasconde anche dinamiche politiche internazionali per evitare che il Cairo scivoli verso Cina e Russia nei giorni in cui Il Cairo si è visto bloccare una parte simbolica degli aiuti militari ricevuti annualmente dagli Stati Uniti. Ne ha dato notizia DefenseNews. L’artiglieria sudcorena è accettata negli standard Nato, di cui sia Egitto che Corea del Sud sono “major ally”, secondo la definizione della dottrina strategica del Pentagono – entrambi nominati nel 1987 da Ronald Reagan.

Obici semoventi K9 della sudcoreana Hanwa venduti all'Egitto di Al-Sisi

1° febbraio

  • A Muggiano, La Spezia Fincantieri spa consegna alla Marina Militare del Qatar il primo pattugliatore OPV – Offshore Patrol Vessel Musherib nell’ambito della commessa da 4 miliardi di euro che prevede anche un’altra unità gemella, 4 corvette e una nave d’assalto anfibia (fonte Analisi Difesa). Il Musherib ha una lunghezza di circa 63 metri, una larghezza di 9,2 metri, una velocità massima di 30 nodi, e può ospitare a bordo 38 persone di equipaggio.

  • Sempre a La Spezia giunge notizia dal parlamento che stanzierà 13,5 miliardi di euro per la realizzazione di una piattaforma galleggiante di 1300 metri quadrati  per l’addestramento dei baschi verdi alle incursioni marittime e subacquee all’estero del Comsubin della Marina militare

Il pattugliatore Musherib consegnato al Qatar da Fincantieri

GENNAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

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]]> La distribuzione delle armi ai patrioti https://ogzero.org/la-distribuzione-delle-armi-ai-patrioti/ Mon, 28 Feb 2022 02:36:46 +0000 https://ogzero.org/?p=6548 Non è compito, né obiettivo di OGzero riportare notizie, anche se stravolgono il mondo e condizionano ogni aspetto della geopolitica, finché non si decanta il polverone che sollevano, consentendo un’analisi distaccata di ciò che provocano. Questa la natura analitica del sito; poi OGzero ha una sua componente parziale, schierata – per quanto cinica – e […]

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Non è compito, né obiettivo di OGzero riportare notizie, anche se stravolgono il mondo e condizionano ogni aspetto della geopolitica, finché non si decanta il polverone che sollevano, consentendo un’analisi distaccata di ciò che provocano. Questa la natura analitica del sito; poi OGzero ha una sua componente parziale, schierata – per quanto cinica – e contraria a ogni autoritarismo e militarismo che rivendichiamo come tratto distintivo. E che ci spinge a intervenire quando un’enormità inaccettabile viene assorbita come se non si trattasse di una barbarie: un’“involuzione copernicana”, che non è tanto l’invasione di un paese ex satellite da parte di un autocrate riconosciuto (Biden ha definito Putin un “killer” a inizio mandato), ma che l’Unione Europea con la sua prosopopea sull’approccio burocraticamente democratico si riduca al rango di trafficante per delegare un suo contenzioso. Questo passo è la vera svolta della vicenda ucraina, che per il resto dal punto di vista geopolitico è una delle innumerevoli situazioni di conflitto che ammorbano il pianeta.


Le infinite declinazioni degli aggettivi bellici

La guerra boot on the ground e il Glovo dei missili anticarro

Abbiamo anche avviato uno studium – non perché subodoravamo risvolti guerrafondai, ma perché l’escalation delle guerre di droni e nuovi sistemi di difesa e offesa è in atto da alcuni anni, producendo sempre nuove guerre – che ci impegna per l’intero 2022 (e forse anche oltre) a monitorare le movimentazioni, le consegne, i traffici di armi nel mondo, perché laddove c’è una transazione di questo tipo, prima o poi quell’arma viene usata. Non siamo anime belle che pensano che l’Europa non venda armi a chi è impegnato in un conflitto (chi se non i combattenti adoperano, consumano e ricomprano altre armi, se non chi le sta usando?) e quindi non ci stupiamo che si stanzino alcune centinaia di milioni per comprare armi da girare a un combattente, preoccupa che venga fatto senza infingimenti: hanno trovato il pretesto per poter moltiplicare gli affari per l’industria bellica senza dover pagare dazio. Senza contare che avevano già iniziato il giorno prima degli annunci ufficiali di Von der Leyen, a consegnare – come da consuetudine – armi ai belligeranti:

Guido Limpio, Missili e lanciarazzi. Italia, i primi soldati, “Corriere della Sera”, 27 febbraio 2022, p. 11. Pubblicato la sera precedente l’annuncio di Ursula Von der Leyen sugli stanziamenti UE per acquisto di armi da consegnare all’Ucraina

Il rilievo che ci viene spontaneo è il fatto che la tipologia degli articoli del delivery europeo via Polonia (ma anche le repubbliche baltiche sono tra i protagonisti più attivi già da alcune settimane nella distribuzione) denuncia la classificazione di quella che sarà la proxy war nel cortile di casa per alcuni anni: armi per un contrasto sul terreno, invischiando l’armata russa nella trappola scavata al suo confine a cominciare da Maidan.

Equipaggiamenti per guerre non lineari e guerriglia urbana

E infatti come sito attento ai rivolgimenti geopolitici siamo mitridatizzati alle guerre: uguali a quella carpatica ce ne sono state e se ne stanno combattendo molte altre nel mondo, certo non con una delle 3 potenze mondiali come protagonista diretta, ma sempre sullo sfondo si trovano impegnate tutte le potenze globali e locali. Perciò del gran polverone suscitato in questi giorni ciò che maggiormente indigna OGzero è il fatto che per la prima volta l’UE sovvenziona ufficialmente l’acquisto di armi per consegnarle a un paese terzo in guerra. Non siamo anime belle illuse che immaginano che con le manifestazioni di un weekend si possa fermare una determinazione alla imposizione delle proprie visioni deliranti da parte di un potere che usa spietati mercenari dovunque, uccide oppositori con il polonio, ammazza giornalisti come regalo di compleanno, sostituisce il colonialismo della Françafrique; ci indigniamo piuttosto a scoprire che un cancelliere socialdemocratico, appena valuta le centinaia di migliaia di migranti ucraini che premono ai confini, fa strame di scelte decennali e decide il riarmo tedesco – che non si può sentire dopo la Seconda guerra mondiale e le macerazioni degli anni Settanta a elaborare il senso di colpa di una nazione (cosa che l’ipocrisia cattolica italiana non ha mai consentito) – trovando 100 miliardi (!!!) per rinnovare la Bundeswehr… nemmeno Merkel sarebbe arrivata a una tale faccia di bronzo. Ma sicuramente il rinnegamento dei “valori europei” maggiore è quello che vede l’intera Unione allineata a rinunciare a ogni retorica – bastano 300.000 migranti – e vendere armi letali per costituire una guerriglia antirussa, affidandole probabilmente a Pravi Sektor e al Battaglione di Azov: più nazisti del modello collaborazionista di Bandera. Piuttosto che trovarsi 7 milioni di migranti (bianchi e caucasici) all’uscio, si impedisce che possano emigrare se hanno meno di 60 anni e più di 18 (coscrizione obbligatoria!), li si approvvigionano di armi e si organizza una guerriglia per procura; gli stessi razzisti polacchi che fino a un mese fa hanno fatto morire di freddo e fame nella foresta, riempiendoli di botte, quei migranti che arrivano dalle guerre scatenate dall’Occidente (afgani, africani, di “speci” evidentemente non abbastanza “famigliari”), accolgono fraternamente – e giustamente – i fuggitivi dai massacri della guerra perpetrata da Putin in Ucraina (ma non le sue vittime siriane).

Manifesto anarchico russo: “ No alla guerra degli oligarchi! Vogliono il carbone del Donbass? Combattano e muoiano loro”

Guerra ibrida e guerra nucleare ipermediatizzata: armi tattiche e molotov

La soluzione sarebbe dunque una proxy war in più (in Yemen siamo già oltre i 300.000 morti civili, ma sono distanti e arabi), fa solo più effetto perché europea e perché il bullo del Cremlino sventola la minaccia delle armi tattiche nucleari cercando di mantenere un ruolo da cattivo credibile dopo lo smacco per il fatto che la Blitzkrieg non è riuscita nemmeno questa volta (ricordate dall’altro lato la Mission accomplished?). Inquieta anche perché gli ucraini vengono trattati da europei di serie B – un nuovo apartheid all’interno del continente –  rimandati indietro al confine e “invitati” a imbracciare i fucili e fabbricare le molotov – se solo avessimo preparato in Valsusa gli stessi “pintoni attivi” in favore di telecamera saremmo pericolosi insurrezionalisti – per assaltare carri armati russi; addirittura si agevolano arruolamenti di volontari targati Europa, mentre i compagni che sono andati a condividere la lotta curda in Rojava (quella davvero una lotta antinazista) sono in sorveglianza speciale. Infingimenti geopolitici: guerra mediatica.

Istruzioni per la preparazione di una bottiglia molotov sui social ucraini

Istruzioni per la preparazione di una bottiglia molotov sui social ucraini

La guerra geopolitica

Si evidenzia allora una stortura che ci fa sospettare che la guerra non sia poi così ideologica come vorrebbe spacciare il Cremlino con il suo improbabile antinazismo, ma smaccatamente geopolitica, come non possono ammettere né Biden (che costringe il mondo a schierarsi, per occuparsi del quadrante indopacifico – ottenendo la neutralità dell’India da un lato, ma anche del Kazakhstan dall’altro… e la preponderanza degli affari nelle scelte degli “alleati” arabi; e che dire dell’imbarazzo turco sul trattato di Montreux e il diritto di chiusura dei Dardanelli che non si capisce come e se viene applicato o meno alle navi da guerra russe?). Tantomeno può definirlo “conflitto geopolitico” l’attendismo cinese – che cerca di capire come sfruttare l’occasione con Taiwan, e gli conviene che si ammanti il tutto di nobili principi degni di una guerra santa, o di liberazione; né gli europei spacciatori di armi letali, un altro aspetto tipico della geopolitica, ammantato come sempre di idealismo di liberazione. Come geopolitiche sono le conseguenze delle sanzioni: tutte avvantaggiano le risorse americane. Il gas – molto più caro, perché va trattato – verrebbe erogato da un ponte navale transatlantico, che legherebbe ancora di più gli europei arruolati dallo Zio Sam; le chiusure di rotte aeree richiederanno maggiore consumo di idrocarburi, forniti da Usa e mondo arabo… NordStream2, capitolo chiuso e nuova umiliazione tedesca (che non è mai una bella cosa, se ricordiamo le cause dell’ascesa di Hitler).

Ascolta “Paralisi e delirio a Mosca. Europa anno zero?” su Spreaker.

 

Quindi ci saremmo aspettati anche da Bruxelles reazioni tipicamente geopolitiche, tattiche come le sulfuree mosse del Cremlino, test di alleanze come quelle intessute da Washington, persino i traccheggiamenti in punta di diritto internazionale di Ankara (che evidentemente non considera concluso il rapporto privilegiato con Putin all’interno degli Accordi di Astana e non intrappola le navi russe nel Mar Nero, pur vendendo droni all’Ucraina), o il sornione attendismo di Pechino… invece si spaccia per raffinato pensiero il nuovo ruolo di mediatori di ordigni per guerriglia che l’impaurita Europa si è ritagliata, facendo strame del raffinato pensiero contro la guerra e interpretando la strategia politica come tattica da trafficante. L’Europa come comparsa in commedia nel ruolo del trafficante: una nuova accezione della esigenza di “aiutarli a casa loro”, fornendogli le armi e alimentando altro fiero nazionalismo. Ma schierandosi così in modo esplicito contro Mosca, rimanendo facili bersagli dei missili tattici per impaurire meglio l’opinione pubblica, quella sì non geopolitica ma ideologizzata dai media mainstream.

Comunque dove ci sono molotov che volano addosso al potere costituito o a un esercito di occupazione, qualunque esse siano, ci trovano solidali

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Che ci fa la Turchia in Ucraina? https://ogzero.org/che-ci-fa-la-turchia-in-ucraina/ Wed, 09 Feb 2022 17:16:54 +0000 https://ogzero.org/?p=6229 Il presidente della repubblica di Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ha incontrato il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, il 3 febbraio, ufficialmente con l’intento di svolgere il ruolo di mediatore nella crisi in corso tra Kiev, Mosca e Nato. L’apparente confusione frenetica dei movimenti strategici di ogni protagonista – le 5 ore di incontro tra Putin e […]

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Il presidente della repubblica di Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ha incontrato il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, il 3 febbraio, ufficialmente con l’intento di svolgere il ruolo di mediatore nella crisi in corso tra Kiev, Mosca e Nato.

L’apparente confusione frenetica dei movimenti strategici di ogni protagonista – le 5 ore di incontro tra Putin e Macron, il contemporaneo volo di Scholz da Biden; le agenzie e gli allarmi che fanno gioco alla pressione della Nato sui confini russi, che spingono Putin a partecipare alle cerimonie olimpiche di Xi Jinping; la Nato è la pietra dello scandalo, e un suo membro scandalosamente energivoro, che ormai da alcuni anni gioca da fuori, s’insinua in ogni conflitto per vendere i suoi micidiali ordigni senza pilota, o per appropriarsi di energia – di cui è ghiotto. La Turchia, in crisi economica e con inflazione a due cifre abbondanti, è protagonista a tutto campo e quindi anche nello scacchiere più esplorato dall’inizio del 2022 troviamo l’attivismo di Erdoğan e dei suoi droni. Perché? Murat Cinar s’ingegna a spiegarcelo e per farlo ha bisogno di mantenere l’aspetto economico scevro dalla fuffa di pseudolegami tra Ucraina e Turchia: crisi, bilancia commerciale, traffici di armi, droga e gas… la capacità di trasformare le crisi in opportunità.


Perché Ankara?

Il governo turco ha preso posizione schierandosi dalla parte di quello ucraino quasi sin dall’inizio del conflitto, 2004, soprattutto sostenendo i tentativi di autonomia della popolazione tatara che si trova in Crimea e dopo dieci anni di scontri è passata sotto il controllo di Mosca.

Ankara sostiene la tesi della sistematica discriminazione che la popolazione tatara subisce dagli abitanti russi presenti in zona. Ormai è risaputo come Ankara si propone come “portavoce del mondo musulmano” su molte piattaforme e in differenti zone. Anche se questo ruolo ha registrato svariati problemi di coerenza (e anche di opportunità politica che ha dettato le scelte in momenti diversi) in Egitto, Cina, Siria e Palestina. Considerando che la maggior parte dei tatari sono musulmani, le strategie di Ankara assumono una forma vicina al governo centrale ucraino e rientrano quasi automaticamente nell’ottica “antirussa”.

Non è solo una questione romantica

Ovviamente la posizione, a livello geopolitico, molto interessante dell’Ucraina ha fatto sì che questi due paesi condividessero una serie di punti in comune. Il processo per l’integrazione nell’Unione europea, l’Onu, l’Osce, la Blackseafor e l’Operazione Black Sea Harmony sono alcune realtà molto importanti in cui Kiev e Ankara si trovano alleate.

Senz’altro un’eventuale guerra tra Russia e Ucraina danneggerebbe fortemente la Turchia prima di tutto in termini economici poi a livello politico: il paese è soffocato da una profonda crisi economica in corso dal 2018 e il rapporto commerciale che ha costruito il governo centrale con Mosca in questi ultimi dieci anni è enorme. Come era stato comunicato nell’ultimo incontro pubblico del Consiglio di Lavoro Turchia-Russia, l’obiettivo è raggiungere per il 2022 la soglia dei 100 miliardi di dollari statunitensi come volume commerciale.

Dipendenze asimmetriche

Ankara dipende fortemente dalla Russia prima di tutto nel campo energetico ma anche in altri settori. All’inizio di questa crisi economica la svalutazione della Lira nel 2018 aveva colpito il prezzo della carta dei giornali perché la Turchia paga circa 53 milioni di dollari all’anno per acquistarla dalla Russia, questo volume costituisce circa il 65% del fabbisogno nazionale. Il discorso si espande senz’altro su altri campi come il turismo, il nucleare e le spese militari soprattutto tenendo in considerazione che Ankara in questi ultimi anni si è allontanato sempre di più, a livello politico e commerciale, dai suoi storici partner economici: Unione europea e Washington.

Questo rapporto commerciale in crescita vale anche per l’Ucraina. Secondo la Camera di Commercio di Istanbul (Ito) nel 2021 il volume commerciale superava i 7,4 miliardi di dollari Usa e nel 2022 l’obiettivo è raggiungere i 10. Solo nell’ultimo incontro avvenuto il 3 febbraio sono stati firmati ben 8 accordi commerciali tra Erdoğan e Zelensky. La collaborazione tra questi due paesi è in forte crescita anche nel campo militare.

Droni Bayraktar Siha turchi venduti all'Ukraina

Bayraktar SİHAs, che Ankara ha venduto all’Ucraina lo scorso anno, ha suscitato la reazione della Russia. Mosca aveva avvertito che questi UAV non dovrebbero essere usati contro i filorussi nell’Ucraina orientale.

Come ha specificato qualche giorno fa il primo ministro ucraino, Denys Šmihal’, tra i progetti c’è anche quello di costruire una fabbrica sul territorio ucraino per produrre i droni armati Made in Turkey. Quei famosi droni infami che in diverse parti del mondo stanno cambiando l’andamento dei conflitti armati. In particolare quelli che vende Ankara sono prodotti della famiglia Bayraktar, quella del genero di Erdoğan. Questi droni armati, i Bayraktar SİHA, che Kiev aveva già acquistato e usato contro i separatisti filorussi nell’Est, saranno utilizzati durante l’esercitazione militare del 10 febbraio.

Il tema dei droni è un tema molto caldo. Infatti nel mese di aprile del 2021, Mosca in un video in cui presentava il suo nuovo drone kamikaze simulava un attacco fatto contro un drone armato, prodotto dalla Turchia. Diverse volte i vertici del governo russo si sono espressi per comunicare la loro amarezza in merito alla vendita dei droni turchi a Kiev. La questione è diventata ultimamente molto interessante perché John Kirby, il portavoce del Ministero della Difesa nazionale statunitense, ha sostenuto, il 4 febbraio, durante l’ordinaria conferenza stampa, che Mosca si stava preparando per divulgare un finto video in cui avrebbe sostenuto che i droni turchi comandati da Kiev avrebbero colpito le postazioni russe così la Russia avrebbe legittimato un eventuale intervento militare in Ucraina. Un po’ come le foto taroccate che l’ex segretario di stato statunitense, Colin Powell, mostrò il 5 febbraio del 2003 dinanzi al Consiglio di sicurezza dell’Onu per legittimare l’invasione dell’Iraq da parte degli Usa.

Un conflitto, un problema e un guadagno per Ankara?

Ovviamente un’eventuale guerra in Ucraina metterebbe Ankara in una posizione molto difficile dato che in questi ultimi anni ha provato a fare tutto il possibile per curare rapporti sia con Kiev sia con Mosca. Per via della sua posizione all’interno della Nato, Ankara potrebbe trovarsi con la necessità di attuare un embargo commerciale nei confronti di Mosca e questo sarebbe il colpo di grazia per mandare in bancarotta l’economia turca e molto probabilmente confermerebbe la fine della carriera politica di Erdoğan che è già molto vicina al capolinea, visto il malessere collettivo e gli ultimi sondaggi elettorali (elezioni presidenziali si svolgeranno nel 2023).

In particolare questo scenario per la famiglia Erdoğan sarebbe una disgrazia poiché è fortemente coinvolta nel commercio di droga, lo spaccio di petrolio illegale e la forte corruzione.

L’incontro avvenuto tra Erdoğan e Zelensky è stato il decimo incontro sotto l’ombrello del Consiglio Strategico di Alto Livello. Si tratta di un incontro che era stato anticipato da numerosi inviti inoltrati dal presidente della repubblica di Turchia, rivolti a tutte le parti interessate da questa crisi. A prima vista sembra che Erdoğan abbia una forte intenzione di svolgere quel ruolo di “mediatore”. Tuttavia non va ignorata anche l’esistenza di quella posizione complicata e difficile in cui si trovano le relazioni internazionali di Ankara. Dunque oltre la crisi economica, che è un punto fondamentale da tenere in considerazione, molto probabilmente anche il gioco di “mantenere gli equilibri sensibili” è stato uno degli obiettivi perseguiti da Erdoğan.

Bombardamenti nella regione di Idlib.

Gli azzardi bellici nell’ultimo lustro

Infatti le scelte politiche, militari ed economiche che Ankara ha fatto in questi ultimi 5 anni, prima di tutto in Siria poi in Libia, sono state molto pericolose e fragili. Ankara, pur in conflitto politico ed economico con il regime di Assad, sostenuto da Mosca, è riuscita a ottenere l’autorizzazione da Putin di entrare sul territorio siriano almeno 5 volte con un gruppo di mercenari jihadisti. Una scelta e un’alleanza molto critiche che hanno causato addirittura la morte di 33 soldati turchi nel mese di febbraio del 2020 a causa di un bombardamento russo.

La presenza della Turchia anche in Libia è una scelta molto delicata dato che Ankara ufficialmente, economicamente, politicamente ma soprattutto militarmente ha sempre sostenuto il governo di Tripoli ossia al-Sarraj che è stato in guerra aperta con il generale Haftar sostenuto in tutti i modi da Mosca.

Oltre questo “equilibrio” molto delicato anche in Libia il ruolo dei droni turchi è stato determinante perché al-Sarraj potesse vincere il conflitto armato.

L’ultima mossa pragmatica e molto delicata di Ankara è stata quella di sostenere Baku nel conflitto armato tra Azerbaijan e Armenia. Un’altra guerra in cui, in teoria, Ankara e Mosca si sarebbero trovate in conflitto dato che Erevan riceveva il sostegno politico di Putin. Tuttavia anche in questo conflitto l’appoggio militare ed economico della Turchia è stato determinante, almeno a livello mediatico, e la guerra si è conclusa con una serie di “vittorie” per Baku. L’accordo per la “pace” è stato firmato a Mosca e in  seguito e per il futuro il territorio sarà controllato da Mosca collegando l’Azerbaijan tramite un corridoio con la Turchia.

Il ruolo assunto da Ankara non si è concluso ancora, il rischio per un conflitto armato che potrebbe coinvolgere altri attori anche al di fuori del territorio ucraino esiste tuttora. Ma per Ankara è assolutamente necessario che la situazione si calmi dato che ha bisogno sia di Kiev sia di Mosca per motivi politici, economici e militari. Inoltre Ankara resta ancora un membro importante della Nato e risulta un partner strategico per Washington.

Infatti il primo messaggio di congratulazioni è già arrivato da Jens Stoltenberg, il segretario generale della Nato: «Ho sentito il presidente Erdoğan e l’ho ringraziato per il suo personale e attivo sostegno volto a trovare una soluzione politica e per il suo sostegno pratico all’Ucraina».

Se non funziona?

Ovviamente gli scenari sono tanti ma se la mediazione di Ankara non funzionasse e la crisi diventasse più profonda senz’altro Mosca potrebbe decidere di usare la carta del “gas” contro l’Unione europea. Esattamente come ha fatto in tutti questi anni, Erdoğan, insieme al suo partito e ai suoi imprenditori, potrebbe decidere di attivare nuovi piani per trasformare la crisi in un’opportunità. Si è visto con che velocità, lo scorso autunno, sono stati ripristinati i rapporti politici, economici e militari con gli Emirati, quel paese ch’era stato accusato da Ankara di essere uno dei progettisti del fallito golpe del 2016.

Alternative

Infatti sono giorni che Ankara dedica spazio e tempo alla diplomazia per capire se il gas azero, qatariota o addirittura quello israeliano può essere portato in Turchia e rivenduto ai paesi europei. Nel mese di gennaio, Kadri Simson, Commissaria europea per l’Energia, aveva annunciato che la Commissione stava sondando anche Baku per valutare l’opzione del gas azero. Si tratta del famoso Corridoio meridionale del gas (conosciuto come Tap Tanap) che attraversa tutto il territorio della Turchia per concludere il suo flusso in Salento.

Il progetto del gasdotto Tap Tanap.

Una seconda opzione sarebbe il gas israeliano. Infatti nella sua visita in Albania il presidente della repubblica di Turchia aveva parlato di quest’opzione, rilasciando quest’affermazione apodittica: «Non si può portare il gas israeliano senza coinvolgere la Turchia». Lo stesso tema è stato riproposto dallo stesso presidente anche al rientro in Turchia dopo la visita in Ucraina:

«Nel mese di marzo il presidente israeliano Herzog sarà in Turchia, parleremo dell’idea di portare il gas israeliano in Turchia. Dopo averne usato per la nostra necessità nazionale siamo disposti a rivenderlo all’Europa».

Quindi anche in questo caso il disegno economico e politico che strozza la Turchia da più di 20 anni è un attore importante e potrebbe acquisire maggior ruolo soprattutto grazie a una cultura politica, economica e militare perversa e distruttiva che diventa sempre più dominante nel Medio Oriente e in Europa.

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LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A GENNAIO https://ogzero.org/studium/la-guerra-viene-con-le-armi-lo-spaccio-a-gennaio/ Sun, 06 Feb 2022 17:27:31 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=6181 L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A GENNAIO proviene da OGzero.

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«Il segmento dei missili è proiettato verso un enorme incremento»

Nel gennaio del 2022 è stato pubblicato il rapporto relativo al mercato dei missili e razzi per velocità (subsonica, supersonica, ipersonica), produzione, tipo di propulsione (solida, liquida, ibrida, dinamoreattore, turbogetto e statoreattore), meccanismi di guida (con o senza pilota); e la proiezione verso il 2026 prevede un incremento di 4,8 per cento degli affari che passerebbero dai 58,3 miliardi di dollari del 2021 ai 73,8 del 2026

100%

Avanzamento

FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

Gennaio

31 gennaio

  • La formazione dei piloti di elicottero delle forze armate israeliane si svolgerà a bordo dei velivoli Agusta Westland AW119KX Koala prodotti nello stabilimento di Filadelfia (Usa) di Leonardo; in cambio dei mezzi di guerra di Leonardo, le forze armate italiane si sono impegnate ad acquistare tecnologia militare di produzione israeliana per lo stesso valore (molto probabilmente due aerei per le operazioni di intelligence e la guerra elettronica). Nello specifico gli israeliani doteranno i velivoli di produzione italiana con i pod di quinta generazione Litening-5 e RecceLite. L’annuncio è di “Italian Defense Technologies”, ripreso da Antonio Mazzeo sul suo blog.

    Ulteriori affari in Israele potrebbero arrivare in casa Leonardo dopo l’acquisizione del 25,1% del pacchetto azionario della società Hensoldt GmbH con sede a Monaco di Baviera, completata a inizio 2022. Hensoldt è una delle maggiori produttrici in Europa di sensori per missioni di sorveglianza, apparati d’intelligence e sistemi interamente automatizzati in campo terrestre, navale e aereo e vanta una lunga e consolidata cooperazione con IAI



30 gennaio

  • La Korean Central News Agency ha riferito di aver lanciato un missile balistico terra-terra Hwasong-12 “a medio e lungo raggio”. Il settimo test condotto nell’arco del mese di gennaio avviene dopo che lo scorso 19 gennaio  è stato deciso di riprendere «tutte le attività temporaneamente sospese», riferendosi apparentemente ai programmi per armi nucleari e missili balistici intercontinentali (Icbm) di Pyongyang. Si tratta del maggior numero di lanci missilistici nordcoreani in un solo mese, da quando Kim ha preso il potere alla fine del 2011. 

    Lo Hwasong-12 è stato classificato come un missile balistico a raggio intermedio (Irbm) con una portata di 3000-5500 km dalle autorità militari sudcoreane e statunitensi ed era già stato lanciato a settembre 2017. L’esercito sudcoreano ha detto che la prova è avvenuta nello Jagang, al confine con la Cina, e che ha volato per circa 800 km a un’altitudine massima di 2000 km prima di atterrare nel Mare Orientale


Scaduta la moratoria missilistica di Pyongyang: riprendono i test sui missili balistici: lanciati 7 Hwasong-12 in gennaio

28 gennaio

  • La cerimonia di consegna al Kuwait dei primi due cacciabombardieri Eurofighter Typhoon prodotti dal consorzio europeo Eurofighter GmbH (formato dalle holding Leonardo, BAE Systems e Airbus Defence & Space) si è svolta a Caselle il 9 dicembre 2021. Il mese successivo “Defensenews” riporta la notizia di un grosso scandalo scoppiato nel paese arabo per i prezzi gonfiati della fornitura di 28 caccia acquistati nel 2016 per 6,9 miliardi, quando i sauditi ne hanno comprati 72 per una cifra simile. L’addestramento di allievi piloti kuwaitiani sul caccia Eurofighter avviene presso il 4° Stormo di Grosseto, come informa l’articolo di Antonio Mazzeo per “Africa Express”

La corruzione nella vendita degli Eurofighter Typhoon al Kuwait da parte di Leonardo spa

25 gennaio

  • Il Dipartimento di stato americano ha approvato una possibile vendita al governo dell’Egitto di aerei C-130J-30 Super Hercules (capofila del contratto è Lockheed Martin) e relative attrezzature per un costo stimato di 2,2 miliardi di dollari. La Defense Security Cooperation Agency ha consegnato il 25 gennaio la certificazione richiesta che notifica al Congresso questa possibile vendita. E “Anbamed” informa che questa proposta di vendita è stata recepita dal Congresso l’11 marzo 2022. Un gruppo di senatori democratici avevano chiesto di condizionare le esportazioni di armi al rispetto dei diritti umani al Cairo. La vendita – comprensiva anche di 12 motori a turboelica Rolls Royce AE-2100D, 30 Embedded GPS/INS, 7 sistemi di distribuzione delle informazioni multifunzionali e altre attrezzature ed elementi di supporto logistico e di programma –è stata autorizzata con i voti di 81 senatori a favore e 18 contro.
    Nello stesso giorno, le autorità carcerarie egiziane hanno eseguito 7 condanne a morte, ma l’Egitto ha una lunga tradizione di acquisto di jet russi Sukhoi SU-35, Mikoyan MiG-29M, il Ka-52 Alligator e l’S-300VM “Antey-2500”, gli ultimi dei quali consegnati nel luglio 2021, rischiando sanzioni americane, nell’ottica di supremazia nei cieli libici al fianco del parlamento filorusso di Bengasi.

    La repentina approvazione della vendita degli Hercules ha probabilmente l’intento di sottrarre un potenziale alleato di Mosca nel Mediterraneo orientale in un momento di crisi bellica mondiale.

C-130J-Super-hercules

21 gennaio

  • Il 10 gennaio al porto di La Spezia era transitata la nave cargo saudita Bahri Yanbu, nota per portare alla petromonarchia le armi acquistate negli Stati uniti e in Europa. Cosa fosse salito a bordo della Bahri durante lo scalo spezzino non era stato possibile accertarlo. Ma il 19 gennaio la dogana senegalese ha sequestrato tre container a bordo della nave Eolika, battente bandiera della Guyana, e probabilmente diretti nella Repubblica Dominicana: conferma che dal porto dell’hub industrial-militare ligure partono armi poco trasparenti, come i tre container di munizioni per armi leggere, cal.. 9 e cal. 5.56, dalla Fiocchi Munizioni spa di Lecco, azienda di rinomanza mondiale e tra i maggiori esportatori militari italiani, oltre 140 milioni di euro di fatturato, oltre 700 dipendenti in Italia e due stabilimenti negli Stati Uniti

Il caso Eolika con i proiettili occultati della Fiocchi Munizioni ricorda il caso delle mine della Valsella Meccanotecnica

18 gennaio

  • Uno studio dell’Osservatorio Mil€x  rivela che nel 2022 la spesa militare italiana tocca la cifra di 25,8 miliardi di euro. I nuovi armamenti segnano il record di 8,3 miliardi: dai fondi per il nuovo caccia Tempest (2 miliardi), che si aggiungerà agli F-35 e ai nuovi eurodroni classe Male; dagli aerei Gulfstream per la guerra elettronica alle nuove aerocisterne per il rifornimento in volo. Una grossa fetta della torta è destinata alle nuove batterie missilistiche antiaeree per missili Aster (2,3 miliardi di euro) e ai nuovi blindati Lince: ben 3.600 rimpiazzeranno i 1.700 già in dotazione all’esercito. E poi due nuovi cacciatorpedinieri lanciamissili classe Orizzonte da circa 1,2 miliardi l’uno che saranno prodotti da Fincantieri; a questi si aggiungono una trentina di blindati anfibi 8×8 da sbarco di Iveco e Oto Melara da 10 milioni l’uno e altrettanti gommoni armati da sbarco. Lo ha rivelato “Osservatorio diritti” con un intervento di Giorgio Beretta

Il nuovo caccia di Leonardo in dotazione all'esercito italiano: avanguardia della tecnologia di guerra

17 gennaio

  • Svolta nella guerra in Yemen: gli Houthi lanciano un attacco con droni iraniani colpendo ad Abu Dhabi lo stabilimento della compagnia petrolifera Adnoc come ritorsione per una strage perpetrata da mercenari ermiratini inquadrati nelle Brigate Al Amaleqa. La situazione è descritta con precisione da Michele Giorgio per “PagineEsteri”

Qasef 2k, il drone in dotazione ai ribelli Houthi utilizzato per colpire obiettivi sauditi ed emiratini

13 gennaio

  • Viaggio africano del piazzista Erdoğan. Troviamo i dati salienti (conosciuti) di questa riunione – avvenuta il 18 dicembre –  di potentati di tutto il continente alla corte dell’autocrate turco nell’illustrazione fatta da Emanuele Giordana per “Atlante delle Guerre”

drone turco

7 gennaio

  • Velivoli M346 venduti da Leonardo per Addestramento di piloti egiziani che si troveranno a pilotare i cacciabombardieri Rafale francesi; rivelazioni tratte da “Africa Intelligence” e riportate da Antonio Mazzeo per “Pagine Esteri”

M 346FA - Aermacchi Fighters Attack (Leonardo)

5 gennaio

  • Il Marocco da alcuni mesi sta preparandosi a rinvigorire i consueti conflitti con la rivale storica Algeria, rinfocolati dal riconoscimento di Trump della giurisdizione sul territorio del popolo saharawi; un episodio di questa escalation proviene dalla nuova fornitura di droni Harop e missili Barak 8, facilitata dalla distensione tra i due paesi in seguito agli Abraham Accords, voluti da Kushner, il genero di Trump; ne dà notizia “Israel Defense”, commentato da Antonio Mazzeo, che sottolinea anche come siano inquietanti pure le relazioni tra Rabat e Tel Aviv nel settore della sorveglianza e dello spionaggio militare. Il Marocco è uno dei maggiori clienti della compagnia di cyber security and intelligence Nso Group Technology realizzatrice dello spyware Pegasus che consente di sorvegliare da remoto gli smartphone.

Barak 8 missile Sam della israeliana Iai

2 gennaio

  • Il 2 gennaio gli Houthi hanno sequestrato a 23 miglia nautiche a ovest del terminal marittimo di Ras Isa, la Rwabee, nave battente bandiera emiratina diretta in Arabia saudita e salpata da Socotra, isola controllata dagli Emirates, che attraverso al Arabiya asseriscono fosse carica di medicinali. I ribelli sostengono invece che il mercantile aveva a bordo un carico di armi e hanno diffuso alcuni video per dimostrarlo. E tutte le agenzie internazionali lo hanno rilanciato, qui il pezzo di France24


Bloccati undici marinai della ciurma della Rwabee, nave emiratina sequestrata dagli Houti a Ras Isa carica di armi per i sauditi

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]]> L’assalto al carcere di Sina “forse” orchestrato da Ankara e Damasco https://ogzero.org/assalto-al-carcere-forse-orchestrato-da-ankara-e-damasco/ Thu, 03 Feb 2022 17:10:52 +0000 https://ogzero.org/?p=6122 Quattro giorni di ininterrotti scontri tra i combattenti dello Stato Islamico (Isis) e le forze curdo-siriane (Fds), che presidiavano il carcere assalito da miliziani ben equipaggiati. Il bilancio finale è stato di più di 330 morti, molti jihadisti fuggiti (un migliaio i catturati dalla pronta reazione curda); un preoccupante segnale di quanto la rete jihadista […]

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Quattro giorni di ininterrotti scontri tra i combattenti dello Stato Islamico (Isis) e le forze curdo-siriane (Fds), che presidiavano il carcere assalito da miliziani ben equipaggiati. Il bilancio finale è stato di più di 330 morti, molti jihadisti fuggiti (un migliaio i catturati dalla pronta reazione curda); un preoccupante segnale di quanto la rete jihadista si sia ricostruita, ancora più allarmante se si riconduce a una precisa orchestrazione occulta da cercare ad Ankara – e non solo – questo improvviso assalto dei tagliagole del Daesh al carcere curdo in cui erano reclusi i foreign fighters che gli occidentali non rivogliono indietro. Un ritorno dell’interesse occidentale per la questione dei jihadisti stranieri detenuti deve aver sollecitato il presidente turco a intervenire; e il risultato è stato l’annientamento di Abu Ibrahim al Hashimi Al Qurayshi, leader dell’Isis, dopo l’insuccesso del piano ordito dai satrapi turco-siriani.

A questo proposito abbiamo ricevuto alcune rilevanti osservazioni di Gianni Sartori, confermate dai bombardamenti avvenuti una settimana dopo per mano dell’aviazione di Erdoğan, come racconta l’articolo di Chiara Cruciati per “il manifesto” del 3 febbraio 2022, che proponiamo qui sotto. Riprendiamo dunque il pezzo di Sartori comparso sulla rivista “Etnie”, corredandolo tra le altre con un’immagine di Matthias Canapini, con il quale inauguriamo una collaborazione che immaginiamo proficua.


Lo davamo per scontato. Intravedere dietro l’attacco di Daesh al carcere di Sina (nel quartiere di Xiwêran/Gweiran della città di Hesîçe/Hassaké) la complicità di Ankara era tutto meno che un esercizio di fantasia. Ma a quanto sembra la manina inopportuna non era l’unica. In base ai primi accertamenti, le fonti curde hanno denunciato un ruolo, oltre che dell’intelligence turca, anche di quella siriana.

Bombardamenti turchi sui curdi siriani dopo l'assalto jihadista

3 febbraio 2022. Bombardamenti turchi sul Confederalismo democratico dei curdi siriani dopo l’assalto jihadista del 20 gennaio: evidente l’impronta di Ankara.

Premesse dell’assalto e mandanti

Iniziato il 20 gennaio, l’assalto operato dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Daesh) veniva se non stroncato sul nascere, perlomeno ridotto ai minimi termini. Purtroppo aveva avuto il tempo di provocare “danni collaterali” non irrilevanti. Sono almeno una cinquantina (ma il bilancio potrebbe accrescersi) i caduti tra membri di Fds, Asayish e civili curdi accorsi volontariamente per contrastare l’operazione jihadista. Dopo mesi di sostanziale menefreghismo per la sorte delle popolazioni (curde, ma non solo) del Nord e dell’Est della Siria sottoposte all’occupazione o comunque agli attacchi dell’esercito e dell’aviazione turca, l’Occidente è parso ridestarsi e prendere coscienza che la minaccia dell’Isis/Daesh non era stata definitivamente cancellata.
Per cui, non detto ma pensato, anche la presenza curda recuperava spessore e spazio sui media. Perlomeno come argine al fanatismo degli estremisti islamici.
Se pur lentamente, emergono le prime connessioni – interne ed estere – che hanno reso operativo il progetto per liberare i circa 5000 detenuti (membri o sostenitori di Daesh) rinchiusi a Sina. E tutte invariabilmente conducono ad Ankara o a Damasco. O magari a entrambe. Si tratta di elementi, indizi riguardanti le riunioni preliminari, le varie fasi di pianificazione, gli obiettivi individuati dalla banda degli assalitori. Non si sarebbe trattato quindi di un’azione pianificata esclusivamente dall’Isis, ma di una complessa operazione con il sostegno – come dire: bilaterale – proveniente dall’esterno del gruppo jihadista (per quanto questo sia presumibilmente infiltrato come un colabrodo da servizi vari).
A quanto sembra, condizionale sempre d’obbligo, l’operazione potrebbe essere stata decisa e pianificata in Turchia. I membri di Daesh catturati dalle Fds avrebbero confessato che era stata preceduta da una lunga preparazione (almeno 7-8 mesi) e che le riunioni di pianificazione si sarebbero tenute a Serêkaniyê (Ras al-Ain) ossia in un’area attualmente sotto occupazione turca. Vi avrebbero partecipato membri di varie “cellule dormienti” sia locali che provenienti dalla Turchia. E tutte indistintamente sarebbero state rifornite di adeguati armamenti.
Dato che tra i prigionieri si trovavano diversi esponenti di alto livello dell’organizzazione terrorista, è evidente che l’operazione rivestiva una certa importanza.
Per prima cosa, con qualche mese di anticipo, vari esponenti dell’organizzazione terrorista, sia individualmente che in piccoli gruppi, erano venuti ad abitare nel quartiere di Gweiran/Xiwêran, dove sorge la prigione (una ex scuola provvisoriamente adibita a carcere) e in quello di Heyî Zihur.
Nel comunicato delle Fds del 25 gennaio si legge che «almeno 200 esponenti dello stato islamico si erano installati a Serêkaniyê, Girê Spî e Ramadî, in particolare nel quartiere di Gweiran e nei dintorni del carcere».
Contemporaneamente anche i detenuti si organizzavano per la rivolta.
Va ribadito che in maggioranza si tratta di persone addestrate alla guerra e di origine straniera (muhajir ossia “migranti”, termine utilizzato per indicare i miliziani stranieri che combattono per Daesh). Persone che – in genere – i rispettivi paesi di provenienza si rifiutano di riportare in patria.

Dinamica dell’assalto e indizi sui mandanti

Orchestrazione Isis
Il primo veicolo imbottito di esplosivo era stato posto in prossimità dello svincolo di una condotta petrolifera (moltiplicando quindi la potenza dell’attentato) mentre venivano bloccate le strade d’accesso al carcere. Altri veicoli, ugualmente riempiti con materiale esplodente, colpivano la porta della prigione e l’edificio delle Forze di autodifesa (Erka Xweparastinê). Entravano allora in azione anche le “cellule dormienti” precedentemente installate nel quartiere. Catturando alcuni civili (da usare come ostaggi o scudi umani) e abbattendo un muro della prigione con una ruspa.
Assalto al carcere di Sina

Famiglia yazida a Dohuk (© Matthias Canapini)

Una volta entrati, distribuivano le armi ai detenuti islamisti e prendevano altri ostaggi tra il personale del carcere.

Risposta Fds

La priorità per le Fds e per le forze della sicurezza interna (Asayish) è stata quella di proteggere i civili. Nel contempo circondavano (bloccandone a loro volta le vie d’accesso) e mettevano in sicurezza (procedendo all’evacuazione degli abitanti) i quartieri di Gweiran e di Heyî Zihur. Al momento sarebbero circa 200 (per almeno tre quarti facenti parte delle “cellule dormienti” esterne al carcere) gli esponenti di Daesh uccisi in cinque giorni di combattimenti. Alcune centinaia degli evasi poi sono già stati ripresi.

Quello che sta emergendo, sia dalle prove raccolte che dalle testimonianze e dagli interrogatori, è un probabile ruolo di Ankara e Damasco nell’orchestrare il grave episodio.
Equipaggiamento turco, attività siriana

Tra gli “indizi” (ma messi tutti in fila acquistano le sembianze di prove) a sostegno della tesi di un diretto coinvolgimento di Turchia e Siria: le armi – della Nato – con numeri di serie turchi trovate in mano ai terroristi dell’Isis; la registrazione di telefonate dei membri di Daesh in prigione con la Turchia; le confessioni di quelli catturati mentre cercavano di rientrare a Serêkaniyê (sotto l’ombrello turco); le carte d’identità siriane di recente emissione in mano ai miliziani jihadisti; l’incremento di attività del regime siriano nella regione…

Assalto al carcere di Sina

Jihadisti evasi dalla prigione secondo l’agenzia russa “Sputnik”.

Altri elementi, altre prove, assicurano le Fds saranno presto messi a disposizione dell’opinione pubblica. Nel giro di qualche giorno.

Pianificazione a lunga scadenza:

contrattempi…
Stando ai piani preliminari, l’attacco avrebbe dovuto svolgersi ancora in ottobre o novembre, in coincidenza con un ennesimo attacco turco nel nord e nell’est della Siria e con il previsto rafforzamento dei suoi presidi e avamposti militari nelle zone già occupate. Proprio in ottobre Erdoğan si era consultato sia con Biden che con Putin ed è plausibile pensare che non ne abbia ottenuto il tacito assenso per l’ulteriore invasione.
Un contrattempo (per Ankara e Daesh beninteso) a cui se ne aggiunse presto un altro. Quando le Fds avevano individuato e arrestato alcune “cellule dormienti” a Hesekê e Raqqa ricevendo da uno dei caporioni arrestati la confessione che il loro obiettivo era il carcere di Hesekê. Un progetto quindi apparentemente disinnescato dall’operazione delle Fds, ma in realtà solo rinviato.
… e coincidenze d’intelligence
Altra coincidenza. Con un tempismo perfetto, al momento dell’attacco jihadista al carcere, l’esercito e l’aviazione turchi attaccavano simultaneamente Zirgan, Tel Tamer (da dove avrebbero potuto intervenire agevolmente in sostegno a Daesh) e Ain Issa causando vittime tra i civili.
Questo per quanto riguarda Ankara. E Damasco?
Rimane sempre a guardare mentre il territorio della Siria viene occupato da forze straniere? In realtà prima dell’attacco jihadista si era registrata un’intensa attività militare dell’esercito siriano proprio a Hesekê. Ma soprattutto era andata intensificandosi una violenta campagna diffamatoria nel confronti dell’amministrazione autonoma (Aanes) delle Fds sui media siriani filogovernativi. Inevitabile collegare tutto ciò ai recenti incontri tra il Mit (intelligence turca) e il Mukhabarat (intelligence siriana).
Un riavvicinamento tra i rispettivi servizi (ostili e su fronti opposti per molte questioni, ma sostanzialmente concordi nei confronti del “pericolo curdo”) che li aveva visti confrontarsi alla fine di dicembre (stando almeno a quanto riportava la stampa turca) in Giordania, ad Aqaba.
Sempre basandoci su quanto scrivevano i giornali turchi, nel corso della riunione si sarebbe discusso anche di «operazioni congiunte nel Nordest della Siria» e in particolare di «un’operazione militare turca per la profondità di 35 chilometri in revisione agli accordi di Adana; la sollevazione delle tribù (in chiave anticurda, ça va sans dire, come ci aggiornano regolarmente alcuni siti rosso-bruni italici N.d.A) a Deir ez-Zor, Hesekê  e Raqqa; la liberazione dei detenuti nelle prigioni e la ricostruzione di Aleppo».
Sempre sulla stampa turca – e quindi la cosa va presa con beneficio d’inventario – si suggeriva che Mosca e Damasco apparivano interessati, favorevolmente, alle richieste turche.

Un complotto annunciato contro l’amministrazione autonoma

Minacce velate

Qualche giorno prima, il 22 dicembre 2021, c’era stata la dichiarazione congiunta dell’ultima (per ora, siamo già alla diciassettesima) riunione di Astana tra Russia, Turchia e Iran, dove si stabiliva che le parti interessate erano concordi nell’«opporsi alle attività separatiste che minacciano la sicurezza nazionale dei paesi vicini all’est dell’Eufrate». Inoltre venivano definite “illegali” (anzi, un vero e proprio “sequestro”) i redditi provenienti dal petrolio siriano. Con un evidente riferimento al fatto che i curdi, dovendo comunque sopravvivere e tenere in piedi l’amministrazione autonoma, le milizie di autodifesa e soprattutto garantire prezzi calmierati (sia del pane che del combustibile) alla popolazione, si rivendono il petrolio. Del resto perché non dovrebbero farne uso visto che sgorga su quei territori dove convivono con arabi, turcomanni, armeni e altre popolazioni? Territori, ricordo, liberati dalla presenza di Daesh soprattutto grazie al sacrificio di migliaia di curdi delle Ypg.
Per chi vuole intendere, se pur dietro un linguaggio formalmente corretto, il messaggio era chiaro.

Il complotto dei Servizi

Ora, secondo i curdi, in questa dichiarazione si intravedono i presupposti per un autentico complotto contro l’amministrazione autonoma (Aanes) e il Rojava. In caso di vittoria dell’operazione al carcere di Hesekê è probabile che la Turchia sarebbe intervenuta da Tell Tamer (da nord) mentre Damasco avrebbe attaccato da Tabqa, Raqqa e Deir ez- Zor (da sud). Così come si era probabilmente stabilito nell’incontro tra il Mit e il Mukhabarat.
Magari con la scusa di porre fine al massacro (facilmente prevedibile se Daesh non fosse stata fermata in tempo) da loro stessi promosso, previsto e forse pianificato.
Se la pronta, coraggiosa risposta delle Fds ha impedito comunque un disastro ben peggiore, rimane il dubbio che a conti fatti quanto è accaduto possa ugualmente portare acqua al mulino dei due regimi. Potrebbe infatti fornire il pretesto (non solo a Damasco e Ankara, ma anche a Mosca e Teheran) per accusare l’amministrazione autonoma di incapacità e inadeguatezza. Di essere esposta ai rigurgiti di Daesh. Prima alimentati e innescati, poi strumentalizzati come alibi per “riportare l’ordine” in Rojava.
A consolazione, va ricordato che i curdi hanno dimostrato ancora una volta di essere un osso duro. Oltre che per i cani rabbiosi di Daesh, anche per i mastini di Ankara e Damasco.
Assalto al carcere di Sina

A completamento della ingarbugliata serie di eventi intrecciati nella zona denominata Mena giunge notizia (la riporta “Mediapart”) dell’eliminazione del capo dello Stato Islamico in seguito a un raid dell’esercito americano: un’esplosione ha raso al suolo la casa di tre piani che ospitava il turkmeno Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi (alias Abdullah Kardaş, ufficiale di Saddam Hussein, ovvero Amir Mohammed Abdul Rahman al Mawli al Salbi) e parte della sua famiglia che si è fatto saltare in aria al momento dell’attacco ordinato da Biden. Abitava ad Atamah, un villaggio nei pressi di un campo profughi al confine tra Siria e Turchia, in quella provincia di Idlib, che fa da zona cuscinetto pretesa da Erdoğan al momento della sconfitta dell’Isis di al-Baghdadi e da lui controllata… un’altra coincidenza?

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Monitoraggio traffici, accordi, vendite e scambi di armi https://ogzero.org/studium/affari-e-traffici-darmi-lo-spaccio-nel-2022/ Mon, 31 Jan 2022 23:26:05 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=6054 L'articolo Monitoraggio traffici, accordi, vendite e scambi di armi proviene da OGzero.

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100 %

Avanzamento


La guerra viene con le armi: lo spaccio nel 2022

L’anno si inaugura con la paura di una guerra che avrebbe potuto essere nucleare in Europa col confronto diretto tra potenze globali, o presunte tali… e lo sviluppo di quella guerra più prossima alla sensibilità occidentale delle “proxy war” fatte combattere lontano procede tra il grottesco delle scenografie imperiali otto-novecentesche e le stragi chirurgiche di armi strategicamente digitali, fino alla “arma segreta” che non può mancare nel delirio dei guerrafondai di ogni secolo.
E infatti questo dossier nasce da un’idea di ricostruzione à rebour: monitorando il bisogno – e dunque l’acquisto – di un’arma si può ricostruire la nascita e l’area che può interessare la prossima guerra, il futuro dissidio, l’ennesimo scoppio di un conflitto.
Nel mondo infinite sono le proxy war, combattute per procura da quelle stesse potenze o altre regionali; molti sono i conflitti a sfondo religioso, che coprono la rapacità di multinazionali che affidano i loro interessi a milizie, o a stati impegnati in scontri con i vicini, o a soffocare secessioni su base coloniale; altrettante sono le lotte contro il neocolonialismo predatore.
Questi bombardamenti, le conseguenti battaglie e stragi… sono rese possibili dallo spaccio di armi: il traffico, ma anche gli accordi tra stati, gli scambi con la droga, o di favori geopolitici. Le fiere che espongono, propongono e vendono ordigni.
Abbiamo pensato di inaugurare l’anno cercando di raccogliere tutte le notizie, le inchieste, gli svelamenti che nell’anno 2022 stanno avvenendo, cercando quanti più dati possibile relativi al traffico di armi mondiale.



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Lo spettacolo può cominciare


Il monitoraggio lungo un anno si è concluso, ottenendo una messe di dati, analisi, considerazioni che abbiamo già proposti in questo dossier, mantenendo come stella polare l’intuizione che ci aveva spinti a tentare di seguire i flussi di armi (quelli denunciati) per vedere dove confluivano e quindi dimostrare che le guerre si preparano industrialmente con largo anticipo sui pretesti politici in base a una strategia. Avevamo pensato di avviare questa attività nel novembre 2021, tre mesi prima che si manifestasse l’innesco del rivolgimento degli equilibri globali con l’“Operazione militare speciale” a rivendicare militarmente un multilateralismo effettivo con lo scopo di informare l’Occidente che la sua centralità è perduta, o almeno messa in discussione. Sicuramente è stato un anno particolare per operare questo monitoraggio, ma – andando a rileggere le schede di questi mesi – risulta palesemente emblematico di come funziona la filiera delle armi e come si concatena con le strategie geopolitiche, in funzione dei bisogni politico-militari, e con una ricerca scientifica sempre più ““dual”, a sancire una sempre maggiore militarizzazione della società civile.

Tutto questo ha fornito basi utili per passare alla consueta seconda fase degli Studium: l’approfondimento che prende corpo in un volume di più ampio respiro, realizzato in collaborazione con l’Atlante dei Conflitti  e delle Guerre del Mondo. Con questo intento OGzero ha affidato ad alcuni complici-esperti la disamina della condizione del mercato delle armi nelle singole aree, o negli aspetti legati a ricerca, logistica, produzione… strategie belliche. Gli estensori dei singoli paper sono Gabriele Battaglia, Roberto Bonadeo, Murat Cinar, Raffaele Crocco, Marco Cuccu, Alessandro De Pascale, Angelo Ferrari, Emanuele Giordana, Antonio Mazzeo, Alice Pistolesi, Eric Salerno, Carlo Tombola, Massimo Zaurrini.

Il dato che spicca rispetto alla motivazione iniziale del monitoraggio è che gli spostamenti di armi hanno assunto un movimento centrifugo di diffusione capillare con una richiesta sempre maggiore e globale (segno che il presente o probabile coinvolgimento è percepito come urgente approvvigionamento da parte di ogni area), e anche centripeto rispetto alle aree in cui è già esploso il conflitto (e dove si concentrano maggiormente le armi, sempre però seguendo un criterio che informa il singolo conflitto, sempre mantenuto nei canoni che i contendenti decidono – altro aspetto rilevato dal percorso operato in questo focus annuale).

Tuttavia non è più la fase in cui si segue il traffico per trovare un nuovo conflitto, ma la “guerra” è già dovunque e sempre di più è richiesto l’allineamento a uno schieramento… e ciascuno è tenuto all’interno del suo campo a riarmarsi e assorbire la sua parte di prodotti bellici. Questo è lo sfondo su cui sono andati a incastonarsi i preziosi contributi degli autori sopraelencati, che vanno a comporre il volume di 264 pagine dense di informazioni e analisi,  a cui corrisponde un e-pub che contiene il valore aggiunto di numerosi collegamenti interattivi.



Dicembre

21 dicembre

  • La vocazione  israeliana al controllo della Sicurezza globale

Intense relazioni tra esercito, università e aziende italiane con le tecnologie di guerra israeliane

AresDifesa” comincia a parlare il 4 settembre di questa sorta di “droni kamikaze” chiamati Hero-30, facendo illazioni sulla costruzione per forze speciali di un paese occidentale di flotte di queste “munizioni orbitanti”. Ancora non si capiva quale fosse mai il paese occidentale; il 21 dicembre Antonio Mazzeo ci informava che:

«I dirigenti di Leonardo DRS (Arlington, Virginia) hanno reso noto che l’unità commerciale dei sistemi terrestri di St. Louis, Missouri, ha stipulato il 6 ottobre un accordo con la SpearUAV Ltd. di Tel Aviv per sviluppare una versione delle munizioni aeree Viper su scala nanometrica “per andare incontro alle richieste emergenti di molteplici clienti militari statunitensi”» (Antonio Mazzeo blog).

ma a ottobre ancora non era uscita la notizia che dava continuità alla rivelazione sulla classe Hero di settembre. Infatti l’idra multiteste dell’industria dei droni israeliani faceva spuntare una nuova esportazione della tecnologia e della cooperazione con le aziende italiane: i mini-droni kamikaze sono stati lanciati ufficialmente all’inizio di ottobre quasi in contemporanea all’accordo tra Leonardo e SpearUAV. Una ventina di giorni dopo il ministro della difesa dell’Azerbaijan, Madat Guliyev, ha incontrato l’amministratore dell’azienda Gadi Kuperman per discutere sulla possibilità di rifornire le forze armate azere proprio con le nuove munizioni circuitanti Viper (“Israeldefence”).

Ma nello stesso articolo di Mazzeo si annunciava già la fusione delle due teste (o testate) israeliane: infatti faceva capolino l’accordo italo-tedesco che sarebbe sfociato nella produzione in Italia di loitering munitions su brevetto Uvision; Spear aveva rastrellato finanziamenti per 17 milioni da UVision, che è una macchina da guerra con sedi in India e negli Usa… e sempre a ottobre ha sottoscritto una partnership con la tedesca Rheinmetall per produrre unità autoesplodenti del tipo Hero, perché sono compatibili con mezzi prodotti dall’azienda di Düsseldorf (Boxer, Lynx, Mission Master). E l’accordo coinvolge RWM Italia, preposta a produrre per l’Europa i sistemi Hero (“FightGlobal“).

Già in questo articolo si faceva accenno allo stabilimento di Domusnovas e alla spesa di 4 miliardi stanziati dall’esercito italiano per il munizionamento con Hero-30. Il 23 gennaio “DefenseNews” trova un Avviso di aggiudicazione di appalti nel settore della difesa e della sicurezza per

«acquisizione del Sistema di Munizioni a guida remota, denominato «Loitering Ammunition» (LA) HERO-30 e relativo supporto tecnico-logistico, a soddisfacimento delle esigenze operative urgenti (Mission Need Urgent Requirement, MNUR) del Comparto Forze Speciali» (MINISTERO DELLA DIFESA – SGD/DNA- DIREZIONE DEGLI ARMAMENTI AERONAUTICI E PER L’AERONAVIGABILITÀ)

Il bando indica come vincitore dell’appalto RWM Italia S.p.A con sede a Ghedi, nel Bresciano. Nel 2021, UVision ha firmato un accordo strategico con l’entità italiana per la produzione su licenza e lo sviluppo di munizioni vaganti di tipo Hero. La partnership vede RWM Italia in qualità di prime contractor per il mercato europeo, fornendo e producendo alcuni componenti di munizioni, sistemi di assemblaggio e gestendo il supporto logistico.

Ma le partnership italo-israeliane hanno una lunga tradizione, soprattutto in rifornimenti da parte israeliana, intensificati dal 24 febbraio in funzione antirussa. Come il caso dei due sofisticati aerei di pronto allarme e intelligence da destinare alle cosiddette «missioni speciali» dell’Aeronautica militare CAEW (Conformal Airborne Early Warning & Control System) basati sulla piattaforma del jet Gulfstream G550 sviluppato dall’azienda statunitense Gulfstream Aerospace, appositamente modificato e potenziato dalla israeliana Elta Systems Ltd, società del gruppo IAI, acquistati il 13 settembre 2022 dal dimissionario Mario Draghi per 550 milioni di euro, come ricordava “il manifesto”; questi due velivoli si vanno ad aggiungere agli 8 aerei spia acquistati per quasi un miliardo e mezzo nel 2020 sempre da Elta.

Il soldato e la sua macchina: l’estensione del fantaccino con la sua protesi kamikaze

Ma la spesa era già lievitata l’anno precedente: infatti la notizia sull’ennesimo folle progetto bellicista del governo e delle autorità militari è stata data da “Milex”, l’Osservatorio sulle spese militari nel novembre 2021: il costo complessivo del programma è stimato in 3,878 milioni di euro in cinque anni, ma il ministero della Difesa ha voluto precisare che in sede di negoziazione del contratto «sarà ritenuta ammissibile una deviazione negli oneri del 10%”. Come dire che alla fine, se tutto andrà bene, i contribuenti italiani si faranno carico di 4,266 milioni di euro».

L’ultima notizia in ordine di tempo  – raccapricciante perché coinvolge accademia (università di Bari), enti locali (comune di Bari) – ripresa da “PagineEsteri”: un classico esempio di dual use questo progetto “Drone-Tech”, che prevede l’uso di droni israeliani per la ricerca di discariche abusive… che poi potrà svolgere le medesime funzioni di controllo e missione in territorio di guerra. Partner sarebbero il Distretto Tecnologico Aerospaziale pugliese (in cui spiccano le Università del Salento-Lecce e “Aldo Moro” di Bari, il Politecnico di Bari, l’Enea, il Cnr, Leonardo SpA, Avio Aereo, IDS – Ingegneria dei Sistemi) e High Lander Aviation Ltd, società con sede nella cittadina israeliana di Ra’anana, nei pressi di Tel Aviv, tra i collaboratori della quale si annovera il gruppo Sightec che ha fornito al colosso industriale IAI – Israel Aerospace Industries – le tecnologie di scansione impiegate a bordo di “MultiFlyer”, il nuovo piccolo drone-elicottero immesso nel mercato per svolgere un largo numero di operazioni dual, civili e militari-securitarie, come ha serenamente riferito all’Ansa il presidente del Distretto Aerospaziale Giuseppe Acierno:

«Siamo contenti di essere stati ritenuti idonei al programma di cooperazione industriale italo-israeliano sostenuto dal ministero degli Esteri. Il consolidamento della nostra collaborazione con i partner israeliani ci aiuta a stare vicino ai livelli più alti di innovazione e ci permette di rafforzare collaborazioni con un Paese che rappresenta l’eccellenza mondiale nel campo dei droni. Il progetto continua nello sforzo di rafforzare ed internazionalizzare le conoscenze e le capacità che il Distretto Tecnologico sta capitalizzando nella sperimentazione di servizi innovativi con droni per Bari Smart City e avvicina il sistema aerospaziale israeliano, tra i più avanzati e dinamici, a quello pugliese, per generare nuove opportunità per lo sviluppo di competenze e nuove forme di imprenditorialità».


  • Israele è comunque al centro di tutto il traffico d’armi in Europa e Medio Oriente

  • La Germania ha iniziato a settembre (si evince da un agenzia della Reuters) trattative per acquistare il sistema di difesa missilistico Arrow 3 da Israele, una parte dei 100 miliardi stanziati da Berlino per ammodernare la Wehrmacht dopo l’invasione dell’Ucraina. Gli intercettori Arrow 3 sono progettati per volare oltre l’atmosfera terrestre, lì le loro testate si staccano per trasformarsi in satelliti che inseguono e colpiscono i loro bersagli. Questi abbattimenti ad alta quota hanno lo scopo di distruggere in modo sicuro i missili nucleari, biologici o chimici in arrivo
  • E gli Usa triangolano con Israele per far pervenire armi all’Ucraina, come esposto dal “NYT“: il Pentagono sta attingendo a una vasta ma poco conosciuta scorta di munizioni americane in Israele, accumulata nelle molte missioni “umanitarie” mediorientali. Israele ha costantemente rifiutato di fornire armi all’Ucraina per paura di danneggiare le relazioni con Mosca: un rapporto di interesse per Israele che porta dal 2013 raid aerei all’interno della Siria per bloccare il passaggio di armi con cui i pasdaran riforniscono gruppi armati come Hezbollah o quelli palestinesi. Sorvola così i cieli di Damasco sotto il controllo russo; la Russia non vedrebbe questa recente mossa come un cambiamento di politica da parte di Israele, perché non si tratta di munizioni israeliane.
  • Un dato significativo in ambito mediorientale è quello della vendita agli Emirati del sistema di difesa aerea israeliano Barak. I primi abboccamenti erano avvenuti a gennaio in seguito agli attacchi con droni Houthi. Gli Emirati Arabi Uniti si erano cominciati a rivolgere a gennaio 2022 a Israele in seguito agli attacchi Houthi portati con i Qasef 2K di fabbricazione iraniana, come avevamo già riportato nella scheda del 17 gennaio). Non è chiaro quale versione del Barack sia stata impiegata, poiché Israel Aerospace Industries produce una famiglia di sistemi moderni basati sul Barak-8 originale. Originariamente progettato e coprodotto con l’India per essere un sistema navale, il Barak è stato modificato e aggiornato per funzionare con le forze terrestri. La IAI ha rifiutato di commentare questo rapporto. Una versione potenziale, il Barak-MX, è stata recentemente acquistata dal Marocco. Secondo IAI, si tratta di un sistema di difesa cinetica progettato per difendere da una serie di minacce aeree di giorno e di notte e in tutte le condizioni atmosferiche; può essere utilizzato con una serie di intercettori diversi la cui gittata va da 35 chilometri a 150 chilometri.
  • Dalla firma degli Accordi di Abraham nel 2020, che hanno normalizzato le relazioni tra Israele, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Marocco, le aziende israeliane del settore della difesa hanno cercato di scoprire i nuovi potenziali clienti.
  • «Sono già stati conclusi oltre 3 miliardi di dollari di nuovi affari nella regione» (“BreakingDefense”)

    Il cliente più recente di Uvision è l’Argentina, il primo paese latinoamericano ad acquistare le munizioni Hero-120 e Hero-30.


  • Ma è soprattutto l’aspetto di sperimentazione e messa in pratica che Tsahal mette a disposizione, fedele alla regola per cui si vendono solo macchine sperimentate sul campo: questa è testimoniata dalla nuova vita degli Apache, elicotteri per il prossimo quarto di secolo, la modernizzazione eseguita dalla Boeing, come rivelato a ottobre da “BreakingDefense“, dotati di missili Spike, sperimentati da Israele (ma con interessi anche francesi) nella esposizione di “DefenseNews” si assiste a una collaborazione tra Lockheed Martin e Rafael Advanced Defense Systems che hanno recentemente completato dei voli di prova in Israele per prepararsi a uno scontro a fuoco; queste esercitazioni permetteranno di scegliere l’arma di precisione a lungo raggio da montare sugli AH64-E Apache.

    Le munizioni a lungo raggio per i futuri velivoli dell’esercito saranno fondamentali per impegnare le posizioni difensive del nemico da una distanza confortevole, ovvero al di là del raggio di rilevamento del nemico e lo Spike Non-Line-of-Sight è stato reso compatibile con il lancio dal Modular Effects Launcher, in ase di sviluppo per l’esercito statunitense.

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Sulla base dell’Accordo di Cooperazione nel campo della Ricerca e dello Sviluppo Industriale, Scientifico e Tecnologico tra Italia e Israele, nel corso del 2022 sono stati individuati i seguenti progetti ammessi a ricevere un sostegno finanziario da parte del Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale:

  • Drone Tech – partner: Distretto Tecnologico Aerospaziale e High Lander Aviation Ltd.
  • ASTI Auto System THA Insertion – partner: Politecnico di Torino/Intrauma S.p.A. e Value Forces Ltd.
  • We –CAT – partner: Università di Milano Bicocca e Bar Ilan University.
  • GreenH2 – partner: Politecnico di Milano e The Hebrew University of Jerusalem.
  • Hydrogen Sensors – partner: Università degli Studi dell’Aquila e Tel Aviv University.
  • IVANHOE – partner: Università degli Studi dell’Aquila e Ben Gurion University of the Negev.
  • Bio-SoRo – partner: Sapienza Università di Roma e Ben Gurion University of the Negev.
  • F2SMP – partner: Università degli Studi di Pavia e Technion Israel Institute of Technology.
  • C-IGrip – partner: Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia e The Hebrew University of Jerusalem.
  • BIONiCS – partner: Università degli Studi di Genova e Tel Aviv University.

11 dicembre

      • Tayfun e le ambizioni neo-ottomane di uno stato militarista

            • Qualche anno fa si è cominciato a mettere in dubbio il concordato mondiale che vedeva l’Onu come il luogo dove arginare la possibilità che un autocrate potesse scatenare una nuova guerra mondiale. Le picconate conclusive su quel poco di autorevolezza che l’Onu aveva ancora fino a pochi lustri fa sono arrivate da Trump e da lì è come se tutte le democrature avessero capito che era saltato il tappo che doveva aiutare a comporre i conflitti riducendo (se non annullando, come nel primo dopoguerra) l’importanza della forza bruta.
              Tra chi ha sfruttato maggiormente questo nuovo modo di affrontare i conflitti e le dispute mondiali ci sono i paesi che animano quello che si può ormai definire il Protocollo di Astana, periodico incontro tra potenze locali, per regolare una sorta di paradossale alleanza spartitoria tra la Russia, l’Iran e la Turchia. Se la prima si è lanciata nell’avventura ucraina che procede innanzitutto facendo carta straccia della diplomazia dell’Onu, la Turchia ha già assestato qualche colpo alla Nato, l’altro apparato militare occidentale, annunciando l’offensiva sia verso il Rojava, sia verso la Grecia: l’11 dicembre “Ekatimerini” riporta la consueta serie di bellicose dichiarazioni elettoralistiche del bullo Erdoğan contro la Grecia (altro membro Nato), minacciando di colpire Atene con un missile Tayfun, «se non rimarrete calmi». Qualche giorno prima il ministro degli Esteri turco Mevlut Čavusoglu ha minacciato la Grecia di invaderla se non smilitarizzerà le sue isole del Mar Egeo, ha detto che la Turchia «arriverebbe all’improvviso da un giorno all’altro», un’espressione che i funzionari turchi amano usare spesso.Il problema è che il bullo dispone già del secondo esercito più potente della Nato e il tredicesimo per forza armata attiva disponibile. E sta riarmandosi a ritmi forsennati, procurandosi ogni tipo di armi e «dato che l’anno prossimo la Grecia dovrà affrontare una doppia elezione, in cui è probabile che tra le due tornate elettorali si insedi un governo di transizione, i funzionari governativi temono che Erdogan possa far coincidere l’incidente con questo periodo di minore stabilità della politica greca».

              • “Future Defense” ha lanciato una serie di video su YouTube per avvertire dell’iperattivismo turco:

              .

              Si comincia con il 14 ottobre: nel video si assiste alle mirabolanti imprese del quadruplo missile da crociera turco da imbarcare su fregate

              • Roketsan, continua a lavorare sul Sistema di Lancio Verticale Nazionale, chiamato Mildas, e sui missili di difesa aerea che saranno utilizzati in esso; l’obiettivo finale è quello di integrare il Quad-Pack funzionale, con la capacità di lanciare più missili da crociera. Le fregate della classe Istif, o TCG Istanbul, avranno un sistema di lancio verticale a 16 celle. e Se il pacchetto funzionale Quad-Pack sarà integrato nel sistema di lancio verticale, ogni cella potrà essere equipaggiata con 4 missili di difesa aerea.
                In questo modo, invece di 16 missili pronti a sparare, il sistema avrà 64 missili di difesa aerea.

                • Altro prodotto Roketsan è il missile Sungur, mostrato in questo video del 10 dicembre 2022 di “Military Coverage”:
                • Il Sungur Air Defense System è un sistema missilistico di difesa aerea a corto raggio integrato nel veicolo blindato tattico a ruote Vuran, ha 8 chilometri di gittata; se da un lato il sistema missilistico aumenta l’accuratezza nel colpire i bersagli grazie alla tecnologia Imaging Infrared Seeker (IIR), dall’altro presenta un importante vantaggio nella distruzione dei bersagli aerei grazie alla sua testata, che ha una potenza esplosiva superiore a quella dei sistemi simili disponibili nell’arsenale di Ankara.
                • E non poteva mancare il nuovo gioiello Baraktar: Kızılelma il regalo di Natale per i vicini ellenici: un caccia senza pilota supersonico, descritto su “DefenseNews“:
              • Il Kızılelma può rimanere in volo fino a 4-5 ore, controllato via satellite attraverso l’antenna Satcom. È alimentato da motori turbofan AI-322F dell’azienda ucraina Ivchenko-Progress.
                Il jet è dotato di un radar Aesa costruito da Aselsan e sarà in grado di lanciare missili aria-aria Bozdogan e Gokdogan. Per la guerra di superficie, il futuro aereo senza pilota sarà armato con missili da crociera SOM-J con una gittata di oltre 250 km e bombe guidate della famiglia MAM, prodotte da Roketsan, per missioni di piccolo attacco
              • Di questi droni supersonici è dotata la nave d’assalto Anadolou una nave strategicamente diventata portadroni quando gli Usa vietarono l’acquisto di F35 alla Turchia, questa ammiraglia vanta a bordo anche elicotteri d’attacco AH-1W SuperCobra e S-70 Seahawk.

          • A cui si aggiunge Anka-3, presentato all’“INDO Defense Expo & Forum 2022” di Jakarta, tenutosi a novembre e illustrato in questo video natalizio:
        • Il sistema, sviluppato sulla base dell’esperienza acquisita con i droni della classe Anka, è stato presentato in anticipo sulle previsioni (e non è una buona notizia): con un motore a reazione turbofan, il drone avrà un peso massimo al decollo di 7000 chili e sarà in grado di trasportare non solo sensori per la sorveglianza, ma anche armi. Il vicepresidente turco Fuat Oktay ha dichiarato che l’Anka-3 sarà in grado di colpire i sistemi di difesa aerea nemici. L’Anka-3 assomiglia al drone multiuso X-47B di Northrop Grumman, che ha volato per la prima volta quasi 12 anni fa e ha una velocità di crociera di quasi 1000 km/h.
          Una delle aspettative per l’ANKA-3 è che sia in grado di operare in tandem con il futuro caccia turco TF-X, un’altra piattaforma prodotta da TAI.

    La Turchia a novembre aveva messo in servizio dalla Marina turca il suo nuovissimo Ucav Aksungur Male nell’ambito dell’esercitazione navale “Mavi Vatan 2022”, caricando munizioni teleguidate Mam-L di produzione nazionale su un bersaglio di superficie, una nave militare. L’Aksungur può svolgere missioni di intelligence, sorveglianza, ricognizione e attacco in tutte le condizioni atmosferiche, di giorno e di notte, con un’elevata capacità di carico utile di 750 kg, può rimanere in volo per 60 ore.

      • Risale al 6 dicembre il lancio di “NavalNews” relativo ai sottomarini nucleari targati Type 214TN, Nell’ambito del progetto, il primo sottomarino, il Piri Reis, in costruzione presso il cantiere navale di Golcuk, è stato varato nel 2019 e ha galleggiato in acqua nel marzo 2021. Il secondo sottomarino Hizir Reis, entrato in bacino di carenaggio il 24 maggio 2022, dovrebbe entrare in servizio nel 2023. A partire da quest’anno, sarà commissionato un sottomarino all’anno e 6 sottomarini della classe Reis saranno consegnati alla Marina turca entro il 2027. La Marina turca dispone di una flotta di 12 sottomarini composta da quattro classe Ay (Tipo 209/1200), quattro classe Preveze (Tipo 209T/1400) e quattro classe Gür (Tipo 209T2/1400), tutti sottomarini d’attacco a propulsione convenzionale (diesel-elettrica). Entro il 2027, la Turchia opererà con sei sottomarini AIP classe Reis.
      • La classe Reis porterà benefici non solo alla Marina turca, ma anche alla base tecnologica e industriale della difesa turca. Il know-how e l’esperienza acquisiti con il progetto del sottomarino classe Reis saranno un forte riferimento per i sottomarini indigeni che saranno costruiti nell’ambito del progetto del sottomarino nazionale (Milden), attualmente in fase di progettazione e la cui costruzione è prevista per il 2030. Molti subappaltatori turchi, tra cui ASELSAN, HAVELSAN, MilSOFT, Defense Technologies Engineering and Trade Inc. (STM), Koç Information and Defense, Scientific and Technological Research Council of Turkey (TÜBİTAK) e AYESAŞ, stanno lavorando ai sottosistemi dei sottomarini della classe Reis, come il sistema di navigazione e gestione dei dati, il collegamento dati, il sistema di contromisure per i siluri.I sottomarini della classe Reis di tecnologia tedesca sono caratterizzati da un sistema di propulsione basato sulla cella a combustibile di Howaldswerke-Deutsche Werft (HDW). I sottomarini hanno una lunghezza di 68,35 metri, un diametro esterno di 6,3 metri, un dislocamento di 1850 tonnellate e una capacità di 40 persone. ThyssenKrupp Marine Systems ha costruito i sottomarini della classe Reis nel cantiere turco di Golcuk, come da contratto del 2009. Il sottomarino è in grado di effettuare dispiegamenti di lunga durata senza dover fare snorkeling. Sono dotati di siluri pesanti (MK48 Mod 6AT e DM2A4), missili antinave (Sub-Harpoon) e mine. Il siluro pesante turco Akya e il missile antinave Atmaca dovrebbero essere montati sui prossimi sottomarini del progetto. I sottomarini della classe Reis saranno in grado di svolgere missioni come operazioni in acque litoranee e pattugliamenti oceanici, comprese operazioni antisuperficie e antisommergibile, compiti ISR e operazioni di forze speciali; sembrano fatti apposta per il controllo delle acque greche.
      • E ciliegina finale su questa torta di miliardi e arsenali micidiali, il missile balistico alluso da Čavusoglu all’inizio di questa scheda: il nuovo missile balistico con una portata di 1000 chilometri: il Tayfun

tayfun


La Grecia dal canto suo nell’ultimo anno ha principalmente posto la sua attenzione su Corvette (in acquisto da Fincantieri), ma partecipa anche all’accordo europeo tra Francia, Germania, Italia, Olanda e Gran Bretagna per lo stanziamento di 28 milioni di dollari per il progetto Next-Generation Rotorcraft Capability (NGRC) per la produzione di un elicottero le cui caratteristiche dovranno essere definite dai committenti: «In collaborazione con l’industria, i partecipanti partiranno da zero per esplorare come abbinare le loro esigenze con le più recenti tecnologie sul mercato, esaminando opzioni come la propulsione ibrida ed elettrica, un’architettura di sistema aperta e sistematica e la fornitura di caratteristiche di volo radicalmente migliorate», si legge nel comunicato della presentazione a Eurosatory.

NGRC

La Grecia ha presentato Archytas, il suo drone dual use all’expo di Salonicco, una macchina dedita al pattugliamento di confini di mare e di terra.
Rispetto ai caccia: alla Turchia non sono concessi quelli più performativi e schierano “soltanto” gli F-16, invece i greci fanno parte del progetto F-35, lo stesso che dopo l’incidente di natale ha spinto American Aircraft Production Administration a lasciare a terra i velivoli in attesa di accertamenti.

5 dicembre

    • Licenza di (contro)spionaggio per DigitalPlatforms: il certificato TEMPEST

      • Formiche” informa che il gruppo industriale italiano DigitalPlatforms è entrato nell’elenco delle aziende classificate e abilitate come produttori TEMPEST sia dal Consiglio dell’Unione europea sia dalla Nato. Gli apparati Tempest consentono una difesa totale da attacchi elettromagnetici; è una sigla della Nsa (National Security Agency) statunitense. TEMPEST ((Telecommunications Electronics Material Protected from Emanating Spurious Transmissions) riguarda sia i metodi per spiare gli altri sia le modalità di schermatura delle apparecchiature contro tale spionaggio. Gli sforzi di protezione sono noti anche come sicurezza delle emissioni (EMSEC), che è un sottoinsieme della sicurezza delle comunicazioni (COMSEC).
        I servizi TEMPEST e di Sicurezza Elettromagnetica supportano i clienti nella comprensione e nella gestione del livello di segnali emessi dalle apparecchiature che possono rivelare dati sensibili: cioè TEMPEST rileva attraverso standard di certificazione quanto sia vulnerabile il sistema informatico-comunicativo di cui ci si avvale e mette in atto contromisure al rischio di trasmettere involontariamente informazioni.
        Gli standard TEMPEST prescrivono elementi quali la distanza delle apparecchiature dalle pareti, la quantità di schermatura negli edifici e nelle apparecchiature e la distanza che separa i cavi che trasportano materiali classificati da quelli non classificati (Nsa).
      • La Fondazione ICSA , di cui è presidente il generale Leonardo Tricarico, ha organizzato sempre per il 5 dicembre 2022 l’evento “Difesa della sovranità digitale ed elettromagnetica. La tecnologia TEMPEST per la protezione dei sistemi informatici da interferenze ed intercettazioni elettromagnetiche
    • «L’iniziativa nasce dalla considerazione che l’esito degli ultimi conflitti bellici globali e, soprattutto, il protrarsi della guerra russo-ucraina nel cuore dell’Europa, impongono un urgente aggiornamento della dottrina militare e dei modelli di intervento in direzione di un significativo irrobustimento dell’approccio multidominio MDO (Multi Domain Operations) e delle attività CEMA (Cyber Electromagnetic Activities) per la sicurezza militare e nazionale» (gen. Leonardo Tricarico, “SNews”).

      L’evento Icsa intendeva incrementare la conoscenza e la diffusione della cultura del TEMPEST ed è interessante notare la coincidenza dell’evento con la certificazione attribuita a DigitalPlatforms

  • Il target dei servizi TEMPEST è rivolto a clienti che sono forze armate nell’ambito Nato. Un fornitore di prodotti TEMPEST ha dimostrato di aver soddisfatto una serie di criteri per ottenere la certificazione del proprio prodotto. Questo dà agli utenti finali la certezza che i prodotti soddisfino i requisiti TEMPEST. Tra questi spiccano gli elicotteri AW149 di Leonardo UK
  • , come attesta il National Cyber Security Centre britannico (macchina da guerra in gara per una fornitura di 44 esemplari al governo britannico per 1,2 miliardi).
  • Il 5 e 6 gennaio 2023 si terrà a Shanghai il quarto appuntamento dell’Asia Cybersecurity Innovation Summit che intende monitorare gli investimenti nella sicurezza in rete: la previsione è che l’investimento totale in hardware, software e servizi legati alla sicurezza di rete a livello globale aumenterà fino a 223,34 miliardi di dollari nel 2025, con un tasso di crescita composto (CAGR) quinquennale del 10,4%. La stima della spesa cinese sarà di 21,46 miliardi di dollari, crescendo del 20,5%. Questo evento combinerà in modo completo politiche e normative per fornire una piattaforma completa di apprendimento e comunicazione per i professionisti della tecnologia della sicurezza di rete e delle normative.

5 dicembre

    • Il mercato si spartisce

      • Di nuovo come per gli ultimi anni si assiste a un incremento degli investimenti per costruire e dotarsi di armi nel bilancio della difesa italiana, parallelo aumento a quello della vendita mondiale di ordigni. Si ricava dai dati dell’Osservatorio Milex e dal rapporto annuale del Sipri svedese, alle cui informazioni avevamo già attinto per l’editoriale di ottobre riguardo all’import/export tra il 2017 e il 2021.

        «Il rapporto del Sipri, l’istituto svedese che monitora il commercio mondiale delle armi, è dedicato alle  “Top 100 arms companies” ed è stato reso pubblico il 5 dicembre. Dice che le vendite di armi e servizi militari da parte delle 100 più grandi aziende del settore hanno raggiunto 592 miliardi di fatturato nel 2021, un aumento dell’1,9 per cento rispetto al 2020 in termini reali. Aggiunge che l’aumento segna il settimo anno consecutivo nella crescita globale della vendita di armi. I dati sono di prima della guerra in Ucraina».

    • così sintetizza Emanuele Giordana sull’“Atlante delle Guerre”, che nell’occhiello riassume: «A causa della pandemia e della crisi nella logistica rallenta la produzione ma il saldo del commercio mondiale delle armi continua ad aumentare. L’Italia conquista posizioni nel Top 100 dei produttori».
      Il rapporto Sipri ci racconta che le vendite di armi e servizi militari da parte delle 100 più grandi aziende del settore hanno raggiunto 592 miliardi di fatturato nel 2021, un aumento dell’1,9 per cento rispetto al 2020 in termini reali e negli ultimi vent’anni l’incremento del valore è stato del 174%, passando dai 201 miliardi del 2002 ai 592 del 2021 e vede Lockheed con profitti doppi (più di 50 miliardi annui) rispetto ai secondi classificati (Boeing e Northrop – circa 30 miliardi a testa) di questa classifica di mercanti di morte, che li vede incalzati a poca distanza da Raytheon, General Dynamics e BAE; dopo il pantheon Usa si trovano 4 marchi cinesi tra 15 e 20 miliardi (Avic, Norinco, Cetc, Casc); poi di nuovo poco sotto le statunitensi L3Harris e United Technologies, di nuovo Casic cinese e 14esima la prima ditta europea (Airbus) con 15 miliardi – azienda transeuropea – subito incalzata dall’italiana Leonardo con un miliardo in meno (13,9). Seguono sotto ai 10 miliardi la russa Almaz-Antey e la francese Thales.
    • Alfonso Navarra (“DisarmistiEsigenti”) scrive che dalle tabelle del ministero della Difesa, del Mise, del Mef riassunte dall’Osservatorio Milex l’incremento della spesa militare italiana raggiunge gli 800 milioni di euro, raggiungendo in previsione per il 2023 i 26,5 miliardi; la spesa per il riarmo italiano del prossimo anno supererà gli 8 miliardi. Esalta il dato con orgoglio “Formiche”:
    • «Le realtà industriali italiane hanno registrato un incremento percentuale nelle vendite militari del 15%, un risultato superiore a quello di tutte le altre regioni (eguagliato solo da Parigi). L’Italia da sola copre il 2,8% delle vendite globali del 2021. Nel dettaglio, nel 2021 Leonardo ha aumentato le sue vendite di difesa del 18%». L’exploit ha una ricaduta non solo a livello globale, dove l’Italia gioca da protagonista, ma anche sull’intero sistema economico, di cui il settore aerospazio, sicurezza e difesa rappresenta un segmento cruciale, anche per i ritorni in termini di tecnologia e innovazione. La crescita delle esportazioni segnala come la bilancia commerciale sia positiva per il comparto Difesa; nonostante la guerra in Ucraina, se da una parte ha innalzato la domanda, abbia avuto anche effetti importanti sulle supply chain di diverse realtà industriali, dato che la Russia è sempre stata un importante fornitore di materie prime necessarie per la produzione».

  • Questa valanga di miliardi ci travolge e lascia attoniti e non si riesce nemmeno a conferirgli una dimensione reale; ma forse il mercato va letto a comparti e allora si riuscirebbe a capire più facilmente come si muove e quali sono le correnti che lo animano: le alleanze tra ditte apparentemente concorrenti, che invece stipulano accordi spartitori per alternare i prodotti proposti ai potenziali clienti, consentono di collocare sul mercato, in tempi regolati dalle aziende stesse, articoli simili con alcune differenze, appetibili da tutti, per poter usufruire dell’intera gamma.Allora alla luce di quella classifica diventa emblematica la vicenda narrata da “BreakingDefense” di L3Harris – 5 posizioni sopra a Leonardo – che nella joint venture per fabbricare aerei da rifornimento con la brasiliana Embraer (il vero outsider, che coglie l’affare) aggira le guerre tra aziende per spartirsi i contratti, concordando due prodotti di scala diversa e prodotti da concorrenti che si spartiscono il mercato, raddoppiando le vendite.
  • Tra il 2012-16 e il 2017-21 si sono verificate diminuzioni complessive delle importazioni di armi in tre regioni del mondo: Americhe (-36%), Africa (-34%) e Asia e Oceania (-4,7%). Nel 2017-21 le importazioni di armi da parte degli stati sudamericani sono state inferiori rispetto a qualsiasi quinquennio degli ultimi cinquant’anni. In controtendenza solo il Brasile, unico stato del Sud America ad avere ingenti consegne di armi in sospeso.
    • Infatti ascrivendo l’Embraer KC-390 alla serie di aerocisterne più piccole e “tattiche” vuol dire escluderlo dal programma KC-Y, il “bridge tanker” che dovrebbe colmare le potenziali lacune tra il momento in cui la parabola dell’imponente KC-46 sarà conclusa e il prodotto della Boeing sarà pronto all’avvicendamento con il suo successore, chiamato KC-Z – dopo il breve interregno del KC-Y, per il quale si sono già schierate le ditte che troviamo in testa alla classifica pubblicata dal Sipri: Boeing, il cui KC-46A aveva vinto la medesima battaglia una decina di anni fa sui rifornimenti – che sono essenziali, e i generali in quiescenza (preposti dovunque alla fureria) ne sono consapevoli –, e un team di Lockheed Martin (primo in assoluto tra i fornitori di armi) e Airbus (prima azienda europea), che sta offrendo una versione dell’A330 MRTT prodotto dal marchio europeo, denominata LMXT per il consumo nazionale – bimotore turboventola multiruolo da trasporto militare e rifornimento in volo, come indicato dalla sigla MRTT, derivato dall’aereo di linea Airbus A330-200.

      In realtà si tratta di un avvicendamento: l’A330 era risultato secondo classificato rispetto al KC-46, e Northrop Grumman è stato il primo contraente statunitense (a completare il gotha delle aziende più importanti del settore bellico). E il “piccolo” KC-390 non è un prodotto in concorrenza, ma complementare, come spiega Kubasik, ceo di L3Harris, il colosso di media caratura che ha fatto l’affare con Embraer, che sta attualmente producendo un totale di 22 KC-390 per le forze aeree brasiliane, e anche Portogallo, Olanda e Ungheria hanno firmato per l’acquisto del velivolo:

    «Penso che il punto chiave che abbiamo detto ai nostri clienti è che questo è complementare, giusto? Voglio dire, avete queste grandi petroliere strategiche molto critiche che trasportano il doppio del carburante, – ha proseguito. – Il carburante è la sfida logistica numero uno per gli aerei, quindi perché non volere più capacità di rifornimento, di dimensioni e forme diverse? Penso che non siamo in competizione con nessun altro. Siamo complementari. Credo che i due strateghi avranno il loro solito botta e risposta. Penso che questo sia – non voglio dire che sia irrilevante per Usaf, ma penso che sia semplicemente “Ok, questo riempie il vuoto”».

  • Nel settore meno spettacolare, ma più sensibile della guerra dei cieli in questo appalto sta la dimostrazione di come quella classifica Sipri rispecchia solo il peso specifico e il potere contrattuale nelle trattative tra le ditte produttrici che si spartiscono e creano il mercato. Alleandosi per una spartizione della torta “senza guerre” (tra loro).

29 novembre

    • I coyotes mondiali

      • Il 29 novembre Defense Security Cooperation Agency pubblicava la notizia della concessione da parte del Dipartimento di stato americano della vendita di sistemi di difesa antidrone per una spesa pari a un miliardo di dollari in cambio di 10 Fixed Site-Low, Slow, Small Unmanned Aircraft System Integrated Defeat System (FS-LIDS) System of Systems, includendo 200 Coyote Block 2 interceptors; e poi Counter Unmanned Electronic Warfare System (CUAEWS); Coyote launchers; Ku Band Multi-function Radio Frequency System (KuMRFS) radars; Forward Area Air Defense Command e Control (FAAD C2); Counter Unmanned Electronic Warfare Systems (CUAEWS).
      • Lo riportava “BreakingDefense” sottolineava come i principali contractor Raytheon, Northrop Grumman and R&D company SRC.A Marzo si leggeva nel rapporto Sipri del confronto tra il 2017-2021 con il decennio precedente e riprendiamo da lì per inquadrare questa notizia novembrina in omaggio all’esiziale mondiale di calcio ottenuto da Doha (che secondo quel dossier aveva incrementato la spesa del 227% rispetto al lustro precedente) con la corruzione di Sarkozy, Platini e Guéant prima e poi con il sostegno di parlamentari europei di sinistra che negano l’evidenza del sistema omicida e criminale del Qatar (ci limitiamo a suggerire che Messi e Mbappé giocano entrambi nel Psg, che è di proprietà dell’emiro di Doha, un caso che la finale sia per magia tra le loro due compagini?): infatti l’Atlante delle guerre riassumeva così la situazione del Medio Oriente a marzo:

        «Si stabilizzano le importazioni di armi in Medio Oriente. Dopo il forte aumento registrato nel decennio precedente (86% in più tra il 2007-11 e il 2012-16) gli stati mediorientali hanno importato ‘solo’ il 2,8% di armi in più nel 2017-21 rispetto a quello precedente. Il conflitto in Yemen e le tensioni tra l’Iran e altri stati della regione restano alla base delle importazioni di armi nell’area. L’Arabia Saudita si conferma un grande importatore, il secondo al mondo, con un 27% in più investito in armi nel periodo 2012-16, rispetto al precedente.
        Le importazioni di armi del Qatar sono cresciute del 227%, spingendolo dal 22esimo importatore di armi al sesto. Al contrario, le importazioni di armi degli Emirati Arabi Uniti sono diminuite del 41%, passando così dal terzo al nono posto. Tutti e tre questi stati, insieme al Kuwait hanno poi effettuato ingenti ordini che prevedono la consegna nei prossimi anni. Nell’area, poi, Israele ha aumentato le importazioni di armi del 19%».

    • E poi le esportazioni statunitensi verso Riyad sono aumentate del 106%. Ma a cosa serve l’enorme quantità di armi, le più disparate per ogni tipo di guerra, sparpagliate per tutta la penisola araba?

Novembre

19 novembre

  • La guerra dei droni da Astana

    • La notizia in autunno sul fronte dell’approvvigionamento dei droni per le attività dell’aviazione russa è che si è raggiunto un accordo per impiantare in tempi brevi  uno stabilimento con la tecnologia iraniana direttamente in territorio russo; a rivelarlo il Washington Post, successivamente rilanciato da tutte le testate del mondo. Come sottolinea “DroneBlog”:

      questo accordo oltre che essere strategico mette in luce ancora di più il rapporto e la cooperazione militare fra Iran e Russia, che sta svolgendo un ruolo chiave in Ucraina. Se il nuovo accordo sarà pienamente realizzato, significherebbe un ulteriore rafforzamento dell’alleanza russo-iraniana. Questo accordo, oltre a migliorare la disponibilità di armi all’esercito russo, toglierebbe dall’isolamento l’Iran, dando una nuova spinta economica a un sistema interno collassato ormai da anni e alle prese con una rivoluzione in atto

  • In piena continuità con gli accordi di Astana, che tanto abbiamo analizzato in OGzero.
    E sempre “DroneBlog” scrive che «finora Teheran ha cercato di presentarsi come neutrale nel conflitto ucraino , ma si scopre che sempre più droni di fabbricazione iraniana vengono utilizzati per attaccare le città ucraine, innescando minacce di nuove sanzioni economiche dall’Occidente». E si insinua una scommessa iraniana sul sostegno che deriverebbe dall’alleanza con Mosca per ricavare valore contrattuale per gli accordi sul nucleare
  •  Peraltro l’industria iraniana dei droni si sta già diffondendo in altri paesi. L’Iran ha aperto a maggio una fabbrica in Tagikistan, che produce il drone Ababil-2, secondo l’Eurasia Times: è stato Zelensky stesso a indicare la strategia di avvicinamento a Mosca da parte di Ankara con fini collegati al Jcpoa.
  • The Guardian” il 10 novembre accusava l’Iran di aver sostenuto militarmente fin dal 24 febbraio l’alleato russo, ma ancora prima “Wired” riportava un sistema rudimentale – ma efficace – di aggiramento delle sanzioni: contanti e baratto.
  • In estate il baratto sarebbe dimostrato dall’atterraggio il 20 agosto di 2 Ilyushin IL-76 arrivati e ripartiti da Mehrabad (la città del kurdistan iraniano martirizzata il 19 novembre dalle guardie della rivoluzione): trasportava in cambio di droni armi occidentali sottratte agli ucraini, necessarie agli ingegneri persiani per carpire le tecnologie. Ipotesi suffragate da immagini satellitari diffuse da SkyNews e da dichiarazioni rilasciate al Washington Post il 29 agosto da funzionari statunitensi.

Un ultima notazione sull’asse russo/iraniano: i droni iraniani Mohajer-6 contengono molte componenti provenienti dalla tecnologia occidentale (in particolare giapponesi,  secondo James D. Brown) – quindi senza che si debbano trasferire ordigni catturati per studio – stando alle rivelazioni di “la Repubblica”; ma, a dimostrazione che lo spargimento di morte tra civili attraverso macchine a controllo remoto non comporta scelte di campo, il Blog di Antonio Mazzeo riporta un’informazione raccolta da “DefenseNews”:

    • «Il regime turco di Recep Tayyp Erdogan finanzierà la produzione di droni-elicotteri e droni-kamikaze per il mercato nazionale e l’esportazione, decisione che non potrà non essere accolta con favore anche in Italia. La società di engineering aerospaziale Titra Technoloji, con quartier generale ad Ankara, riceverà sussidi economici governativi per realizzare il primo modello di elicottero a pilotaggio remoto in Turchia. Denominato “Alpin”, il drone-elicottero sarà prodotto in dieci esemplari all’anno, “in aggiunta a 250 droni kamikaze”».

    • La Malesia ha scelto la Turkish Aerospace Industries per la fornitura di tre velivoli senza pilota, secondo quanto dichiarato dal ministro della Difesa della nazione del Sudest asiatico e ripreso da “DefenseNews”.
      TAI aveva presentato il suo Anka, un sistema di velivoli senza pilota a media altitudine e lunga resistenza, alla fiera della difesa e dell’aerospazio LIMA nel 2019. Il 18 agosto 2022 il re malese Al-Sultan Abdullah ha visitato le strutture di TAI ad Ankara, in Turchia. Il 7 ottobre TAI ha annunciato un memorandum d’intesa per una collaborazione con il MIMOS, il centro di ricerca e sviluppo della Malesia. Ma perché la Malesia è alla ricerca di queste macchine da guerra? Le forze armate e la Guardia Costiera della Malesia sono impegnate nella lotta alla pirateria lungo le sue coste, inoltre è loro demandato a livello internazionale il controllo e l’antiterrorismo nel Mare di Sulu (tra la Malesia orientale e le Filippine meridionali, dunque all’interno del quadro anticinese del noto contenzioso nel mar cinese meridionale sulle Spratly Island e nello strategico controllo dello Stretto di Malacca).
  • La famiglia di droni Anka è in grado di svolgere missioni di ricognizione, acquisizione e identificazione di obiettivi e raccolta di informazioni. È dotata di tecnologie elettro-ottiche/infrarosse e radar ad apertura sintetica. Il produttore afferma che i velivoli hanno capacità di volo autonomo e possono decollare e atterrare da soli.La famiglia di UAV ha un’apertura alare di 17,5 metri e una lunghezza di 8,6 metri, e ha un tetto di servizio di 30.000 piedi. Possono rimanere in volo all’altitudine operativa di 18.000-23.000 piedi per più di 30 ore.
    • A metà ottobre il Kazakistan e la Turchia hanno annunciato l’intenzione di sviluppare una “cooperazione strategica a lungo termine” che preveda la coproduzione di satelliti e altri sistemi spaziali.
    • «Questo è il primo passo di una forte cooperazione con il Kazakistan nel campo dello spazio. Il memorandum d’intesa che abbiamo firmato con le società Kazsat e Ghalam sulla creazione di una cooperazione strategica a lungo termine nei settori dei satelliti e dello spazio sarà vantaggioso per il nostro paese e la nostra nazione» (Ismail Demir, Tai)

    • Infatti in maggio, secondo le informazioni di “DefenseNews“, era stato firmato un protocollo tra Kazakhstan e Turchia per la coproduzione di droni da gettare sul mercato Asean e produrre in quella che è la prima fabbrica di Bayraktar fuori dai confini turchi, con contratto che prevede anche manutenzione e riparazione. E quell’accordo faceva seguito a quello di aprile con il Kirghizistan che aveva firmato per primo un accordo per l’acquisto di un numero imprecisato di droni armati: infatti  Bishkek aveva pregato Ankara di soprassedere alla vendita dei letali droni a Dushanbe, alla luce delle tensioni sul confine (e questo spiega la rincorsa al riarmo dei due paesi dell’Asia centrale, sfruttata da Ankara per raddoppiare le vendite).
  • Il drone può essere equipaggiato con armi come il lanciamissili a lancio aereo Roketsan Smart Micro Munition e la capsula missilistica guidata Cirit da 2,75 pollici nelle due stazioni d’armamento sotto l’ala per ingaggiare veicoli leggermente corazzati, personale, rifugi militari e stazioni radar a terra. Un evidente monito per le mire espansionistiche di Mosca.
    • L’aggressività non solo verso il mercato della industria bellica turca si appropria anche di ricerche straniere, come quelle che consentono al criminale Erdoğan di arrivare al drone-elicottero: infatti Antonio Mazzeo spiega che questo velivolo è un sistema a pilotaggio remoto che potrà essere impiegato a fini civili ma soprattutto per missioni bellico-militari di intelligence e ricerca e soccorso. Il prototipo del drone-elicottero è lungo 7 metri, alto 2,35 e ha un diametro del rotore di 6,28 metri; ciò gli consente di essere trasportato in veicoli di medie dimensioni. Il suo peso non supera i 540 kg compresi apparecchiature elettroniche e carburante. L’”Alpin” ha una velocità di crociera di 160 km/h e può coprire un raggio d’azione fino a 840 km di distanza, a un’altitudine di 5000 m. L’autonomia di volo varia dalle due alle nove ore, secondo la portata del carico a bordo.
      Ma perché abbiamo usato il verbo “appropriarsi”? La risposta è nel Blog di Antonio Mazzeo (che cita “DefenseNews”):
    • «L’Alpin è basato sull’elicottero italiano ultraleggero con equipaggio umano Heli-Sport CH-7». Il CH-7 è realizzato infatti dalla Heli-Sport S.r.l. di Torino, azienda fondata dai fratelli Igo, Josy e Charlie Barbaro e specializzata nel design e produzione di velivoli ad ala rotante di ridotte dimensioni. La società si dichiara però del tutto estranea dalla vicenda.

    • In effetti l’Alpin nasce da un accordo tra la Titra turca e la Uavos californiana per convertire il CH-7 in elicottero a pilotaggio remoto: la trasformazione dei velivoli italiani in droni-elicotteri è stata avviata dalla statunitense Uavos, mentre il primo test di volo è stato effettuato nel dicembre del 2020 nei cieli della Turchia.

«L’Alpin è stato progettato per andare incontro alle richieste specifiche ed uniche della Turchia e agli interessi speciali della sua industria nazionale per operare come sistema a pilotaggio remoto in una varietà di scenari complessi nei campi civili e della sicurezza», riporta la nota emessa da Uavos a conclusione delle attività sperimentali in territorio turco. «L’elicottero convertito è indispensabile per l’industria logistica dei velivoli senza pilota per trasportare carichi in zone difficili da raggiungere e sfornite di campi di atterraggio». E viene subito in mente la configurazione del Rojava.

La Turchia – benché socio alla pari nelle concertazioni strategiche di Astana – produrrà entro due anni i tanto decantati Bayraktar TB2 in Ucraina: benché più leggeri e meno efficienti nel contrasto di un attacco aereo, i droni turchi secondo l’Agi saranno già in grado di contrastare quelli iraniani.

    • «l’Ucraina ha un ruolo di primo piano nella catena di approvvigionamento di Baykar, in particolare con il nuovo drone pesante Akinci e il jet da combattimento senza pilota Kizilelma, attualmente in fase di sviluppo, montano entrambi motori ucraini MotorSich» (“Analisi Difesa”).

Secondo Barayktar molto presto i droni turchi TB2 e Akinci potranno colpire con buona efficacia oggetti in volo grazie all’integrazione del sistema di difesa Sungur prodotto da Roketsan, mentre i droni iraniani sono pesanti e rumorosi, sono obiettivi facili perché volano a bassa quota.

Invece quelli turchi sono stati opzionati anche dal governo polacco, che ha ricevuto a ottobre 6 dei 24 TB2 comprati.

19 novembre

    • Comprare gas dalla Tunisia con veicoli militari antimigranti

      • LaLa Francia ha portato a Djerba 200 milioni di prestiti in occasione della Organisation internationale de la Francophonie; ma ha anche consegnato alla Tunisia il primo lotto di una donazione comprendente cento veicoli militari fuoristrada Masstech T4 prodotti da Technam in occasione della ventinovesima sessione della Commissione militare franco-tunisina svoltasi dal 15 al 17 novembre nella capitale del paese nordafricano e documentata da “Tuniscope”; i veicoli sono palesemente utili nel contenimento dei migranti. L’ambasciata di Francia a Tunisi sulla propria pagina Facebook ha precisato che durante i lavori della commissione è stato tratto “un bilancio molto soddisfacente” in termini di cooperazione bilaterale per il 2022. In particolare, sono state svolte 60 attività in Francia o Tunisia.Ma quella più interessante è volta a ristabilire l’asse militare tra le due sponde mediterranee:

        «Per Saied – afferma il politologo francese Vincent Geisser rilanciato da “Africanews” – ospitare questo vertice è “un successo” perché lo porterà fuori dal suo isolamento almeno temporaneamente. È una sorta di pacificazione nei suoi rapporti con i suoi principali partner occidentali, userà questo evento per legittimare una svolta autoritaria fortemente criticata».

    • In cambio la Francia cerca di comprarsi gas in quella che era la sua casa coloniale.

  • Questo veicolo, costruito a partire da un telaio Toyota Land Cruiser HZJ76, è blindato, dotato di griglie di protezione contro le proiezioni e di cinque punti di armamento. È in servizio con l’esercito francese sul territorio francese e in OPEX nel Sahel. Viene utilizzato anche dall’esercito reale giordano (“MenaDefense”)

10 novembre

  • Corsa al riarmo in Africa

    • Nel dossier dell’“Atlante delle guerre” a marzo si leggeva: «In Africa subsahariana i cinque maggiori importatori di armi sono stati Angola, Nigeria, Etiopia, Mali e Botswana. Resta un grande importatore l’Egitto che con il più 73% diventa il terzo importatore di armi a livello globale».

    • L’Etiopia ha usato abbondantemente le sue dotazioni prima di arrivare agli accordi di metà novembre: dopo due anni e un numero imprecisato di morti compreso tra mezzo milione e un milione di vittime (qui un intervento di Matteo Palamidessa raccolto da Radio Blackout).

    “Il genocidio atroce e diffuso nel Corno d’Africa”.

  • Il Mali (e il Sahel nella sua integrità) è alle prese con la necessità di difendersi dai tagliagole jihadisti dotati di armi sofisticate e dunque gli eserciti – affrancatisi da operazioni coloniali francesi, ma così indeboliti – cercano di procurarsi strumenti per liberarsi dalla tenaglia dell’insorgenza, come ci ha raccontato Edoardo Baldaro:
  • Collegata a questa situazione è la notizia lanciata da un tweet postato il 5 novembre da “Spoutenik en Français” (palese indirizzo filorusso) relativa alla richiesta a Mosca per l’acquisto di due elicotteri da parte del Burkina di Ibrahim Traoré nel quadro di un trattato di cooperazione con la Russia di Putin (che affonda le radici nei legami intrecciati tra paesi africani che hanno avviato il proprio distacco dall’Occidente con l’appoggio dell’Urss).

Gli elicotteri sono tra le macchine a uso bellico più ambite nel continente, come documenta Antonio Mazzeo nel suo blog il 10 novembre facendo cenno a una triangolazione di 6 velivoli T-129 “Atak” prodotti in Turchia da Turkish Aerospace Industries su licenza di AgustaWestland (della infinita galassia Leonardo spa) per il governo nigeriano al costo di 61 milioni di dollari. Come sottolinea Mazzeo, la versione turca dell’“Atak” (in uso in Siria, Iraq, Filippine e in futuro in Pakistan) sfodera nuovi sistemi di individuazione e tracciamento dei bersagli ed è dotato di razzi non guidati da 70 mm e missili anticarro L-Umtas.

  • «Nel bilancio della difesa nigeriano per il 2023 è previsto anche uno stanziamento di 4,5 milioni di dollari per l’acquisto di due elicotteri AW109 “Trekker, prodotti in Italia da Leonardo SpA. nel corso di un seminario delle forze armate nigeriane tenutosi a Ibom lo scorso 27 ottobre, il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica Oladayo Amao avrebbe confermato l’intenzione di acquisire 24 caccia bimotori M-346 “Master” realizzati negli stabilimenti di Varese-Venegono di Leonardo» (“DefenceWeb”).

  • L’AW109 aveva già riscosso un enorme successo ad agosto al Labace brasiliano:
  • «L’AW109 Trekker, il primo gemello leggero di Leonardo a offrire un carrello di atterraggio a pattino, mantiene la cellula dell’AW109 Grand, l’ampia cabina e le prestazioni di prim’ordine, offrendo al contempo un maggiore carico utile a un costo competitivo, dimostrando così di essere perfettamente in grado di soddisfare i severi requisiti degli operatori in termini di capacità ed economicità. L’AW109 Trekker è dotato di una cabina di pilotaggio in vetro di ultima generazione di Genesys Aerosystems che può essere configurata in base alle esigenze del cliente» (“DGualdo”, un sito evidentemente promozionale di Leonardo)

  • Oltre all’indubbio affare per Leonardo, si può ipotizzare che il gigante africano immagini un innesco di conflitti nell’area… e forse l’odore di bruciato comincia a farsi più forte nella situazione del Nord Kivu, come illustrato in questo intervento di Massimo Zaurrini:
  • “Rischio di Terza guerra mondiale africana dei Grandi Laghi?”.
  • Dunque la Nigeria si sta riarmando potentemente, è sufficiente elencare i prodotti opzionati, prenotati, comprati, acquisiti che riporta “DefenceWeb”, oltre ai T-129 citati da Mazzeo e ai due AW109: gli Stati Uniti hanno approvato la possibile vendita di 12 AH-1Z alla Nigeria nell’ambito di un potenziale accordo da 997 milioni di dollari che include armi ed equipaggiamenti (nonostante i forti dubbi riguardo il mancato rispetto dei diritti umani del regime di Abuja); riceverà due aerei da trasporto C295 da Airbus, agognati dal 2016. La proposta di bilancio della Difesa nigeriana per il 2023 include finanziamenti per la manutenzione degli L-39ZA, degli Alpha Jet e propone 2,7 miliardi di dollari per tre aerei da sorveglianza/attacco MF 212 costruito dalla Magnus Aircraft nella Repubblica Ceca e 3 miliardi (6,8 milioni di dollari) per tre elicotteri Bell UH-1D.
    La BVST ((Belspetsvneshtechnika, ditta bielorussa) ha già collaborato con l’aeronautica nigeriana, fornendo la manutenzione degli elicotteri Mi-35 e l’addestramento; ora ha trasformato gli MF212 in velivoli armati ideali per compiti di sicurezza interna, sorveglianza e pattugliamento. A quanto pare, può essere equipaggiato con un gimbal elettro-ottico iSKY-30 HD e con missili R-60-NT-L o R-60-NT-T-2. In Ottobre il capo di stato maggiore Odalayo Amao aveva già dichiarato che l’Aeronautica militare nigeriana prenderà in consegna due turboelica Beechcraft King Air 360, quattro aerei di sorveglianza Diamond DA 62 e tre veicoli aerei senza pilota (UAV) Wing Loong II. Oltre a dozzine di velivoli ordinati tra il 2016 e il 2021.

Peraltro il mercato africano – ovviamente con le sue richieste. Le disponibilità di spesa e i bisogni commisurati alla tipologia di conflitti che nell’enormemente vasto territorio che costituisce condizioni di combattimento differenti – mette sul piatto finanziamenti corrispondenti alla percezione di pericolo o di preparazione di guerre e quindi mette in piedi una propria frequentata fiera. La biennale Africa Aerospace and Defense Expo di Centurion in Gauteng (Sudafrica) si è tenuta a fine settembre, proiettando in questi ultimi mesi di 2022 le prospettive di collocazione su piazza del nuovo bombardiere B-21 Northtorpe, forse non a caso presentato in Sudafrica per le sue prerogative di deterrenza, come spiega “BreakingDefense” nelle parole del generale dell’aeronautica Jason Armagost riguardo il sistema Sentinel di cui il bombardiere è parte: « Sentinel sarà altamente resiliente e flessibile. Non solo per la nostra sicurezza, ma anche per garantire i nostri partner e alleati in tutto il mondo. Si tratta di una capacità evolutiva e sono state prese decisioni deliberate su come renderla efficiente con l’infrastruttura che abbiamo, e su come modernizzare la capacità per rimanere flessibile con sistemi di missione aperti e un’architettura digitale per evolvere con ambienti di minaccia in evoluzione», sembra la descrizione del panorama fluido africano. Il B-21 verrà definitivamente svelato il 2 dicembre assicura “MilitaryTimes”: probabilmente i paesi del continente africano non si potranno permettere questo bombardiere presentato a casa loro, ma potranno svuotare gli arsenali dei bombardieri che diventeranno obsoleti dopo l’avvento di questa macchina.

Più alla portata delle casse africane è il drone greco Archytas e soprattutto il Mwari aircraft con scopi multipli e infatti già venduto a molti paesi africani; e di quei paesi elencati all’inizio di questa scheda il Botswana probabilmente prenoterà i suoi droni in funzione antimigratoria, e allo scopo i droni presentati alla fiera sudafricana descritta nel video della scheda di ottobre fanno al caso.

AW109 Trekker

GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE

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]]> Stabilizzare Eurasia passando da Erevan https://ogzero.org/tenere-fuori-dal-gioco-washington-e-stabilizzare-l-eurasia/ Sun, 27 Jun 2021 10:00:23 +0000 https://ogzero.org/?p=4050 Sembra che ci sia ancora qualche sparuto paese al mondo in cui la dittatura delle società che realizzano i sondaggi elettorali non spadroneggi: tra questi c’è sicuramente l’Armenia. Nelle settimane precedenti alle elezioni legislative anticipate del 20 giugno, resesi non più procrastinabili dopo la disfatta nella guerra nel Nagorno Karabakh, il premier Nikol Pashinyan era […]

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Sembra che ci sia ancora qualche sparuto paese al mondo in cui la dittatura delle società che realizzano i sondaggi elettorali non spadroneggi: tra questi c’è sicuramente l’Armenia.

Nelle settimane precedenti alle elezioni legislative anticipate del 20 giugno, resesi non più procrastinabili dopo la disfatta nella guerra nel Nagorno Karabakh, il premier Nikol Pashinyan era infatti dato perdente da tutte le rilevazioni delle principali società demoscopiche. Il partner della prestigiosa Gallup International in Armenia – la società Mpg – prevedeva una corsa sul filo di lana di Pashinyan con il suo avversario, l’ex presidente del paese e capo del Blocco Armeno, Robert Kocharian è l’agenzia Ria Novosti, che aveva condotto una rilevazione solo 6 giorni prima del voto, aveva perfino stimato per Kocharyan il 32% delle preferenze contro il 24% di Pashinyan. Inaspettatamente invece il Contratto Civile guidato proprio dal primo ministro Nikol Pashinyan ha fatto saltare il banco ed è decollato al 53,92% dei voti espressi, detronizzando il suo rivale che pur chiamando alla rivalsa contro il disprezzato nemico azero, si è fermato al 21,04%. La terza forza a entrare in parlamento è stata quella guidata dall’ex capo del servizio di sicurezza nazionale del paese Artur Vanetsyan che pur non avendo superato lo sbarramento del 7% (come altri 22 partiti che avevano partecipato alla campagna elettorale) dato che per legge il numero di partiti rappresentati non può essere meno di tre, con il suo 5,2% farà parte lo stesso del consesso legislativo.

Robert Kocharian, lo sconfitto leader del Blocco armeno

Il Blocco armeno ha denunciato brogli ma non è stato preso sul serio neppure dai suoi sostenitori e nessuno è sceso in piazza a protestare a Erevan come invece era successo massicciamente dopo la cocente sconfitta militare dello scorso autunno.

Sviluppi internazionali dopo la sorpresa elettorale

Cosa dunque è successo nelle settimane precedenti al voto da rendere inefficaci le interviste delle società di sondaggio?

Ipotesi sull’incidenza dell’armistizio sul voto

Le elezioni erano in primo luogo un plebiscito sull’armistizio che ha fatto perdere all’Armenia tre quarti del territorio conteso con l’Azerbaijan. La maggioranza degli elettori da questo punto di vista non ha probabilmente cambiato opinione e continua a considerare ancora oggi una “capitolazione” l’accordo di pace firmato sotto l’egida di Mosca, tuttavia è cambiata con il raffreddarsi delle emozioni del momento, la sua percezione della dinamica politica in corso.

«Le elezioni si sono concluse inaspettatamente per molti in Russia, ma questa sorpresa è stata dovuta a sondaggi dubbi o alle valutazioni di alcuni esperti che si sono schierati piuttosto con una delle forze politiche e non hanno fornito un’analisi obiettiva della situazione», ha affermato il ricercatore presso l’Istituto di studi postsovietici e interregionali (Riac) Alexander Gushchin. «Le elezioni hanno dimostrato che la vecchia élite e i suoi leader non sono stati in grado di consolidare attorno a sé la quota principale dell’opinione pubblica armena nemmeno sull’onda dell’insoddisfazione per la sconfitta militare nella seconda guerra del Karabakh. La scia di pubblica negatività verso l’“ex” si è rivelata troppo grande, mentre l’elettorato di Pashinyan è stato mobilitato al massimo» ha osservato ancora Gushchin.

«Le elezioni in Armenia hanno confermato il sostegno alla formula per la futura pace nella regione, elaborata con la mediazione di Mosca lo scorso novembre», sostiene inoltre Andrej Fedorov, direttore del Centro russo per la ricerca politica, su “Kommersant” del 22 giugno 2021. «Se il corso verso la normalizzazione continuerà, per la Russia significherà la possibilità di neutralizzare ai suoi confini meridionali un focolaio di instabilità a lungo termine potenzialmente pericoloso. Allo stesso tempo, il percorso per ridurre il confronto tra Armenia e Azerbaijan dovrebbe facilitare il compito di coinvolgere Baku nei processi di integrazione in Eurasia». Pertanto secondo Fedorov «dopo le elezioni in Armenia, nella nuova fase, la crescente influenza della Russia può essere determinata sia dal mantenimento della pace sia da un ruolo più attivo nella costruzione di nuove relazioni tra le parti coinvolte nel conflitto del Karabakh».

L’emotività dei sondaggi seppellita dalla Realpolitik nelle urne

Ciò che non è risultato credibile – soprattutto ai cittadini armeni che vivono nelle campagne e proverbialmente più saggi e moderati di quelli urbani – è che si possa rimettere in discussione l’accordo raggiunto con il cessate il fuoco o persino riprendere la guerra. Il fatto che Pashinyan, nato e divenuto celebre come attivista dei diritti umani filoccidentale e sostenitore delle esigenze degli strati del lavoro intellettuale, abbia potuto attecchire nell’Armenia profonda e perfino trasformarsi in un politico che guarda a Mosca come ciambella di salvataggio anche nel futuro, è interessante per capire come opinione pubblica e leader possano cambiare pelle rapidamente nel mondo attuale, ma ciò ancora non spiega lo iato tra i polls virtuali che lo davano al 20% e il più del 50% di voti veri ottenuti nei seggi. In realtà – come ha sottolineato Gevorg Mirzayan, professore di Scienze politiche all’Università di Mosca – la maggior parte degli oppositori di Pashinyan è rimasta a casa, e sarebbero loro in maggioranza a formare l’esercito costituito da 1,2 milioni di elettori armeni che non si sono presentati al voto, a cui di fatto va aggiunto quel 17% che ha votato per liste che non avevano alcuna possibilità di entrare in parlamento: due modi di protestare contro la scarsa concretezza di Kocharian piuttosto che un sostegno al premier uscente.

Strategia russa di stabilizzazione e controllo

Questo quadro darebbe qualche chance a Putin di giocare il ruolo di facilitatore del coinvolgimento di Baku nei processi di integrazione in Eurasia e in misura minore di stabilizzazione dei difficili rapporti con la Turchia.

Il fattore più importante del voto, è che la “sacralizzazione” del problema del Karabakh e l’idea di vendetta nazionale non sono già più in cima ai pensieri di ampi strati della società armena, che hanno già altre priorità, in primo luogo la ripresa economica.

Tenere fuori dal gioco Washington

Ad aprile era stata annunciata la costruzione congiunta di una centrale nucleare russo-armena, ulteriore segnale dell’abbraccio economico-energetico russo

Inoltre, la maggioranza degli armeni si è dimostrata più realista del re, comprendendo che nelle condizioni attuali nel Caucaso meridionale e intorno al Artsakh, i partiti “bellicisti” armeni, anche se avessero vinto le elezioni, difficilmente sarebbero stati in grado di capovolgere la situazione a loro favore.

Mosca ha effettivamente tirato un sospiro di sollievo dal voto a Erevan perché garantisce la road-map tripartita definita in autunno e soprattutto la presenza di proprie truppe nella regione per anni. Non è un caso che il giorno dopo il voto senza attendere la conferenza stampa dell’opposizione, il Cremlino ha annunciato il suo «sostegno alla scelta del popolo armeno». Del resto Mosca non solo ha visto quanto Pashinyan nei suoi confronti abbia abbandonato i modi del bizzoso destriero e ora vada al passo come un ubbidiente pony, ma si sia dimostrato negli ultimi mesi un politico accorto. Infatti mentre la diaspora di Parigi e New York si batteva il petto per il Karabakh perduto e l’orgoglio nazionale infranto ma restava a osservare da lontano le vicende patrie, il popolo armeno dimostrava nell’urna più voglia di “normalità” e “pace”, se non proprio con gli invisi azeri almeno con gli altri popoli della regione, russi compresi.

Pashinyan allineato e coperto con il Cremlino

È interessante notare che nel suo primo discorso alla nazione dopo le elezioni, Nikol Pashinyan, da parte sua ha fatto un bel po’ più che un gesto dimostrativo nei confronti della leadership russa. «Esprimo la mia gratitudine alla Federazione Russa, al presidente russo Vladimir Putin e al primo ministro Mikhail Mishustin per il sostegno che hanno fornito all’Armenia e al popolo armeno in questa situazione», ha affermato Pashinyan in Tv. «L’Armenia dovrà approfondire seriamente la cooperazione militare e strategica con la Russia – ha aggiunto il leader armeno – a fronte della politica aggressiva dell’Azerbaijan», ha perfino aggiunto.

Su scala regionale il ruolo di Erevan del resto visto lo stato in cui versa la sua economia e il suo esercito, si riduce a cercare di contrastare l’alleanza sempre più stretta tra Ankara e Baku brandendo come può l’arma del genocidio turco.

Strategia turca di stabilizzazione e controllo

Le cose dalla parte della barricata turcofona si stanno muovendo rapidissimamente. Mentre in Armenia si chiudeva la campagna elettorale, il 15 giugno, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan giungeva a Şuşa, città simbolo della vittoria militare azera di qualche mese fa, dove con Ilham Aliyev, ha firmato una dichiarazione di Alleanza che d’ora in poi per i contraenti si chiamerà “Storica Dichiarazione di Şuşa”. Dietro ai titoli pomposi, a Şuşa si sono fatti comunque dei concreti passi avanti per quanto riguarda la cooperazione bilaterale nel campo della sicurezza, accordandosi perché l’Azerbaijan crei un «modello ridotto dell’esercito turco». Ankara e Baku conducono regolarmente e già da tempo esercitazioni militari congiunte e operazioni antiterrorismo ma per ora Baku non ha dato alcun segno di voler aderire alla Nato, segno che Ankara potrebbe desiderare avere nelle proprie disponibilità un arsenale e delle truppe autonome e fuori dal controllo Usa.

Allargamento di Astana?

In questa occasione il leader turco ha voluto anche mostrare la sua versione dialogante, diventata la sua postura dominante dell’ultimo periodo: ha chiesto ad Aliyev la normalizzazione delle relazioni con Erevan e ha proposto un format di cooperazione a sei nel Caucaso meridionale, che veda la partecipazione di Turchia, Russia, Azerbaijan, Armenia, Georgia e Iran. L’aver aggiunto nel menù anche l’Iran è un gesto di non poco conto che al Cremlino hanno preso in seria considerazione non solo in vista dei nuovi passi americani di apertura nei confronti del paese islamico ma soprattutto del realismo e del gradualismo con cui la Turchia voglia sviluppare la sua politica egemonica nella regione.

Qualche ora prima, del resto, Erdoğan aveva incontrato il presidente Usa Biden e si era dimostrato anche in questo caso assai disponibile e quasi remissivo malgrado lo “sgambettino stellestrisce” del riconoscimento ufficiale dell’“Olocausto armeno”. Il presidente turco ha promesso a Biden di restare “alleato sincero della Nato” ma non ha ceduto di un palmo né sulla questione del suo ruolo in Siria e Libia né sull’acquisto di sistemi missilistici antiaerei russi S-400.

Biden era venuto in Europa anche per verificare lo stato delle relazioni con Georgia e Ucraina in vista di una loro futura adesione alla Nato ma anche su questo terreno, dovrà tenere conto delle mosse bilaterali degli attori regionali.

Fatale attrazione caucasica per Erdoğan

Recentemente il primo ministro di Tblisi, Irakli Garibashvili, ha visitato Ankara proponendosi ai turchi come potenziale secondo alleato regionale, malgrado la Georgia sia un paese cristiano: una eventualità che sembra piacere ad Erdoğan proprio in vista dell’ingresso del paese ex sovietico nella Alleanza atlantica.

Tenere fuori dal gioco Washington

Ma la Georgia è attiva anche in direzione di un altro paese chiave della zona e cioè l’Ucraina anch’essa predestinata a diventare membro della Nato nonché dell’Unione europea. Tblisi è più avanti nel processo di adesione ma grazie al “fattore Donbass” che potrebbe tornare a essere dirimente in Europa in qualsiasi momento, Kiev potrebbe superarla al fotofinish, malgrado la Georgia abbia anch’essa in Abkhazia e Ossezia del Sud dei contenziosi aperti con la Russia e proprio la comune avversione a essa è il mastice che tiene insieme i due paesi ex sovietici.

Siamo a un passaggio fondamentale. L’ascendente di Ankara cerca di emarginare la declinante Mosca nella regione senza però per il momento farsela nemica come invece è nelle corde di Ucraina e Georgia: tenere fuori dal gioco Washington è nel loro comune interesse.

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Il trailer del kolossal hollywoodiano “America is back” https://ogzero.org/america-is-back-la-regia-del-road-movie-di-biden/ Sun, 20 Jun 2021 01:34:58 +0000 https://ogzero.org/?p=3925 «America is back» in Europe, but… Biden torna a proporre la politica multipolare americana, che mira a presentare gli Stati Uniti come riferimento di un’ampia alleanza in cui si distribuiscono patenti di democrazia a tutti, tollerando in parte anche il regime putiniano (o comunque mostrando di voler aprire un dialogo), purché si adotti un profilo […]

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«America is back» in Europe, but… Biden torna a proporre la politica multipolare americana, che mira a presentare gli Stati Uniti come riferimento di un’ampia alleanza in cui si distribuiscono patenti di democrazia a tutti, tollerando in parte anche il regime putiniano (o comunque mostrando di voler aprire un dialogo), purché si adotti un profilo intransigente verso Pechino o si rendano meno stretti legami e partnership con l’unico rivale riconosciuto. Infatti la regia raffinata ha dapprima restituito una riunione di famiglia nella verde Cornovaglia, dove il vecchio patriarca è venuto in Europa a cercare location adatte per una ridistribuzione dei ruoli all’interno del consesso europeo, lanciando segnali distensivi di collaborazione che superassero l’isolazionismo dell’amministrazione precedente – di cui si sono frettolosamente cancellati gli sgarbi –, ma sancendo la globalizzazione e lo spostamento dal marcato eurocentrismo, già abbandonato da Obama, all’asse indopacifico.

America is back

Ripulitura preventiva delle deiezioni trumpiane

E di nuovo la trama del film lascia trasparire il messaggio anticinese dell’intreccio.

Il Convitato di Pietra

E allora scomponendo il film del viaggio di formazione della presidenza Biden nei suoi duetti, cominceremmo con quello non ancora avvenuto tra Xi Jinping e Biden – ma di cui c’è già stata una prolessi nei titoli di coda, immaginandolo nella cornice del G20 italiano, in scena esattamente vent’anni dopo quello tragico genovese. Ci pare che cominciare l’analisi dei fotogrammi del road-movie europeo di Biden dal fuoricampo in cui è rimasto collocato per tutto il tempo il co-protagonista principale sia l’ottica attraverso cui assistere almeno a una sequenza della pellicola. Quella che consideriamo centrale e che ci sforziamo di inquadrare come nel film Dark Passage con Humphrey Bogart (regia di Delmer Davies per un titolo perfetto nel 1947 come per sottotitolare l’attuale film di Biden), in cui Vincent non viene inquadrato se non con particolari degli occhi e invece la cinecamera coincide con il suo sguardo, cercando di restituire l’ottica della soggettiva fuori scena di Xi Jinping, il controcampo del Convitato.

Don Giovanni 1979, di Joseph Losey

Per quanto sommessa, accennata e rimasta impigliata nel resto della trama, fatta invece di spettacolari palcoscenici e forti illuminazioni (quasi a voler spostare l’attenzione su episodi collaterali, come avviene spesso nei road-movie); la mano tesa del Convitato di pietra ha preso il fuoriscena come nel finale del Don Giovanni, relegando l’annuncio di un percorso delle merci alternativo a quello promosso dalla Bri, la nuova Via della seta, al rango del catalogo di Leporello: una smargiassata fin dall’allitterazione del nome Build Back Better World.

Il messaggio principale del film, sempre sottotraccia, è che vanno ridimensionati innanzitutto i rapporti commerciali con i cinesi, ma fingendo che si tratti di una guerra morale alle violazioni dei diritti civili.

E parlando di questa sequenza con Sabrina Moles (@moles_sabrina), il film si è trasformato in un viaggio interstellare, con al centro la nuova piattaforma spaziale cinese, che ha costretto Biden a un aggiornamento dell’articolo 5 dell’accordo Nato, estendendolo al dominio spaziale:

“La pantomima globalizzata della Guerra morale alla Cina”.

Il servo di due padroni

Di tutta la pantomima messa in scena nel viaggio di formazione del mondo di Biden infatti, riconsiderando il tourbillon dei messaggi mediatici, una volta conclusa la kermesse e lasciate decantare le dichiarazioni, spenti i riflettori, a posteriori nel consuntivo non si annoverano risultati apparentemente tangibili, ma è stata come una proiezione di slide della sceneggiatura da recitare nei prossimi anni della serie-tv che potrebbe intitolarsi The Great Game. The Revenge, la cui regia è affidata a Biden, con Blinken aiutoregista nelle sequenze del ritiro da Kabul, quindi al di là di ogni simulacro simbolico – che non avrà mai lo stesso impatto dell’ultimo elicottero che il 1° maggio 1975 lasciava l’ambasciata americana in Vietnam, anche se si tratta proprio di quel remake – offerto in pasto alle telecamere i nodi del film vero ruotano ancora attorno a Donbass e Crimea – come ci racconterà Yurii Colombo alla fine di questo articolo – e di conseguenza alle ex repubbliche sovietiche, che ritroviamo nel discorso di Baku, pronunciato da Erdoğan guarda caso proprio il giorno dopo il ritorno nell’alveo della Nato, con il compito speciale di andarsi a immolare in Afghanistan, come già avvenne quando la Turchia dovette pagare l’ingresso nella Nato dissanguandosi nella Guerra di Corea.

M.A.S.H., 1970, regia di Robert Altman

Stavolta il presidente turco di buon grado allunga i suoi tentacoli anche verso il Khorasan con la benevolenza degli Usa, che gli delegano così controllo militare, sfruttamento e ricostruzione di un’area fondamentale per il passaggio di merci tra XInjiang uyguro, Karakum turkmeno, Pamir tajiko, HinduKush multitribale, Karakorum e pianure indo-pakistane… monti e pianure persiane. Nomi evocativi di pellicole in costumi di mercanti: l’autentica antica Via della seta – il copyright – da contrapporre alla Belt Road Initiative per conto americano.

D’altronde nel duetto realmente interpretato con Putin si è giunti a una comunità di intenti («un dialogo bilaterale sulla “stabilità strategica”») su quel territorio che ha visto i due imperialismi rimanere impantanati nella Campagna d’Afghanistan.  Come riporta l’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della Luiss: «Nella conferenza stampa tenuta da Biden, a seguito dell’incontro che è durato circa 3 ore, il presidente ha affermato di aver discusso dell’interesse condiviso di Stati Uniti e Russia nel prevenire «una recrudescenza del terrorismo in Afghanistan»; [anche se ci sono prove del “Times” di aiuti economici e in armi elargiti da Mosca ai Talebani, ai quali erano anche state promesse taglie dal Cremlino per ogni soldato statunitense ucciso]. Un giornalista gli ha quindi chiesto se avesse fatto qualche domanda a Putin al riguardo. «No, è stato lui a chiedere dell’Afghanistan. Ha detto che spera che saremo in grado di mantenere un po’ di pace e sicurezza, e io ho detto: “questo dipende molto da voi”».

Dunque si direbbe che entrambe le potenze appaltino a Erdoğan il vuoto lasciato dal ritiro, ma poi gli affari azeri hanno inebriato il presidente turco spingendolo a parlare di imminente unità d’intenti tra 6 nazioni, tra queste le tre che hanno animato i protocolli di Astana e che si inserivano nella assenza trumpiana per spartirsi l’area (Russia, Turchia, Iran). Il colpo di scena turco di Baku allarga il novero a Georgia, Azerbaijan e… Armenia (!), dichiarando nella composizione dell’accordo quanto sia centrale proprio l’area caucasica, un’area che Putin non si può permettere sia sotto il controllo occidentale. E in questo caso l’ottica adottata nelle proiezioni della trama del film imbastita a Bruxelles, a cui hanno assistito Biden e Erdoğan alterna quello del documentario in stile Settimana Incom, con la promozione delle prodezze dei droni Bayraktar in Caucaso; mentre l’altro stile retorico utile per inquadrare lo sforzo richiesto alla Turchia in territorio libico non è più quello del materiale mediatico per l’arruolamento nelle Private military and security companies, quanto la brochure patinata delle imprese edili per la ricostruzione con l’imprimatur di Biden.

Illuminante risulta cercare di adottare lo sguardo di Ankara sull’incontro di Bruxelles, il primo tra Biden e Erdoğan, usando la lucida ironia di Murat Cinar (@muratcinar):
“Finto multilateralismo al servizio di reali democrature affaristiche”.

Il Terzo Uomo

Dunque in qualche modo Erdoğan dimostra ambiguità anche genuflettendosi a Bruxelles il giorno prima da Biden e quello successivo intraprendendo anche lui un road-movie interno all’Azerbaijan per controllare appalti e rilanciare l’alleanza di Astana allargata a un’area limitrofa e complementare a quella che coinvolge l’Afghanistan… e che è fondamentale per la politica di Putin, di cui il presidente turco rimane alleato. 

Proprio del terzo incontro del Gran Tour bideniano rimane da parlare, dopo la presenza inquietante del Convitato ingombrante Xi e l’infido Erdoğan, la scena madre e l’epilogo del viaggio di formazione vedeva la compresenza nell’inquadratura del “Killer dagli occhi di ghiaccio e senz’anima”, come lo stesso Biden aveva definito Putin

America is back

L’occhio che uccide, 1960, di Powell e Pressburger

Il consumato stratega aveva organizzato la sfida non tanto come nel torneo di The Quick and the Dead (Sam Raimi, 1995), piuttosto spingendo sull’atmosfera da spy story, per evocare i giornalisti uccisi e i dissidenti avvelenati, senza con questo appendere il Cremlino al cappio dei diritti umani e quindi cambiando registro narrativo l’incontro non ha risolto i veri nodi che rappresentano il dissidio tra Russia e Stati Uniti, ma si è trasformato in una partita a scacchi in stallo… riguardo al possibile  scacco di uno dei due contendenti possiamo seguire lo sguardo moscovita di Yurii Colombo (@matrioska2021):

“Le relazioni insolubili”.

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La geopolitica di Sedat Peker. 2: il convitato di pietra al vertice Nato https://ogzero.org/la-geopolitica-di-peker-il-convitato-di-pietra-al-vertice-nato/ Tue, 15 Jun 2021 11:25:51 +0000 https://ogzero.org/?p=3859 Prosegue la serie di interventi a cura di Murat Cinar sulle videorivelazioni di Sedat Peker: in questo secondo articolo veniamo trasportati dal racconto a spot nelle più disparate aree sullo scacchiere internazionale, scoperchiando affari di ogni tipo che scaturiscono dai dossier in possesso di questo mafioso fino a qualche mese fa al servizio dell’Akp. Questa […]

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Prosegue la serie di interventi a cura di Murat Cinar sulle videorivelazioni di Sedat Peker: in questo secondo articolo veniamo trasportati dal racconto a spot nelle più disparate aree sullo scacchiere internazionale, scoperchiando affari di ogni tipo che scaturiscono dai dossier in possesso di questo mafioso fino a qualche mese fa al servizio dell’Akp. Questa puntata cerca di dare un’interpretazione della politica estera di Erdogan nel momento del suo primo incontro con Biden e capita in un momento di incertezza sulla sorte di Sedat Peker negli Emirati, perché ha mancato un appuntamento e non si è più palesato con quei tweet – che invece cadenzavano le sue esternazioni con annunci quotidiani; voci lo davano come catturato o dai servizi emiratini, o addirittura vittima di un blitz di quelli turchi. Nella mattinata del 15 giugno il suo addetto stampa ha diramato un comunicato in cui si annuncia che è stato convocato dalle autorità emiratine e anche privato del cellulare, probabilmente si tratta di una sorta di detenzione provvisoria per accertamenti. Dopodiché è rientrato e ha prontamente ripreso a utilizzare Twitter e a preannunciare ai suoi fan rivelazioni da fascicoli e cartelle che sta ricevendo e studiando.  

Nel primo articolo avevamo inquadrato il funambolico autore e interprete di questi appuntamenti su YouTube, il contesto in cui è cresciuto il suo potere, la palude che ha permesso si creasse una rete di collusioni tra organizzazioni mafiose, traffici d’armi e droghe e il sistema di potere, i partiti della destra nazionalista, il clan del presidente della repubblica turca. Il prossimo articolo di questa serie affronterà la maniera in cui il governo centrale ha approfittato dell’occasione per colpire la stampa indipendente e i partiti dell’opposizione. E infine, l’ultima puntata prevista si occuperà della vicenda dei tre giornalisti la cui uccisione avvenne agli inizi della carriera del mafioso al servizio del regime e che trovano spazio nelle videorivelazioni; i video di Peker hanno influenzato l’andamento dei processi per la loro morte.


Politica estera panturchista

La telenovela mafiosa sta facendo discutere ancora la Turchia, anche se Sedat Peker aveva smesso di pubblicare video. Secondo i tweet di Peker, dopo il nono video, sembra che sia stata identificata la location in cui si trovava. Dunque pareva che Peker dovesse mettersi alla ricerca di un nuovo rifugio, dopo l’odissea che lo aveva visto abbandonare il Mediterraneo. Vedremo in occasione delle prossime puntate in che modo riuscirà a sottrarsi alla caccia dei servizi di Ankara.

Intanto ci occupiamo delle componenti internazionali presenti nei videomessaggi registrati e trasmessi dal personaggio di spicco del movimento panturchista: infatti riguardano anche una serie di elementi importanti legati alla politica estera dell’attuale governo in Turchia.

I paesi della fuga di Peker

Balcani

Tra i paesi citati nei video di Peker troviamo prima di tutto alcuni paesi balcanici. Si tratta di una zona in cui Peker si sarebbe recato per trovare rifugio circa due anni fa, dopo aver lasciato la Turchia: Albania, Macedonia, Kosovo, Montenegro, Serbia e Bosnia Erzegovina. Peker quando parla di questi paesi si riferisce a delle zone in cui trova una risposta politica e una collaborazione diretta. Addirittura nel caso macedone e nel caso kosovaro parla dei rapporti diretti che ha avuto con gli alti esponenti dei governi e dei servizi segreti. È ormai palese, evidente e conosciuta la presenza economica, politica, religiosa e anche criminale di Ankara nei Balcani.

Il 24 aprile 2020 veniva ratificato l’accordo militare tra il ministro della Difesa turco Hulusi Akar e quella albanese Olta Xhachka, che si andava ad aggiungere all’impegno nelle infrastrutture del paese delle aquile e nel sostegno della cultura islamica nei Balcani

Maghreb

Sempre seguendo la via di fuga di Peker scopriamo alcuni dettagli legati al Marocco. In questo paese pare che il boss mafioso abbia potuto fermarsi solo per due giorni. Secondo le dichiarazioni di Peker, avrebbe dovuto lasciare il paese nordafricano nell’arco di due giorni perché la pressione da parte di Ankara è stata molto forte. In un suo video Peker parla della vendita di droni armati da parte della Turchia verso il Marocco a prezzo dimezzato. Infatti nel mese di aprile del 2021 Ankara ha venduto 13 droni al Marocco per 70 milioni di dollari statunitensi. Soltanto un anno fa aveva venduto per lo stesso prezzo solamente sette droni al Marocco. Molto probabilmente il paese maghrebino sta utilizzando questi droni, e non solo, nelle sue operazioni militari nel deserto contro il Polisario. Non sappiamo se è stato questo rapporto commerciale a essere un elemento chiave per la fuga di Peker dal Marocco, o meno. Tuttavia una certezza l’abbiamo: il fatto che uno dei generi del presidente della repubblica di Turchia detiene l’esclusiva per la produzione dei droni armati per l’esercito turco, perciò la Turchia è diventata in pochi anni una produttrice massiccia di questi mezzi militari vendendoli in svariati paesi nel mondo. Sottolineiamo che la Turchia sta producendo questi droni con l’ausilio tecnologico di Inghilterra, Germania e Canada.

13 droni Bayraktar TB2 svenduti a Mohammed VI del Marocco

Caucaso

Se si dovesse passare a un altro paese in cui i droni di Ankara hanno fatto vincere una guerra, ovviamente dovremmo parlare dell’Azerbaijan. Nei suoi video Peker si riferisce diverse volte a questo paese confinante con la Turchia. Peker in generale specifica come in Azerbaijan sia molto presente l’imprenditoria turca e stia giocando sporco con l’intento di diventare un vero monopolio economico sul territorio. Mubariz Mansimov, è un nome che Peker cita spesso nei suoi video. L’imprenditore azero presente in Turchia, secondo diversi leaks svelati in questi anni, sembra che sia stato un vero aiuto per la realizzazione dei progetti economici di Erdogan e la sua famiglia. I conti nel paradiso fiscale dell’isola di Man, oppure le diverse aziende petrolifere sono soltanto due elementi di cui si parla da tempo quando si cita il cognome Mansimov. L’imprenditore azero è stato arrestato con l’accusa di appartenere alla comunità di Gülen, accusa avanzata da due suoi ex soci nell’ambito del processo in cui lo stesso imprenditore si lamentava per una truffa pianificata contro di lui con l’intento di sottrargli tutti i suoi beni. In questo contesto subentrano i video del boss mafioso. Secondo Peker, l’ex ministro degli interni, Mehemet Ağar, personaggio molto discutibile degli anni Novanta, si sarebbe appropriato dei beni di Mansimov in modo mafioso e forse anche illegale. Nei suoi video Peker quando parla dell’Azerbaijan rileva una grande ipocrisia nel sostegno di Ankara e secondo lui il racconto dei rapporti tra Ankara e Baku è improntato a una grande bugia di fondo.

Mübariz Mansimov, l’imprenditore azero implicato in affari non del tutto chiari con il clan di Erdoğan

Cipro

Un altro paese citato dal personaggio di spicco della criminalità organizzata è Cipro. L’isola da anni in grande difficoltà politica, divisa in due parti, è anche una scatola nera. Dal traffico delle armi fino al riciclaggio di denaro, dalla tratta di persone fino al traffico di droga le trame riconducono a Cipro da quando la guerra tra Atene e Ankara si è conclusa. Infatti in uno dei suoi video Peker parla dell’uccisione del giornalista turco-cipriota Kutlu Adali, giornalista assassinato nel 1996, e la parte turca della capitale dell’isola Nicosia è diventa uno degli sfondi preferiti dal nostro personaggio. Per quanto riporta nei suoi video Peker, l’assassinio del giornalista sarebbe il risultato di una collaborazione tra l’ex ministro degli interni Ağar e un ex membro dei servizi segreti turchi, Korkut Eken. Peker specifica che in quel periodo è stato contattato da questi due personaggi che gli diedero l’incarico di assassinare il giornalista, e questo compito venne affidato da lui a suo fratello Attila Peker. Infatti in seguito al video in cui si parlava dell’assassinio del giornalista suo fratello è andato a depositare la sua testimonianza presso la procura di Fethiye. Secondo le dichiarazioni del fratello è stato proprio l’ex membro dei servizi segreti Eken a portare Peker sull’isola con l’intento di assassinare il giornalista. Pochi giorni dopo Korkut Eken, chiamato in causa, non ha smentito di conoscere Attila Peker e nemmeno il fatto che siano andati sull’isola. Tuttavia secondo Eken, erano andati sull’isola con l’intento di effettuare indagini sui feriti del Pkk portati nell’isola e successivamente trasferiti in Grecia. Pochi giorni dopo le dichiarazioni del fratello uno dei procuratori di Anadolu ha aperto un’inchiesta per approfondire le informazioni sull’assassinio del giornalista. Tuttavia va sottolineato il fatto che la Turchia sia stata condannata a 95.000 euro di risarcimenti nel 2005 dalla Cedu per non aver aperto un’inchiesta approfondita volta a chiarire l’assassinio del giornalista.

Venezuela

Oltre a queste nazioni, la telenovela mafiosa si occupa anche di un paese sudamericano esportatore di petrolio molto importante. Secondo Peker proprio il figlio dell’ex primo ministro Binali Yıldırım sarebbe arrivato a controllare un traffico di droga che coinvolge una serie di paesi tra cui anche il Venezuela dove, secondo Peker, proprio durante la pandemia il figlio di Yıldırım si è recato andato con l’intento di disegnare e coordinare la nuova rotta. Il viaggio della droga prevede il passaggio dalla Colombia, poi passando in Italia proseguirebbe successivamente in Turchia con l’obiettivo di finire in Siria. Secondo Peker in questo giro sono coinvolti in qualche maniera l’attuale ministro degli interni Süleyman Soylu e l’ex ministro dell’interni Mehemet Ağar. Pochi giorni dopo Yıldırım senior si è presentato davanti alle telecamere e ha smentito tutto dicendo che suo figlio era andato in Venezuela sì, ma per portare degli aiuti necessari nell’ambito della lotta contro la pandemia. Tuttavia finora non è stata dimostrato nessun registro doganale che documenta questa transazione. Anche se successivamente alcuni giornalisti allineati con il governo hanno riferito che gli aiuti in questione erano trasportabili in una valigia, ma le spiegazioni finora rilasciate non hanno soddisfatto l’opinione pubblica.

Il ministro degi Esteri Cavusoglu saluta Maduro a Caracas il 18 agosto 2020

Dal punto di vista geopolitico i video di Peker riaprono un capitolo molto particolare e poco chiaro che riguarda il rapporto tra Venezuela e Turchia. Negli anni precedenti il presidente Nicolás Maduro aveva visitato diverse volte la Turchia e durante le sue visite alcuni giornalisti turchi vociferavano di un eventuale trasferimento di lingotti d’oro dalla banca centrale venezuelana verso la banca centrale turca. Magari non sotto forma di lingotti d’oro ma il commercio dell’oro tra questi due paesi è diventata una notizia importante anche per l’agenzia di notizie internazionali Reuters. In conclusione va ricordato che il primo leader mondiale a congratularsi con Erdoğan per il successo nell’ultima tornata elettorale è stato Maduro.

Siria

Ovviamente il paese citato di più da Peker nei suoi video è quello che costituisce il problema maggiore nel rapporto tra Washington e Ankara. Ovviamente stiamo parlando della Siria. In uno dei suoi video Peker racconta che nel 2014 aveva deciso di trasportare aiuti umanitari con propri tir dalla Turchia verso la Siria; l’iniziativa era diventata un fatto mediatico poiché quel trasferimento è stato spettacolarizzato dal capo mafioso.

Traffici d’armi e aiuti agli jihadisti

Peker è un esponente importante del movimento panturchista e dunque ovviamente aveva deciso di aiutare le brigate armate turcomanne presenti in Siria; le brigate di cui si parla avevano imbracciato le armi per difendere in teoria la loro autonomia e – sempre in teoria – per lottare contro il regime centrale, tuttavia sta di fatto che diverse organizzazioni non governative hanno testimoniato che alcune brigate turcomanne avevano collaborato con le organizzazioni jihadiste e perciò sono state definite terroristiche. Nel suo video Peker specifica che due tir mandati da lui sono stati caricati di armi a sua insaputa dalla compagnia militare di sicurezza privata Sadat. Peker dice che queste erano armi non registrate messe a sua insaputa dentro i suoi tir da questa ditta di contractor. Il capo dell’azienda Sadat, Adnan Tanriverdi, attualmente è il capo consulente del presidente della repubblica turca. Secondo alcuni giornalisti l’azienda Sadat è stata protagonista durante il fallito golpe del 15 luglio 2016. La Sadat dichiara ufficialmente sul proprio sito che addestra diverse forze militari in svariati paesi musulmani con l’intento di creare una forza militare unita e forte. Secondo la leader del terzo partito di opposizione, Meral Aksener, la Sadat ha diversi centri di addestramento illegali sulle coste turche del Mar Nero. Ovviamente in questo va ricordato il fatto che due giornalisti del quotidiano nazionale “Cumhuriyet” abbiano raccontato in modo approfondito di questo traffico di armi dalla Turchia verso la Siria. Proprio nel 2014 questi due tir erano stati fermati dalla gendarmeria turca a due passi dal confine siriano e alla guida dei tir c’erano alcuni agenti dei servizi segreti. La notizia in realtà è stata svelata e trasmessa anche da altri giornali tuttavia a pagare i conti sono stati Can Dündar e il suo collega Erdem Gül. Dopo la diffusione della notizia dapprima il governo con tutti i suoi componenti ha smentito i fatti e successivamente proprio il presidente della repubblica ha ammesso il traffico d’armi, dicendo però che questo era un segreto di stato e non poteva essere assolutamente messo in discussione. In seguito Dündar finì nel mirino del governo e ora è esiliato a Berlino. Dopo tre mesi di carcere e un attentato evitato davanti al palazzo di giustizia a Istanbul, i giornalisti citati sono stati definiti come dei traditori della patria e collaboratori di terroristi.

In merito ai rapporti tra l’Isis anche un parlamentare dell’opposizione Eren Erdem aveva fatto un lungo intervento in aula documentando la sua tesi relativa all’esistenza di una forte negligenza da parte dei servizi segreti e della magistratura in merito alle attività dell’Isis in Turchia. Questo fatto era stato smentito sistematicamente da tutti i componenti del governo. Oltre i video classici di ogni domenica, il nostro personaggio panturchista ha anche diffuso sul suo account Twitter una breve videochiamata realizzata col marito della cugina di Erdoğan il 3 giugno di quest’anno. In questo video Serdar Ekşioğlu ammetteva che nei tir di Peker erano state caricate delle armi a sua insaputa dall’azienda Sadat.

Dissapori tra Washington e Ankara sulla Guerra siriana

Le scelte del governo turco nella guerra siriana sono state questioni di discussione tra Washington e Ankara. L’amministrazione Obama e successivamente quella di Trump non hanno mai accettato le scelte di Ankara in Siria. La stessa cosa vale ovviamente anche per Ankara. In cima alla lista delle cose che hanno creato il conflitto vediamo senz’altro le parti che sostengono questi due paesi sul territorio siriano. Mentre per l’amministrazione statunitense gli alleati erano inquadrati nelle unità di difesa popolari (Sdf); per Ankara invece l’unico alleato sul territorio è stato la formazione armata composta dagli oppositori moderati ossia l’esercito libero siriano (Esl), definito da diverse organizzazioni non governative come un esercito armato jihadista. Questa diversità di posizione e di alleati ha fatto sì che Washington e Ankara si allontanassero di più tra di loro nella Guerra siriana, e dopo un breve periodo di conflitto con Mosca, Ankara si è avvicinata sempre di più al polo composto da Russia, Iran e indirettamente Siria.

In pieno conflitto con la Russia il vice del ministro della Difesa, Anatoly Antonov, aveva dimostrato in diretta a tutto il mondo, nel dicembre 2015, che alcuni tir pieni di petrolio controllati dall’Isis entravano in Turchia e secondo Antonov era la famiglia di Erdoğan a comprare questo petrolio clandestino. Dopo la rappacificazione con Mosca a questo discorso è stata messa la sordina. Ma è rimasto sempre presente come punto dolente tra gli alleati in ambito Nato. Nei suoi video anche Peker parla del traffico dil petrolio clandestino tra Isis e Turchia.

Il conflitto politico in atto tra questi due alleati in merito alla guerra civile in Siria ha fatto sì che soprattutto Ankara si sbottonasse tramite le dichiarazioni del presidente della repubblica, diverse volte in vari comizi pubblici. Ankara non ha esitato a descrivere sia l’amministrazione Obama che quella Trump come due amministrazioni traditrici e sostenitrici di formazioni terroristiche sul territorio siriano. In questa fase di grande allontanamento tra i due alleati l’amministrazione statunitense ha deciso di prendere posizioni come sanzioni economiche oppure militari contro Ankara. A questo punto nasce lo scandalo legato al sistema di protezione aerea S-400 che Ankara decise di comprare da Mosca. La scelta molto radicale e non comune tra gli alleati della Nato giustificata da Ankara dicendo che gli Stati Uniti non vendevano quello che la Turchia desiderava acquistare come protezione aerea. Le diversità politiche e di scelta tra questi due paesi si concentrano anche sulle richieste storiche di Ankara. Mentre la Turchia chiedeva una no-fly zone e una zona cuscinetto nel Nord della Siria l’amministrazione statunitense non è mai stata a favore di questa richiesta. Dunque Ankara col passare del tempo ha giustificato le sue operazioni militari sul territorio siriano senza il suo alleato basandosi su questo conflitto in cui si sente lasciata sola.

Insomma la patata bollente siriana continua essere il punto di maggior contrasto nella relazione tra Washington e Ankara. Le scelte radicali, solitarie e spesso complici con Mosca sono la linea rossa di Ankara. Dunque coloro che criticano le scelte del governo centrale nella guerra siriana, all’interno della Turchia, hanno sempre ricevuto minacce, linciaggio mediatico e politico e anche conseguenze legali.

L’incontro al vertice Nato tra Biden e Erdoğan

Il 14 giugno a Bruxelles nell’ambito dell’incontro G7, Biden e Erdoğan si sono visti e hanno parlato per la prima volta di persona dopo la vittoria elettorale del presidente statunitense. Si sarà discusso di Siria e Azerbaijan e poi anche di Libia. La Casa Bianca sottolinea che la discussione ha compreso anche i comportamenti degli alleati della Nato.

Mentre negli ultimi giorni arrivano nuove dichiarazioni da diversi esponenti del governo, come il ministro degli affari esteri, da tempo la posizione di Washington sul sistema S-400 è rigida. Ovvero Ankara sembra che sia sempre più disposta ad accettare nuove proposte per ricucire il suo rapporto con Washington invece l’amministrazione statunitense non ha nessun intenzione di fare un passo indietro.

Preparazione all’incontro al vertice: due schiaffoni a Erdoğan

In quest’ottica è molto importante la visita effettuata da Wendy Sherman il 29 maggio di quest’anno. La viceministro degli esteri dell’amministrazione statunitense ha incontrato diverse organizzazioni non governative delle donne, ha parlato dei diritti umani limitati e negati in Turchia e all’interno del consolato statunitense a Istanbul si è fatta fotografare con la mascherina sulla quale c’era scritto “Convenzione di Istanbul”. Ha poi incontrato il mondo dell’imprenditoria e dopo questo incontro ha sottolineato che anche quel mondo è preoccupato del fatto che siano limitati e negati i diritti umani in Turchia, e infine ha incontrato il patriarca Bartolomeo della Chiesa ortodossa orientale.

Un’altra visita importante di questi ultimi giorni è stata quella di Linda Thomas Greenfield avvenuta il 4 giugno di quest’anno in Turchia. Anche l’ambasciatrice permanente degli Usa all’Onu nella sua visita ha esternato la preoccupazione dell’amministrazione statunitense in merito ai diritti umani negati in Turchia. Inoltre Greenfield ha sottolineato che la gestione dei rifugiati è un tema molto importante dunque è essenziale riaprire le dogane con la Siria con l’intento di portare in questo paese gli aiuti umanitari necessari.

“La geopolitica di Sedat Peker: camion pieni di… traffici, droni, appalti”.

In un intervento su Radio Blackout Murat riassume le rivelazioni di politica internazionale di Sedat Peker

Già queste anticipazioni lasciavano intendere che Biden intendeva incentrare l’incontro con Erdogan sui diritti umani, sulla posizione di Ankara in Siria e sul futuro del sistema di protezione aerea S-400. Ovviamente molto probabilmente Erdogan avrà chiesto a Biden di sospendere il processo Halkbank. Un processo in cui è coinvolta quella banca statale all’interno di un grande progetto di riciclaggio di denaro, evasione fiscale e di aver ignorato l’embargo emesso nei confronti dell’Iran. Il processo in atto da quasi tre anni ha fatto sì che alcuni imputati dichiarassero apertamente con prove quanto il presidente della repubblica di Turchia fosse coinvolto in questo enorme scandalo. Si è scoperto successivamente come l’amministrazione Trump a seguito della richiesta di Erdoğan abbia fatto tutto il possibile perché questo processo procedesse a rilento.

Tutti e due gli alleati si sentono offesi e traditi, tutti e due posseggono delle carte importanti per ricattare l’altro e non sembra abbiano una determinata intenzione e volontà di fare un passo indietro. Però chi è uscito da una vittoria elettorale è Biden e chi risulta essere storicamente in una posizione molto debole è Erdoğan, dunque il 14 potrebbe essere stato un momento veramente importante e, all’interno di questo quadro molto particolare, le rivelazioni di Peker potrebbe avere inciso notevolmente per una posizione di difesa attendista da parte di Erdoğan. In conclusione va ricordato che sia Ankara che Washington tuttora si trovano come due alleati all’interno della Nato e Peker da un momento all’altro potrebbe essere arrestato.

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La geopolitica di Sedat Peker. 1: la vendetta corre sul video https://ogzero.org/le-videorivelazioni-di-sedat-peker-la-vendetta-corre-sul-video/ Wed, 02 Jun 2021 15:20:00 +0000 https://ogzero.org/?p=3737 Inauguriamo la serie di interventi a cura di Murat Cinar sulle videorivelazioni di Sedat Peker: in questo primo articolo si è cercato di inquadrare il personaggio, il contesto in cui è cresciuto il suo potere, fondato soprattutto sui tanti dossier che ha potuto crearsi nel tempo di aderenza con tutti i gangli del potere dell’Akp. […]

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Inauguriamo la serie di interventi a cura di Murat Cinar sulle videorivelazioni di Sedat Peker: in questo primo articolo si è cercato di inquadrare il personaggio, il contesto in cui è cresciuto il suo potere, fondato soprattutto sui tanti dossier che ha potuto crearsi nel tempo di aderenza con tutti i gangli del potere dell’Akp. La palude che ha permesso si creasse una rete di collusioni tra organizzazioni mafiose, traffici d’armi e droghe e il sistema di potere, i partiti della destra nazionalista, il clan del presidente della repubblica turca sono fotografati attraverso le inquadrature dei video scaricati in rete dagli Emirates: un terremoto per la comunità turca in attesa come noi del prossimo video che può gettare luce sulla Storia della Turchia (e dell’area mediterranea) – o spargere bocconi avvelenati.

Il prossimo articolo di questa serie racconterà la svolta improvvisamente geopolitica del nono appuntamento con il mafioso, il cui canovaccio improvvisamente è stato stravolto per accuse di complotti internazionali da smentire e quindi… Peker da consumata volpe del palcoscenico, anziché rivolgersi al presidente come previsto, annuncia rivelazioni riguardanti intrecci con l’India di Modi, il bancomat qatariota, ma soprattutto la tragedia siriana completerà le conclusioni più squisitamente geopolitiche che emergono dalla serie di Peker; e sullo sfondo la relazione tra la Turchia di Erdoğan e la Russia di Putin nell’ultimo decennio, ma anche le altre vicende mediorientali, mediterranee e globali scoperchiate dal mafioso che sapeva troppo. Nel terzo articolo invece si affronterà la maniera in cui il governo centrale ha approfittato dell’occasione per colpire la stampa indipendente e i partiti dell’opposizione. E infine, nel quarto intervento troverà spazio la vicenda di tre giornalisti la cui uccisione avvenne agli inizi della carriera del mafioso al servizio del regime e che trovano spazio nelle videorivelazioni; i video di Peker hanno influenzato l’andamento dei processi per la loro morte.

 


Sedat Peker, personaggio di spicco del movimento panturchista, accusato di appartenere al mondo della criminalità organizzata e attualmente in esilio negli Emirati Arabi Uniti, da più di un mese pubblica dei lunghi videomonologhi svelando una serie di informazioni su diversi personaggi appartenenti all’attuale governo e al mondo della burocrazia e imprenditoria.

A oggi sono otto i video pubblicati da Peker. Girati con il cellulare, durano poco più di un’ora e la loro realizzazione avviene nella sala di un appartamento lussuoso. Il linguaggio di Peker è diretto e chiaro, parla facendo nomi e cognomi, date e luoghi; illustra una serie di relazioni complicate e importanti. In questi video anche se spesso risulta pacato, calmo e composto è evidente che Peker sia arrabbiato e abbia deciso d’intraprendere questa strada per vendetta.

Chi è Sedat Peker?

Nato a Sakarya nel 1971, Peker ha cominciato a farsi notare già durante il suo primo processo negli anni Novanta in cui veniva accusato di aver fondato un’organizzazione criminale illegale perseguita per «estorsione, sequestro di persona e istigazione all’omicidio».

Nel 1997 Peker è stato assolto dall’omicidio di Abdullah Topçu, accusato di essere un contrabbandiere nella città di Rize; tuttavia le due persone che sono state processate con Peker sono state condannate all’ergastolo per l’omicidio di Topçu.

In quel periodo era fuggito in Romania, ma fu riportato in Turchia nel mese di agosto del 1998; nuovamente processato e assolto nel maggio successivo, contro di lui erano ascritti molteplici reati. In quel frangente rimase in carcere per otto mesi.

Verso la fine del 1999, in un’intervista rilasciata al quotidiano nazionale “Milliyet”, Sedat Peker, si descriveva come un «panturchista e turanista» e si difendeva dalle accuse a lui rivolte dicendo che stava «cercando di ottenere i soldi che gli spettavano, ma andando oltre i limiti delle relazioni civili».

Pochi anni dopo, nel 2005, Peker è stato arrestato di nuovo, nell’ambito dell’operazione Kelebek (Farfalla) a Istanbul, a seguito delle operazioni ad ampio raggio contro le organizzazioni della criminalità organizzata. È stato condannato a 14 anni di galera e in un altro processo, in cui era stato accusato di «fondare un’organizzazione armataı, era stato condannato a 1 anno di reclusione.

Ergenekon: il “tentato colpo di stato non armato”

Il nome di Sedat Peker è apparso anche nel maxiprocesso Ergenekon. Un processo che segnò un periodo particolare della storia della repubblica di Turchia. Era l’inizio della carriera del partito al governo, Partito dello Sviluppo e della Giustizia (Akp). L’attuale presidente della repubblica, Recep Tayyip Erdoğan, allora primo ministro, si definì come il “procuratore simbolico di questo processo”. In questo caso fu coinvolto anche Peker e fu condannato a 10 anni di reclusione.

L’Ergenekon, mentre identificava una serie di personaggi dell’esercito, dei servizi segreti e del mondo della criminalità organizzata con le mani piene di sangue, pian piano diventava anche una scusa per arrestare e zittire tutte le voci dell’opposizione; giornalisti, avvocati, politici, sindacalisti, insegnanti e studenti. Il maxiprocesso Ergenekon, dopo il fallito golpe del 2016 è stato definito come un «tentativo di colpo di stato non armato» dal governo attuale, tutti gli imputati sono stati assolti e quei giudici, procuratori e poliziotti che si erano impegnati in questo maxiprocesso sono stati arrestati, processati, sospesi oppure obbligati a lasciare la Turchia. Peker, condannato in questo processo, fu scarcerato nel 2014 grazie a una riforma legislativa, senza condizioni.

Peker, sostegno incondizionato a Erdoğan

Negli anni successivi alla sua scarcerazione i legami tra Peker e Akp, ma particolarmente con il presidente della repubblica, sono diventati sempre più stretti. In svariate occasioni Peker, pubblicamente, ha espresso la sua ammirazione per il presidente e il suo sostegno incondizionato per l’Akp e per il suo alleato, Partito del Movimento nazionalista.

Pochi giorni prima delle storiche e discutibili elezioni generali del 1° novembre 2015, Sedat Peker svolse un comizio pubblico nella città natale del presidente della repubblica, ossia a Rize, lungo la costa del Mar Nero. In quest’occasione espresse il suo pieno appoggio a Recep Tayyip Erdoğan. Si trattava di una manifestazione organizzata per “condannare il terrorismo”, in quest’occasione Peker promise al pubblico convenuto, circa 2000 persone, che per far pagare il conto amaro ai “terroristi” era disposto a “far spargere sangue loro”.

In pieno conflitto tra le forze dello stato e le guerriglie del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), nel 2016, più di mille accademici firmarono un “appello per la pace” invitando tutte le due parti a cessare il fuoco e aprire il dialogo e per questo i firmatari furono denunciati, processati, arrestati, linciati mediaticamente e politicamente e – alcuni – obbligati a lasciare il paese. In quei giorni salì sul palco di nuovo Peker e attraverso un comunicato stampa minacciò gli accademici firmatari con queste parole:

«Verseremo il vostro sangue e in questo lago faremo il bagno».

Minacce e repressione = libertà di espressione

Dopo queste dichiarazioni, Peker fu oggetto di dure proteste dai partiti dell’opposizione e di diverse associazioni non governative e presso il 20° tribunale penale di primo grado di Istanbul si aprì un’inchiesta. Tuttavia le parole di Peker vennero valutate nell’ambito della “libertà di espressione” e fu dunque assolto.

Sedat Peker è apparso nel primo anniversario del fallito golpe del 2016. Nel quartiere di Üsküdar a Istanbul, in un comizio pubblico, nel 2017, prese la parola e, riferendosi ai presunti golpisti arrestati, parlò così: «Li impiccheremo anche dentro le prigioni». Peker denunciato e indagato è stato assolto un anno dopo.

La fuga, senza ritorno

La vita da latitante di questo soggetto inizia nel 2020. Un anno fa lascia la Turchia e decide di stabilirsi nei “Balcani”. A sua detta la decisione nasce da motivi di lavoro e studio. Tuttavia da quel momento in poi per Peker inizia un viaggio senza ritorno.

Pochi mesi dopo, grazie all’indulto introdotto dal governo in piena pandemia, viene  scarcerato un altro personaggio del movimento ultranazionalista e del mondo della criminalità organizzata, Alaattin Çakici. Da quel momento in poi nasce un battibecco via internet tra Çakici e Peker e questo fatto si trasforma in un vero conflitto pubblico. Tutto ciò, facilmente, viene definito come l’inizio di una guerra tra due forze contrapposte sia nel movimento ultranazionalista turco sia nel mondo della criminalità organizzata.

Mentre Peker viveva all’estero da latitante, Çakici era libero in Turchia, scriveva lettere di elogio al presidente della repubblica e incontrava il leader del Partito del Movimento nazionalista.

Era evidente che quel disegno politico e economico che strangola il paese da circa 20 anni aveva deciso ormai di scartare un suo “sicario” e tenere buono l’altro.

La vendetta di Peker

Il primo video di Sedat Peker in realtà è stato lanciato a maggio 2020, quando risiedeva in Montenegro. In questo video Peker prendeva di mira il genero del presidente della repubblica, Berat Albayrak ovvero l’ex ministro dell’Energia e poi del Tesoro.

Secondo Peker, era proprio Albayrak ad avere in testa l’obiettivo di “farlo fuori”. Peker accusava Albayrak di lavorare con la magistratura e con i media per preparare un fascicolo pieno di “prove false”, nonché di adottare i “metodi dei gulenisti”, ossia quella realtà politica, economica e religiosa accusata di essere l’ideatrice ed esecutrice del fallito golpe del 2016.

Nella puntata iniziale, Peker sottolineava che il motivo principale del suo viaggio era proprio quello di non cadere in una “trappola”. Secondo Peker questo “complotto” organizzato ai suoi danni è stato confermato da numerosi suoi conoscenti. Peker assunse un atteggiamento aggressivo dichiarando guerra a coloro che lo volevano far fuori.

Anche se in questo primo video annunciava che ne avrebbe trasmessi altri, in realtà questo fatto non avviene e, anzi, pochi giorni dopo ne pubblica uno per chiedere scusa ad Albayrak, allora ancora potente e ministro del Tesoro.

Novembre 2020: Berat Albayrak si dimette dal suo ruolo di ministro del Tesoro con un post sul suo account ufficiale Instagram; da quel momento in poi il genero del presidente della repubblica non è più stato visto da nessuna parte.

L’inizio di una vera telenovela

La serie di videomessaggi che ormai da più di un mese occupa la quotidianità della Turchia hanno avuto inizio il 2 maggio del 2021.

A oggi, 2 giugno 2021, sono stati 8 in totale e molto probabilmente ne seguiranno molti altri. Il canale YouTube di Sedat Peker ormai ha circa 1 milione di iscritti e continua la sua crescita esponenziale. I suoi video sono seguitissimi, infatti ogni singolo video riceve almeno 6 milioni di visualizzazioni, alcuni addirittura 20 milioni.

Ogni giorno diversi canali televisivi e web trasmettono in diretta o meno, varie analisi sui messaggi lanciati da Peker. I social media, utilizzati molto bene e frequentemente da Peker, sono pieni di hashtag e messaggi su di lui e sui suoi video. La nuova app di discussione audio, ClubHouse, tutti i giorni ospita diverse stanze dedicate a questo tema (la Turchia, come per altri social media, risulta il quarto paese al mondo per utilizzo di questa nuova chat audio).

Dunque è palese che Peker in poco tempo si è collocato al centro dell’attenzione nel paese, arrivando anche a scatenare forme di fanatismo come quello che emerge in questo video di rapper francesi di seconda generazione algerina.

 

Inoltre le persone chiamate in causa e accusate da Peker, dopo ogni suo video e tweet prendono la parola e si sentono in obbligo di rilasciare una dichiarazione o si profondono in smentite, o lanciano nuove dichiarazioni che rimandano al passato più oscuro e controverso del paese.

Se le dichiarazioni di Peker fossero state fatte da giornalisti, senza ombra di dubbio la magistratura avrebbe preso immediate contromisure per denunciarli. Molto probabilmente questi sarebbero stati presi di mira dai media succubi del governo centrale e da diversi ministri dell’attuale governo. Tuttavia, è evidente che le accuse forti, nette e chiare di Peker in qualche maniera coinvolgono gli interessati e questi le prendono sul serio.

Chi finisce nel mirino di Peker?

Se c’è qualcuno a cui Peker ha deciso di dichiarare guerra è senz’altro prima di tutti l’attuale ministro degli Interni, Suleyman Soylu. Nei suoi video Peker lo accusa di tradimento. Nel racconto di Peker in aprile Soylu gli avrebbe garantito un rientro sicuro in Turchia. Infatti proprio in quel mese la polizia ha effettuato un’operazione capillare presso 121 diverse abitazioni in 5 città della Turchia. Tra le case a cui ha “bussato” la polizia c’era anche quella di Peker. Questo episodio è stato quello che ha fatto saltare il tappo (e i nervi al nostro eroe mafioso). Infatti nei suoi primi video Peker aggredisce verbalmente Soylu soprattutto per via del comportamento che i poliziotti hanno assunto nei confronti delle sue figlie e di sua moglie durante l’irruzione nella sua abitazione.

Ovviamente anche in Turchia la polizia è direttamente collegata al ministero degli Interni.

Nei video vengono esposte anche le altre eventuali motivazioni che hanno provocato la rabbia del boss mafioso contro Soylu. Secondo Peker, l’attuale ministro degli Interni deve a lui la sua carriera politica. Molto probabilmente è questo il motivo per cui si sente ancora un’altra volta “tradito”.

Secondo i dettagli-bomba sganciati da Peker sembra che durante la sua latitanza all’estero sia stato proprio Soylu a fornirgli protezione armata e varie soluzioni.

Nei confronti di Suleyman Soylu, Peker lancia numerose accuse, ma tra queste c’è un elemento che lo collega ad altri personaggi: i narcotrafficanti. Secondo Peker ormai la Turchia è diventata uno degli snodi più importanti al mondo del traffico di stupefacenti provenienti dalla Colombia e dal Venezuela.

Il giro della droga effettuerebbe secondo lui una tappa importante in Italia, per poi passare dalla Turchia con l’intento di arrivare alla destinazione finale che sarebbe la Siria.

Dal racconto di Peker in questa logistica sarebbe coinvolto in modo attivo l’ex ministro degli Interni Mehmet Ağar. Un altro sulfureo personaggio della storia della repubblica di Turchia. Il nome di Ağar è diventato famoso per due motivi principali negli anni Novanta. Prima di tutto con lo scandalo di Susurluk. Si tratta di un incidente stradale che ha scoperchiato la stretta relazione tra alcuni membri del governo dell’epoca, le forze dell’ordine, i lupi grigi e la criminalità organizzata. Dopo lo scandalo del 1996, Ağar si dimise. Successivamente fu condannato nel 2011 a 5 anni di reclusione per via dei suoi legami con la criminalità organizzata.

Il secondo punto che rende Ağar famoso è il maxiprocesso in cui è accusato di avere partecipato all’organizzazione della scomparsa e uccisione di 19 persone negli anni Novanta. Anche se in primo grado Ağar era stato assolto, nel maggio del 2021 uno dei tribunali penali di Ankara ha deciso di riaprire i fascicoli.

Un’altra persona che finisce nel mirino di Peker è Erkam Yıldırım ossia il figlio dell’ex primo ministro, Binali Yıldırım. Secondo Peker, il giovane Yıldırım sarebbe il tramite che teneva i contatti con i narcotrafficanti venezuelani per disegnare la nuova rotta per il trasporto della droga verso la Turchia. Anche se risulta che Yıldırım sia stato – in piena pandemia! – in Venezuela, proprio nelle date che Peker specifica nei suoi video, suo padre ha smentito l’accusa dicendo che suo figlio era lì per portare degli aiuti medici alla popolazione locale. Tuttavia, finora non risulta che sia avvenuto un trasporto di prodotti sanitari in quel periodo dalla Turchia verso la Venezuela.

Nei suoi video Peker parla anche di due giornalisti assassinati: Uğur Mumcu, ucciso nel 1993, e Kutlu Adalı, ammazzato nel 1996.

Due voci di opposizione e due giornalisti che hanno indagato sul rapporto tra i narcotrafficanti, lo stato turco e le guerriglie. Inoltre, particolarmente Mumcu lavorò anche sul traffico delle armi e sulla presenza massiccia dei paramilitari religiosi presenti in Turchia. Due casi ancora non chiariti definitivamente e per entrambi, secondo l’opinione pubblica, molto probabilmente c’è, in parte, anche lo zampino dello stato.

Come tutti, anche il ministro degli Interni Suleyman Soylu ha deciso di rispondere alle accuse di Peker, prendendo due volte la parola per diverse ore in diretta tv.

Tra le sue parole, anche Soylu ha pronunciato il nome di un giornalista assassinato, Hrant Dink, nel 2007. Secondo Soylu, stavolta sarebbe Peker coinvolto – direttamente o meno – nell’assassinio del giornalista.

Ascolta “La sulfurea serie di videorivelazioni di Sedat Peker” su Spreaker.

Cosa ci aspetta?

Ovviamente sorge spontanea una domanda: “Perché parla ora Peker?”. Anche se in parte si è cercato di rispondere in questo articolo che avete appena finito di leggere, si tratta di una domanda che merita una risposta ancora più dettagliata. Però sarà probabilmente Peker stesso a darci una risposta adeguata, dato che, questa domenica, 6 giugno, uscirà il suo nono video e in questo si rivolgerà soltanto e direttamente a Recep Tayyip Erdoğan, che finora ha fatto delle dichiarazioni con toni pacati e ha difeso (dopo aver atteso a lungo), i suoi alleati e i suoi ministri.

L'articolo La geopolitica di Sedat Peker. 1: la vendetta corre sul video proviene da OGzero.

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n. 8 – Siria (III): il clan al-Assad e la Guerra civile https://ogzero.org/il-clan-al-assad-e-la-guerra-civile-siriana/ Wed, 26 May 2021 11:33:21 +0000 https://ogzero.org/?p=3559 Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella […]

L'articolo n. 8 – Siria (III): il clan al-Assad e la Guerra civile proviene da OGzero.

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Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe umanitaria che ha fatto seguito allo scatenarsi del conflitto siriano dell’ultimo decennio.

L’autrice ha dapprima analizzato le attuali condizioni di siriani ormai integrati in realtà esterne al paese ai quali ora viene chiesto di rimpatriare, rischiando la vita e rinunciando alla nuova esistenza costruita faticosamente in esilio. L’analisi è proseguita valutando le condizioni economiche e umanitarie in cui si tengono le elezioni il 26 maggio, senza dimenticare la specificità della Primavera araba nelle diverse regioni siriane; prosegue qui collegando le modalità di protesta alla particolare peculiarità del regime alauita del clan al-Assad; le fasi della politica di Bashir – fino alla Primavera araba e il conflitto esploso nel 2011, che ha fatto del territorio siriano uno scenario usato dalle potenze globali e locali per imporre la propria supremazia.


n. 8, parte III

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il conflitto siriano: il clan al-Assad e la Guerra civile

I regimi degli al-Assad

Nonostante in Siria si riscontri l’esistenza di istituzioni statali come il parlamento, il consiglio dei ministri, il potere decisionale è sempre nelle mani di un solo clan ossia quello di Assad e dei suoi familiari e dai capi dei servizi di intelligence.

il clan al Assad

Come noto Bashar al-Assad è succeduto al padre Hafiz, a capo della nazione per trent’anni, in seguito alla sua morte nel 2000. Il figlio Basil che avrebbe dovuto succedergli, al momento della sua morte, è deceduto in un incidente stradale nel 1994; in sua vece quindi nel 2000 subentrò al potere il secondogenito Bashar. Tra le immediate nomine “familiari” del neoeletto presidente, all’interno del regime, citiamo quella del fratello minore Mahir al-Assad e della sorella Bushra al-Assad al comando della Quarta divisione corazzata dell’Esercito Siriano e quella del cognato Assef Shawkat designato vicecapo di stato maggiore e all’epoca già a capo del Mis – Il Dipartimento di intelligence militare siriana – in particolare nella sezione Perquisizioni (sezione 235).

La legge d’emergenza controlla la libera espressione

Il presidente della Siria, già durante il regime instaurato da Hafiz a partire dal 1970, riunì nella sua persona la carica di capo dello stato, quella di comandante delle forze armate, quella di segretario generale del Partito ba’at al potere e quella di presidente del Fronte nazionale progressista, sotto il quale vi furono tutte le forze politiche di opposizione autorizzate dal regime. In quest’ottica va citata la “legge d’emergenza” in vigore dal 1963 che garantisce il ferreo controllo di ogni manifestazione di dissenso di libera espressione politica, il divieto di assembramenti pubblici, il fermo di sospetti dissidenti e infine indica per quali accuse il fermo può trasformarsi in arresto. La legge inoltre definisce il ruolo dei tribunali speciali per i dissidenti, impone rigidi controlli sui mezzi d’informazione ma soprattutto concede ampi poteri alle quattro agenzie di sicurezza operative in tutto il paese. Rispetto al regime da lui guidato va detto però che Bashar è un primus inter pares ossia a capo di un’oligarchia composta dai membri della famiglia al-Assad, da alleati e da alcuni ufficiali legati al clan familiare, e non un capo indiscusso come lo era il padre Hafiz. La Siria, infatti ha acquisito l’indipendenza dai francesi nel 1946, tuttavia con l’indipendenza non si è raggiunta una stabilità politica ma si sono succeduti nel tempo una serie di colpi di stato e di guerre come quella dei 6 giorni nel 1967 con Israele, paese ancora oggi considerato nemico dai siriani.

A ogni modo già tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta si registrò l’ascesa della comunità alauita – minoranza sciita originaria delle montagne a est di Latakia e delle sue pianure costiere a sud – la quale si unì al Partito ba’at (Partito della resurrezione, movimento panarabo nazionalista, socialista e laico) nel quale Hafiz al-Assad entrò a far parte a soli 16 anni perseguendo al contempo la carriera militare. Nel 1963 il Partito ba’at, per effetto di un colpo di stato, conquistò il potere e da lì cominciò l’ascesa di Hafiz che nel 1964 venne nominato generale, quindi nel 1965 capo dell’Aereonautica.

Un nuovo colpo di stato

Tuttavia, la succitata guerra dei 6 giorni con Israele nella quale la Siria venne sconfitta, fece vacillare il potere di al-Assad ma, nel 1970, Hafiz portò avanti un ennesimo colpo di stato – non sanguinario come i precedenti – definito come “Rivoluzione Correttiva” mediante il quale ottenne in modo indiscusso il governo del paese che ebbe sempre un maggiore controllo del territorio siriano.

Nel 1976, inoltre, è importante ricordare che il regime di Damasco decise di fare del Libano un proprio protettorato, condizione che resterà salda fino al 2005 quando venne assassinato il premier libanese Rafiq al-Hariri, intervenendo militarmente e politicamente nella guerra civile libanese che ebbe luogo dal 1975 fino al 1990.

Ciò che risulta interessante è che la composizione alauita del regime non seguì fin da subito una logica confessionale per la sua affermazione, ma mirò piuttosto all’appoggio della borghesia urbana e delle periferie:

A sostenere il regime infatti fu non solo la destra alauita della quale faceva parte Hafiz ma anche i drusi e i cristiani che temevano la presenza della maggioranza sunnita nel paese.

Allo stesso tempo i sunniti si allearono in quegli anni con il clero islamico ortodosso, ossia la frangia estremista rappresentata quasi totalmente dalla Fratellanza Musulmana. Iniziarono cruenti attentati da parte dei sunniti e violentissime repressioni da parte del regime fino a quando nel 1982 Hafiz decise di bombardare la città di Hamah – definita da Hafiz “la testa del serpente” in quanto patria dei maggiori conservatori tra i sunniti in Siria – per reprimere la rivolta della comunità musulmana sunnita dando inizio a uno dei più cruenti conflitti civili. In quella circostanza si parlò di almeno 10.000 siriani uccisi nel conflitto. Hafiz volle affermare con tale efferata e sanguinaria repressione, fatta di esecuzioni di massa, di fosse comuni, di feriti, di donne e di bambini sepolti vivi tra le macerie, che la religione veniva dopo lo stato ba’atista e che l’uso politico di questa non sarebbe mai stato tollerato dal regime.

il clan al Assad

La distruzione della città di Hamah perpetrata da Assad nel 1982.

Le atrocità commesse nei confronti dei sunniti non furono finalizzate solo a prevalere sulla Fratellanza Musulmana ma anche come ammonizione, per i sopravvissuti e per i membri di tutte le altre organizzazioni che si opponevano al regime, di quello che sarebbe potuto accadere nell’ipotesi di ulteriori atti di disobbedienza in futuro.

La repressione sanguinaria e le promesse tradite

Dopo circa trent’anni dal massacro di Hamah nel 2011 il figlio di Hafiz, Bashar al-Assad si trovò quindi ad affrontare una nuova escalation di proteste, contro le quali decise, come il padre, di scatenare una sanguinaria repressione, nonostante queste avessero poco a che fare con l’elemento religioso – caratteristico delle rivolte della popolazione sunnita del 1982 – quanto piuttosto con un senso di tradimento avvertito dalla popolazione siriana legato al mancato riconoscimento delle libertà e dello sviluppo economico. Questi ultimi erano stati promessi infatti dal governo ba’atista di Bashar che tuttavia avrebbe accumulato nel tempo tutte le ricchezze per sé stesso. Da quanto si sta verificando fino a oggi, dopo dieci anni dall’inizio del conflitto civile, Bashar al-Assad non sembra aver riproposto la forza armata “risolutiva” del conflitto che aveva dimostrato il padre nel 1982.

il clan al Assad

Manifestazione a Homs.

Non si può tacere tuttavia che, se le proteste del 2011 sono state sicuramente meno accanite di quelle del 1982, allo stesso tempo – per il fatto di non essere strettamente legate alla questione confessionale sunnita – hanno saputo raccogliere importanti consensi in ambito nazionale e internazionale molto più ampi rispetto al passato.

Tuttavia, per capire come si sia arrivati a tali proteste e per apprendere meglio la ragioni dell’intervento di più forze internazionali nel conflitto siriano occorre fare una breve sintesi degli eventi concernenti gli anni del governo di Bashar al-Assad prima del 2011.

La politica di Bashar al Assad dal 2000 al 2011

Nel 2000 Bashar al-Assad riprese il dialogo con gli “ulama” (il clero islamico), tra cui il leader del movimento islamico Zayd – in quegli anni considerato forza religiosa prevalente a Damasco. Il regime invece non si riavvicinò ai Fratelli Musulmani ormai di base a Londra.

Quindi nel 2005, poiché come detto il regime fu sospettato dell’assassinio dell’ex premier libanese Rafiq al-Hariri, Damasco dovette ritirare, su pressione popolare libanese e internazionale dell’Onu, degli Usa e della Francia, le sue truppe dal Libano. In quell’anno i Fratelli Musulmani crearono, in opposizione al regime, il Fronte di salvezza nazionale costretto poi a dissolversi nel 2009, a causa del rinnovato vigore politico e militare di Damasco, grazie all’appoggio dato a Hamas durante in conflitto israelo-palestinese nella Striscia di Gaza.

Allo stesso modo nel 2006 una nuova generazione di islamisti in esilio creò a Londra il Movimento di giustizia e sviluppo (ispirato all’Apk turco di Erdoǧan), movimento musulmano più democratico che islamista. Tuttavia, la questione dell’opposizione islamista in esilio manifestò subito i suoi problemi strutturali, quali la sua estrema frammentarietà e la sua mancata rappresentatività all’interno della Siria, dato che i loro interessi erano divergenti rispetto a quegli degli ulama – interessati più all’indebolimento dell’apparato statale di sicurezza che al multipartitismo nella repubblica – e dato che questi non potevano svolgere alcun ruolo di rappresentanza politica di forte opposizione al regime per il timore costante della repressione.

Il legame col Libano

Dal 2008 il regime ristabilì un’influenza politica sul Libano, data la sua importanza strategica dal punto di vista geopolitico, rafforzando l’armamento di Hezbollah e, godendo di una quasi completa riabilitazione da parte dell’Occidente, rinunciò completamente alla causa di riappacificazione con gli ulama. Dal 2008 Damasco infatti iniziò una politica di affermazione di superiorità del proprio potere politico su quello religioso, cercando di escludere l’influenza del movimento islamico in diversi settori della società come nelle scuole e nelle associazioni benefiche presenti nel paese.

Quando nel marzo 2011 esplosero le proteste contro il regime, Bashar al-Assad strategicamente accolse come in passato le istanze del clero musulmano per paura che anche esso si unisse alle rivendicazioni democratiche del resto della popolazione: venne chiuso il casinò di Damasco, vennero reinserite “le insegnanti con il velo”, vennero creati un istituto islamico pubblico e un’emittente nazionale musulmana.

Tale strategia ebbe successo poiché assicurò il silenzio del clero musulmano rispetto ai movimenti di protesta che in quell’anno dominarono la scena politica del paese.

Inoltre, per le politiche messe in atto dal regime di Damasco nel Libano, Hezbollah fornì pieno appoggio a Bashar al-Assad già durante le rivolte del 2011, mentre Ankara – pur essendo passata da un autoritarismo militare laico a una democrazia conservatrice dei valori musulmani, unita a una politica iperliberista sul piano economico – nel 2011 prese inizialmente le distanze sia dai movimenti di protesta che dalle dure repressioni esercitate da Damasco.

Le tappe del conflitto dal 2011 a oggi

Nei dieci anni precedenti al conflitto la Siria era quindi già un avamposto nel quale si dispiegarono numerose questioni politiche, sociali ed economiche non solo in ragione del desiderio di acquisizione del potere centrale nella repubblica, ma anche per le trattative intessute in questi anni tra il potere centrale, le comunità locali e le forze internazionali; inoltre nel conflitto hanno avuto e continuano ad avere peso diversi fattori etnici, confessionali, politici, individuali e culturali.

Occorre sottolineare che ciascuna potenza internazionale intervenuta nel conflitto ha visto nella guerra siriana la possibilità di consolidarsi nella regione del Medioriente rispetto ad altre potenze rivali nell’area.

Il 18 marzo 2011 le milizie governative di Assad spararono contro i manifestanti a Dara’a uccidendo quattro persone: le manifestazioni e, di conseguenza anche la loro repressione, ebbero un’eco sempre maggiore, mentre ad aprile dello stesso anno nella città di Homs, una delle città più grandi del paese, migliaia di cittadini siriani organizzarono un importante “sit in” che rievocò le manifestazioni in piazza Tahrir contro il regime di Mubarak. Gli scontri continuarono per tutto il 2011 e portarono come detto alla formazione dell’Esercito siriano libero – oggi forza militare marginale sostituita da jihadistimotivo per cui il regime mise in campo forze militari di artiglieria e di aviazione. Il 18 luglio 2012 dalla rivolta si raggiunse l’apice della guerra civile: i manifestanti bombardarono il Palazzo di sicurezza nazionale, durante una riunione di crisi, provocando l’uccisione di quattro funzionari del regime tra cui il succitato cognato di Assad e l’allora ministro della Difesa. Le forze militari del governo di Assad assediarono il quartiere di Baba Amir sempre a Homs. In quella circostanza all’Esercito siriano libero si affiancarono i combattenti di al-Nusra, gruppo jihadista nato da al-Qaeda e composto da fondamentalisti sunniti che miravano alla destituzione del regime per poter instaurare uno Stato Islamico nel paese.

Arrivano le forze internazionali

Il 2013 invece segnò l’inizio della presenza di forze internazionali nel conflitto siriano: la condizione nasce dal fatto che gli Stati Uniti, nella persona dell’allora presidente Barack Obama, dichiararono che l’utilizzo di armi chimiche avrebbe condizionato il coinvolgimento degli Usa nel conflitto. Nel 2013 iniziò l’indagine delle Nazioni Unite relativamente alla morte di 26 persone civili e soldati nella città di Khan Shaykhun e, rispetto al quale, tanto il regime quanto le forze di opposizione rinnegarono ogni responsabilità. L’Onu, anche se non riuscirà mai a conoscere la verità sulla responsabilità dell’attacco, dichiarerà in seguito che si trattò di un attentato compiuto mediante l’utilizzo di gas nervino. Inoltre, sempre nel 2013, un attacco chimico nella periferia della capitale Damasco uccise centinaia di persone. Gli Stati Uniti a quel punto attribuirono la responsabilità della strage al regime decidendo in un primo momento di intervenire nel conflitto, ma successivamente ritirarono le loro dichiarazioni. Tuttavia il Consiglio di Sicurezza dell’Onu impose al regime la distruzione di tutte le proprie armi chimiche come conseguenza di un surreale accordo tra Stati Uniti e Russia, per cui Bashar al-Assad fu costretto a firmare il 14 ottobre 2013 la Convenzione sulle armi chimiche che ne vieta la produzione, lo stoccaggio e l’utilizzo.

Le ultime armi chimiche a disposizione del regime siriano verranno dichiarate rimosse l’anno successivo dall’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, nonostante l’opposizione sostenesse che l’esecutivo continuava a disporne di ulteriori.

L’osservazione internazionale sull’elemento chimico della guerra nel 2013 determinò così il decisivo intervento diplomatico della Russia nel conflitto siriano che conferì a Bashar al-Assad un possibile ruolo di “attore-interlocutore” per il processo di pace nel paese.

Nel maggio del 2013, inoltre, anche il gruppo militante libanese Hezbollah si inserisce nel conflitto siriano accanto ad Assad, in questo caso a livello militare, attaccando e riconquistando la città di Qusair al confine tra i due paesi. Anche il sostegno fornito dal gruppo sciita libanese, quindi, ha finito per internazionalizzare il conflitto siriano in quanto – in conseguenza della presenza di Hezbollah in Siria – decisero di intervenire da un lato l’Arabia Saudita, il Qatar e gli Emirati Arabi e la Turchia a favore delle forze di opposizione e dall’altro l’Iran e l’Iraq, i quali appoggiarono il regime di Assad. Intanto gli insorti appartenenti all’opposizione si frammentarono nel corso degli anni in gruppi militari laici e islamisti per cui la coalizione tra l’Esercito siriano libero e al-Nusra si ruppe definitivamente nel 2014.

La fuga della popolazione dallo Stato Islamico

Il 2014 rappresentò tuttavia uno degli anni più rilevanti del conflitto siriano anche per altre ragioni: nel giugno dello stesso anno si tennero nel paese le elezioni presidenziali, il cui verdetto vide riconfermato capo di stato, con l’88 per cento dei voti a favore, Bashar al-Assad  ma il 30 giugno 2014 il sedicente Stato Islamico dichiarò il Califfato nelle aree che ormai erano poste sotto il suo controllo, non solo in Iraq, ma anche in Siria, provocando la fuga di migliaia di cittadini siriani dal paese. Nel settembre del 2014 gli Usa cominciarono a sferrare attacchi aerei contro gli avamposti del sedicente Stato Islamico in Siria.

Nel 2015 il regime siriano raccolse una serie di sconfitte militari in conseguenza dei continui attacchi sia dei ribelli che dell’IS e inoltre il 28 marzo del 2015 la città nordoccidentale di Idlib cadde nelle mani dei militanti islamici guidati da al-Nusra. Proprio in quest’anno si ricorda il ritrovamento del corpo del bambino siriano Alan Kurdi di tre anni su una spiaggia turca: quest’immagine che forse sarà ancora presente negli occhi di molti lettori portò l’opinione pubblica internazionale a non voltare più lo sguardo rispetto alla condizione dei profughi fuggiti in conseguenza del conflitto siriano e speriamo che non occorrano ancora immagini come quella per scegliere l’opzione dei canali umanitari e non quella assurda della prassi delle esternalizzazioni delle frontiere.

Le potenze regionali intervengono

Nell’autunno del 2015, quindi, poiché il regime siriano rischiava ormai di collassare, la Russia decise di intervenire militarmente nella Siria occidentale lanciando i primi raid aerei e attrezzando di nuovo militarmente le basi militari di Tartus e Latakia e successivamente il Consiglio di Sicurezza approvò all’unanimità la Risoluzione Onu n. 2254 finalizzata alla costituzione di un processo di pace nel paese.

Nel 2016 si registrò la vittoria del Partito ba’at di Assad nelle consultazioni parlamentari ma il conflitto proseguì duramente, in particolare nella città di Aleppo, portato avanti però più che dalle forze militari del regime da parte di quelle internazionali, nello specifico da quelle russe.

Il 2016 tuttavia segnò per la prima volta l’intervento della Turchia, proprio a nord di Aleppo, mentre i quartieri a est della città rientrarono, dopo mesi di assedio, sotto il controllo delle milizie lealiste in particolare di quelle iraniane e russe. Allo stesso tempo la coalizione curdo-araba – ossia le Forze democratiche siriane anti-Isis, guidata dagli Stati Uniti nel Nordest del paese – riconquistarono la città di Raqqa, storica roccaforte dello Stato Islamico, con una campagna che si concluse nell’anno seguente.

Gli attacchi chimici

Nell’aprile del 2017 vi fu un attacco di gas nervino nuovamente nella città settentrionale di Kahna Sheikhoun, in quel periodo in mano ai ribelli, la responsabilità del quale venne negata da Mosca e Damasco. Tuttavia, gli Usa, in risposta a tale attacco chimico, spararono missili crociera direttamente contro il territorio dominato dal regime di Damasco, mentre i ribelli si ritirarono a Homs. Anche Israele in conseguenza del presunto attacco chimico per opera del regime è intervenuto nel 2017 con bombardamenti contro una base aerea militare siriana. Sempre nel 2017 venne ripreso il controllo anche di altre città in tale area del paese e Putin a dicembre dello stesso anno dichiarò la definitiva sconfitta dello Stato Islamico in Siria.

il clan al Assad

Le rovine della città di Homs (foto gsafarek).

Nel 2018 la novità fu quella di sostenere che al-Assad ormai avesse vinto la guerra.

Ma, nonostante le forze governative riconquistassero in quest’anno anche il Sudovest del paese e la regione agricola orientale di Ghouta a ridosso della città Damasco – regione dal 2012 sottratta al controllo del regime – le milizie turche consolidarono la loro posizione nel Nordovest della Siria in particolare nella città di Idlib. Quest’ultima prende il nome dalla stressa provincia, intorno alla quale, la Russia e la Turchia volevano creare una zona “cuscinetto” di circa venti chilometri, mediante la stipula dell’Accordo di Sochi siglato nell’autunno del 2018 dalle due potenze e aggiornato con la recente intesa del marzo del 2020 principalmente per evitare che i futuri sfollati siriani si dirigessero nuovamente verso la Turchia come in passato. L’area a Nordovest infatti nel 2018 era considerata l’ultima roccaforte delle forze di opposizione jihadiste. Rispetto a Israele, paese sempre maggiormente preoccupato della continua espansione iraniana nel conflitto siriano, la Russia è corsa ai ripari negoziando proprio con l’Iran l’allontanamento dalle frontiere di Israele per circa 80 chilometri dalle alture del Golan, garantendo il monitoraggio dell’area attraverso le proprie truppe militari.

Truppe israeliane al confine con la Siria (foto Alexeys).

Le diverse violazioni dell’Accordo di Sochi

Ciò non fu sufficiente a evitare più volte la violazione dell’Accordo di Sochi, soprattutto nel 2019, quando le truppe russe cercarono di invadere la provincia di Idlib al confine con la Turchia – stante la permanenza delle forze di opposizione in particolare di quelle jihadiste dell’Hts (Hay’et Tahrir al-Sham) – sostenute proprio dalla Turchia che a sua volta cercò di contrastare le milizie curde dell’Ypg/Ypj (ramo siriano del Pkk turco) che combattono per uno stato indipendente nel Nord del paese.

Le violazioni degli accordi di Sochi: i russi intervengono in Siria invadendo la provincia di Idlib.

Inoltre, la promessa Usa del 2018 del ritiro definitivo delle proprie truppe americane dall’area a Nordest del paese – che si ponevano a guida della coalizione arabo-curda delle Forze democratiche siriane – venne mantenuta verso la fine del 2019, motivo per cui le Forze democratiche siriane dopo l’abbandono Usa dal Nordest si spostarono principalmente sul versante Nordovest del paese per resistere all’avanzata turca.

L’offensiva anticurda della Turchia

Dopo il ritiro degli Usa, infatti, il 10 ottobre del 2019 la Turchia portò avanti un’offensiva contro i combattenti curdi. Il succitato accordo del marzo del 2020 tra Putin ed Erdoğan per un cessate il fuoco nel Nordovest della Siria è riuscito a scongiurare un confronto diretto delle forze armate filogovernative russe contro quelle turche e ha bloccato un’importante offensiva del regime verso la città di Idlib. Tali condizioni sono state accettate da Damasco perché certa non era la possibilità di riuscita contro le forze di opposizione a Idlib, senza l’aiuto di Ankara.

Come si evince dalla sintesi del conflitto siriano dopo 10 anni si può giungere alla conclusione che le scelte politiche, e di conseguenza quelle militari, che caratterizzano le dinamiche e le interazioni nella repubblica siriana vengono assunte prevalentemente dalle potenze straniere, mentre un ruolo del tutto marginale rivestono ormai le scelte e le azioni poste in essere dalle rappresentanze politiche interne al paese compreso lo stesso regime. È solo partendo da questo presupposto che potremo cercare di comprendere successivamente i recenti accadimenti che stanno interessando il paese, consapevoli che interazioni, interessi, negoziazioni oggi sono prevalentemente tra le potenze esterne: sono tali azioni che possono essere oggetto di una valutazione prognostica autentica rispetto alla concreta realizzabilità del tanto auspicato processo di pace nel paese ormai devastato dal conflitto civile. Analizzeremo dunque ogni attore estero e il ruolo che attualmente possiede nella determinazione della condizione della Siria, rivelando ciò che oggi è già chiaro:

la Siria e il “suo” conflitto stanno divenendo la cartina al tornasole di tutte le questioni di conflittualità esistenti tra i paesi dell’area mediorientale, i movimenti jihadisti in esso presenti, e tra le grandi potenze straniere, fuori dall’area, che avvertono “la responsabilità” di intervenire nel conflitto.

Analizzando le azioni di queste forze sembra che poco si stia compiendo nell’interesse della popolazione civile siriana: infatti le decisioni di ciascuna potenza estera appaiono maggiormente volte all’affermazione di sé legata o a un’idea di espansionismo geopolitico, o agli interessi economici, o alla volontà di riscatto personale contro un paese rivale nella medesima area. “Ai posteri l’ardua sentenza”, se questo si può definire un passaggio necessario per la definizione del conflitto o se possa essere a questo punto gestito in modo alternativo, valutando il bilancio delle vittime, la distruzione dei territori e l’immutabilità dell’impianto politico esistente dopo un decennio di guerra.

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Biden Aggiustatutto: “Can you fix it?” https://ogzero.org/gatte-da-pelare-per-biden/ Thu, 28 Jan 2021 11:53:53 +0000 http://ogzero.org/?p=2325 Joseph Robinette Biden Jr., meglio noto come Joe Biden, è il 46º presidente degli Stati Uniti d’America dal 20 gennaio 2021. Si chiude o si interrompe l’epoca dell’amministrazione bizzarra guidata dall’imprenditore Donald John Trump. La vittoria elettorale, anche se non schiacciante, di Biden, soprattutto con la maggioranza in entrambe le Camere, sembra che porterà il […]

L'articolo Biden Aggiustatutto: “Can you fix it?” proviene da OGzero.

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Joseph Robinette Biden Jr., meglio noto come Joe Biden, è il 46º presidente degli Stati Uniti d’America dal 20 gennaio 2021. Si chiude o si interrompe l’epoca dell’amministrazione bizzarra guidata dall’imprenditore Donald John Trump.

La vittoria elettorale, anche se non schiacciante, di Biden, soprattutto con la maggioranza in entrambe le Camere, sembra che porterà il vento del Partito democratico 2.0 in terra americana.

A questo punto le relazioni tra i due storici alleati della Nato, Ankara e Washington, molto probabilmente subiranno dei cambiamenti.

Trump loved Erdoǧan

In questi ultimi quattro anni, la sempre più diffusa politica del post truth mescolata a una notevole crescente cultura razzista e militarista ha scombussolato radicalmente la politica interna degli Usa. Contemporaneamente la figura del “one man” o “ghe pensi mi” di Trump ha fatto sì che la sua personalità schiacciasse anche la consolidata e forte cultura istituzionale statunitense in politica estera.

Sicuramente, sia per via dell’età di Biden sia per la sua posizione e cultura politica, in questa nuova fase gli Usa assumeranno un atteggiamento ben diverso rispetto all’amministrazione uscente e questo cambiamento avrà effetto anche nei confronti di quegli alleati che, da tempo, governano i loro paesi un po’ come faceva Trump negli Usa.

In un suo articolo di approfondimento, Carl Bernstein, giornalista statunitense di Cnn, il 30 giugno del 2020, specificava che il presidente della Repubblica di Turchia, in certi periodi chiamava Trump al telefono anche due volte a settimana e qualche volta anche mentre giocava a golf. Secondo Bernstein questo è un esempio significativo di come Trump abbia calpestato spesso varie prassi diplomatiche.

Da questo punto di vista questi due leader, molto carismatici e altrettanto pragmatici, si assomigliano molto. Erdoǧan, anche grazie al sistema presidenziale introdotto con il referendum del 2017, ama (è obbligato) a concentrare un po’ tutto sulla sua figura. Erdoǧan “si intende” di istruzione, sanità, tatuaggi, religione, politica estera, parto, abbigliamento, edilizia, calcio, giornalismo, giustizia e persino demografia. Due maschi, bianchi e over 70, su certi argomenti molto lontani tra loro, si sono invece trovati molto bene nel coordinare una serie di affari e nascondere sotto il tappeto diversi temi fonti di conflitti importanti.

Quindi, molto probabilmente, Erdoǧan con l’arrivo di Biden non avrà più a Washington un presidente che gli sarà vicino con una telefonata in qualsiasi momento. Saranno gli assistenti del presidente o i ministri a occuparsi della Turchia, non sempre e direttamente il nuovo leader democratico.

La giustizia è un’opinione

Uno dei punti di cui la nuova amministrazione Usa deve occuparsi è il famoso e lungo processo anticorruzione che vede coinvolta la banca statale turca Halkbank e l’imprenditore turco-iraniano Reza Zarrab. Questi due soggetti sono accusati di far parte di un progetto di riciclaggio di denaro ed evasione fiscale che è stato utilizzato dalle istituzioni, banche e aziende turche, e non solo, per aggirare l’embargo statunitense imposto all’Iran.

Zarrab si trova negli Usa, sotto protezione, dal 2016 ed è ormai un collaboratore di giustizia. È difficile dimenticare la sua storica dichiarazione rilasciata nell’aula del tribunale, dopo aver disegnato e raccontato perfettamente questo progetto diabolico: «Di tutto questo era al corrente anche l’attuale presidente della Repubblica». Grazie alle dichiarazioni di Zarrab è stato arrestato e trattenuto in carcere l’ex direttore generale della Halkbank, Mehmet Hakan Atilla, nel 2017, per trentadue mesi.

Tra le accuse importanti attribuite a Zarrab, ad Atilla e al governo turco c’è anche quella di frode ai danni del sistema bancario statunitense.

Questo processo, apparentemente un valido motivo di conflitto tra gli alleati, invece era uno dei punti che accomunavano Trump ed Erdoǧan. Entrambi i leader hanno sempre provato palesemente a esercitare una notevole influenza sulla magistratura quindi mettendo in discussione la separazione dei poteri. Infatti Trump aveva provato a far dimettere Geoffrey Berman, il procuratore capo di New York che si occupava del maxiprocesso, e secondo alcuni giornalisti ed ex collaboratori del presidente tutto questo era per accontentare Erdoǧan, proprio come anche quest’ultimo spesso fa rifiutandosi, verbalmente e pubblicamente, di riconoscere non solo le decisioni della Cedu ma anche quelle della Corte Costituzionale della Repubblica di cui lui risulta tuttora il presidente.

Ci si attende, con l’insediamento di Biden, più spazio di manovra e libertà per la magistratura su questo maxiprocesso. Nel caso in cui venissero fuori dei dettagli più imbarazzanti ed evidenti non sarebbe fuori luogo pensare a una nuova ondata di sanzioni nei confronti della Turchia oppure di alcuni membri del governo.

Gli S-400, pomo della discordia

Uno dei punti dolenti tra gli storici alleati del Patto atlantico è stato l’acquisto nel 2017 da parte di Ankara del sistema antiaereo S-400, di nuova generazione e produzione moscovita.

Questa mossa ovviamente non era stata digerita da Washington: il secondo esercito più importante della Nato aveva deciso di investire in una tecnologia militare molto avanzata, comprandola proprio da uno dei suoi più importanti antagonisti. Mentre invece Ankara giustificava la scelta sostenendo che il sistema analogo, ma di produzione statunitense, le era stato negato dall’amministrazione Obama e quindi non aveva altra scelta, dovendo difendersi dalla minaccia costituita dalla guerra in Siria.

Dopo una serie di ultimatum e lievi minacce la Turchia è stata infine espulsa dal progetto di produzione degli F35 e nei confronti di Ankara sono state attivate, parzialmente, la sanzioni Caatsa. Tuttavia possiamo dire che le posizioni dell’ex presidente americano Trump non sono mai state abbastanza critiche in relazione alla questione.

Oggi, con l’amministrazione Biden, troviamo Tony Blinken sulla poltrona di ministro degli Affari esteri: quasi braccio destro di Obama per il Medio Oriente, uno degli esperti, in seno al Partito democratico, di politica estera.

Oltre questi dettagli biografici spicca senz’altro la dichiarazione last minute del nuovo ministro: «La Turchia è un nostro presunto alleato strategico ma non si comporta da vero alleato. Un alleato vicino a Mosca, che è il nostro più grande avversario strategico, non serve. Valuteremo le nuove sanzioni contro Ankara».

Pochi giorni dopo questa netta dichiarazione è risuonata una comunicazione del presidente della Repubblica di Turchia: «Siamo decisi a firmare un secondo accordo per il sistema S-400 con Mosca. Non so come accoglierà questa decisione l’amministrazione Biden ma non chiederemo il permesso a nessuno».

In poche parole, sembra che il metodo del bastone e della carota, utilizzato spesso da Trump per sopire i conflitti con Ankara e che non ha dato i suoi frutti nel caso degli S-400, non sarà quello scelto dalla nuova amministrazione Usa.

Guerra in Siria: il filo sottile con Mosca

Quello siriano è decisamente uno dei motivi di allontanamento politico sorto tra Ankara e Washington in questi ultimi tempi.

Nell’arco di tre anni il governo centrale turco ha deciso di inviare le sue truppe sul territorio siriano e ha avviato quattro operazioni in collaborazione e coordinazione con l’Iran, la Russia e indirettamente con la Siria, trascurando gli Stati Uniti.

La lettera amara di Trump a Erdoǧan, in cui chiedeva di non fare “sciocchezze” non era quella reazione forte che le forze armate e politiche siriane si aspettavano. Pochi giorni dopo quella missiva i soldati statunitensi pian piano hanno lasciato il terreno all’esercito della Repubblica di Turchia per avviare l’operazione Sorgente di Pace nel mese di ottobre del 2019.

Ormai era chiaro e ufficiale che sul territorio siriano fosse Mosca a decidere e coordinare le manovre in collaborazione con Damasco e Tehran. La presenza della Turchia è solo il frutto di quel rapporto politico ed economico perverso, legato a un filo sottilissimo, tra Ankara e Mosca.

Le operazioni militari della Turchia sono state realizzate anche con il sostegno dell’Esercito libero siriano composto da combattenti mercenari, ex soldati dell’esercito siriano e numerose brigate jihadiste.

L’esperimento fallito: milizie e tradimenti

Questa forza paramilitare è anche il frutto di un progetto fallito e guidato da Lloyd Austin. Nel 2013 Ankara e Washington dopo un breve periodo di addestramento avevano preparato un gruppo armato sul territorio turco, per combattere l’Isis. Tuttavia, una volta entrati in Siria, questi hanno deciso di aderire a diversi gruppi jihadisti come al-Nusra. Forse questo fu il momento in cui l’amministrazione Obama decise di cambiare alleanze sul territorio siriano. Oggi Austin è il primo segretario alla Difesa afroamericano della storia degli Stati Uniti, una novità che potrebbe avere impatto sulle scelte di Washington in Siria.

Un altro nome interessante è Brett McGurk, rappresentante speciale della Casa Bianca per il Medio Oriente e il Nord Africa. Figura non amata dai media mainstream della Turchia per via dei suoi stretti rapporti con le forze armate “curde”. Nel 2017, il ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu aveva chiesto all’amministrazione statunitense di sospendere l’incarico a McGurk dopo la sua visita di persona alle Unità di Difesa Popolari, Ypg, in Rojava. Dovutoglu, senza troppi giri di parole, in diretta tv sul canale Ntv aveva accusato McGurk di “sostenere” le forze armate del Pkk, organizzazione definita “terroristica” da Ankara e Washington. Un anno dopo, nel 2018, Trump decise di togliere l’incarico a McGurk. Oggi, questa figura “problematica” molto probabilmente avrà un ruolo determinante nella nuova amministrazione statunitense.

Con la Cina accordi commerciali e sanitari…

Cina e Iran sono in cima alle priorità della politica estera di Biden e in tutti e due i casi Ankara svolge un ruolo abbastanza importante.

La collaborazione economica tra Ankara e Pechino è in continua crescita. Il volume commerciale tra questi due paesi, nel 2019, superava la soglia dei 20 miliardi di dollari americani, registrando un notevole aumento rispetto agli anni precedenti.

Nei primi giorni del 2021 è stato firmato un nuovo accordo commerciale che prevede un notevole rafforzamento da parte di Ankara della rete ferroviaria, operazione che porterebbe a un aumento del volume commerciale sulla Via della Seta: 11.438 chilometri che collegherebbero Xi’an con Praga, ovviamente la Turchia – che si trova in mezzo – avrebbe un ruolo importante. Grazie a questa novità le tonnellate di merci trasportabili salirebbero da 400.000 a 1 milione. Inoltre nel progetto è prevista la costruzione di una nuova linea di 230 km che porterebbe fino alla Repubblica autonoma di Naxçıvan, accessibile ormai grazie all’accordo firmato da Armenia, Russia e Azerbaigian alla fine del conflitto armato del Nagorno.

Sempre nei primi giorni del 2021 arrivano due notizie importanti dalla Cina. I famosi produttori dei cellulari “intelligenti” – Tecno, TCL, Xiaomi e Vivo – hanno deciso di aprire nuove fabbriche in Turchia. Grazie a una nuova legge, introdotta nel 2020, i cellulari importati dall’estero subiscono un’ulteriore tassazione in Turchia; dunque la strategia di Pechino è quella di produrre in Turchia e prendere in mano il mercato.

La pandemia causata dal virus SarsCov2 ha aperto una storica fase di collaborazione economica e sanitaria tra questi due paesi. Uno dei primi acquirenti del vaccino SinoVac, produzione cinese, è la Turchia. Verso la fine del mese di gennaio saranno acquistati circa 20 milioni di dosi. La campagna di vaccinazione già avviata era stata anticipata in realtà con la sperimentazione di massa della terza fase del vaccino, sempre in Turchia.

… e una mano lava l’altra

A una tale armonia ovviamente bisognerebbe associare anche un allineamento politico. Sempre nei primi giorni del 2021 Ankara ha deciso di avviare operazioni di polizia presso le abitazioni dei cittadini cinesi di origini uigure residenti in Turchia. Secondo l’Osservatorio dei Diritti umani nel Turkistan orientale (Ethr) si tratterebbe dell’attuazione dell’accordo sul rimpatrio dei criminali firmato con Pechino nel 2017 e durante queste operazioni sarebbero stati arrestati diversi cittadini uiguri. Pochi anni fa, nel 2009, l’attuale presidente della Repubblica, presso il canale televisivo Ntv, aveva definito le politiche di Pechino contro i cittadini uiguri come un “genocidio”.

Questo graduale avvicinamento di Pechino e Ankara senza precedenti sarà molto probabilmente per Biden tra le questioni da tenere in considerazione.

Iran: il tavolo di Astana

Forse l’elemento più importante che lega Teheran e Ankara è il fatto che si siano seduti allo stesso tavolo per una ventina di volte nella città di Astana per disegnare il futuro della Siria. In quest’ottica (tenendo in considerazione anche il maxiprocesso Halkbank) per Biden Ankara potrebbe avere un ruolo chiave nel “dialogo” con Teheran. Ovviamente tenendo conto che questi due alleati all’interno della Nato hanno poi in mano diverse carte per ricattarsi a vicenda: sembra quindi che la partita sarà molto delicata.

Quando è minacciata la libertà, e non solo quella di espressione

Una delle cose che accomunava Trump e Erdoǧan era avere nel cuore la continua crociata contro il mondo del giornalismo. Sono ormai molto conosciute le invettive aggressive e arroganti di Trump nei confronti di alcuni giornali e canali televisivi statunitensi accusati di divulgare “notizie false”.

Oltre a un numero sempre alto di giornalisti in carcere o obbligati a vivere in esilio, in questi ultimi venti anni la Turchia è diventata anche un vero cimitero di emittenti televisive, radiofoniche e giornali che hanno dovuto chiudere i battenti oppure che sono stati chiusi con i decreti di legge durante lo stato d’emergenza dal 2016 al 2018. A tutto questo ovviamente aggiungiamo anche le posizioni personali di Erdoǧan nei confronti dei giornali dell’opposizione, espresse, per esempio, in quella dichiarazione rilasciata in diretta Tv, proprio il primo gennaio del 2021, contro uno dei più importanti giornali di opposizione, “Sozcu” (tra i primi tre per numero di copie vendute): «Io non leggo quel giornale e consiglio a tutti di non comprarlo, è inutile». “Sozcu” aveva fatto infuriare Erdoǧan quando aveva pubblicato il bilancio governativo del 2020 in prima pagina: “lacrime e sofferenza”.

La libertà di stampa è uno dei punti cardine del programma di Biden. Non solo per via di quanto è stata minacciata da Trump ma anche per come viene sistematicamente oltraggiata in diversi paesi del mondo.

Proprio nel 2016, in pieno stato d’emergenza, Biden aveva pronunciato queste parole sulla situazione in Turchia: «È importante, in tutto il mondo, avere il diritto alla critica libera. Le libertà di espressione e di stampa in Turchia sono garantite con la Costituzione e vanno protette». Infine nel mese di gennaio del 2020, in un’intervista rilasciata al “New York Times” aveva definito chiaramente la sua posizione dicendo: «Erdoǧan è un leader autocratico, dobbiamo sostenere le opposizioni in Turchia per allontanarlo dal potere utilizzando modalità democratiche».

Un (non)conclusione

Ci sono numerosi elementi che hanno distanziato questi due alleati negli ultimi anni: dalla richiesta di estradizione sempre rifiutata di Fethullah Gülen (leader della comunità di Hizmet residente in Pennsylvania, accusato di essere ideatore del fallito golpe del 2016) fino al rapporto di Ankara con gli altri alleati della Nato come Parigi e Berlino e numerosi sono i capitoli della Storia che possono essere riaperti e reinterpretati dall’amministrazione Biden.

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Lo sceicco e il sultano: amici e isolati https://ogzero.org/lo-sceicco-e-il-sultano-amici-e-isolati/ Thu, 10 Dec 2020 11:21:51 +0000 http://ogzero.org/?p=2013 Il 26 novembre, nella capitale della Turchia, i due presidenti hanno firmato un nuovo accordo commerciale composto da 10 intese importanti. Ankara e Doha, dal 2015 hanno iniziato a intensificare il loro rapporto economico e politico. Per quale motivo? Due amici vicini e isolati Turchia e Qatar sono sempre più isolati dai loro vicini e […]

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Il 26 novembre, nella capitale della Turchia, i due presidenti hanno firmato un nuovo accordo commerciale composto da 10 intese importanti. Ankara e Doha, dal 2015 hanno iniziato a intensificare il loro rapporto economico e politico. Per quale motivo?

Due amici vicini e isolati

Turchia e Qatar sono sempre più isolati dai loro vicini e alleati storici. Il conflitto dentro la Nato ormai non è una novità per Ankara. Certamente anche i suoi continui problemi con i vicini come Grecia, Siria, Cipro e Armenia oppure alleati europei fanno sì che questo paese composto da 85 milioni di abitanti sia sempre nel mirino di proteste e sanzioni.

A questa lista, per Ankara si aggiungono ovviamente alcuni vicini-lontani mediorientali come l’Arabia Saudita che ha avviato un boicottaggio capillare nel mese di novembre contro i prodotti turchi. Si tratta dello stesso partner che ha preso delle misure severe contro Doha insieme all’Egitto, Bahrein e Emirati Arabi.

Turchia e Qatar sono accusati entrambi di promuovere direttamente oppure indirettamente l’ideologia dei Fratelli Musulmani. Infatti entrambi hanno un pessimo rapporto con l’attuale presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, che arrivò al potere facendo un colpo di stato contro Mohamed Morsi, il numero uno dei Fratelli Musulmani in Egitto. I rapporti di reciproca ammirazione personale e politica erano alla luce del sole tra il presidente rovesciato (e stroncato da un infarto in tribunale) e quello che guida Ankara.

Studiando anche il caso libico vediamo che Doha e Ankara si muovono insieme per sostenere il presidente Fayez al-Sarraj, riconosciuto dalle Nazioni Unite e sospettato, a livello internazionale, di essere l’esponente libico dei Fratelli Musulmani. Nell’agosto del 2020, Turchia e Qatar hanno firmato un accordo con il governo centrale per iniziare ad addestrare l’esercito libico.

Nel fronte mediorientale vediamo che entrambi i paesi attirano l’antipatia degli stessi governi. Ryad accusa Doha di sostenere le milizie iraniane nella guerra civile in Yemen e di armare diverse organizzazioni terroristiche in Siria. Quindi applica un forte embargo contro il Qatar. Queste accuse toccano anche Ankara per via delle sue scelte economiche, militari e politiche in Siria dove affianca realtà come l’Esercito Libero Siriano oppure le brigate dell’El-Faruk. Diverse fonti sostengono che quest’ultima riceva un massiccio e diretto sostegno anche da Doha.

Ovviamente anche l’avvicinamento militare, politico ed economico tra Ankara e Tehran per via degli incontri di Astana, e il riciclaggio di denaro denunciato nei tribunali statunitensi, fan sì che i vicini mediorientali guardino con sospetto la Turchia.

Questo isolamento ha prodotto, negli ultimi anni, una notevole connessione tra queste due amministrazioni molto discutibili. Una prima si registra nel 2015 e un’altra nel 2019: Ankara ha costruito due basi militari importanti sul territorio qatariota. Secondo le dichiarazioni ufficiali dell’emiro al potere a Doha, la presenza dei militari turchi l’ha salvato nel fallito golpe del 2017. Tamim al-Thani sostiene che quest’azione contro di lui sia stata pianificata e messa in atto dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi.

Mentre diventano evidenti i punti di questo cortocircuito collaborativo, a livello politico, sarebbe il caso di studiare anche le nozze economiche tra Ankara e Doha.

Il bancomat qatariota della Turchia

Il primo passo è stato fatto nel 2015. Si tratta del primo incontro in cui entrambe le parti hanno firmato una lettera d’intenti. Successivamente, il 30 luglio del 2016, proprio 15 giorni dopo il fallito golpe, l’emiro qatariota è giunto in Turchia per una visita. Questo gesto è stato ricambiato a Doha con un secondo incontro il 24 agosto dello stesso anno. In ciascuno degli incontri le parti hanno firmato i primi accordi commerciali.

Amici isolati

Il Qatar risulta essere il terzo paese al mondo in possesso delle maggiori riserve del gas e il quattordicesimo paese per quelle petrolifere. Ovviamente gli accordi sulle fonti energetiche non rinnovabili sono prevedibili ma Doha e Ankara si sono trovate d’accordo anche su altri campi; sanità, banche, infrastrutture, ferro, acciaio, tessile, alimentari e produzione militare.

Ascolta “Gli accordi Qatar-Turchia” su Spreaker.

Nel 2010 una delle più importanti catene ospedaliere della Turchia, Memorial, è stata venduta per il 40% a un consorzio qatariota e inglese. Nel 2012, il 40% della grande catena di negozi specializzati in arredamento, English Home, è stato venduto alla Banca di Investimenti del Qatar.

Due banche private, ABank e Finansbak, in 3 diverse tranche sono state vendute alla Commercial Bank of Qatar e alla Qatar National Bank. Nel primo caso al 100% e nel secondo per il 99,81%.

La storica fabbrica statale che produce carri armati e mezzi blindati per l’esercito della Repubblica di Turchia nella città di Sakarya è stata data in concessione, per 25 anni, all’azienda turca Bmc che è controllata al 49% dal Comitato industriale delle Forze Armate del Qatar.

L’unica emittente televisiva che aveva la concessione per la trasmissione delle partite di calcio del campionato di serie A, Digiturk è stata consegnata nel 2013 nelle mani del Fondo di Assicurazione sui Depositi di Risparmio della Turchia. Tre anni dopo, nel 2016, viene venduta al gruppo televisivo qatariota, BeinSport. A causa della crisi economica e della scarsa quantità di abbonati, i conti fatti inizialmente non tornavano e BeinSport ha accumulato un buco di bilancio per compensare la quale si è impegnato il ministro dello Sport e così Ankara ha sganciato nel mese di novembre circa 32 milioni di euro.

Ascolta “Erdoğan vende i suoi gioielli al Qatar” su Spreaker.

Questa storia d’amore procede anche con la vendita dei terreni per un progetto inesistente. Si tratta del Kanal Istanbul che prevede la creazione di un canale parallelo a quello del Bosforo. Questo nuovo progetto è materia di grandi discussioni perché distruggerà una vasta area verde, inquinerà le fonti di acqua potabile, creerà nuovi intasamenti nel traffico già caotico di Istanbul e in seguito alla costruzione di nuove aree abitative farà sì che la popolazione della città sul Bosforo cresca velocemente. Inoltre secondo numerosi scienziati potrebbe creare delle conseguenze disastrose nel caso di un terremoto nella città più sismica della Turchia.

Kanal Istanbul

Dunque nelle aree dove è prevista la realizzazione di Kanal Istanbul, un’azienda turca, Triple ha comprato nel 2019, pochi mesi dopo la sua fondazione, 44 ettari di territorio. Indagando un po’ si scopre che l’azienda appartiene al 100% alla famiglia dell’emiro qatariota.

La collaborazione per gli armamenti: il triangolo Turchia-Siria-Qatar

Secondo le dichiarazioni rilasciate in aula con tanto di materiale audiovisivo dall’ex colonnello Nuri Gokhan Bozkir, questi due paesi sembra che abbiano collaborato anche nel trasporto illegale delle armi. Bozkir si trova in Ucraina come rifugiato. Dopo aver lavorato per l’esercito della Repubblica di Turchia per vari anni con la missione di spostare armi dall’Europa dell’Est in Siria si è dimesso e ha deciso di chiedere asilo in Ucraina. Nelle sue dichiarazioni rilasciate in aula e al quotidiano ucraino “Strana”, Bozkir sostiene che l’intera operazione è stata possibile grazie a 7 container di soldi mandati da Doha nel 2012 e nel 2015 in Turchia. Nella sua visita personale, nel 2019, il presidente della Repubblica di Turchia aveva chiesto al suo collega ucraino l’immediata estradizione dell’ex colonnello Bozkir.

Ascolta “Erdoğan vende i suoi gioielli al Qatar” su Spreaker.

Una vendita segreta

Nell’ultimo incontro avvenuto a Ankara, il 26 novembre, il presidente della Repubblica ha annunciato che il 10% della borsa valori di Istanbul è stato venduto all’Autorità di Investimenti del Qatar. Finora non è stata fatta nessuna dichiarazione in merito al valore incassato in questa vendita. Sarebbe un sogno assurdo sperare una trasparenza del genere dato che quel 10% venduto faceva parte del 90% delle azioni del Fondo del Benessere della Turchia. Si tratta di un organo statale fondato nel 2016 e controlla Turkish Airlines, Turk Telecom, due banche statali e Turkish Petrol. A dirigere questa realtà si trova lo stesso presidente della Repubblica e secondo la legge non avrebbe nessun obbligo di rendere pubblici i conti.

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L’influenza russa si estingue nelle case incendiate a Karvachar? https://ogzero.org/il-vincolo-di-un-solco-inciso-tra-armenia-e-russia-negli-accordi-del-nagorno/ Sat, 28 Nov 2020 16:30:54 +0000 http://ogzero.org/?p=1862 Fantasie occidentali su Astana, droni reali su Stepanakert Tutta la grande stampa italiana ha sostenuto la tesi secondo cui l’accordo di pace nel Nagorno-Karabach sarebbe stato l’ulteriore capitolo di una alleanza tra Putin ed Erdoğan. Una chiave di lettura tutta ideologica – l’unità dei dittatori contro le democrazie – costruita sulla presunta unità d’intenti dei […]

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Fantasie occidentali su Astana, droni reali su Stepanakert

Tutta la grande stampa italiana ha sostenuto la tesi secondo cui l’accordo di pace nel Nagorno-Karabach sarebbe stato l’ulteriore capitolo di una alleanza tra Putin ed Erdoğan. Una chiave di lettura tutta ideologica – l’unità dei dittatori contro le democrazie – costruita sulla presunta unità d’intenti dei due capi di stato in Medio Oriente. La guerra iniziata nell’enclave a maggioranza etnica armena ha avuto due inoppugnabili vincitori (Turchia e Azerbaigian) e due sconfitti (Armenia e Russia), su questo però non si può non concordare. Gli accordi di pace firmati in fretta e furia la notte del 9 novembre mentre era in corso una vera e propria rotta dell’esercito armeno che stava rischiando di perdere persino Stepanakert, la capitale dell’Artsakh, rappresenta una vera e propria débâcle per il governo di Nikol Pashinyan.

Il vincolo di un solco inciso tra Armenia e Russia

Il giudizio che abbiamo dato a caldo sulle colonne de “il manifesto” l’11 novembre 2020 resta sostanzialmente corretto: «L’accordo è un boccone amaro per l’Armenia che deve dire addio all’idea di giungere a una unificazione con la regione contesa. Il documento siglato dai tre governi afferma che le parti in conflitto rimangono nelle posizioni raggiunte e ciò significa che buona parte del territorio del Nagorno-Karabakh torna in mano azera e pone le truppe di Baku a pochissimi chilometri da Stepanakert, la quale sarà ora collegata all’Armenia solo da un corridoio che attraversa la zona di Lachin. Lo status di Stepanakert non viene definito – come avrebbe voluto Mosca – e questo darà la possibilità successivamente all’Azerbaigian di rivendicarla». La Russia, avendo collocato i suoi caschi blu tra i contendenti piange con un occhio solo perché potrà dire la sua sulla sistemazione definitiva della regione ma segna un suo ulteriore arretramento geostrategico.

Per molti ordini di motivi. Il primo perché malgrado l’Armenia faccia parte pienamente del sistema di difesa euroasiatico (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, Csto) capeggiato dalla Federazione, Putin non è intervenuto a sostegno di Erevan neppure quando negli ultimi giorni del conflitto – prima attraverso il ministro degli esteri Zohrab Mnatsakanyane poi direttamente dal premier armeno – era stato espressamente richiesto, sottolineando più di una volta la propria neutralità nel conflitto (mentre Erdoğan sosteneva non solo formalmente il “fratello azero” fornendo combattenti foreign fighters siriani e soprattutto quei droni che hanno avuto, come più in là vedremo, un ruolo importante nel conflitto).

Il vincolo di un solco

I caschi blu russi prendono posizione

… poi la ferita suppurerà nell’equidistanza

Per restare nel gioco e avere un ruolo centrale nella trattativa di pace, Mosca ha dovuto pagare un prezzo politico fondamentale: il futuro definitivo allontanamento dell’Armenia in un “fronte Europeo” della Federazione dove Bielorussia e Moldavia finiranno – a medio termine – per pencolare inevitabilmente verso la Nato. È evidente quanto il “ruggito” di Putin a sostegno di Lukashenko in agosto sia stato seguito dall’equidistanza nel conflitto nel Nagorno-Karabach, il cui motivo principale della tiepidezza russa non può essere ricercato nell’antipatia personale di Pashinyan – che pure c’è – o nella doppiezza con cui Erevan ha condotto negli ultimi due anni la sua politica estera. Per riequilibrare l’evidente crescente peso turco nella regione che permette ora di collegare Ankara direttamente al Karabach, Mosca ha mostrato per ora solo di voler far rientrare dalla finestra i mediatori francesi e americani, lasciati fuori formalmente dall’armistizio del 9 novembre.

Nell’intervista concessa a “Rossia1” dopo l’armistizio, il presidente russo ha voluto togliersi un sassolino dalle scarpe: «Il 19-20 ottobre, ho avuto una serie di conversazioni telefoniche sia con il presidente Aliyev che con il primo ministro Pashinyan, dopo che le forze armate azere avevano ripreso il controllo di una parte insignificante, la parte meridionale del Karabach. Nel complesso, ero riuscito a convincere il presidente Aliyev che fosse possibile fermare le ostilità, ma una condizione obbligatoria da parte sua era il ritorno dei profughi, anche nella città di Shushi. Inaspettatamente… il primo ministro Pashinyan mi ha detto direttamente che lo vedeva come una minaccia per gli interessi dell’Armenia e del Karabach. Anche adesso non mi è molto chiaro quale sarebbe stata questa minaccia, tenendo presente che il ritorno dei civili sarebbe stato supposto mantenendo il controllo da parte armena su quella parte del territorio del Karabakh, Shushi compreso, e tenendo presente la presenza dei nostri caschi blu».

Una dichiarazione che può essere letta come un modo per indebolire il premier armeno, ora contestato dall’opposizione interna come “capitolatore”, ma di cui non vanno dimenticate le valenze interne russe. Non solo perché nella Federazione russa vivono 2 milioni di armeni (ma anche 2 milioni di azeri) ma perché le simpatie dei russi “autoctoni” erano tutti per l’“alleato cristiano”. Se Putin non ha alcun interesse ora a far saltare Pashinyan, non ha neppure interesse che in Armenia si possa battere il tamburo propagandistico del tradimento russo.

Il vincolo di un solco

Armeni bruciano le case prima di lasciare il Nagorno

Forniture sbilanciate: pessima propaganda per l’industria bellica russa

Il destino del primo ministro armeno resta legato alla posizione che assumeranno i militari (anche se l’insperato appello del senato francese al riconoscimento di Artsakh del 26 novembre 2020 gli ha fatto riprendere un po’ di vigore). L’esercito che sembrava sostenere il primo ministro in carica appare ora diviso. Qualcuno nello stato maggiore sta iniziando a pensare che debba essere salvato l’essenziale a fronte delle proteste che si levano a livello popolare, e Pashinyan debba essere sacrificato sull’altare della riconciliazione nazionale. Si tratta dell’opinione, per esempio, espressa dall’ex ministro della difesa dell’Armenia. Secondo il militare «non è stato l’esercito a perdere la guerra e la responsabilità dovrà essere assunta in solido dall’attuale leadership politica». Del resto la discussione sull’impreparazione militare nella disfatta armena continuerà a tenere banco ancora per parecchio. Subito dopo il cessate il fuoco è stato per primo a Stepanakert il presidente Arayik Aratyunyan a sollevare la questione dell’arretratezza delle armi a disposizione dei suoi combattenti. Una denuncia di sbieco nei confronti degli alleati russi che avrebbero lasciato in condizioni di degrado l’esercito di un paese alleato. Ma non solo. Si tratta di un tema delicato che tocca – come già nella guerra in Georgia del 2008, mitigata però dal facile successo – l’eventuale inefficienza delle armi russe, ovvero un eventuale spot negativo per il mercato dell’industria bellica della Federazione e per i suoi volumi di esportazione.

Collaudo per guerre di droni

I siti specialistici si sono concentrati sul ruolo inedito avuto dai droni nel conflitto azero-armeno ma che ha interessanti ricadute politico-militari visto che l’aggressività turca non è destinata certo a ripiegare nei prossimi mesi e anni.

Dopo la guerra nel Karabach, molti esperti hanno iniziato a sostenere che sarebbe in corso una rivoluzione nelle questioni tattico-militari, che sta per cambiare persino le strategie degli eserciti – non solo dei paesi in via di sviluppo, ma anche di quelli più potenti. Stiamo parlando dell’uso massiccio di veicoli aerei senza pilota da parte dell’Azerbaigian nel recente conflitto, sulla base degli sviluppi tecnici e strategici turchi. La teoria secondo cui i droni cambieranno radicalmente l’arte della guerra ha incontrato, a dire il vero anche molte perplessità. Secondo queste scuole i droni in Karabach non hanno mostrato nulla di nuovo: l’esercito turco e azero avrebbero semplicemente approfittato della debolezza del sistema di difesa aerea armeno e hanno mostrato al mondo un modo convincente di come si sconfigge un esercito debole ma l’uso massiccio di droni non funzionerebbe contro un esercito “strutturato”.

Ordigni di diversa fabbricazione (e di varia efficacia)

Le ostilità sono iniziate con vari tipi di attacchi di droni. Sono stati usati da parte azera, in primo luogo, i turchi Bayraktar TB2, detti anche hunter-killer, che montano missili e bombe ad alta precisione e droni Harop kamikaze di fabbricazione israeliana, antiradiazioni contro la difesa aerea armena.

Il vincolo di un solco inciso

I droni forniti dai turchi a Baku

Nei primissimi giorni del conflitto, l’esercito del Karabach ha perso dozzine di installazioni di difesa aerea, perlopiù obsolete, ereditate dall’Armenia dopo il crollo dell’Urss. Gli assalti alle sue difese antiaeree sono poi proseguiti: in ottobre e novembre sono stati colpiti diversi elementi dei sistemi missilistici antiaerei a lungo raggio S-300 (ampiamente superato visto che ora è in fase di progettazione nei laboratori russi l’S-500) e un lanciatore del più moderno complesso Tor-M2KM, sempre di fabbricazione russa. Dopo aver messo fuorigioco le difese antiaeree, i droni azeri sono passati al campo terrestre distruggendo sistematicamente carri armati, autoblindo, artiglieria e camion che trasportavano munizioni avversari. Seguiti da una serie di attacchi diretti alle postazioni della fanteria armena e ai depositi di munizioni. La diseguaglianza delle forze in campo – già nota prima del conflitto – è apparsa evidentissima. A seguito delle pesanti perdite di armeni a causa di attacchi aerei, il fronte nel sud del Karabach è stato sfondato in più punti, e in seguito (all’inizio di novembre) la fanteria azera, avanzando attraverso il terreno montuoso, che l’Armenia considerava la sua “fortezza naturale”, ha raggiunto le aree vitali della repubblica non riconosciuta, cioè le città di Shushi e Stepanakert. A questo punto, come risulta dai discorsi dei leader della difesa armena pubblicati al termine del conflitto, a causa degli attacchi dei droni, il loro esercito aveva perso quasi tutta l’artiglieria.

Tuttavia però negli ultimi giorni di guerra, gli attacchi aerei sono diventati più radi. Ciò potrebbe essere attribuito alla nebbia e alle nuvole basse ma secondo i giornalisti israeliani, che citano l’intelligence del loro paese, l’uso dei droni avrebbe potuto essere ostacolato da forniture urgenti di guerra elettronica russa. Questa sarebbe giunta sì in largo ritardo ma avrebbe evitato alla ritirata armena di assumere i caratteri della rotta (Sergej Lavrov aveva più volte dichiarato negli ultimi giorni di conflitto di “non guardare con piacere” a un trionfo militare turco-azero). Arayik Aratyunyan ha dichiarato da parte sua che «recentemente eravamo stati in grado di risolvere il problema dei droni, ma l’ultimo giorno il nemico è riuscito di nuovo a usarli e a sferrare attacchi pesanti».

Valutazioni a consuntivo per sviluppi del sistema industrial-militare

Così, la guerra transcaucasica è diventata la prima in cui i compiti principali, di solito risolti con l’aviazione “tradizionale”, sono stati realizzati dai droni. Molti esperti ritengono che questa non sia solo la sostituzione di un tipo di velivolo con un altro, ma una svolta decisiva, una vera rivoluzione negli scontri militari.

Il vincolo di un solco inciso

Caratteristiche dei droni kamikaze israeliani

Secondo il giornale moscovita “Kommersant”: «Il vantaggio principale dei droni, soprattutto di classe piccola e media, sarebbe il basso costo di funzionamento. I droni d’attacco di piccola e media portata sono piattaforme per l’utilizzo di armi ad alta precisione e strumenti di sorveglianza e ricognizione abbastanza avanzati. Sono in grado di colpire la maggior parte dei bersagli sul campo di battaglia e dietro le linee nemiche, pur rimanendo velivoli molto semplici rispetto ai moderni aerei e elicotteri con equipaggio». I progressi della tecnologia hanno reso possibile la produzione di missili e bombe di piccole dimensioni e massa, che, nonostante le dimensioni e il prezzo, possono colpire i bersagli più tipici sul campo di battaglia.

Il secondo vantaggio dei droni è che non c’è un pilota a bordo e sono controllati da operatori che sono a decine, centinaia e persino migliaia di chilometri dal fronte. Ciò consente di renderli economici anche sotto il profilo del “capitale umano”: se il pilota non può essere ucciso o catturato durante la missione, questa può essere molto più rischiosa. Il terzo vantaggio è la possibilità di svolgere missioni di molte ore. I droni a turbogetto che volano a velocità molto basse (meno di 200 km/h) – spiegano gli esperti – sono estremamente economici in termini di consumo di carburante.

Il last but not least tra i vantaggi dei droni è che sono stati originariamente concepiti come una parte importante della rete informativa sul campo di battaglia. I droni sono una piattaforma per vari sensori che studiano la situazione e identificano i bersagli. Condividono queste informazioni in tempo reale con gli operatori, che, a loro volta, le condividono anche in tempo reale con l’intera rete di controllo del combattimento. Inoltre, è possibile insegnare facilmente ai droni a interagire tra loro. Entrambe le opzioni sono state mostrate nel video del Ministero della Difesa azero del Karabach. Non è un caso che durante la guerra il Canada ha vietato la fornitura di stazioni elettroniche ottiche alla Turchia, di solito risolti con l’aviazione “tradizionale” ma che in questo caso sono state eseguite da droni.

Adattabilità a guerre con caratteristiche diverse

Gli aerei senza pilota presentano comunque anche evidenti svantaggi rispetto alle piattaforme con equipaggio. Il carico utile dei droni di piccole e medie dimensioni è limitato a causa dei motori di potenza relativamente bassa. In parole povere, i sistemi con equipaggio sono in grado di lanciare simultaneamente molti più bombe o proiettili sul nemico rispetto ai droni. E questo può essere importante in una “guerra ad alta intensità” – un conflitto tra potenze militari avanzate.

Per 38 anni, da quando furono usati per al prima volta dall’aviazione israeliana, i droni si sono trasformati da uno strumento di nicchia per operazioni speciali in parte integrante della ricognizione e della designazione del bersaglio. Fino a pochi anni fa, infatti, i droni d’assalto venivano usati (principalmente dagli americani) per effettuare attacchi mirati contro “bersagli leggeri”: leader politici o “terroristi”, petroliere dello Stato Islamico…

Come ha dimostrato l’esperienza della guerra in Karabach, i droni di altri produttori possono essere rapidamente inclusi in questo sistema: in particolare, i droni kamikaze di fabbricazione israeliana e gli aerei d’attacco Su-25 di progettazione sovietica fanno parte integrante dell’arsenale azero ma guarda caso non di quello armeno.

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La Siberia tra il Dragone e il Sultano https://ogzero.org/la-luna-di-miele-turco-russa-e-finita/ Sat, 14 Nov 2020 19:09:43 +0000 http://ogzero.org/?p=1765 La luna di miele turco-russa è finita La linea di faglia apertasi nel Nagorno-Karabakh ha dimostrato, se ce ne era ancora bisogno, che la luna di miele tra Turchia e Russia è ormai archiviata malgrado proprio sull’enclave a etnia armena Putin sia stato costretto – con gli accordi del 9 novembre – a un nuovo […]

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La luna di miele turco-russa è finita

La linea di faglia apertasi nel Nagorno-Karabakh ha dimostrato, se ce ne era ancora bisogno, che la luna di miele tra Turchia e Russia è ormai archiviata malgrado proprio sull’enclave a etnia armena Putin sia stato costretto – con gli accordi del 9 novembre – a un nuovo compromesso tattico per impedire il completo collasso del fronte. L’intraprendenza di quello che alcuni osservatori già chiamano “imperialismo ottomano” è sotto gli occhi di tutti e a Oriente i danni maggiori di tale intraprendenza li potrebbe subire proprio la Federazione. Non a caso sulla Moscova hanno da tempo iniziato a ricalibrare la politica nei confronti di Ankara: Sergej Lavrov, il ministro degli esteri russo, ha recentemente sostenuto di non aver mai considerato la Turchia “un alleato” ma solo un “partner”.  Il massiccio bombardamento russo a Idlib contro la guerriglia filoturca in Siria della fine di ottobre 2020, da questo punto di vista, è probabilmente stato un parlare a moglie perché suocera intenda. Ma la Transcaucasia è solo la punta dell’iceberg di uno scontro ben più ampio che parte dalla Crimea e si estende fino all’estremo Oriente russo ai confini con la Cina.

L’intelligence turca a caccia di spie

Il 16 ottobre scorso nell’incontro tra Volodomyr  Zelenskij e Recep Erdoğan non solo quest’ultimo ha dato il suo via libera alla cosiddetta “piattaforma di Crimea” promossa dal governo di Kiev (un’offensiva diplomatica volta al recupero della penisola annessa dalla Russia nel 2014, a cui guarda caso aderisce anche l’Azerbaijan) ma ha anche siglato degli accordi di collaborazione commerciali con l’Ucraina nel settore degli armamenti. La settimana successiva poi esplodeva una vera e propria spy-story tra Turchia e Russia. L’intelligence turca annunciava di aver arrestato il vicedirettore delegato di Bosphorus Gaz Emel Oztürk e altri quattro suoi collaboratori, che da tempo, secondo l’accusa, passavano informazioni riservate a un agente di Gazprom. Il gigante russo dell’energia avrebbe ottenute notizie sui volumi di acquisti di gas non russo della Turchia e dati sui giacimenti scoperti dalla Turchia nel Mar Nero quest’estate.

La guerra del gas

Al momento Putin fornisce a Erdoğan – via Turkish Stream – 7,75 miliardi di metri cubi all’anno di gas ma è chiaro che “l’indipendenza energetica” anelata da Erdoğan – se divenisse realtà – potrebbe rappresentare un duro colpo ai volumi di esportazioni russe, già in forse in Europa dopo che il progetto di North Stream 2 è entrato in stand-by in seguito al “caso Navalny”. Per tutta risposta la Duma russa ha fatto baluginare il blocco del turismo russo verso la Turchia, un business da qualche miliardo di dollari annuo. Più che punzecchiature tra i due eterni rivali con possibili conseguenze geopolitiche più vaste. La leva di un nuovo fondamentalismo islamico, di un califfato sui generis in cui la Turchia diventi la “protettrice di tutti i sunniti nel mondo”, potrebbe produrre una divisione insanabile tra i due stati. Si tratta di suggestioni – quelle dell’“imperialismo ottomano” – che vengono confermate negli ambienti diplomatici dei paesi balcanici anch’essi preoccupati dell’incipiente aggressività turca: «Indubbiamente, se analizziamo ciò che leggiamo e vediamo oggi, diventa chiaro che in alcuni circoli islamici radicali e organizzazioni religiose vaga l’idea che l’Europa dovrebbe essere un califfato islamico. Ciò che sta accadendo oggi in Francia, in Svezia, in altri stati dell’Europa occidentale, mi sembra che dovrebbe destare grande preoccupazione tra questi stati. Non mi occupo di attività di spionaggio in particolare, ma di tanto in tanto leggo in note analitiche che i servizi speciali turchi sono molto attivi», ha sostenuto l’ex ambasciatore serbo a Mosca, Slavenko Terzič.

Il Caucaso e il “laicismo irresponsabile dell’Occidente”

Il riflesso dello scontro con la Francia sulla questione dei limiti del laicismo si è subito sentito a Mosca dove la preservazione degli equilibri, faticosamente costruiti dal regime di Putin, in una federazione multiconfessionale, sono considerati intangibili. Le manifestazioni antifrancesi guidate prima di tutto dai migranti azeri nella capitale russa sono state sì stroncate con durezza dalla polizia sul nascere, ma Putin ha voluto al contempo anche denunciare il “laicismo irresponsabile dell’Occidente”. Il terrorista che ha ucciso a Parigi l’insegnante francese faceva parte della diaspora cecena, e quindi formalmente antirussa, ma la reazione del presidente della Repubblica cecena Rusman Kadyrov, scagliatosi con forza contro Macron nei giorni successivi all’attentato, dimostra quanto gli umori dei musulmani del Caucaso restino antioccidentali: non è un caso che nel Caucaso russo furono migliaia i reclutati dall’Isis per la guerra in Siria. Del resto, non si soffia sulla “guerra di civiltà” solo da una parte: anche il primo ministro armeno Nikol Pashinyan aveva invitato gli stati europei a sostenere l’Armenia cristiana nel Nagorno-Karabakh in funzione antiturca, anche se sia Macron sia Trump hanno preferito fare orecchie da mercante.

Lo sguardo russo verso lo Xinjiang

Dmitry Ruschin, Professore Associato del Dipartimento di Teoria e Storia delle Relazioni Internazionali all’Università di San Pietroburgo sostiene che “l’internazionalismo sunnita” di Ankara è veramente su scala globale: «Erdoğan sta perfino interessandosi della regione autonoma uigura dello Xinjiang dove Xi ha più di un problema. È del tutto possibile che in questo modo voglia diventare un unificatore dei popoli turchi e un leader islamico su scala globale. Curiosamente, lo scontro della Turchia con la Cina significa supporto automatico per Ankara da Washington perlomeno in quel contesto». E a medio termine ciò potrebbe condurre a un confronto diretto tra Russia e Turchia.

Siberia: la protesta anticentralista

In questo quadro la Siberia può diventare uno dei teatri più importanti. Dallo scorso luglio Khabarovsk, la più grande città dell’Estremo oriente russo, a un paio di centinaia di chilometri da Vladivostok, “porta bianca” ai mercati orientali, sono in corso delle manifestazioni di massa dopo che Sergej Furgal il governatore della provincia, outsider e antiPutin, è stato arrestato con l’accusa di essere il mandante di alcuni omicidi risalenti a un’epoca in cui non aveva ancora in carico l’amministrazione. Il protrarsi e le dimensioni del movimento di protesta segnala però in maniera evidente che le sventure del governatore sono state solo la miccia dietro cui covano a livello di massa spinte anticentraliste (oblastničestvo) nei confronti di Mosca se non apertamente secessioniste. “The Diplomat” ha riassunto così la situazione: «Sin dai tempi della Russia imperiale, i suoi paesi e città sono stati visti come una semplice estensione della nazione europea, una frontiera asiatica da colonizzare e domare. Come parte dell’Unione Sovietica, le deportazioni di massa verso est e il suo status di destinazione per i prigionieri dei GULag hanno rafforzato questa nozione. Ma ora, come dimostrano i manifestanti a Khabarovsk, l’estremo Oriente russo potrebbe formare la propria identità».

proteste pro-Furgal in Siberia

Un punto importante della contesa è che, mentre la Russia orientale detiene gran parte delle risorse naturali del paese – inclusi petrolio, gas e metalli preziosi – i proventi della loro estrazione sono ampiamente usati per rimpolpare i forzieri di Mosca piuttosto che arricchire le comunità locali.

E la terra va ai cinesi

Che la Cina sicuramente sia interessata a sfruttare a suo vantaggio la situazione che sta montando nell’estremo Oriente russo non è un segreto. In questa zona della Siberia gli investimenti del Dragone sono massicci e alla fine del 2018, proprio a Khabarovsk, un’azienda russa ha annunciato l’intenzione di affittare ben 100.000 ettari di terreno paludoso coltivabile a soia e affittarlo a imprese cinesi. Alexander Bortnikov, il presidente del Fsb, ha più volte segnalato l’attivismo di servizi di molti paesi in tutta la Siberia. E se il nome della Cina non è stato fatto ufficialmente, la presenza discreta di informatori cinesi nelle zona è stata più volte confermata da più parti.

Dietro la provocazione, la mano dei turchi

Chi invece sicuramente opera in quell’area è l’intelligence turca. Questa può fare affidamento su un vasto retroterra di gruppi fondamentalisti islamici nel Centro Asia allo sbando dopo il crollo dell’Isis. L’Fsb (Federal’naja služba bezopasnosti – Agenzia federale per la sicurezza interna) nell’ultimo anno ha contato ben 22 tentativi di organizzare azioni terroristiche e diversive in Siberia. Si tratta per lo più di incidenti provocati da foreign-fighters di ritorno ai confini del Tagikistan e del Kazakhstan collegati a contingenti più folti del fondamentalismo islamico afgano. Ma alcune di queste avrebbero segni e obiettivi diversi e rimanderebbero a un inedito protagonismo turco. In particolare parliamo di una fallita provocazione organizzata proprio a Khabarovsk questa estate nel momento più caldo delle dimostrazioni di strada, il cui mandante sarebbe da ricercarsi proprio ad Ankara. Secondo quanto riportato da Semyon Pegov – un reporter russo di guerra che da molti anni gravita tra il Medio Oriente e la Siberia – quest’estate l’organizzazione terroristica siriana Hayat Tahrir Al-Sham, supervisionata dai servizi speciali turchi, aveva reclutato due residenti di Khabarovsk, guarda caso di origine uzbeka e di fede musulmana, per organizzare il lancio di bottiglie molotov contro la manifestazione a sostegno di Furgal, al fine di far ricadere poi la responsabilità sul governo russo e rendere ancora più incandescente di quanto non sia la situazione nella provincia. Un’azione diversiva fallita in seguito all’arresto dei due provocatori prezzolati da parte della polizia russa, ma che dimostrerebbe quanto la Turchia intenda sfruttare le contraddizioni interne russe.

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Segnali di fumo dal Bosforo a Washington https://ogzero.org/segnali-di-fumo-dal-bosforo-a-washington/ Fri, 13 Nov 2020 12:59:02 +0000 http://ogzero.org/?p=1757 Annusate le possibilità di nuove concessioni con il cambio della guardia alla Casa Bianca si fanno notare i movimenti del presidente turco per sondare e preparare una nuova faccia rispetto a quella adottata con l’abbandono da parte di Trump degli interessi americani in Medio Oriente, delegati a sauditi e israeliani, tollerando le scorrerie turche; mentre […]

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Annusate le possibilità di nuove concessioni con il cambio della guardia alla Casa Bianca si fanno notare i movimenti del presidente turco per sondare e preparare una nuova faccia rispetto a quella adottata con l’abbandono da parte di Trump degli interessi americani in Medio Oriente, delegati a sauditi e israeliani, tollerando le scorrerie turche; mentre nei quattro anni di amministrazione evanescente i motivi di attrito erano soprattutto in materia di embarghi, sanzioni non rispettati, minacce di dazi e collisione tra i traffici di armi, gli affari con Cina, Russia e Iran… Le elezioni statunitensi con il cambio in Pennsylvania avenue impongono il riposizionamento.

Cina e Iran convitati di pietra   

Per Biden due sono i problemi centrali della politica estera statunitense: la Cina e l’Iran. Nel primo caso la Turchia è ben posizionata, perché ha continuato a fare affari e perché è uno degli hub della Belt Road Iniziative, da tantissimo tempo la Cina vende armi alla Turchia, i due paesi collaborano da tempo in materia di antipirateria e nel contrasto dell’irredentismo uyguro, la cui diaspora è in parte tollerata da Ankara ma in forma di controllo per conto di Pechino, soprattutto sui rifugiati privati dei contatti con la famiglia e tenuti in un limbo senza speranze.

Ma anche per quel che riguarda l’Iran, con cui Erdoğan partecipa delle decisioni prese nei tanti accordi intestati ad Astana triangolando con Putin, la Turchia si trova a intersecare il punto di incontro tra il bisogno degli ayatollah di trovare un intermediario e le necessità di ricostruire un lavoro diplomatico statunitense. La soluzione siriana è stata trovata insieme, come avvenuto in Nagorno in un modo ancora più smaccato a favore della Turchia; senza considerare che il problema delle rivendicazioni curde si ritrovano identiche per i territori a maggioranza curda al confine turkmeno con l’Iran, come quelli da sempre occupati dai curdi in Anatolia. La Turchia ha sempre aggirato anche l’embargo contro Tehran, allo stesso modo in cui si è accordata sulle merci cinesi.

Ascolta “La Turchia nei dossier “Iran” e “Cina” della Casa Bianca” su Spreaker.

Dunque in qualche modo la Turchia si trova ben posizionata con entrambi gli schieramenti.

Perciò la diplomazia di lungo corso che la figura di Biden rappresenta non potrà che venire a patti, cercando di far rientrare a pieno Erdoğan nella Nato, aprendo questi due dossier e considerando quanto la Turchia sarà disponibile a offrire, ma soprattutto anticipando gli aspetti su cui è in grado di tornare indietro sulle forzature e sugli strappi creati finora. I rumors sui nomi che entreranno a far parte dell’amministrazione Biden lasciano immaginare un orizzonte di questo tipo.

Rapporti con la Nato, questione di schieramenti

Ankara può ribaltare tutti i rapporti perseguiti con gli altri potenti che in questi 4 anni di vacanza strategica internazionale degli Stati Uniti sono stati gli interlocutori principali di Erdoğan per spartirsi le spoglie abbandonate da Washington in Medio Oriente: è il modo di adattarsi a Biden e alla sua politica, tornando magari ad altre forme di difesa targate Usa, stracciando per esempio i contratti di fornitura degli S-400.

Ascolta “Rapporti con Nato, questione di schieramenti” su Spreaker.

Caatsa disatteso: sanzioni applicabili da Biden

L’interazione commerciale con Mosca, da cui Ankara dipende per l’enorme fame di energia che contraddistingue la Turchia. Anche qui Erdoğan si è inserito nel solco delle sanzioni del 2017 (Countering America’s Adversaries through Sanctions Act) contro chi collabora con Corea del Nord, Iran e Russia, finora disattese. Erdoğan dovrà immaginare una contromossa nel caso Biden decida di applicarle.

Ascolta “Caatsa disatteso: sanzioni applicabili da Biden?” su Spreaker.

Albayrak vittima sacrificale in dono a Biden?

Potentissimo fino al 9 novembre 2020, con cariche ministeriali e il controllo di affari strategici in Africa, ma inviso all’elettorato di Erdoğan e quindi, pur essendo erede di una delle famiglie oligarchiche e genero dello stesso presidente, compromesso con l’amministrazione Trump, è il capro espiatorio ideale per avviare un nuovo corso di relazioni con la Casa Bianca di Biden e stornare l’attenzione dal sultano riguardo alla miseria che si allarga nel paese. Si è dimesso con un messaggio su Instagram, Twitter gli è stato sottratto… palesando le forme di censura e solo dopo la nota ufficiale di Erdoğan si è potuta diffondere la notizia. La stampa rimane strettamente sotto il controllo del governo di Ankara.

Ascolta “Albayrak offerto sull’altare di rapporti nuovi con la nuova Casa Bianca” su Spreaker.

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Turchia: cosa bolle in pentola con i missili S-400? https://ogzero.org/turchia-cosa-bolle-in-pentola-con-i-missili-s-400/ Fri, 23 Oct 2020 23:14:38 +0000 http://ogzero.org/?p=1592 Russia e Turchia sono potenze grandi o regionali? A voler trovare sempre e comunque un piano preordinato, collocare ogni singolo evento all’interno di un progetto coerente si rischia – talvolta – di affondare nel complottismo. Resta comunque il dubbio. Nel caso della Turchia alcune recenti iniziative potrebbero costituire la prova provata che Ankara ormai si […]

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Russia e Turchia sono potenze grandi o regionali?

A voler trovare sempre e comunque un piano preordinato, collocare ogni singolo evento all’interno di un progetto coerente si rischia – talvolta – di affondare nel complottismo.

Resta comunque il dubbio. Nel caso della Turchia alcune recenti iniziative potrebbero costituire la prova provata che Ankara ormai si muove (o almeno si rappresenta) come una superpotenza in grado di trattare da pari a pari con i due colossi (Usa e Russia) oltre che con le altre entità rilevanti (Iran, Arabia Saudita…). Sarebbe quindi fuori luogo cercare di ridimensionarla specificando “potenza a livello regionale”, visto che qui si parla sia di Medio Oriente che di Mediterraneo e Caucaso. Un rilancio – la prosecuzione – dell’Impero ottomano con altri mezzi?

Potrebbe anche essere. Ma procediamo con ordine.

Prove di sistemi di difesa russi a Sinop, Nato

Risaliva ai primi di ottobre il gentile preavviso (per garantire la sicurezza dei voli nella zona) del lancio di un missile (senza specificarne la gittata) nell’area del Mar Nero. Più precisamente in prossimità di Sinop da dove il 16 ottobre veniva girato un video rivelatore (con l’evidente colonna di fumo prodotta dall’esplosione dell’ordigno).

Gli esperti che lo hanno analizzato ritengono di avervi identificato un missile S-400 di tipo 40N6E (con una gittata presunta di circa 400 chilometri).

E allora? Quale sarebbe il problema?

Il problema consiste nel fatto che tali missili sono una componente del sistema di difesa venduto alla Turchia da Mosca. Più che una ostentazione di forza – o di indipendenza dall’Occidente – il gesto di Ankara assumeva quasi l’aspetto di uno sgarro. Soprattutto nei confronti di Washington, in lampante contraddizione con il ruolo della Turchia. Per il momento ancora alleata degli Usa e membro della Nato.

Messaggi alla Casa Bianca

Ankara aveva operato il test missilistico incurante della minaccia di ulteriori sanzioni. Formulata esplicitamente da Mike Pompeo quando l’anno scorso aveva definito “semplicemente inaccettabile” la sola ipotesi di una attivazione del sistema degli S-400.

Sanzioni che tuttavia – va precisato – Trump non sembrava molto propenso a imporre.

Non mancavano i precedenti. Ancora l’anno scorso in una base nei pressi di Ankara (dove si trovano alcune batterie di S-400) venivano messi in attività aerei da combattimento F-16 e F-4. Allo scopo – si presume – di testare altre componenti (probabilmente i radar).

Un passetto alla volta, la Turchia sembrerebbe intenzionata a integrare – anche ufficialmente – il sistema di difesa S-400 nella sua struttura di difesa contraerea e di combattimento.

Dislocazioni strategiche

Quanto a dove tali batterie di missili verrebbero collocate definitivamente, il mistero è ancora fitto.

Una – molto probabilmente – dovrebbe rimanere nei pressi di Ankara. Le altre a sorvegliare mar Egeo e Mediterraneo orientale. Oppure alle frontiere con la Siria e con l’Armenia.

Una maggior cautela nel procedere mostrata da Erdoğan successivamente al test potrebbe dipendere dall’attesa per i risultati delle elezioni negli Usa.

Pur non dando ufficialmente conferma dell’avvenuto test missilistico del 16 ottobre, il Dipartimento di Stato aveva ribadito la possibilità di “gravi conseguenze” qualora il sistema fosse divenuto operativo a tutti gli effetti.

Se fin dall’inizio il Pentagono si era dichiarato totalmente contrario all’acquisto da parte di Ankara del sistema S-400, l’esponente repubblicano Jim Risch si spingeva oltre affermando fuori dai denti che «la Turchia ha superato il limite» e invitando l’amministrazione statunitense a dare un “forte segnale” per indurre Ankara a liberarsi del recente acquisto.

Minacce che – come è noto – erano destinate a rimanere lettera morta.

Esiste anche un’altra ipotesi. Ossia che Erdoğan abbia semplicemente alzato la posta per ottenere da Washington (anche in caso di vittoria da parte di Joe Biden) concessioni di altro genere. Per esempio la sostanziale, definitiva accettazione degli interventi nel Nordest della Siria contro i curdi e ora contro l’Armenia. In questo caso, agitare la minaccia dell’impiego operativo dei missili S-400 funzionerebbe come merce di scambio (o, se preferite, ricatto).

Messaggi interni

Ma comunque l’esercitazione del 16 ottobre era stata rivendicata pubblicamente dai dirigenti di Akp (il partito di Erdoğan).

Bulent Turan in particolare si era complimentato per l’avvenuto test cogliendo l’occasione per dichiarare che «il problema principale di questo nostro bellissimo paese sono quei miserabili che si fan passare per intellettuali, ma non sono in grado di riconciliarsi con i valori della nazione e non hanno fiducia nello stato; così come gli insignificanti esponenti politici dell’opposizione incapaci di comprendere quali siano gli interessi nazionali». Affermazioni piuttosto nebulose, ma che potrebbero risultare chiare e precise per chi, in Turchia, deve sentirsi nella condizione di “uomo avvisato”.

Da parte di quella che ormai, almeno nella testa di Erdoğan, è destinata a diventare definitivamente una potenza autoreferenziale e indipendente.

Per non parlare dell’effetto galvanizzante riversato sugli strati sociali turchi (soprattutto il ceto medio, ma non solo) che pur appoggiando Erdoğan si sentono colpiti, travolti dalla crisi economica.

E quindi necessitano di compensazioni (almeno a livello immaginario, di falsa coscienza).

Messaggi al Cremlino

Torniamo ora un attimo al discorso introduttivo, ossia al voler trovare qualche motivo recondito in ogni gesto compiuto da Erdoğan. Per alcuni osservatori non sarebbe per niente casuale che l’esperimento missilistico sia avvenuto quasi in contemporanea con l’incontro (e la firma di accordi anche di cooperazione militare) tra Erdoğan e Volodymyr Zelensky, il suo omologo ucraino. Anche in questo caso potrebbe essersi trattato di una ostentazione di indipendenza, ma stavolta da Mosca.

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Astana agli sgoccioli. Chi ha più filo da filare tra Mosca e Ankara? https://ogzero.org/astana-agli-sgoccioli-chi-ha-piu-filo-da-filare-tra-mosca-e-ankara/ Thu, 22 Oct 2020 08:38:32 +0000 http://ogzero.org/?p=1563 Traiettorie diverse di attraversamento transcaucasico-mediorientale L’alleanza tra Vladimir Putin e Recep Erdoğan è sempre stata a tempo e i due contraenti non ne hanno fatto mai mistero. Isolati e osservati con diffidenza da buona parte della comunità internazionale, strategicamente concorrenti e avversari in Medio Oriente, hanno fatto di necessità virtù per cinque anni ma ora […]

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Traiettorie diverse di attraversamento transcaucasico-mediorientale

L’alleanza tra Vladimir Putin e Recep Erdoğan è sempre stata a tempo e i due contraenti non ne hanno fatto mai mistero. Isolati e osservati con diffidenza da buona parte della comunità internazionale, strategicamente concorrenti e avversari in Medio Oriente, hanno fatto di necessità virtù per cinque anni ma ora la politica di appeasement tra i due paesi seguita alle scuse del presidente turco per l’abbattimento del Su-24 russo sui cieli siriani nel 2015, potrebbe essere agli sgoccioli.

Il ritorno di fiamma della guerra in Nagorno-Karabach lo dimostra con evidenza. Non a caso in una recente intervista il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha voluto sottolineare di considerare la Turchia «non un alleato ma un interlocutore stretto».

Mosca e Ankara sono le due principali potenze regionali nell’area che va dal mar Nero al Medio Oriente, passa per la Transcaucasia e lambisce la Persia. Con due traiettorie però assai diverse.

Ascolta “La Russia è solo una potenza regionale” su Spreaker.

 

Confrontando le parabole di Turchia e Russia

L’economia turca a partire dall’inizio del nuovo millennio è cresciuta costantemente, triplicando il proprio Pil. Un decollo economico accompagnato da un potente incremento demografico che ha fatto passare la sua popolazione complessiva da 67 a 83 milioni (a cui va aggiunta la diaspora). Il “neoimperialismo ottomano”, in questo quadro, è il prodotto di una crisi di crescita del paese a cui ormai vanno stretti i confini definiti nel primo Dopoguerra.

La Russia invece, dopo il boom del primo decennio del XXI secolo basato essenzialmente sugli alti prezzi degli idrocarburi sul mercato mondiale e la stabilizzazione sociale interna, vede da molti anni la propria economia stagnare. Dal 2018 la sua popolazione è tornata a contrarsi malgrado milioni di ucraini e centroasiatici abbiano acquisito il passaporto della Federazione: la Banca Mondiale stima che se non ci sarà una svolta, la Russia passerà dagli attuali 145 milioni di abitanti a 131 nel 2050. Dopo la facile vittoria nella guerra con la Georgia del 2008 – che aveva mostrato però dei limiti soprattutto logistico-satellitari – dagli anni Dieci in poi il declino dell’egemonia strategico-militare di Putin sul vicino estero ex sovietico è continuata con la perdita definitiva dell’Ucraina (compensata solo in parte dall’annessione della Crimea) e ora esiste il rischio concreto – a seguito dello sviluppo del movimento di opposizione in Bielorussia – di perdere un altro alleato fondamentale proprio laddove la Nato, grazie all’integrazione di Polonia e paesi baltici, è più aggressiva.

La partnership economica tra le due potenze locali (turismo, abbigliamento, prodotti alimentari e soprattutto forniture di gas russo attraverso Turkish Stream) ha reso più fluide anche le relazioni diplomatiche. La luna di miele tra i due paesi ha raggiunto il suo zenit nel periodo che va dall’acquisto da parte turca del sistema difensivo antiaereo russo S-400 (preferito ai Patriot americani con gran dispetto di Washington) e il sostegno convinto di Erdoğan a Nicolas Maduro nella crisi venezuelana del 2019 e suggellato dagli accordi di Astana per la sistemazione della matassa siriana. Dopo di allora però, lentamente ma inesorabilmente, il corso delle relazioni turco-russe è andato via via peggiorando e la guerra nel Nagorno-Karabach, qualunque sarà il suo esito, marcherà il passaggio in una fase che potremmo definire “postAstana”, foriera di nuove tempeste e procelle nella regione.

In quali intrecci si sta azzoppando Astana?

Le prime avvisaglie che si stava entrando in una fase nuova emerse a inizio 2020 quando ci fu più di una scaramuccia tra Siria e Turchia che vide coinvolto il contingente russo. Qualche mese dopo i due paesi si trovavano a confrontarsi ancora su fronti avversi in Libia. La Turchia sostiene da sempre il governo libico riconosciuto dalle Nazioni Unite, guidato da Fayez al-Serraj, che sta lottando da più di un anno per resistere a un assalto alla capitale Tripoli da parte del comandante ribelle Khalifa Haftar. Quest’ultimo è sostenuto, anche se non formalmente, dalla Russia grazie alla penetrazione dei suoi gruppi di foreign fighters organizzati nell’ormai celebre agenzia dei “wagneriani”, già presente in vari teatri, non ultimi quelli africani. Un modo per la Russia, quello dell’uso di compagnie di ventura, per giocare un ruolo di ago della bilancia in diverse crisi senza esporsi direttamente e soprattutto dai costi economici relativi.

Sia la Russia che la Turchia hanno investito molto in Libia: la Federazione in termini di reputazione, influenza e potenziali accordi petroliferi e la Turchia con interessi commerciali ed energetici ancora più ampi, ma hanno evitato in ogni modo di confrontarsi direttamente. «Quella libica potrebbe essere la loro più grande divergenza, ma ce ne sono altre. Sono a disagio per il ruolo crescente dell’Iran nella regione, che Putin generalmente sostiene fintanto che infastidisce gli Stati Uniti. I turchi odiano il regime di al-Sisi in Egitto che Putin giudica invece positivamente. E sono da sempre ai ferri corti anche con gli israeliani, con i quali Putin ha un solido rapporto di partnership», sostiene Jonathan Schanzer della Foundation for Defense of Democracies, un think tank con sede a Washington.

Presenze strategiche dei due contendenti sullo scacchiere internazionale

Ma nel complesso la partnership rischia di crollare a causa dell’inconciliabilità delle ambizioni geopolitiche. Schanzer, a tale proposito, segnala la grandiosa visione ottomana delineata da uno dei massimi consiglieri di Erdoğan, il generale in pensione Adnan Tanrıverdi, che interpreta la Turchia emergente come una superpotenza islamica con capacità di esercitare autorità e influenza su 61 paesi musulmani con Istanbul a capitale di un inedito califfato.

Putin ha forse obiettivi meno ambiziosi – più tattico che stratega è abituato a misurare ogni passo di politica estera – ma non meno importanti per gli equilibri internazionali. A fronte dell’ulteriore sgretolamento dell’influenza nell’area ex sovietica, Mosca è interessata a inserire dei cunei di propria presenza su scala globale che le permettano di restare al centro di quanto si va definendo nei diversi scacchieri. Un approccio parzialmente diverso da quello del tradizionale contenimento sviluppato dal Cremlino fino a qualche anno fa e che poggiava in gran parte sul suo ruolo di potenza nucleare. La ripresa della guerra in Nagorno-Karabach non sta facendo che accelerare, da questo punto di vista, delle tendenze già in atto.

Un Anschluss turco-azero?

Ma se le scaramucce tra Armenia e Azerbaigian del luglio potevano lasciare presagire che lo scontro ruotasse intorno ai gasdotti azeri Baku-Tbilisi-Ceyhan e quello nel Caucaso meridionale ovvero sulle rotte del reperimento di risorse energetiche alternative a quelle russe nella regione, la guerra iniziata il 27 settembre 2020 dall’alleanza turco-azera ha ben altri obiettivi, in primo luogo di ridefinizione complessiva degli equilibri nella regione. Evidentemente, Erdoğan intende saggiare la reazione russa e dei paesi Nato a fronte di un chiaro tentativo espansionista: in questo senso l’alleanza turco-azera basata sulla teoria “un popolo, due stati” sta realizzando seppur in trentaduesimi, la stessa politica che la Germania negli anni Trenta del XX secolo portò avanti con l’Anschluss e l’occupazione della Cecoslovacchia. Da questo punto di vista Erdoğan ha ricevuto segnali positivi riuscendo a mettere sotto scacco l’Europa con il ricatto dell’ondata migratoria dalla Siria e paralizzando una Russia già alle prese con la crisi in Bielorussia e la querelle di Navalny. Malgrado Francia, Usa e Russia abbiano chiesto con due dichiarazioni comuni il cessate il fuoco, malgrado siano arrivati segnali di inquietudine da parte di molti altri stati, la macchina bellica turco-azera non si è fermata.

Valore “locale” del conflitto caucasico

Allo stesso tempo non va però dimenticato che l’offensiva in Nagorno-Karabach ha obiettivi tutti interni al quadro transcaucasico. Sin dall’inizio del conflitto, malgrado l’Armenia sia parte integrante del Trattato di sicurezza collettiva (l’alleanza militare guidata dalla Russia dopo la fine del Patto di Varsavia), a differenza che in Bielorussia, la Federazione non ha minacciato interventi a fianco di Erevan se non nel caso estremo di aggressione diretta dentro i confini armeni. Una postura che non è certo piaciuta a Nikol Pashinyan, il premier armeno asceso al potere dopo la Rivoluzione di Velluto del 2018. Pashynian è un ex difensore dei diritti civili che guarda per sua formazione e cultura a Occidente. Tuttavia in nome della Realpolitik e delle forniture di idrocarburi a prezzi low-cost è restato legato finora a Mosca, ma l’evidente neutralità assunta dalla Russia nel conflitto nel Nagorno-Karabach potrebbe fargli riconsiderare – a medio termine – il legame con Mosca, ripiegando su una posizione di neutralità. Non è un caso che tutti i suoi sforzi per giungere al cessate il fuoco nelle prime settimane del conflitto abbiano cercato di far leva sui timori della UE (e di Merkel in particolare) per la crescente aggressività turca, anche se Berlino in realtà ha le mani legate perché – piaccia o no – la Turchia resta un membro imprescindibile della Nato.

In questo quadro proprio l’Alleanza Atlantica sta accelerando il suo programma di allargamento a Est. Due settimane dopo l’inizio del conflitto, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha invitato apertamente la Georgia ad aderire al sistema difensivo occidentale: «Siamo concentrati sulla regione del Mar Nero, stiamo sviluppando le nostre capacità marittime, la difesa costiera della Georgia e stiamo conducendo visite di navi Nato nei porti georgiani. Nei nostri negoziati sottolineiamo l’importanza strategica della regione del Mar Nero sia per la Georgia che per gli stati della Nato e siamo pronti ad accoglierla nell’alleanza», ha affermato il segretario generale. Un quadro fosco per la Russia soprattutto in caso di sgancio della Bielorussia e dell’Armenia.

Si tratta ora di capire se il punto di caduta dello scontro nel Nagorno-Karabakh, escludendo la catastrofe di un confronto diretto tra Russia e Turchia, sarà una vittoria completa azera o se, come continuano ad affermare gli esperti di strategia russi, Ilham Aliyev si accontenterà di sedersi al tavolo della trattativa dopo essersi ripreso i corridoi che collegano il Nagorno-Karabakh all’Armenia. In entrambi i casi, Mosca ne uscirà indebolita e dovrà ripensare seriamente ai suoi rapporti con Ankara. A settembre Erdoğan ha annunciato di aver trovato giacimenti di gas nel Mar Nero che dovrebbero garantire entro il 2023 l’autonomia energetica al suo paese. A quel punto allora, i buoni rapporti con Putin, potrebbero per lui essere solo un intralcio.

I timori dell’Occidente per l’attivismo turco

L’Azerbaijan ha fatto intendere che non vuole iniziare alcuna trattativa per risolvere la contesa sull’enclave etnico armeno, senza che vi partecipi direttamente la Turchia. Una posizione che manderebbe in soffitta definitivamente il format del “gruppo di Minsk” a cui partecipano, oltre ai paesi coinvolti nel conflitto, la Francia, gli Usa e la Russia. Un Diktat a cui è seguito l’inevitabile stop di Erevan mentre il segretario di stato Mike Pompeo esortava Erdoğan «a evitare di interferire nel conflitto». La presa di posizione dell’Eliseo, seppur non ufficiale, è stata particolarmente dura. «Il presidente francese ha già espresso preoccupazione per il ruolo della Turchia nel conflitto in Nagorno-Karabach. È motivo di preoccupazione che Erdoğan stia moltiplicando le sue avventure, non tenendo conto della necessità di garantire una sicurezza comune», si legge in un comunicato fatto circolare dalla diplomazia francese nella giornata del 18 ottobre. Macron teme che Erdoğan voglia tastare il polso alla Comunità europea per capire fino a che punto possa spingersi nella propria impunità.

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Strategie turche in preparazione del conflitto caucasico… https://ogzero.org/strategie-turche-in-preparazione-del-conflitto-caucasico/ Wed, 07 Oct 2020 15:31:57 +0000 http://ogzero.org/?p=1439 … e considerazioni sull’esasperazione dei nazionalismi in Azerbaijan, Armenia, Artsakhi Abbiamo ricevuto un articolo da Gianni Sartori a proposito del coinvolgimento turco nelle nuove operazioni militari in Nagorno Karabach, e poi Murat Cinar ha animato una puntata del suo Caffè turco su Radio Blackout e prima avevamo sentito anche Teresa Di Mauro, corrispondente per l’“Atlante […]

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… e considerazioni sull’esasperazione dei nazionalismi in Azerbaijan, Armenia, Artsakhi

Abbiamo ricevuto un articolo da Gianni Sartori a proposito del coinvolgimento turco nelle nuove operazioni militari in Nagorno Karabach, e poi Murat Cinar ha animato una puntata del suo Caffè turco su Radio Blackout e prima avevamo sentito anche Teresa Di Mauro, corrispondente per l’“Atlante delle Guerre” e conoscitrice della realtà armena e di alcune zone di Artsakhi: alterniamo i loro contributi in questo spazio embrionale – destinato ad arricchirsi con altri interventi, utili a raccontare tutti i variegati punti di vista e gli intrecci di interessi.

Nessun confine separa le persecuzioni di armeni e curdi

 

Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si va sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri contro gli armeni.

Ascolta “2020-10-15_Murat-Cinar_zampa turca sulla spalla azera” su Spreaker.

Snodi curdi al margine della logica militare turco-azera

Kars subisce un destino analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanlı nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste. Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe quindi da stupirsi se «da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars».

D’altra parte era quasi scontato che Erdoğan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto, mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.

Non certo impropriamente era stato definito “un autentico genocidio politico” in Bakur (territori curdi sotto amministrazione-occupazione turca). In riferimento alla destituzione – dopo le elezioni del 2019 – dei legittimi rappresentanti politici eletti nelle liste dell’Hdp (Partito Democratico dei Popoli) e l’arresto di centinaia di militanti dell’opposizione ed esponenti di associazioni curde.

Ma oggi la faccenda si va caricando di ulteriori e peggiori implicazioni.

La città di Kars (in Bakur) è destinata a diventare un centro di smistamento per jihadisti e mercenari di Ankara? Tutt’altro che casuale – per esempio – la repentina imposizione da parte del Ministero dell’Interno del governo Akp-Mhp di Turker Öksüz come fiduciario (governatore, prefetto, podestà…?) alla città curda di Kars. Dopo che i sindaci regolarmente eletti (Ayhan Bilgen e Şevîn Alaca, esponenti dell’Hdp) erano stati preventivamente arrestati insieme a una quindicina di altri esponenti politici nell’ambito delle “indagini di Kobane” (ossia per le proteste del 2014). Cinque membri del consiglio comunale e due membri dell’assemblea generale provinciale venivano sospesi dal servizio o costretti alle dimissioni.

L’arresto del co-sindaco Ayhan Bilgen e di altri esponenti dell’Hdp risaliva al 25 settembre. Le sue dimissioni da sindaco (praticamente un’autosospensione proprio per evitare l’imposizione di un governatore turco) a cinque giorni dopo. Ma – in contrasto con la stessa legislazione turca – questo suo gesto non era stato tenuto in considerazione e la nomina – illegittima – del governatore seguiva il suo corso.

Giustamente si era parlato di una “confisca dei diritti democratici”. Allo scopo, molto presumibilmente, di controllare totalmente questa cittadina ai confini con l’Armenia.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_episodio di luglio” su Spreaker.

Niente di strano e niente di nuovo

Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoğlu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione.

Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale “Hurriyet” ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993.

Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdoğan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.

Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista) si trattava nientemeno che di una «abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne» esprimendo «inquietudine per l’avvenire del paese» (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).

Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_narrativa del conflitto” su Spreaker.

L’esplosione al declino dell’Urss

Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica repubblica d’Armenia.

E il 20 febbraio – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno-azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Ağdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armene. Nei disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. È il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.

Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.

Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno-Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 lo statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.

In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera – la proposta di uno stato indipendente sarà approvata con il 99 per cento dei voti.

E a questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).

Guerra dichiarata (1991-1994)

Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.

A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.

Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e – ma discretamente e solo a livello logistico – dalla Grecia.

Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex Urss (russi e ucraini).

Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.

Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti.

Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14 per cento del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (il cessate il fuoco è del 12 maggio) prendono il via sotto la supervisione di Mosca.

Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato Osce) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.

Tuttavia – vien da dire – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_situazione incancrenita” su Spreaker.

Per i media occidentali rimane impigliata la definizione “separatisti”

Qualche considerazione in merito alle operazioni propagandistiche in atto (soprattutto da parte di Baku e Ankara) e rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato, pare. Forse perché – tutto sommato – conviene schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola Armenia, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale.

Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il Nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974 (e direi illegalmente, così a naso). Per non parlare della continua evocazione di una – al momento inesistente – partecipazione di militanti del Pkk ai combattimenti (a fianco degli armeni, ovviamente).

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_Nazionalismo dal basso o usato dal potere per compattare” su Spreaker.
Magari! verrebbe da dire. Ma temo che con tutti i problemi che al momento li affliggono (aggrediti come sono da ogni parte, soprattutto dalla Turchia e dai suoi ascari) molto difficilmente i partigiani curdi avranno la possibilità di prendere parte alla resistenza dei loro fratelli armeni. Anche se – presumo – ne sarebbero lieti e fieri.

In fondo di fronte avrebbero l’ennesima versione dei massacratori ottomani, dei responsabili del genocidio degli armeni (poi reiterato) e dei tentativi di genocidio nei confronti di greci, curdi (yazidi in particolare), alaviti, assiro-caldei.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_Dalla rivoluzione di Velluto ai proclami bellicisti di Pashinyan” su Spreaker.

Il business delle armi oltrepassa ogni schieramento: corsi e ricorsi storici

Nel frattempo (gli affari sono affari) pare che la Francia – come Israele (droni Elbit) e l’Italia (M-346 di Leonardo) – non abbia smesso di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non è l’unico paese a farlo naturalmente. Ma la cosa appare stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Anche recentemente nella querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.

Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku stanno colpendo direttamente la popolazione di Stepanakert.

Una cosa comunque va detta. In qualche modo l’attuale conflitto tra Armenia e Azerbaijan appare propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne è addirittura la “vetrina”). Mi auguro di sbagliarmi, ma intravedo una prosecuzione (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.

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L’Iran da Astana all’Eurasia https://ogzero.org/liran-da-astana-alleurasia/ Sun, 02 Aug 2020 22:20:34 +0000 http://ogzero.org/?p=990 Massima pressione americana e scenario multilaterale regionale È passato inosservato l’ultimo vertice dei presidenti di Russia, Turchia e Iran, riuniti il 1° luglio scorso (in videoconferenza) per discutere gli ultimi sviluppi della situazione in Siria. Il virtuale incontro però aveva la sua importanza. Per cominciare, ha riaffermato che il cosiddetto “processo di Astana” non è […]

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Massima pressione americana e scenario multilaterale regionale

È passato inosservato l’ultimo vertice dei presidenti di Russia, Turchia e Iran, riuniti il 1° luglio scorso (in videoconferenza) per discutere gli ultimi sviluppi della situazione in Siria. Il virtuale incontro però aveva la sua importanza. Per cominciare, ha riaffermato che il cosiddetto “processo di Astana” non è defunto, come molti andavano annunciando.

Con questo nome si indica la serie di colloqui cominciata del dicembre 2016 nella città di Astana (Kazakhstan) per iniziativa di Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdoğan e Hassan Rohani con l’inviato del segretario generale dell’Onu per la Siria: una iniziativa diplomatica per la pace in Siria, parallela agli (inconcludenti) colloqui sponsorizzati dall’Onu a Ginevra. Il format di Astana ha portato nel settembre 2017 a un accordo per istituire quattro “zone di de-escalation” nel territorio siriano, di cui le tre potenze si sono fatte “garanti”.

Non entreremo qui nei dettagli di come questi accordi si sono tradotti sul terreno: che la Siria sia ancora lontana da una effettiva stabilizzazione è sotto gli occhi di tutti. Il punto che qui interessa è che sotto lo stravagante format intitolato a una citta kazakha abbiamo tre potenze regionali che discutono compromessi e accordi in uno scenario, la Siria e il Vicino Oriente, dove però le rispettive agende politiche sono diverse e spesso in aperto conflitto. A cominciare dal fatto che la Turchia appoggia le formazioni ribelli sunnite che cercano di rovesciare il governo di Bashar al Assad, mentre la Russia e l’Iran si sono adoperati anche militarmente per tenerlo in piedi.

Più in particolare, il vertice di luglio è stato il primo da quando Turchia da un lato, Russia e Iran dall’altro si sono scontrati nella provincia di Idlib, la più ampia delle zone di “de-escalation” (la tensione era salita in febbraio con 33 militari turchi uccisi da un raid attribuito a jet russi, a cui la Turchia ha risposto attaccando forze del regime siriano e milizie sciite filoiraniane). Una relativa calma è tornata dopo che Erdoğan in marzo è volato a Mosca e ha concordato con Putin un cessate il fuoco, con un meccanismo di “corridoi di sicurezza” per garantire le vie di comunicazione, e di pattugliamenti comuni che però dovrebbe preludere alla ripresa di controllo delle forze di Damasco sulla provincia di Idlib (ovvero, sembrerebbe che Ankara abbia dovuto accettare le condizioni russe). In realtà molti segnali dal terreno fanno temere una ripresa di ostilità.

 

Integrazione attraverso scambi, favori e relazioni complicate

Eppure il comunicato congiunto del vertice tripartito lascia intendere che la Russia lascerà alla Turchia più tempo per concludere ciò che si è impegnata a fare nel quadro degli accordi di Astana, e cioè mettere sotto controllo i ribelli jihadisti siriani che operano nella provincia di Idlib. Le variabili sono numerose e complicate: dalla dinamica tra le formazioni ribelli più dipendenti dal sostegno turco (come Hayat Tahrir Shams) e quelle più radicali – al controllo delle province nordorientali a maggioranza kurda, che la Turchia considera una propria zona di pertinenza (tanto che occupa un’ampia “zona cuscinetto” con l’accordo di fatto degli Usa e anche della Russia). Concedere alla Turchia di occupare altro territorio siriano-kurdo potrebbe diventare moneta di scambio per recuperare zone strategiche controllate dai ribelli sunniti più a sud. Altre variabili poi ci porterebbero in Libia, un altro teatro di guerra internazionalizzata dove Mosca e Ankara sono su fronti contrapposti: le due crisi sono molto intrecciate.

Tutto questo dice quanto sia ancora lontano un assetto stabile che sia preludio alla pace in Siria. Intanto però il format di Astana afferma la sua esistenza sulla scena mediorientale come un fronte politico-diplomatico contrapposto a quello a conduzione statunitense.

La dichiarazione dei tre presidenti per esempio se la prende con «l’appropriazione e trasferimento illegale di risorse petrolifere che appartengono alla Repubblica Araba di Siria», allusione alle forze degli Stati Uniti che presidiano due campi petroliferi nella provincia nord-orientale siriana, la cui amministrazione autonoma curda (controllata dalle Forze democratiche siriane, filo Usa) ha di recente concesso a compagnie Usa il diritto di commercializzare il petrolio estratto. I tre presidenti ribadiscono inoltre l’impegno a difendere «sovranità, indipendenza e integrità territoriale» della Siria, quindi a «respingere iniziative illegali di autogoverno» – riferimento alla tentazione di affermare un’autonomia territoriale curda nel Nordest difesa dagli Usa. Condannano le sanzioni statunitensi contro la Siria.

La dichiarazione congiunta poi condanna «gli attacchi militari di Israele in Siria», e questa è una concessione al presidente Rohani: si riferisce alla serie di raid condotti nelle ultime settimane da forze israeliane contro obiettivi iraniani e delle milizie filoiraniane intorno a Damasco (l’ultimo episodio è del 20 luglio). Ma proprio questo è anche un esempio di come il format tripartito copra agende molto diverse. Infatti è dubbio che la Russia abbia davvero intenzione di reagire agli attacchi di Israele contro obiettivi iraniani in Siria. C’è perfino chi parla di un vero e proprio accordo dietro le quinte tra Mosca e Tel Aviv (che peraltro hanno intensi contatti diplomatici) per ridimensionare le milizie filoiraniane, e in generale la presenza dell’Iran in Siria.

Lo scenario è complicato, e anche le relazioni tra Tehran e Mosca lo sono. Nel 2015 l’Iran ha concesso ai jet russi in partenza dalle basi nella regione del Caucaso di sorvolare il proprio spazio aereo per andare a bombardare le postazioni dello Stato islamico in Siria, e a Tehran la cosa era presentata come il primo passo di una nuova alleanza strategica con Mosca. L’occasione era la comune “guerra alla Stato islamico”, o Daesh secondo l’acronimo in arabo (pare che ai russi interessasse in particolare colpire le milizie cecene all’interno delle formazioni jihadiste). L’Iran aveva già mandato forze speciali sul terreno a sostenere l’esercito governativo e organizzare milizie; l’entrata in gioco della Russia ha contribuito in modo decisivo a cambiare le sorti militari del conflitto siriano e salvato il regime di Assad.

Dal punto di vista dell’Iran, l’interesse strategico in Siria è evidente. Si tratta di un raro “paese amico” tra i vicini arabi (e da lunga data: negli anni Ottanta Damasco con Hafez al Assad, è stata l’unica capitale araba a non appoggiare l’invasione dell’Iran da parte dell’Iraq di Saddam Hussein), e di un’area di influenza strategica importante, via di comunicazione verso il Mediterraneo, accesso verso l’alleato movimento di Hezbollah in Libano: dunque quella che Tehran considera la sua “profondità strategica” nei confronti di Israele. Vedere a Damasco un governo sunnita di stampo saudita sarebbe per Tehran un disastro da evitare a tutti i costi. Per questo ha sostenuto l’esercito governativo siriano e varie milizie filogovernative, spesso addestrate e organizzate dalle Guardie della rivoluzione iraniana (anche se nessuno ne darà mai conferma ufficiale): cosa che continuerà finché le varie reincarnazioni di Daesh e di al-Qaeda avranno i loro sponsor. L’obiettivo iraniano è assicurarsi in futuro che a Damasco sieda un governo non ostile. Anche la Russia, che ha in Siria la sua unica base militare nel Mediterraneo, ha tutto l’interesse a garantirsi in Siria un governo amico.

Le convergenze di interessi però non sono eterne, e comunque non esclusive. Le milizie organizzate dalle Guardie della Rivoluzione iraniane in Siria (e in Iraq) sono state fondamentali per respingere l’offensiva dello Stato islamico (e il principale artefice di questo successo sul terreno è stato il comandante delle forze speciali al Qods, Qassem Soleimani, poi ucciso da un raid statunitense nei primi giorni di gennaio 2020 a Baghdad). Ma quelle milizie sono diventate ingombranti per molti, sia in Iraq che in Siria: che esista o meno un accordo dietro le quinte tra Israele e Russia, entrambe le parti hanno interesse a ridimensionare l’influenza iraniana sul terreno.

Questo non significa che l’alleanza strategica sia finita. E in ogni caso non impedirà a Russia, Turchia e Iran di tenere “al più presto” il prossimo vertice del “processo tripartito”, questa volta in presenza a Tehran su invito del governo iraniano (ma non c’è ancora una data).

 

Astana per uscire dall’isolamento: cooperazione e infrastrutture

Come valutare il “processo di Astana”, visto da Tehran? Per rispondere bisogna allargare lo sguardo. L’Iran ha un evidente interesse a far parte di una sede di diplomazia multilaterale. In primo luogo per restare nel gioco regionale: riaffermare che una soluzione per la Siria non può prescindere da tutte le parti in causa nella regione, e l’Iran è una di queste (si ricordi che i primi, vani tentativi di dialogo sulla Siria promossi in sede Onu avevano escluso l’Iran a causa del veto Usa: solo dopo l’accordo sul nucleare del 2015, su insistenza russa, i rappresentanti di Tehran sono stati ammessi ai “colloqui sulla Siria” – benché finora inconcludenti).

L’interesse però va oltre la Siria, per quanto importante. Il punto è che la Repubblica Islamica dell’Iran fa i conti con uno storico accerchiamento nella regione: politico, diplomatico, a volte militare (come quando le truppe Usa si trovavano in Iraq, in Afghanistan, oltre a pattugliare il Golfo Persico). L’accordo sul nucleare del 2015 (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa, firmato da sei potenze mondiali e dall’Iran) aveva rotto l’isolamento. Ma da quando nel maggio 2018 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha deciso di buttare alle ortiche l’accordo, intorno all’Iran si è costruito un nuovo blocco: un muro di sanzioni senza precedenti. Benché unilaterali, il sistema di sanzioni Usa riesce a isolare l’Iran grazie al ricatto delle sanzioni secondarie (che colpiscono aziende e paesi terzi che abbiano contatti commerciali con Tehran). È la strategia della “massima pressione”. Non che sia riuscita a far crollare l’Iran, e difficilmente ci riuscirà: ma certo sta pesando molto. Dal crollo delle esportazioni di greggio alla difficoltà di acquistare pezzi di ricambio industriali, derrate alimentari o materiale medico, gli iraniani stanno pagando un prezzo molto alto.

L’Iran ha un disperato bisogno di rompere questo isolamento. Per questo, con il “programma tripartito” di Astana e ben oltre, l’Iran ha un interesse fondamentale ad approfondire la cooperazione strategica con la Russia, come del resto con la Cina. E con i paesi vicini. Con la Turchia in particolare l’Iran ha legami di vecchia data, sia politici che commerciali, culturali, umani (la Turchia è tra i pochissimi paesi dove i cittadini con passaporto iraniano non abbiano bisogno di un visto d’ingresso). Benché spesso in concorrenza sulla scena regionale, Tehran e Ankara mantengono una “cooperazione strategica” nell’interesse reciproco.

Tanto più importante è la sponda russa. Il 22 luglio scorso il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif ha concluso una missione a Mosca, dove ha portato un “messaggio speciale” del presidente Hassan Rohani a Vladimir Putin (il contenuto del messaggio non è stato diffuso), e dove ha discusso con il suo omologo, il ministro degli esteri Sergey Lavrov, una serie di questioni bilaterali e di coordinamento regionale. Non sapremo cosa si sono detti circa lo scacchiere siriano. Sappiamo però che Iran e Russia hanno concordato di definire un nuovo accordo ventennale di cooperazione strategica, che vada oltre quello attualmente in vigore (che scade in marzo).

Analogo accordo è quello che l’Iran ha in ballo con la Cina: un accordo venticinquennale di cooperazione economica e di sicurezza, che secondo alcune fonti sarebbe addirittura già stato firmato anche se finora è circolata solo una bozza ufficiosa e numerose illazioni (cosa che ha suscitato grandi critiche in Iran, e attacchi dell’opposizione conservatrice che accusa il governo di Rohani di “svendere” il paese). L’accordo è in discussione da quando il presidente Xi Jinping in visita a Tehran nel 2016 ne ha parlato con l’ayatollah Ali Khamenei, e tratterà di energia, telecomunicazioni, infrastrutture come porti e ferrovie – e del petrolio che la Cina comprerà dall’Iran.

Gli accordi di cooperazione con Russia e Cina sono di sicuro il tentativo, per l’Iran, di allentare la “massima pressione” statunitense cercando la partnership di due potenze altre (entrambe membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu). Ma in entrambi i casi la cooperazione è cominciata ben prima dell’avvento di Trump a Washington. La realtà è che la “massima pressione” avrà solo accelerato una dinamica che sarebbe emersa comunque, la tendenza a una maggiore integrazione in quello spazio di scambi e relazioni politiche ed economiche spesso chiamato “Eurasia” e di cui l’Iran è un tassello centrale, in senso geografico e politico: in cui si incrociano corridoi di trasporti e progetti industriali, la Belt Road Initiative cinese, i gasdotti russi, ferrovie, porti (come quello Chabahar sulla costa iraniana, possibile sbocco nell’oceano Indiano per molte repubbliche centroasiatiche). Uno spazio multilaterale in cui Tehran sta a pieno titolo.

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La spartizione delle risorse nel Mediterraneo https://ogzero.org/accordo-tra-erdogan-e-serraj-e-la-spartizione-delle-risorse-nel-mediterrano/ Fri, 24 Jul 2020 00:24:15 +0000 http://ogzero.org/?p=99 24 luglio 2020 Con le esplicite intenzioni espresse ad alto livello dai due responsabili degli Affari esteri turco e russo in relazione alla soluzione libica, che da opposte fazioni sarebbe individuata nella diplomazia da trovare in un prossimo incontro a Mosca, appare sempre più evidente un più ampio piano comune globale giocato nel centinaio di […]

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24 luglio 2020

Con le esplicite intenzioni espresse ad alto livello dai due responsabili degli Affari esteri turco e russo in relazione alla soluzione libica, che da opposte fazioni sarebbe individuata nella diplomazia da trovare in un prossimo incontro a Mosca, appare sempre più evidente un più ampio piano comune globale giocato nel centinaio di incontri tra Putin e Erdoğan nei quattro anni intercorsi dal fallito golpe del 15 luglio 2016 e sancito dagli Astana Papers. Dovunque nello scacchiere mediorientale le due potenze locali occupano campi avversi e in ciascuno di questi teatri di guerra, dopo scaramucce per procura, giocano il ruolo dei pacificatori, spartendosi risorse e territori, economie e infrastrutture, governance e vie di comunicazioni… Hanno cominciato il gioco in Siria, dove la Turchia, appartenente ancora alla Nato, ha coperto il maggiore interesse russo – procurandosi la striscia antikurda che richiedeva e congelando Idlib, bacino di milizie jihadiste da svuotare per utilizzarle in Libia,  dove risulterà il vincitore accaparrandosi il petrolio dell’Eni (come nel quadrante del Mediterraneo orientale), pur beneficiando l’“alleato” russo del controllo di parte del territorio sottraendolo all’influenza occidentale tanto paventata da Putin all’indomani dell’abbattimento di Gheddafi; e ora il connubio tra zar e sultano si va a occupare del Nagorno Karabakh, resuscitando una disputa trentennale nei piani di Putin utile a bloccare il South Caucasus Pipeline, impossibile da far passare in mezzo a una nuova guerra tra armeni (fieri nemici dei turchi per il genocidio e alleati dei russi per affinità religiosa) – che infatti hanno iniziato le provocazioni belliche nel giugno 2020 – e azeri, appoggiati dai turchi.

Il prossimo palcoscenico della pantomima che apparentemente divide Russia e Turchia, ma non i loro interessi finali si gioca attorno al reale interesse dei due tiranni: le pipeline, quelle da boicottare per l’interesse di Gazprom, a cominciare da quella che passerebbe attraverso la Grecia a partire da Israele per giungere in Salento, che si configura come concorrente del South Stream turco, ma anche delle pipeline russe, da cui dipendono gli approvvigionamenti energetici occidentali.  

Le prime reazioni internazionali al sempre maggiore dinamismo turco nell’area si ebbero con l’accordo intercorso tra Erdoğan e Sarraj per spartirsi il petrolio del Mediterraneo, un vero e proprio abuso, sono state minime: una fregata italiana a difendere i giacimenti che l’Eni si era aggiudicata nel mare prospiciente Cipro – dimenticata in questa operazione, forse perché comunque la Turchia la considera integralmente di sua proprietà – e infatti  la Grecia ha espulso l’ambasciatore turco. Ma cosa si può immaginare in trasparenza dietro a questa sorprendente iniziativa? In quale contesto nei due paesi si va a inserire?

 

Il maresciallo libico Khalifa Haftar e il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov a Mosca, il 13 gennaio 2020 (Ufficio stampa del ministero degli Esteri russo via AP)

Murat Cinar analizza i meccanismi che il 12 dicembre 2019 regolavano gli interessi nell’area

Da quell’episodio si è potuto allargare il campo, ai molti motivi di scontro e guerra aperta, di repressione e strategie, alleanze e affinità religiose (piegate a fare da foglia di fico per gli interessi geopolitici): il parlamentare Demirtaş malato non curato nel carcere di Edirne dove è ostaggio del regime, banche nazionalizzate per svuotarne i forzieri e sovvenzionare le infrastrutture che fanno da bacino di voti per l’Akp, e poi l’arabizzazione forzata del Rojava negli intenti di Erdoğan – e in questo ambito si registrano le affermazioni di Assad, disponibile a incontrare il presidente turco ma solo per ricordargli che è un invasore (ma in fondo anche Assad padre aveva operato un’arabizzazione della regione ai danni dei curdi); le due fazioni che si contendono il potere in quella che era la Libia sono sempre più internazionalizzate, con precisi appoggi agli uni o agli altri, con la presenza russa che condiziona protagonisti di entrambi i campi di questa guerra per procura, che è un risvolto di quanto è successo e sta accadendo in Siria, un paese che sta diventando modello anche per una nazione che non esiste più dalla fine di Gheddafi; l’attenzione turca si sta da tempo concentrando anche sul Nordafrica e la Libia dove Arabia Saudita ed Emirati, insieme all’Egitto del generale al-Sisi, sostengono il capo della Cirenaica Khalifa Haftar. Mentre Ankara, con il Qatar e in parte l’Italia, appoggia il governo di Tripoli, la città di Misurata e la Fratellanza Musulmana.

La guerra in Libia non è più guerra civile, è diventata regionale. A sostegno di Haftar si prodigano militarmente Egitto, Emirati Arabi e Russia. A oggi l’unico attore forte regionale è la Turchia che non ha mai cambiato posizione e non ha problemi a dichiarare il suo approccio interventista, riaffermando il suo ruolo nella regione anche in relazione a quanto accade in Siria (lì si riproduce lo stesso meccanismo insito nel rapporto di Ankara con la Russia).
La Francia auspica una risoluzione politica-diplomatica ma è, insieme alla Nato, sul campo a combattere a fianco di Haftar. L’Italia – che politicamente appoggia Tripoli (e ha interessi economici in Tripolitania) – è in realtà statica, non ha “amici” in Libia, ma in realtà non è ostile a Haftar. Al-Sarraj aveva bisogno di sostegno militare, ma a parte la missione in difesa dell’ospedale di Misurata sicuramente una certa attività di intelligence, l’Italia non si è poi attivata più di tanto. La Turchia invece è disposta a farlo e al-Sarraj è stato obbligato ad accettare l’aiuto della Turchia. Le reazioni a catena dimostrano che ormai in quel territorio si sta svolgendo una proxy war, una guerra per procura.

Nancy Porsia spiegava il carattere regionale della guerra in Libia nel dicembre 2019

Il governo di Tripoli, ha reso noto di temere la “minaccia” di intervento egiziano in Libia dopo che il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, in una dichiarazione pubblicata, ha definito il Governo di accordo nazionale libico (Gna) “ostaggio di formazioni armate e terroriste”. Il Consiglio del Gna afferma di comprendere “il diritto dello Stato egiziano” alla “sicurezza nazionale ma non accetta alcuna minaccia alla propria sovranità” e “invita le autorità egiziane a rivedere le proprie posizioni circa la crisi libica e a giocare un ruolo positivo che rifletta la profondità delle relazioni storiche fra i due Paesi fratelli”.

E mentre a Tripoli si combatteva e le milizie misuratine lanciavano lo stato di mobilitazione contro l’ennesima fase dell’offensiva del generale cirenaico Haftar sulla capitale, il presidente turco Erdogan incassava l’approvazione da parte della commissione parlamentare Esteri dell’accordo di cooperazione militare con il Gna (il governo tripolino, inventato dall’Onu) siglato il 27 novembre a Istanbul con il premier Serraj.

Quanto la guerra libica sia sempre legata alla profonda crisi in atto nel Mediterraneo Orientale sui confini marittimi delle Zone Economiche Esclusive lo si evince anche dal rischieramento di un drone turco armato BayraktarTB2 all’aeroporto di Gecitakle nella regione di Famagosta, nella Cipro del Nord.

Come affermava Chiara Cruciati su “il manifesto” del 17 dicembre 2019:

Se con il memorandum Ankara si impegna a inviare materiale e consulenze (cosa che con i droni già fa da tempo, violando l’embargo libico), ora Erdogan promette anche truppe, in cambio del controllo sullo specchio di mare tra Creta e Cipro.

Il cosiddetto “accordo di demarcazione” regalerebbe ad Ankara la giurisdizione in acque che ospitano giacimenti di gas naturale tra i più ricchi al mondo, da quelli ciprioti (su cui minaccia anche Israele: è di domenica la notizia dell’allontanamento di una nave dell’Istituto di Oceanografia israeliano da parte della marina turca nelle acque di Cipro) e su quelli nordafricani.

Lo fa sfidando apertamente l’altro attore regionale della crisi libica, l’Egitto, che sta sulla barricata opposta, con Haftar. E sfida anche l’Italia, convinta da aspirazioni neocoloniali, più che dalla vicinanza geografica, che la Libia sia doverosamente affar suo: oggi il ministro degli Esteri Di Maio dovrebbe volare a Bengasi per vedere il generale renegade perché, come dicono in tanti, è tempo di mediare tra le due parti (fossero solo due…) e uscire dal guado. Il probabile incontro è stato preparato nei giorni scorsi dall’Aise, i servizi segreti italiani, già a Bengasi.

Insomma, ormai Haftar va rivalutato (questa sembra la visione dell’Italia che teme di perdere il malloppo a favore della Francia) sebbene da mesi stia stringendo d’assedio il governo voluto dall’Onu e riconosciuto come il solo legittimo dalla comunità internazionale, a partire da Roma.

Identica narrazione, indirettamente, la dà il governo egiziano: «Il governo a Tripoli – ha detto da Sharm el Sheik il presidente al-Sisi – è ostaggio di milizie armate e terroriste». Non li nomina, ma nel mirino di al-Sisi ci sono i Fratelli musulmani, considerati i veri reggenti tripolini e riferimento politico dell’Akp di Erdogan e del Qatar, l’altra potenza regionale alleata di Sarraj che nei giorni scorsi, per bocca dell’emiro Al Thani, ha detto di voler/poter intervenire «sul piano economico e della sicurezza» al fianco di Tripoli.

Dall’interventismo turco in mezzo Vicino Oriente non poteva mancare la stoccata al nemico-amico statunitense. Brucia ancora il riconoscimento da parte della Camera Usa, il 31 ottobre, del genocidio armeno. Ma bruciano di più la sospensione della vendita degli F35 e le sanzioni che Washington ha paventato se Ankara proseguirà nell’acquisto del sistema di difesa missilistico russo S-400.

E così Erdogan ha pensato bene di minacciare gli Usa di «chiudere la base aerea di Incirlik e la stazione radar di Kurecik, che ospitano i militari americani». Nella seconda c’è la Nato, nella prima bombe atomiche Usa. Erdogan non vede l’ora di metterci le mani: da Incirlik è partito un pezzo del tentato golpe del 2016.

L’aeroporto di al-Watiya a sudovest di Tripoli diventerà una base militare turca

Intanto, in seguito all’accordo bilaterale di cooperazione militare sottoscritto lo scorso novembre tra Ankara e il Gna, la Turchia occuperà due basi militari in Libia: il grande aeroporto di al-Watiya (nella foto), vicino al confine tunisino, 125 chilometri a sudovest di Tripoli, da dove sono state cacciate da poco le forze dell’Lna che la controllava dal 2014) e nel porto di Misurata. Forse la base verrà occupata anche dalle forze statunitensi dell’Africa Command (Africom) dopo le intese tra Ankara e Washington dei giorni scorsi e il colloquio tra Donald Trump ed Erdoğan. Mentre a Misurata verrebbe invece creata una base navale: la presenza di navi turche è considerata essenziale per la sicurezza delle attività di perforazione (petrolio e gas) nella regione.

Il porto di Misurata dove la Turchia installerà la sua base navale

 

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La Somalia abbandonata finisce nella rete del Sultano https://ogzero.org/la-somalia-abbandonata-finisce-nella-rete-del-sultano/ Thu, 09 Jul 2020 10:08:25 +0000 http://ogzero.org/?p=463 Il 9 maggio 2020 la Somalia è tornata con forza sulle prime pagine di tutti i giornali italiani grazie alla notizia della liberazione della cooperante Silvia Romano, sequestrata 18 mesi prima in Kenya. Il 27 maggio 2020, meno di un mese dopo, alcuni uomini armati di AK-47 sono entrati nel villaggio di Galoley, distretto di […]

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Il 9 maggio 2020 la Somalia è tornata con forza sulle prime pagine di tutti i giornali italiani grazie alla notizia della liberazione della cooperante Silvia Romano, sequestrata 18 mesi prima in Kenya. Il 27 maggio 2020, meno di un mese dopo, alcuni uomini armati di AK-47 sono entrati nel villaggio di Galoley, distretto di Gabiley in Somaliland, Somalia, con indosso uniformi militari. Otto dipendenti della ong somala Zamzam, specializzata in sanità e istruzione, sono stati rapiti e i loro corpi ritrovati il giorno dopo, ciascuno con due proiettili in corpo. Uno in testa e uno nel cuore. Galoley, nel cuore dello stato indipendente – e mai riconosciuto – del Somaliland è molto lontano dal luogo dove è stata liberata la cooperante italiana: 1300 chilometri, in un paese come la Somalia, sono un’infinità. Altrettanto vero è che proprio il Somaliland, dal 2007, intrattiene relazioni ufficiali con l’Unione Europea e rappresenta una vera e propria spina nel fianco per il fragile governo di Mogadiscio.

Il territorio somalo è complesso e frammentato, talmente tanto che nel 2020 non ha quasi più senso parlare di Somalia ma piuttosto di “Somalie”. Una frammentazione che arriva da lontano.

Lo scenario

Nel 1941 la Somalia italiana passò sotto l’amministrazione britannica fino al 1949, quando divenne un’amministrazione fiduciaria delle Nazioni Unite gestita dall’Italia dal 1950 fino al 1° luglio 1960, quando si formò la Repubblica Somala. Nel 1969 Siad Barre ne divenne presidente, nel 1986 esplose la guerra civile e nel 1991 Barre fu destituito. Da quel momento, e fino all’aprile 2012, l’Italia decise di ritirare il proprio ambasciatore dal paese africano seguendo l’ultima profezia di Barre: la Somalia, senza di lui, sarebbe stata ingovernabile. A capodanno del 1993 George Bush visitò le truppe americane rimaste in Somalia in quella che fu l’ultima visita in Somalia di un leader mondiale per i successivi 18 anni: cominciava l’epoca dei Signori della guerra. La Repubblica federale di Somalia, il 20 agosto 2012, si è dotata di un governo (il primo governo centrale permanente dall’inizio del conflitto) e di un nuovo presidente ma nel 2020, di fatto, la guerra dei Signori si è solo trasformata in guerra al, e del, terrorismo. Il paese, dal 2017, è politicamente più stabile ed economicamente in ripresa grazie, anche, all’avvento del presidente Mohamed Abdullahi Mohamed Farmajo, ex ambasciatore negli Stati Uniti ed ex primo ministro; nel 2018 gli Stati Uniti hanno ristabilito la propria presenza militare nel paese e nel tardo 2019 riaperto l’ambasciata americana di Mogadiscio, chiusa come quella italiana nel 1991.

L’assenza diplomatica, militare e politica dell’Europa, delle nazioni africane più prossime e degli Stati Uniti ha costretto Mogadiscio, nel periodo più complicato e devastante della propria storia recente, a cercare amici altrove. La società somala, dilaniata dai Signori della guerra, scopertisi più tardi ambasciatori di un Islam “radicalmente puro”, e dalla corruzione di chi non tiene l’AK-47 in mano, è stata costretta a reinventarsi da sola. Il 26 aprile 2017 il presidente somalo Farmajo è volato con il suo ministro degli Esteri ad Ankara per firmare accordi bilaterali, incassare l’amicizia di Recep Erdoğan e la solidarietà dell’ Erdoğan-pensiero, con il presidente turco critico verso la comunità internazionale per non aver fornito sufficiente supporto alla Somalia durante la guerra civile e nel corso delle siccità che l’ha colpita negli ultimi anni. Ma in verità i rapporti tra Turchia e Somalia sono vecchi di decenni: era il 1969 quando i due Paesi co-fondarono l’OIC, l’Organizzazione per la cooperazione islamica, e era il Medioevo quando gli ottomani stringevano relazioni commerciali e belliche con l’Impero di Ajuran e il sultanato di Adal per sopraffare il dominio portoghese nell’Africa orientale e nell’Oceano Indiano.

Nel 1991 anche i turchi, per ragioni di sicurezza, rimossero l’ambasciatore da Mogadiscio ma raddoppiarono gli sforzi (e il personale) all’ambasciata di Addis Abeba, in Etiopia, proseguendo le relazioni con il governo nazionale di transizione somalo e con il successivo governo federale di transizione. Nel 2011 Erdoğan, 18 anni dopo Bush, atterrò a Mogadiscio e l’ambasciata fu riaperta. La Turchia fu tra i primi al mondo a riprendere le relazioni diplomatiche formali con la Somalia: nel 2012 inviò osservatori ed esperti per monitorare e sostenere, anche economicamente, le elezioni presidenziali e nel gennaio 2015 Mahmoud e Erdoğan inaugurarono una serie di nuovi progetti realizzati dai turchi a Mogadiscio. «La Turchia è stata impavida nel suo impegno a sostenere lo sviluppo in Somalia, non ha aspettato le condizioni giuste per investire e i suoi investimenti hanno contribuito a creare le giuste condizioni per la stabilità e la crescita», disse per l’occasione il Presidente somalo. Nel corso di quella visita fu inaugurato il terminal aeroportuale Aden Adde a Mogadiscio che, ancora oggi, è l’unico luogo di tutta la Repubblica federale in cui è garantita la sicurezza agli stranieri. Il primo Somalia-Italia Business Forum del dicembre 2019 si è tenuto proprio nel terminal aeroportuale, che è anche la base delle Nazioni Unite nel paese. Base dalla quale ai funzionari Onu è caldamente sconsigliato di uscire.

Campo Turksom

Tornando alle relazioni tra Somalia e Turchia, il 30 settembre 2017 il primo ministro turco Hassan Ali Khaire e il capo di stato maggiore delle forze armate turche Hulusi Akar inauguravano a Mogadiscio il nido dell’aquila africana della Repubblica di Turchia, il vero cuore pulsante degli interessi turchi in Africa orientale. Si chiama Campo Turksom, copre uno spazio di circa 4 chilometri quadrati, è costata oltre 50 milioni di dollari e per costruirlo sono stati necessari quasi due anni ma la sua storia comincia almeno 11 anni fa, il 17 aprile 2009.

Quel giorno, ad Ankara, Turchia e Somalia siglarono un accordo di cooperazione tecnica, perfezionato poi negli anni, per la formazione, la cooperazione tecnico-scientifica e l’addestramento militare dell’esercito somalo. Il giorno dell’inaugurazione lo stato maggiore della Difesa turco annunciò che al Campo Turksom sarebbero stati addestrati 10000 nuovi militari somali al ritmo di 1500 alla volta. All’interno del Campo vengono addestrati dai turchi gli ufficiali (un addestramento lungo 2 anni) e i sottoufficiali (1 anno) di tutti i rami delle Forze Armate della Somalia: un campus universitario con decine di aule, una sala conferenze da 400 posti, un campo di addestramento, un tribunale militare, laboratori linguistici, sale di simulazione per l’addestramento marittimo ma anche campi di calcio e di basket, Campo Turksom è un compound militare di eccellenza tra i più prestigiosi di tutta l’Africa orientale. Qui vivono stabilmente circa 200 militari turchi e, al 5 marzo 2020, due mesi prima della liberazione della cooperante Silvia Romano, erano 411 i somali diplomatisi al Campo Turksom. Gli avieri somali, per effetto dell’embargo la Somalia non può ricevere aerei da combattimento e velivoli militari di alcun tipo, vengono invece addestrati direttamente in Turchia.

I diplomati, tutti appartenenti al I Battaglione di fanteria dell’esercito della Repubblica di Somalia, sono identificabili da un berretto color blu cielo, proprio come quello dei militari delle Nazioni Unite, recante lo stemma del Campo Turksom e non quello delle Forze armate somale. In questo senso la base turca a Mogadiscio è una proiezione dell’espansione geopolitica di Ankara in Africa orientale, uno dei simboli più prestigiosi utilizzati dalla Turchia per mostrare il proprio potere e la propria espansione economica e politica nell’area.Oggi a Mogadiscio sono due i luoghi considerabili veramente sicuri: l’aeroporto Aden Adde, costruito dagli italiani nel 1926 e dove la sicurezza è garantita agli stranieri in visita nel paese, e il Campo Turksom, dove i non-militari difficilmente hanno accesso. Sin dalla sua apertura, la base turca ha operato in collaborazione con Amisom, la missione dell’Unione Africana in Somalia, ma contrariamente a quest’ultima, che a ogni estensione di mandato veniva ridimensionata, ha intensificato il personale e aumentato i finanziamenti anno dopo anno. La forza di Campo Turksom, in questo caso, è nell’Islam: Amisom infatti, nel corso degli anni, è stata presa di mira dal gruppo islamista al-Shabaab perché la maggior parte del suo personale era composto da non-musulmani (è stato lo stesso gruppo al-Shabaab, nei comunicati di rivendicazione degli attacchi, a spiegarlo) e la Turchia ha offerto un’alternativa più che valida a questa situazione di conflitto. In tal senso il Campo, e l’attività a esso connessa, ha permesso molte volte alla Turchia di rivendicare un ruolo chiave nel garantire la sicurezza in Somalia, non solo dal punto di vista della formazione militare ma anche della capacità di risoluzione delle tensioni e dei conflitti interni al paese. L’Agenzia per la cooperazione turca (Tika) e la Mezzaluna Rossa turca hanno sede nel Campo e forniscono assistenza per lo sviluppo e la sanità alla Somalia e nel 2011 queste sono state tra le principali organizzazioni al mondo a contribuire ad alleviare le sofferenze della popolazione per la carestia che la colpì nel 2011. Quell’anno la Turchia contribuì con 201 milioni di dollari di aiuti umanitari e la costruzione di infrastrutture e ospedali in territorio somalo, consolidando la propria posizione privilegiata nel dialogo con il governo di Mogadiscio.

Le strategie e il neo-ottomanesimo

La scelta turca di stabilire una presenza militare massiccia in Somalia, sia dal punto di vista operativo che infrastrutturale, poggia le sue basi su diverse ragioni pratiche: economicità, perché ospitare in Turchia gli aspiranti ufficiali e sottoufficiali somali in addestramento è oltremodo costoso; geopolitica, perché in questo modo la Turchia stabilisce un primato tra i paesi Nato nel Corno d’Africa costringendo tutti gli altri a rivolgersi ad Ankara per la risoluzione delle più disparate problematiche – come nel caso della liberazione della cooperante Silvia Romano –; commerciali, perché in questo modo la Turchia ha il pieno controllo delle attività antipirateria nel Golfo di Aden; ed economiche, perché sostenere lo sviluppo in quell’area significa necessariamente sostenere e garantire la sicurezza di chi fa impresa; e strategiche. Nello scacchiere mediorientale la presenza militare turca in Somalia rappresenta un pericolo per gli Emirati arabi uniti e l’Arabia saudita e una garanzia per l’asse Turchia-Qatar: sono molti gli esperti che sottolineano la strategia del “neo-ottomanesimo” di Erdoğan nel Corno d’Africa.

Una scelta che tuttavia implica degli sforzi notevoli nel contrasto all’organizzazione terroristica al-Shabaab, che più volte nel corso degli anni ha attaccato obiettivi turchi allo scopo di minacciare le relazioni istituzionali turco-somale e contrastare gli sforzi in materia di ristrutturazione economica, cooperazione allo sviluppo, programmi di aiuti e investimenti privati, oltre che di minare il sostegno turco al rafforzamento delle istituzioni somale e del sistema politico locale.

La visione strategica della Turchia, che punta entro il 2023 ad aprire nuovi mercati in Asia e Africa, si lega a doppio filo con la politica neo-ottomana che il partito Akp del Presidente Erdoğan promuove sin dalla sua fondazione, nel 2001. In questo senso la politica estera punta al rafforzamento dell’influenza turca sui paesi islamici, in Medio Oriente e in tutto il mondo, e l’impegno militare nel Corno d’Africa è uno dei cardini di questa strategia. Dalla salita di Erdoğan al potere la Turchia ha più che triplicato il numero delle proprie ambasciate in tutto il continente africano (12 prima del 2003, 42 a fine 2019), installando infine il suo fiore all’occhiello in Somalia, una delle realtà africane più problematiche ma geograficamente strategiche. Il complesso diplomatico turco da 80.000 metri quadri a Mogadiscio è tra i più imponenti al mondo. Da un lato c’è l’intenzione di mettersi in mostra di fronte a tutto il continente africano e, dall’altro, di curare i propri interessi da una posizione privilegiata: l’egemonia sullo stretto di Bab-el-Mandeb, che divide il Mar Rosso dal Golfo di Aden e dal Mar Arabico, che è una delle principali e più problematiche rotte commerciali al mondo attraverso la quale la Turchia commercializza i propri prodotti più prestigiosi, quelli del comparto difesa, l’accesso alle risorse e alle materie prime di cui la Somalia è ricchissima e la scalata al potere nella regione mediorientale sono i tre cardini della politica estera di Ankara nella regione.

In questa strategia c’è, gioco-forza, anche l’aspetto umanitario. La Somalia è il paese che riceve più aiuti umanitari in assoluto dalla Turchia e questo, in un territorio abbandonato da tutti per quasi un trentennio, costringe il mondo intero a fare i conti con l’azione di Erdoğan nell’area. La Turchia agisce in modo massiccio, ed efficace, laddove tutti hanno fallito e questo non può non essere tenuto in grande considerazione nello scacchiere internazionale e nei rapporti geopolitici tra le nazioni della Nato.

Corno d'Africa

La cooperazione

In seguito agli investimenti governativi turchi volti a rinnovare l’aeroporto Aden Adde di Mogadiscio, Turkish Airlines è stata la prima compagnia aerea commerciale internazionale a riprendere regolarmente i voli da e per la Somalia. In meno di 10 anni l’aeroporto somalo ha aumentato la propria capacità da 15 a 60 aeromobili e grazie alla compagnia turca Kozuva realizzato il nuovo terminal.

Nel 2015 a Mogadiscio è stato inaugurato il Digfer Hospital, ribattezzato Erdoğan Hospital e realizzato dalla Tika: oltre 200 posti letto (14 in terapia intensiva), 13000 metri quadri e un budget operativo da 135 milioni di dollari coperti al 60 per cento dal governo di Ankara. Oggi i due governi discutono su come riformulare l’intera urbanistica della capitale somala e, nel gennaio 2020, la Somalia ha invitato la Turchia a esplorare i propri mari alla ricerca di petrolio. Il porto di Mogadiscio, dal 2013, è gestito completamente dalla società turca Al-Bayrak, che ha investito oltre 100 milioni di dollari per il suo ammodernamento. All’interno del porto opera un’altra azienda turca, la Pgm Inspection, che si occupa di gestire il sistema di controllo qualità delle merci importate ed esportate da e per la Somalia.

Nel 2015 inoltre l’accordo tra la televisione nazionale somala e la radio nazionale turca ha permesso di aumentare e alimentare il palinsesto televisivo e radiofonico somalo, contribuendo alla diffusione massiccia in Somalia della visione turca del mondo.

Sono tutti tasselli che fanno parte di una strategia ampia e ragionata: una strategia che fa del primato turco in Somalia uno dei punti di forza essenziali. La forza turca in Somalia è emersa agli occhi italiani, che pure con il paese africano hanno ottimi rapporti, quando la stampa italiana ha pubblicato la foto della sorridente Silvia Romano mentre indossa un giubbotto antiproiettile con il logo dei servizi segreti turchi. Laddove non arriva nessuno da decenni la Turchia può muoversi agevolmente e senza problemi.

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L’attivismo di Erdoğan concepito al Cremlino https://ogzero.org/lattivismo-di-erdogan-concepito-al-cremlino-2/ Tue, 07 Jul 2020 16:04:29 +0000 http://ogzero.org/?p=781 Le strategie parallele russo-turche per l'indipendenza ottomana dagli Usa porta alle intese di Astana per spartirsi energia e controllo sullo scacchiere mediterraneo

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Dieci anni di strategie parallele per il distacco ottomano dagli Usa

L’attuale tavolo da gioco

Sin dall’inizio della guerra in Siria, la posizione di Ankara è stata sempre a favore della caduta del regime Ba’th. Nel frattempo le relazioni tra Turchia e Russia, nonostante alcuni periodi difficili, si sono allacciate sempre più. Questo fatto ovviamente crea stupore dato che in Siria, dal 2014, Putin è apertamente schierato in forze accanto al presidente Assad per salvarlo e sembra che l’appoggio di Mosca abbia cambiato le sorti della guerra a favore di Damasco.

Le cose sono diventate ancora più complicate con l’intervento della Turchia nella guerra libica. Nel 2019, Ankara ha deciso di sostenere economicamente, militarmente e politicamente Fayez al-Sarraj, presidente riconosciuto dall’Onu, contro il generale Haftar, uomo appoggiato da Mosca che vorrebbe ottenere il controllo assoluto del paese. Dunque anche in Libia queste due forze si trovano a portare avanti due strategie diverse con un forte rischio di scontrarsi.

Tuttavia, fuori dai territori libici e siriani la collaborazione turco-russa vive una fase senza precedenti. La domanda che sorge è semplice: “Com’è possibile un quadro del genere?”. Le risposte sono molteplici e non del tutto definitive. Scelte economiche, strategie di alleanza per mantenere il potere e nascondere la corruzione. Cerchiamo di mettere sul tavolo tutto questo per provare a capirci qualcosa.

Il germe del flirt

Senz’altro la caduta del comunismo e l’introduzione del libero mercato ha fatto sì che la Turchia s’introducesse sempre di più nell’economia della Russia. Negli anni Novanta i rapporti commerciali crescevano notevolmente, tuttavia la svolta storica è avvenuta nel 2010 quando questi due paesi hanno costituito il Consiglio di Collaborazione ad Alto Livello (Udik).

La Centrale nucleare di Akkuyu, ancora in fase di costruzione, è stata finanziata dall’investitore russo Rosatom; l’ex banca statale Denizbank è stata venduta alla russa Sberbank; più del 50 per cento del fabbisogno nazionale della carta per i giornali è di fabbricazione russa e la Russia risulta tuttora il principale fornitore del fabbisogno energetico della Turchia. Questi sono soltanto alcuni punti eclatanti di un rapporto commerciale che oggi supera 25 miliardi di dollari statunitensi. Nella lista ovviamente non mancano vari prodotti agricoli, investimenti militari e un enorme mercato turistico.

Un breve attimo di crisi

Senz’altro questa spettacolare storia d’amore ha subito una momentanea rottura nel 2015; ossia cinque anni dopo l’inizio della crescita sproporzionata dei rapporti commerciali e un anno dopo che la Russia aveva deciso d’intervenire in Siria accanto a Damasco.

Il 24 novembre 2015 un Su-24M russo è stato abbattuto alle 9,24, da due F-16 delle Forze Armate Turche, mentre stava ritornando alla base aerea di Khmeimim, vicino Laodicea. Secondo la versione turca, l’aereo russo stava per compiere un bombardamento contro i ribelli Siriano-Turkmeni. Al momento dell’abbattimento, i due membri dell’equipaggio dell’aereo sono riusciti a eiettarsi con successo, ma il pilota è stato catturato dai gruppi armati in Siria e il suo corpo è stato mostrato in un video diffuso su internet. Il vicecomandante della Brigata Turcomanna, identificato come Alparslan Çelik (figlio dell’ex sindaco di Keban, del Partito del movimento nazionalista), ha dichiarato di aver ucciso i due membri dell’equipaggio del Su-24 mentre scendevano col paracadute.

I rapporti sono rimasti congelati per quasi nove mesi, fino a quando Ankara non ha presentato le scuse ufficiali. Oltre allo scambio commerciale interrotto, si sono registrati alcuni episodi anche significativi che hanno aumentato il livello dello stress. Il trattenimento di una decina d’imprenditori turchi in diversi centri d’identificazione ed espulsione e la confisca dei beni di diversi imprenditori legalmente residenti in Russia da più di 20 anni sono state le inevitabilmente decise ritorsioni.

Mosca ha chiamato in causa anche il coinvolgimento della Turchia in Siria per pareggiare i conti con la ricostruzione turca dell’abbattimento dell’aereo. Anatoly Antonov, il viceministro della Difesa nazionale, il 5 dicembre, a Mosca, in una conferenza stampa, utilizzando diverse immagini satellitari, ha comunicato al mondo che la famiglia del presidente della Repubblica di Turchia comprava petrolio direttamente dall’Isis in Siria.

Circa nove mesi dopo, giugno 2016, Ankara, tramite una lettera scritta dal presidente, ha chiesto ufficialmente scusa alla famiglia del pilota russo ucciso. Anche se questa versione non è stata riportata esattamente in questa maniera dai media turchi, in un comunicato ufficiale il Cremlino ha confermato le scuse di Erdoğan.

Un golpe spifferato dai russi?

Un mese dopo l’inizio della normalizzazione dei rapporti con la Russia, il 15 luglio del 2016, la Turchia ha vissuto un tentativo di colpo di stato. Questo gesto folle e violento è stato respinto con la determinazione delle forze armate e della popolazione civile. Restano tuttora numerosi punti oscuri dietro questo strano colpo di stato. Tuttavia ci sono due punti che collegano il golpe al nostro filo.

  1. Innanzitutto secondo Ankara, il tentativo è l’opera dell’ex alleato di Erdoğan, in esilio negli Stati Uniti da più di 20 anni: Fethullah Gülen. Accusato di essere uno dei membri di Gladio è stato definito il principale responsabile del fallito golpe. Il fatto che sia un grande e storico ammiratore della Nato, sia in esilio negli Usa e le amministrazioni statunitensi non abbiano deciso di rimpatriarlo e consegnarlo ad Ankara (nonostante le numerose richieste) fa sì che Erdoğan possa accusare gli Usa di essere «il mentore principale del golpe». Non solo Erdoğan ma la maggiora parte del suo partito e una buona parte del paese pensa tuttora così. Questo è ovviamente un elemento che raffredda i rapporti tra Washington e Ankara, due alleati storici nella Nato.
  2. Il secondo punto legato al golpe è il fatto che siano stati i servizi segreti russi presenti in Turchia a informare Ankara dell’avvento del golpe. Secondo Aleksandr Dugin, consulente di Sergey Naryshkin, capo dei servizi d’intelligence internazionale russi, il 14 luglio del 2016, Ankara è stata informata della preparazione del golpe proprio da lui stesso. Nell’intervista rilasciata all’“Independent” redazione in lingua turca, Dugin sostiene che sia stata la Cia a organizzare il fallito golpe con l’obiettivo di distruggere i rapporti tra Mosca e Ankara, «esattamente come fu fatto nel caso dell’abbattimento dell’aereo».

La versione è stata successivamente sposata in parte anche da Erdoğan. In un’intervista rilasciata ad Al Jazeera, il presidente della Repubblica sosteneva che i piloti turchi che hanno colpito l’aereo russo, erano uomini di Gülen, l’ex predicatore e, secondo Ankara, il responsabile del fallito golpe.

Questo momento storico ha dato slancio al cambiamento delle relazioni tra Ankara-Washington e Mosca.

L’ultima goccia

Mentre le scelte politiche e militari dell’amministrazione statunitense in Siria non venivano apprezzate da Ankara i rapporti con Mosca si complicavano ancora di più. Una Turchia che aveva appena respinto un tentativo di colpo di stato e viveva sotto lo stato d’emergenza assistette in diretta tv all’assassinio dell’ambasciatore russo. Andrej Karlov è stato ucciso il 19 dicembre 2016 mentre presenziava a una mostra d’arte in Turchia, a seguito di colpi d’arma da fuoco sparatigli a breve distanza da Mevlüt Mert Altıntaş, un giovane poliziotto locale.

Altinas ha gridato per circa un minuto dopo aver ucciso l’ambasciatore, elogiando la guerra santa e sottolineando che «coloro che creano sofferenze in Siria saranno sempre puniti». Le sue parole, pronunciate anche in arabo, sono state associate ad alcuni comunicati dell’organizzazione terroristica Al Nusra. Il fatto successivamente è stato smentito ma era chiaro che Altintas avesse deciso di uccidere un diplomatico russo per la difesa della guerra religiosa portata avanti da diversi gruppi armati in Siria, anche contro il governo di Damasco. Dall’inizio della guerra sul territorio siriano operano numerosi gruppi jihadisti che come obiettivo hanno la destituzione di Assad. Ricordiamoci che Mosca si trova, dal 2014, in Siria per salvare Damasco.

Successivamente, nel 2018, il procuratore Adem Akinci ha deciso di emettere il mandato di cattura contro 8 persone ipoteticamente coinvolte nell’assassinio dell’ambasciatore russo. La cosa curiosa è il fatto che secondo Akinci l’attentato sia stato realizzato con il mandato di Gülen, l’ex alleato del governo, accusato di aver messo in atto il fallito golpe del 2016. Per quanto le accuse siano state smentite dallo stesso Gülen, la politica, i media e la magistratura hanno operato in modo che in Turchia la versione di Akinci sia quella accreditata.

La tensione con gli Usa spinge Ankara verso Mosca

Operazioni anticorruzione

Il 2013 si conclude in Turchia con una grande operazione anticorruzione. Fotografie, video, registrazioni audio e numerosi schemi riempiono le pagine dei giornali e le inquadrature dei canali televisivi. In poche parole il governo, numerosi imprenditori e vari governatori locali sono stati accusati di aver ideato e creato un sistema per aggirare l’embargo statunitense in atto contro l’Iran e nel fare questo sembra che le persone coinvolte abbiano riciclato un notevole volume di denaro di provenienza sconosciuta.

Tra le persone coinvolte si vede anche il nome del figlio del presidente della Repubblica e nelle registrazioni audio diffuse su internet si sente la voce di Erdoğan che ordina a suo figlio Bilal di far scomparire i contanti presenti a casa. Bilal Erdoğan è nella lista dei ricercati ma non sarà mai catturato. Ankara reagisce a tutto questo con le dimissioni di 4 ministri e con un’ondata di arresti contro i giudici, procuratori e poliziotti che hanno fatto parte dell’operazione. In pochi giorni Erdoğan definirà tutto questo come un «tentativo di colpo di stato ideato da Gülen».

Il 19 marzo 2016, negli Usa, il numero uno di questo scandalo, l’imprenditore turco-iraniano Reza Sarraf viene arrestato. Durante i lunghi interrogatori, il 30 novembre 2017 Sarraf pronuncia queste parole in aula: «A dare l’ordine è stato Recep Tayyip Erdoğan» e illustra perfettamente tutto il giro di riciclaggio di denaro. Quindi Ankara diventa decisamente ricattabile da Washington. Il 23 marzo del 2017 viene arrestato e condannato anche Hakan Atilla, l’ex vicepresidente della banca statale Halkbank, con l’accusa di aver messo a disposizione la sua banca per questi lavori di riciclaggio denaro e corruzione.

Posizioni diverse in Siria

Il gelo tra i vecchi alleati avviene su diversi fronti. Tra questi ovviamente c’è anche l’enorme differenza nella presa di posizione in Siria.

La scelta dell’ex presidente statunitense, Barack Obama, di armare le unità di difesa popolare Ypg/Ypj nella lotta contro l’Isis, è uno dei punti più importanti. Le Ypg/Ypj sono state sempre definite come un’organizzazione terroristica da Ankara per via della loro vicinanza politica al Partito dei lavoratori del Kurdistan( Pkk), l’organizzazione armata definita “terroristica” dalla Turchia. Senz’altro non possiamo escludere il fatto che il profilo economico e politico del Confederalismo Democratico, progetto rivoluzionario lanciato in Rojava, sia in contraddizione con il disegno politico ed economico fondamentalista, saccheggiatore e nazionalista che governa la Turchia. Inoltre, in numerosi incontri, Washington ha sempre respinto le richieste di Ankara per creare una No fly zone nel Nord della Siria.

Di fronte a queste differenze Erdoğan continua a rifiutarsi di interloquire: né con le Ypg/Ypj né con le Forze Democratiche Siriane (Sf). Secondo Ankara la lotta contro l’Isis è uguale con la lotta contro le Ypg/Ypj. Quindi la sua preferenza è quella di entrare di persona sul territorio siriano e ripristinare la situazione a modo suo.

Non possiamo nascondere anche le dinamiche legate alla politica interna. La questione Pkk-Ypg/Ypj è storicamente irrisolta in Turchia. Il problema della negazione dei diritti delle persone curde negli anni Settanta ha portato una parte del movimento curdo ad abbracciare le armi e nessun governo in Turchia ha voluto veramente dialogare con il Pkk e aprire una strada per la pace. Nonostante due anni di cessate il fuoco, Erdoğan ha notato, nel 2015, a causa dell’esito delle elezioni politiche, che la pace non portava voti. Dopo 15 anni di governo a partito unico, aveva perso la possibilità di comporre il governo da solo e aveva visto entrare in parlamento 80 deputati appartenenti al Partito democratico dei popoli, progetto politico proposto da Abdullah Öcalan, leader storico del Pkk. Erdoğan ora vedeva vacillare il suo potere come l’esito di «un passo avanti fatto per la pace». Quindi quel breve dialogo con il Pkk è stato archiviato e il conflitto è ripreso. In pochi giorni la Turchia è diventata di nuovo, come negli anni Novanta, il campo di battaglia.

Ora Ankara non si trovava assolutamente sulla stessa lunghezza d’onda con gli Usa in Siria. Quindi se voleva mantenere voce in capitolo in Siria e mandare avanti i suoi piani ultranazionalisti con l’obiettivo di mantenere il suo potere, doveva assolutamente trattare con Mosca.

Rapporti stretti con la Russia per motivi economici

Turkish Stream e centrale nucleare Akkuyu

Ovviamente l’ombelico di Ankara si lega alla mamma Russia anche per motivi economici. Mosca non è solo un rifugio politico, oppure un elemento di ricatto contro gli Usa, ma è anche una copiosa fonte di denaro.

Il piano di un gasdotto gigantesco è stato proposto nel 2014 dal presidente russo, Vladimir Putin, durante una sua visita in Turchia. Nel 2016 è stato firmato l’accordo e nel mese di gennaio del 2020 sono state aperte le valvole per pompare il gas. Ankara si aspetta di ottenere, all’anno, 15,75 miliardi di metri cubi di gas, con il diritto alla rivendita. È un progetto simile a quello inaugurato nel 2003 con la presenza di Silvio Berlusconi in Turchia: Blue Stream, il grande progetto di gasdotto in cui è coinvolto non solo il russo Gazprom ma anche l’italiana Eni. La Turchia, grazie all’accordo firmato, è obbligata a comprare il gas da Mosca fino al 2023.

Un altro progetto massiccio russo sul territorio della Turchia è quello della centrale nucleare Akkuyu. I lavori di costruzione sono partiti nel 2018 e la conclusione è prevista per il 2023 per un costo di 20 miliardi di dollari.

Queste due, e non solo, grandi opere ovviamente legano anche dal punto di vista economico Ankara a Mosca.

Inizia Astana Process

La Siria derivante dagli accordi

Questi numerosi cambiamenti storici, spesso sviluppati attorno alla guerra siriana, hanno fatto sì che la Turchia si allontanasse dal suo storico alleato e si avvicinasse a Mosca.

Il 23 gennaio del 2017 nella città di Astana avviene il primo incontro per la pace in Siria tra Ankara, Mosca e Tehran. Con questo primo passo è ormai chiaro che per Erdoğan gli interlocutori sono queste due forze importanti, presenti sul territorio siriano con forze ingenti e l’obiettivo di salvare il governo di Assad. Tuttavia era sempre lo stesso Erdoğan che ormai risultava essere l’unico leader nel mondo che voleva la fine del regime Ba’th.

Mentre negli incontri nella capitale kazaka si parlava dei modi per stabilire la pace in Siria, le Forze Armate della Repubblica di Turchia intervenivano sul territorio settentrionale del paese. Pochi giorni dopo il fallito golpe del 2016 Ankara avviò la sua prima operazione. Fino al 2020 la Turchia è entrata, in modo massiccio, nel Nord della Siria per ben tre volte. L’obiettivo ufficiale era quello di proseguire la lotta contro l’Isis ma anche quello di «mantenere sicuro il confine contro la minaccia delle Ypg/Ypj». In numerose occasioni Erdoğan ha specificato che non avrebbe permesso assolutamente la nascita di una zona autonoma in queste zone controllata dalle forze di unità popolari.

Ovviamente non possiamo ignorare anche le ripetute dichiarazioni di Ankara volte a chiedere in modo insistente la fine del regime di Assad.

Gli incontri di Astana sono un percorso molto complicato composto finora (10 luglio 2020) da 13 incontri. Ankara al tavolo si trova in accordo con queste due forze che sostengono Damasco, mentre sul campo persegue il suo piano quasi in totale tranquillità, molto probabilmente con il permesso di Tehran e Mosca. Infatti nel Nord della Siria, i lavori di monitoraggio e sorveglianza vengono svolti con l’assistenza dell’esercito russo.

Tenendo in considerazione tutto l’andamento storico è evidente che Mosca e Ankara abbiano un rapporto di reciproco sfruttamento e dipendenza. Soprattutto con l’acquisto del sistema d’arma antiaereo russo S400 da parte di Ankara ha fatto sì che la sua dipendenza militare, economica e politica dalla Russia diventasse molto palese. Dunque anche in Siria questi due paesi mettono in atto una collaborazione perversa e strana ma in qualche maniera “funzionante”.

Spostiamoci in Libia, passando da Sochi

(podcast di un intervento di Murat Cinar del 20 febbraio 2020 nella mattinata informativa di Radio Blackout)

Il 22 ottobre del 2019 Erdogan e Putin si incontravano nella città di Sochi, sul Mar Nero, per firmare un accordo di pace in Siria. Quest’incontro avveniva 13 giorni dopo l’inizio dell’intervento militare “Sorgente di Pace” avviato da Ankara in Siria. Dunque in quest’accordo Ankara otteneva una piccola zona “sicura e libera” e lo spostamento di circa 33000 militanti delle Sdf dalle zone sotto il suo controllo. L’area più interessante per Erdogan era la città d’Idlib, famosa per la sua alta concentrazione dei gruppi armati oppositori a Damasco.

Un mese dopo l’accordo di Sochi, il 27 novembre del 2019, Ankara decide di firmare un patto con il governo di Tripoli che le permetta d’intervenire nella guerra libica; militarmente, economicamente e politicamente. Ankara ovviamente appoggia il governo di Tripoli guidato da Al Sarraj e riconosciuto dall’ONU. Di fronte a questo politico accusato di essere l’espressione dei Fratelli Musulmani troviamo il generale Haftar sostenuto dalla Russia e non solo.

Dunque anche in questo caso Ankara, pur continuando a conservare il suo rapporto eccellente con Mosca, si trova a sostenere una linea contro il campione appoggiato dalla Russia. A questo punto, per trovare una soluzione ai punti interrogativi, sottolineiamo un’informazione fornita dall’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr). Nella relazione pubblicata dall’organizzazione, nel mese di giugno del 2020, si specifica che da Idlib in Libia sono arrivati più di 13000 miliziani jihadisti per combattere accanto al governo di Tripoli. Secondo alcune fonti i voli sarebbero partiti dalla città di Antep, in Turchia. Secondo il presidente del Forum Curdo Tedesco, Yunis Behram, il costo economico di questi combattenti viene sostenuto dalla Turchia grazie ai soldi ricevuti dall’Unione europea per creare un sistema di accoglienza dignitoso per i rifugiati siriani presenti nel paese. Secondo Behram un’altra fonte economica proviene dalla vendita del petrolio da parte del governo Al-Sarraj.

Dunque in Libia a prendere decisioni sul campo, dietro le quinte, e fare conti di ogni tipo tra di loro sono due paesi; Turchia e Russia. Apparentemente sembra che siano contrapposti in un quadro di conflitto, tuttavia tra la Siria e la Libia sono loro due a cambiare gli scenari e l’andamento della guerra soddisfacendo reciprocamente i propri bisogni e rispettando le precedenze.

Obiettivi economici

Oltre all’idea di sostenere un leader espressione dei Fratelli Musulmani e disfarsi dei miliziani jihadisti d’Idlib, essere presente in Libia per Ankara concerne ovviamente anche il fabbisogno nazionale di petrolio e di altre necessità economiche.

Stiamo parlando di un paese che compra più del 90 per cento del petrolio che consuma dall’estero. Dunque le fonti energetiche a basso costo sono estremamente importanti. Infatti Ankara cerca nuovi giacimenti petroliferi in Libia dal 2000 tramite le aziende Tpao e Noc. Queste ricerche hanno fatto scoprire sette nuovi giacimenti e per questi lavori la Turchia ha dovuto spendere circa 150 milioni di dollari statunitensi. Ovviamente in questa nuova fase Ankara ha la volontà di usufruire del petrolio con condizioni economiche agevolate grazie al suo sostegno per Tripoli che sta vincendo la guerra sul campo. Quest’obiettivo oltre a non essere smentito da Ankara è stato sempre messo in alto nella lista delle motivazioni che l’hanno spinta a entrare in guerra.

Ovviamente anche in altri ambiti commerciali si prospettano novità. Il 17 giugno 2020 una delegazione di alto livello è partita dalla Turchia per Tripoli portandosi dietro una serie d’imprenditori pronti a firmare nuovi accordi in Libia. Secondo Mithat Yenigun, presidente dell’Associazione degli imprenditori edili, presto le aziende turche inizieranno a costruire delle grandi opere in Libia per la ricostruzione del paese.

Un’altra novità interessante in termini economici invece arriva dalla Banca centrale della Libia che decide di depositare nelle casse della Banca centrale della Turchia, 8 miliardi di dollari in quattro anni.

Tutto questo ha ovviamente un senso molto importante tenendo in considerazione la forte crisi economica in cui si trova la Turchia da circa quattro anni. La disoccupazione cresce, l’inflazione è sempre in aumento, la Lira turca perde costantemente il suo valore e la crescita economica non è più così aggressiva come prima.

Conclusione

La guerra è un momento di caos e nebbia, spesso è difficile comprendere ciò che sta succedendo. Le guerre per procura senz’altro sono ancora più complesse. In Libia e Siria assistiamo a questo tipo di guerre. Due paesi devastati e saccheggiati da diverse forze straniere per diverse ma simili motivazioni. Dunque comprendere le basi e le caratteristiche delle alleanze, come anche le ostilità, non è semplice. In quest’ottica, senz’altro non è molto d’aiuto anche una cultura politica ed economica opportunista e basata sul reciproco sfruttamento.

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La Russia e il Medio Oriente https://ogzero.org/la-russia-e-il-medio-oriente/ Mon, 06 Jul 2020 10:56:02 +0000 http://ogzero.org/?p=427 Da zar a raiss. La tentazione di esagerare, quando si affronta il tema della politica mediorientale di Vladimir Putin, è forte. Il perché è ovvio. L’operazione militare in Siria è stata (quasi) un successo, la gestione degli equilibri di forza sul campo con Iran e Turchia un capolavoro di tattica, l’offensiva diplomatica nell’area – tra […]

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Da zar a raiss. La tentazione di esagerare, quando si affronta il tema della politica mediorientale di Vladimir Putin, è forte. Il perché è ovvio. L’operazione militare in Siria è stata (quasi) un successo, la gestione degli equilibri di forza sul campo con Iran e Turchia un capolavoro di tattica, l’offensiva diplomatica nell’area – tra contratti miliardari di armi e visite di stato “storiche” del presidente russo, come quella a Riad nell’ottobre del 2019 – il tratto del maestro. Se si aggiunge lo zampino di Washington con la sua volontà di disimpegno dall’Oriente Medio, iniziata da Barack Obama e proseguita da Donald Trump, ecco spiegato perché oggi si parla di Vladimir d’Arabia. In quella parte di mondo però il successo non è mai stabile, bensì mobile come le dune dei suoi deserti. L’esempio più fulgido, e attuale, è la “campagna” di Libia. Mosca, dopo la ritirata del maresciallo Haftar, pare in difficoltà. Ma non mollerà. Perché, paradossalmente, nella mente di Putin è Tripoli, e non Damasco, il vero obiettivo per vincere la ‘regata’ nel Mediterraneo.

La Libia, infatti, per Putin è l’omphalos delle crisi che hanno portato alla destabilizzazione della regione e il segnale tangibile – se ce ne fosse ancora bisogno – che dell’Occidente non ci si può fidare. Al Cremlino, nel 2011, era in sella Dmitry Medvedev e Putin, al contrario, si era adattato alle mansioni del primo ministro (che non prevedono la politica estera, saldamente nelle mani del presidente). Come ricorda Mikhail Zygar nel suo Tutti gli uomini del Presidente, «per Putin la decisione di Medvedev di non porre il veto all’ONU sulla risoluzione antilibica fu un’imperdonabile dimostrazione di debolezza». Così ruppe la comanda del silenzio e iniziò a criticare pubblicamente la Nato (e implicitamente le decisioni di Medvedev). «Se l’obiettivo era la no-fly zone perché i palazzi di Gheddafi vengono bombardati ogni giorno?», dichiarò in Tv. Per Putin Europa e Usa non solo avevano truffato Gheddafi – prima revocando il suo status di paria, ammettendolo nel circolo bene dei vari G8, e poi pugnalandolo alla schiena – ma anche Medvedev. E dunque la Russia.

Secondo Zygar la morte del dittatore libico per Putin fu un vero e proprio shock. Non solo. Fu l’evento che lo convinse a tornare al Cremlino, ordinando a Medvedev di farsi da parte. «Il mondo è un casino, rischieresti di perdere la Russia», disse Putin al suo incredulo delfino nel corso (appropriatamente) di una battuta di pesca nei pressi di Astrakhan. «Gheddafi non credeva di certo che avrebbe perso la Libia ma gli americani lo hanno fregato: io resto il candidato più forte». Così l’arrocco fu deciso e Putin s’incoronò zar per davvero (ora, grazie alla riforma della Costituzione, potrà governare indisturbato, se lo vuole, fino al 2036). C’è di più. La Libia non è cruciale nel Putin-pensiero solo per la detronizzazione di Gheddafi, ovvero per gli effetti della rivoluzione, ma soprattutto per le sue cause. Che secondo il Cremlino sono esogene.

Tutte le “rivoluzioni colorate”, infatti, per Mosca sono create dall’estero, in particolare dalla Cia, e la “Primavera araba” rientra in questo esercizio di sovvertimento dello status quo attraverso metodi “ibridi”, che fondono la manipolazione sapiente dell’opinione pubblica (grazie ai social media) alla buona vecchia forza bruta, quando serve. L’uso qui del termine “ibrido” non è un caso. Anzi. Perché la Libia è un caleidoscopio dove le nostre certezze sulla Russia si smontano per essere ricomposte subito dopo in altra foggia e colore. Se dunque fino a oggi avete pensato che il concetto di “guerra ibrida” fosse il prisma adatto con cui osservare e spiegare le mosse di Mosca, be’, è vero l’esatto contrario. La guerra ibrida, per la Russia, l’ha inventata l’Occidente e il suo principale poligono di tiro è stata propria la Libia. Altro che Ucraina.

Ecco, qui per non perdere la bussola sarà necessario aprire una rapida parentesi. La guerra ibrida russa, nei circoli occidentali, prende anche il nome di “dottrina Gerasimov”, in onore del capo dello stato maggiore dell’esercito, il generale Valery Gerasimov. Era il febbraio del 2013 e il periodico russo “Military-Industrial Courier” aveva dato alle stampe un discorso di Gerasimov in cui il generale parlava di come, nel mondo moderno, l’uso della propaganda e dei sotterfugi rendesse possibile a «uno stato perfettamente fiorente di trasformarsi, nel giro di mesi e persino di giorni, in un’arena di feroci conflitti armati, cadere vittima d’intervento straniero e sprofondare nel caos, nella catastrofe umanitaria e nella guerra civile». Ovvero la carta d’identità della Libia post-Gheddafi.

Nel “saggio” si afferma che «lo spazio informatico apre grandi possibilità asimmetriche per ridurre la capacità combattiva di un potenziale nemico: in Africa siamo stati testimoni dell’uso delle tecnologie per influenzare istituzioni e popolazioni con l’aiuto dei network informativi (i social, N.d.r.) ed è necessario perfezionare le attività della sfera digitale, compresa la difesa nei nostri stessi obiettivi». Insomma, a essere ibridi sono gli altri, è la Russia che si deve attrezzare, e il target finale è proprio Mosca, che si vorrebbe destabilizzare con una rivoluzione colorata ad hoc. L’intervento di Gerasimov, in sé passato inosservato, è stato però tradotto in inglese e rilanciato dal blog dell’analista Mark Galeotti. Che per amor di fama ha un po’ forzato la mano. «Un blog – racconterà poi nel 2018 in un articolo pubblicato da “Foreign Policy” – è un esercizio di vanità come tante altre cose: ovviamente volevo che la gente lo leggesse. Così, per avere un titolo scattante, ho coniato il termine “dottrina Gerasimov”, anche se già allora avevo notato nel testo che questo non si trattava altro che di “un contenitore” e non era certo “una dottrina”».

Bene. Se il desiderio era fare colpo, missione compiuta. Con lo scoppiare della crisi ucraina, e l’euro-Maidan di Kiev, altra operazione speciale dell’Occidente agli occhi del Cremlino, il titolo “scattante” di Galeotti tracima l’ambito degli addetti ai lavori e grazie ai media diventa di dominio comune. «All’annessione della Crimea, quando “gli omini verdi” – commandos senza mostrine – si impadronirono della penisola senza sparare un colpo, seguì la guerra del Donbass, combattuta inizialmente da una variegata schiera di teppisti locali, separatisti, avventurieri russi e forze speciali, accompagnati da una raffica di sapida propaganda russa: all’improvviso sembrò che Gerasimov avesse davvero descritto ciò che sarebbe venuto, se solo ce ne fossimo resi conto», riflette ancora Galeotti. Il che è curioso. Sembra una versione geopolitica del Batman di Tim Burton, in cui il Joker e l’eroe mascherato si accusano di essersi creati a vicenda.

La Russia e l’Occidente d’altra parte hanno una lunga tradizione di incomprensioni reciproche e Winston Churchill si spinse a definirla «un rebus all’interno di un enigma avvolto nel mistero». Il grande statista britannico, campione negli aforismi tanto quanto modesto coi pennelli, non si limitò però a lasciarci nella nebbia. Il segreto per decifrare il segreto russo era infatti seguire il filo d’Arianna «dell’interesse nazionale». E in effetti funziona. Oggi, se vogliamo, possiamo aggiornare Churchill usando il concetto di “sovranità” – termine senz’altro più à la page – e le nebbie inizieranno a diradarsi. In Siria la Russia è intervenuta per difendere i propri interessi nazionali e la sovranità del governo in carica (piaccia o no, Bashar al-Assad formalmente era il presidente legittimamente eletto), riaffermando al contempo un doppio principio: Mosca non abbandona i propri alleati ed è ora abbastanza forte per dimenticare le guerre di cortile (Cecenia 1 e 2, Georgia 2008) e tornare a proiettare la sua influenza sullo scacchiere internazionale, come ai tempi dell’Unione Sovietica. Tripoli è dunque la conclusione logica di questo processo. Per chiudere la partita là dove è iniziata. E ristabilire al contempo il proprio interesse nazionale – ovvero il rispetto dei contratti firmati al tempo di Gheddafi.

L’abbiamo presa un tantino larga, ma alla fine siamo arrivati al punto. La Libia, per la Russia, è anche una questione di soldi. Armi, infrastrutture, energia. Mosca aveva dei bei piani con l’autore del Libro Verde. Poi è stato il caos e il Cremlino non ha perso l’occasione per ritagliarsi un posto al tavolo libico. Ma l’equazione Mosca-Libia non è automatica. O perlomeno, non lo era. Nel corso della conferenza stampa di Serghei Lavrov, ministro degli Esteri russo nonché veterano della diplomazia globale, e del suo omologo italiano (al tempo Paolo Gentiloni, era il 2016), dopo un incontro nella capitale russa, Lavrov rispose in modo abbastanza piccato a chi, tra di noi, gli chiedeva se tra Russia e Italia potesse aprirsi un ponte sul dossier libico. In sintesi, Lavrov si lamentava del fatto che in Siria la Russia era vista dall’Occidente come una forza «destabilizzante» mentre in Libia era stato l’intervento della Nato a causare «la distruzione dello stato». «Mi pare curioso pensare che adesso sia compito della Russia trovare il modo per risolvere la crisi», disse Lavrov, legando di fatto i due teatri.

Ecco, quattro anni più tardi lo status quo è sotto gli occhi di tutti. In Libia operano i mercenari russi della Wagner (benché il Cremlino smentisca) e recentemente gli Usa hanno pubblicato delle immagini satellitari che proverebbero la presenza di jet russi moderni nell’est del paese. Insomma, un aiuto sostanziale a Haftar. Mosca, dal canto suo, ha smentito anche questa informazione, per bocca di Mikhail Bogdanov, fine arabista nonché inviato speciale di Putin in Medio Oriente e viceministro degli Esteri: aerei «vecchi», già presenti «da tempo», le solite «fake news». Al di là della querelle sull’aiutino russo, che peraltro viene confermato da chiunque si occupi con attenzione di Libia, la vera questione, persino più interessante, è se davvero Haftar si possa considerare un uomo di Putin. E la risposta è ni.

Dietro l’uomo forte della Cirenaica ci sono diversi interessi. L’Egitto, per esempio. Ma anche gli Emirati Arabi. Il passato di un uomo, parafrasando Fitzgerald, non passa davvero mai, fino in fondo. Se infatti è vero che Haftar, al termine degli anni Settanta, ha ricevuto l’addestramento militare nell’Unione Sovietica, completando una speciale laurea triennale per ufficiali stranieri presso l’Accademia militare M.V. Frunze, in seguito ha poi proseguito la sua formazione militare in Egitto. Senza contare che ha vissuto per 20 anni negli Usa, fino a diventare cittadino americano. Da eroi dei due mondi a voltagabbana il confine d’altra parte è spesso sottile. Quindi sì, Mosca ha una certa familiarità con il maresciallo ma, come ha recentemente sottolineato Jalel Harchaoui, ricercatore dell’Istituto Clingendael dell’Aia, «se dipendesse dai russi, Haftar oggi avrebbe molto meno potere».

L’amara verità è che la vera novità, in Libia come in altre parti del Medio Oriente, è l’inedito attivismo della Turchia. A cambiare le sorti della guerra civile è stato l’intervento di Erdoğan, su richiesta di Tripoli. Che poi è esattamente quanto accaduto in Siria, a parti invertite. Putin in tal senso ha fatto davvero scuola e forse il sultano che fu costretto a baciare la pantofola dello zar per archiviare il grande affronto del jet russo abbattuto dai turchi nei cieli siriani si è tolto un bel sassone dalla scarpa. Sia come sia, Ankara e Mosca hanno ormai alle spalle una lunga storia di collaborazione (per certi versi quasi un’intesa). Senz’altro in Siria, dove, con l’aggiunta dell’Iran, è nata la troika genitrice del format di Astana: piaccia o non piaccia, quella piattaforma ha portato a dei progressi sul piano negoziale, sebbene forse ormai del tutto vanificati dall’esuberanza turca nell’area di Idlib.

E proprio Idlib è stata al centro delle ultime divergenze tra Mosca e Ankara, sanate poi da un summit Putin-Erdoğan in cui si è salvato il salvabile, con un’intesa che ha sino adesso riportato la calma sul terreno. In quell’occasione i due leader hanno affermato che Russia e Turchia, quando la situazione lo richiede, sanno “sempre” giungere a un “accordo”. Non sempre alleati, insomma, ma nemici mai. Un rapporto certo non facile eppure di reciproca soddisfazione. Erdoğan ha acquistato i famigerati sistemi antimissilistici russi S-400 mandando su tutte le furie gli Usa, che da un alleato Nato si aspetterebbero ben altra fedeltà. Un punto a favore (sulla carta) per Putin. C’è poi il TurkStream. Che oltre a portare altro gas russo in Turchia ha dato la possibilità al Cremlino di resuscitare, di fatto, il South Stream, allacciando al tubo i Balcani e l’Est Europa meridionale (e un giorno forse anche l’Italia). Altro favore a Putin. Ma anche a se stessa. La Turchia, infatti, è diventata così un importante hub energetico (sempre sul suo territorio passa il gasdotto che unirà a breve l’Azerbaigian alla Puglia).

Ecco allora che la presenza turca, in Libia, potrebbe non essere così deleteria, per Putin: il punto di caduta, nel medio periodo, si troverebbe su una spartizione del territorio per zone d’influenza. Poi chi vivrà vedrà. Intanto finché l’Occidente non vince, il Cremlino non perde. C’è chi pensa infatti che sarebbe un errore credere che Mosca abbia un “gran piano” in mente per tutto il Medio Oriente e il Mediterraneo. Bruno Macaes, ex ministro portoghese per gli Affari europei e autore di fortunati libri sul ruolo dell’Eurasia (e dunque di Cina e Russia) nella geopolitica che verrà, non esclude che la Russia al momento si accontenti di «partecipare al gioco».

Il coronavirus ha poi scompigliato tutte le carte. Mosca avrà il suo daffare a tamponare la crisi, che sarà pesante dal punto di vista economico, e non è detto che per Putin rappresenti un giro di boa indolore, al netto della riforma costituzionale che dovrebbe (o se non altro potrebbe) garantirgli la poltrona al Cremlino fino al 2036. Il paradiso, per lo zar, può dunque attendere, in Medio Oriente o altrove. Il 2020-2021 sarà probabilmente l’anno in cui, più che giocare a Risiko, Putin si dedicherà a consolidare il fronte interno.

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Attivismo turco nel mondo arabo: una partita energetica e strategica https://ogzero.org/attivismo-turco-nel-mondo-arabo-una-partita-energetica-e-strategica/ Sun, 29 Mar 2020 14:58:35 +0000 http://ogzero.org/?p=40 All'arabizzazione forzata del Rojava negli intenti di Erdoğan, attivo anche in Libia, si contrappongono le affermazioni di Bashar al Assad, che lo giudica un invasore, forse pensando che il padre Hafiz aveva già operato un'arabizzazione della regione ai danni dei curdi; la spartizione della Siria con la fine del decennio si è completata, mentre due fazioni simili si contendono il potere in quella che era la Libia, di nuovo internazionalizzando la guerra per procura, con precisi appoggi dagli uni o dagli altri. La presenza russa condiziona e indirizza i protagonisti di entrambi i campi libici, come già in Siria.
L’accordo intercorso tra Erdoğan e Serraj per spartirsi il petrolio del Mediterraneo e le minime reazioni internazionali a questo abuso dimostrano la dipendenza di ogni nazione dalle risorse dei territori sottoposti a rivolgimenti geopoliticamente strategici, per cui ciascuno si mantiene libero di saltare sul giacimento del vincitore; solo la Grecia ha espulso l’ambasciatore turco, evidenziando la debolezza europea. Ma cosa si può immaginare in trasparenza dietro a questa situazione? in quale contesto dei due paesi si va a inserire?
Questo bel cortocircuito che coinvolge l’intero scacchiere mediorientale vede sempre in controluce il profilo di Putin, che spedisce truppe (il famigerato contingente paramilitare Wagner) e smuove alleanze contrapposte. Allargando il campo ai molti motivi di scontro, alleanze e affinità religiose (piegate a fare da foglia di fico per gli interessi geopolitici): se da un lato ci sono i Fratelli Musulmani, che Erdoğan appoggia dovunque, dall’altro lato c’è l’Egitto di Al-Sisi che con un golpe ha cacciato proprio il governo islamista eletto che sostiene un governo di Bengasi ufficialmente laico, ma finanziato dai wahaabiti sauditi, quanto Tripoli si avvale delle milizie jihadiste di Misurata. Così l’area mesopotamica torna ad apparentarsi con quella libica: gli strumenti, le strategie, gli interessi e i meccanismi messi in atto sono riconducibili a una medesima regia globale?

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Si è conclusa l’offensiva della Turchia nel Nord della Siria: le milizie curde sono state abbandonate dagli Usa di Trump che le aveva utilizzate come una fanteria contro il Califfato e il posto dei militari americani è stato preso dalla Russia e dall’estercito siriano di Bashar al-Assad mentre gli Stati Uniti uccidevano il capo dell’Isis al-Baghdadi al confine turco-siriano. Con il successivo incontro tra il presidente turco Erdoğan e quello americano Trump veniva sanzionato questo stato di cose, assai fluido e incerto, ma anche inviato un messaggio all’Europa e alla Nato che apparivano ai margini delle decisioni prese dagli Stati Uniti e dagli altri protagonisti della regione. 

La Turchia di Erdoğan nel mondo arabo ne ha indovinate poche in questi anni e forse anche per questo si aspettava, prima o poi, una rivincita, sia pure limitata alla repressione dei curdi. 

L’attenzione turca si sta da tempo concentrando anche sul Nordafrica e la Libia dove Arabia Saudita ed Emirati, insieme all’Egitto del generale al-Sisi, sostengono il capo della Cirenaica Khalifa Haftar. Mentre Ankara, con il Qatar e in parte l’Italia, appoggia il governo di Tripoli, la città di Misurata e la Fratellanza Musulmana. 

In realtà la Turchia ha già subito nel quadrante arabo disfatte da cui non è ancora uscita. La maggiore è stata in Siria dove Erdoğan, insieme alle monarchie del Golfo e con l’approvazione occidentale, ha appoggiato i gruppi jihadisti per far fuori Bashar al-Assad e il regime baathista di Damasco. L’altra è stata la caduta dei Fratelli Musulmani del presidente Mohammed Morsi a opera del colpo di stato di al-Sisi nel 2013, una ferita lacerante. Qui Arabia Saudita ed Emirati, diventati avversari dei Fratelli Musulmani dopo averli usati per decenni, hanno sostenuto e continuano a finanziare al-Sisi in una convergenza di interessi tra l’America di Trump, Riad e Abu Dhabi, determinati a eliminare l’islam politico ritenuto una minaccia alla stabilità delle monarchie assolute del Golfo. Questo asse è stato denominato “Nato araba”, dovrebbe coinvolgere l’Egitto e soprattutto ha come “guardiano” esterno Israele. 

Gli effetti di questo quadro di alleanze ha avuto riflessi sull’atteggiamento della Turchia nel mondo arabo ma anche nell’Egeo dove si gioca la partita del gas con la pipeline East-Med che secondo l’accordo 2017 firmato da Israele, Italia, Grecia e Cipro dovrebbe attraversare l’Egeo per sfruttare le risorse di gas di questi paesi ma anche dell’Egitto. Una partita energetica e strategica cui la Turchia è ipersensibile e attiva. 

La sconfitta in Siria è stata arginata dai rapporti con la Russia, con la quale Erdoğan era stato sull’orlo della guerra dopo l’abbattimento nel novembre 2015 di un caccia Sukhoi. Ma anche dalle relazioni più intense intrattenute con la Repubblica islamica dell’Iran che ha combattuto a fianco di Assad e in Iraq insieme alle milizie sciite e agli hezbollah libanesi. 

Un paradosso: per frenare l’ascesa delle milizie curde schierate contro l’Isis, ritenute da Ankara strette alleate del Pkk, la Turchia, membro storico della Nato dal 1953, ha dovuto scendere a patti, oltre che con gli Usa, con Putin e con gli ayatollah. Non è un caso che quando si è verificata la crisi tra le monarchie del Golfo e il Qatar nel 2017, scatenata proprio dal sostegno dei qatarini ai Fratelli Musulmani, con l’assedio economico e diplomatico guidato da sauditi, siano venuti in soccorso di Doha sia i turchi (che in Qatar hanno un consistente contingente militare) sia gli iraniani.

Ma da dove vengono i rapporti dell’attuale dirigenza turca con i Fratelli Musulmani? In realtà tra turchi e arabi c’è sempre stata una certa diffidenza. Il problema è insito nella doppia identità turca, radicata contemporaneamente in due mondi diversi, quello occidentale – ovvero il continente e la civiltà europea – e quello asiatico, di cui il patrimonio culturale islamico-arabo è parte inseparabile.

È dalla sua nascita come repubblica, nel 1923, che la Turchia vive il conflitto ideologico, culturale e politico che deriva da questa doppia origine: la Turchia di Erdoğan ha tentato di trasformarla in un asset per allargare la sua influenza politica ed economica al Medio Oriente.

Vediamo come si è arrivati al legame tra Turchia e Fratelli Musulmani e quali sono state le conseguenze. La fine dell’Impero Ottomano e la dissoluzione, dopo la Prima guerra mondiale, del Califfato da parte di Mustafa Kemal Atatürk aprono una crisi nel mondo musulmano: la prima risposta islamica è la creazione del 1928 in Egitto da parte di Hassan al-Banna dei Fratelli Musulmani. 

L’islam, dice al-Banna, è un ordine superiore e totalizzante che deve regnare incontrastato sulle società musulmane perché è al tempo stesso dogma e culto, patria e nazionalità, religione e stato, spiritualità e azione, Corano e spada.

L’obiettivo di al-Banna, del quale alla vigilia della caduta di Mubarak nel 2011 incontrai al Cairo Gamal, l’anzianissimo fratello minore, è imporre la supremazia della sharia, la legge islamica, con un processo di integrazione tra gli stati islamici che deve sfociare nell’abolizione delle frontiere e nella proclamazione del Califfato. Insomma l’Isis, che proclamò con al-Baghdadi il Califfato a Mosul nel 2014, non era poi così lontano dall’ideologia dei Fratelli Musulmani.

Le origini del rapporto della Turchia con i Fratelli Musulmani risalgono ancora agli anni Trenta e Quaranta e si svilupparono negli anni Settanta quando le organizzazioni islamiste vennero usate per contrastare l’ideologia comunista.

Il primo “Fratello” turco eminente è proprio Necmettin Erbakan – come confermò pubblicamente nel 1996 uno dei leader dei Fratelli Musulmani egiziani – capo del movimento nazionalista religioso Milli Gorus che poi diventerà primo ministro, mentore di Erdoğan, e che sarà sbalzato dal potere da un “golpe bianco” dei militari.

Ma c’è una storia che quasi nessuno racconta legata alla confraternita della Naqshbandyya, una tariqa molto antica, che vantava la sua origine dai discendenti di Maometto e fu in seguito associata al grande mistico del xiv secolo Muhammad Baha al-Din al Naqshbandi, da cui ha preso la denominazione.

I Naqshbandi, detti anche Naksibendi in Turchia, hanno avuto un ruolo chiave nelle sotterranee solidarietà della politica mediorientale. In Turchia la confraternita dei Naksibendi nel dopoguerra trova il suo rinnovatore nell’imam Mehmet Zahid Kotku. è lui a trasformare il sonnolento ordine della Naqshbandyya in una vera scuola socio-politica: sono stati seguaci di Kotku il presidente Turgut Özal, che fece diverse aperture ai Paesi arabi, il premier islamista Erbakan e lo stesso presidente Erdoğan, poi capo del partito musulmano Akp.

Izzat Ibrahim al-Douri, vice di Saddam Hussein, era anche lui un membro della confraternita Naksibendi e furono queste credenziali religiose a renderlo affidabile anche gli occhi del Califfato e del suo capo Abu Baqr al-Baghdadi che si vantava di essere membro di questa tariqa. Non stupisce quindi che i baathisti iracheni abbiano dato una mano importante all’ascesa dello Stato Islamico di al-Baghdadi nel Levante, come dimostrava il messaggio caloroso rivolto agli jihadisti con cui nel 2014 era riaffiorato alle cronache Izzat Ibrahim al-Douri dopo un decennio da imprendibile latitante tra Siria e Iraq.

Fu un altro Fratello Musulmano, Khaled Meshal, capo di Hamas e allora in esilio a Damasco (e poi in Qatar), a convincere nel 2011 il ministro degli Esteri turco Davutoğlu e lo stesso Erdoğan che la rivolta contro al-Assad avrebbe avuto successo.

Fu allora che si progettò di aprire l’“autostrada del jihad” dalla Turchia alla Siria che portò migliaia di jihadisti ad affluire nel Levante arabo con gli effetti devastanti che conosciamo.

Tutto questo lo hanno scritto i giornalisti turchi, lo hanno visto i cronisti che hanno seguito sul campo le battaglie siriane e lo racconta anche in un’intervista in carcere a “Homeland Security” l’“ambasciatore” del Califfato Abu Mansour al-Maghrabi, un ingegnere marocchino che arrivò in Siria del 2013: 

Il mio lavoro era ricevere i foreign fighters in Turchia e tenere d’occhio il confine turco-siriano. C’erano degli accordi tra l’intelligence della Turchia e l’Isis. Mi incontravo direttamente con il Mit, i servizi di sicurezza turchi e anche con rappresentanti delle forze armate. La maggior parte delle riunioni si svolgevano in posti di frontiera, altre volte a Gaziantep o ad Ankara. Ma i loro agenti stavano anche con noi, dentro al Califfato.

L’Isis, racconta Mansour, era nel Nord della Siria e Ankara puntava a controllare la frontiera con Siria e Iraq, da Kessab a Mosul: era funzionale ai piani anticurdi di Erdoğan e alla sua ambizione di inglobare Aleppo.

E quando il Califfato, dopo la caduta di Mosul, ha negoziato nel 2014 con Erdoğan il rilascio dei diplomatici turchi ha ottenuto in cambio la scarcerazione di 500 jihadisti per combattere nel Siraq. 

La Turchia proteggeva la nostra retrovia per 300 chilometri: avevamo una strada sempre aperta per far curare i feriti e avere rifornimenti di ogni tipo, mentre noi vendevamo la maggior parte del nostro petrolio in Turchia e in misura minore anche ad al-Assad. 

Mansour per il suo ruolo era asceso al titolo di emiro nelle gerarchie del Califfato e riceva i finanziamenti dal Qatar. 

Adesso in gran parte i reduci dello jihadismo, di al-Qaida e dell’Isis, che hanno avuto il sostegno della Turchia e di alcune monarchie del Golfo sono asserragliati a Idlib, nel Nord siriano, a poche decine di chilometri dal confine turco. La loro via di uscita è possibile con un accordo tra la Turchia e la Russia di Putin che ha appena fornito i suoi missili S-400 ad Ankara sfidando la Nato. 

E ora gli jihadisti sconfitti tornano ancora utili al presidente turco. Una ricomparsa dell’Isis in Siria sarebbe un grave colpo anche per Trump ma una nuova carta da giocare per Mosca, Assad e l’Iran. Ecco perché la guerra mondiale a pezzi della Siria non finisce mai e la Turchia ha un ruolo decisivo sulla pace e la guerra nella regione.

Postfazione di Alberto Negri a L’oro della Turchia, di Giovanna Loccatelli, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

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