elezioni Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/elezioni/ geopolitica etc Fri, 24 Sep 2021 07:56:59 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 La lenta decadenza dello zar tecnologico https://ogzero.org/la-lenta-decadenza-dello-zar-tecnologico/ Thu, 23 Sep 2021 18:05:30 +0000 https://ogzero.org/?p=4958 Malgrado è la congiunzione più usata in questo articolo che Yurii Colombo ha fortemente voluto, perché ha risvolti senz’altro sugli equilibri geopolitici, anche se non sono né evidenti ancora, né gli analisti internazionali che non vivono a Mosca hanno potuto annusare il cambiamento, una lenta decadenza dello zar. Stavolta è iniziato davvero il declino del […]

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Malgrado è la congiunzione più usata in questo articolo che Yurii Colombo ha fortemente voluto, perché ha risvolti senz’altro sugli equilibri geopolitici, anche se non sono né evidenti ancora, né gli analisti internazionali che non vivono a Mosca hanno potuto annusare il cambiamento, una lenta decadenza dello zar. Stavolta è iniziato davvero il declino del suo sistema, le elezioni ne hanno dato la stura e se si assisterà alla differenziazione economica indispensabile per evitare il tracollo, a un’emersione di una nuova leadership e a nuovi gruppi di potere nei gangli dello stato, molto probabilmente le scelte strategiche internazionali fissate dal ventennio putiniano vedranno una transizione verso strategie geopolitiche che ancora non si possono nemmeno ipotizzare, ma saranno molto diverse da quanto abbiamo conosciuto finora. Malgrado l’apparato abbia fatto di tutto per fissare lo status quo ante, non è bastato per stoppare l’avvio del declino e l’analisi delle urne è impietosa: lo scollamento della società civile, in particolare giovanile, dal sistema di potere. Malgrado ufficialmente l’apparato tecnologico sia riuscito a mantenere il consenso nelle mani di questa oligarchia, allestendo una nuova vittoria del putinismo a cui nessuno crede nella realtà fuori dalle urne digitali.


Cedimento strutturale: scricchiolii nel sistema di potere

Alla fine anche i media che si erano ostinatamente rifiutati di riconoscere che le elezioni per il rinnovo dei deputati della Duma di stato avrebbero potuto condurre a dei mutamenti profondi del quadro politico interno e quindi, inevitabilmente, visto il peso specifico della Russia nel Vecchio Continente, si sono dovuti arrendere: l’arretramento di Russia Unita è irrevocabile. Il partito padre-padrone dello stato russo da due decenni mostra chiari segni di cedimento strutturale mentre il profondo disagio della società russa profonda trova il modo di canalizzarsi, almeno per ora nel voto per il Partito Comunista. Si apre quindi una nuova inedita fase politica segnata dal lento ma inesorabile declino della stella di Putin, già iniziato in realtà da almeno tre anni.

I numeri che parlano del partito-regime ancora vicino al 50% dei suffragi e la maggioranza assoluta dei seggi non devono trarre in inganno. Se formalmente non cambia un granché nel nuovo emiciclo russo con Russia Unita che passa dai 343 deputati del parlamento precedente agli attuali 324 e i comunisti crescono da 42 a 57, il messaggio che arriva dalle urne è chiaro: soprattutto nelle grandi città i russi esigono un cambiamento del personale politico dirigente.

Propaganda drogata e brogli digitali non bastano più

Malgrado le frodi (una normalità per la Federazione), malgrado si sia allungata la possibilità di votare a ben tre giorni, malgrado si sia aggiunto il voto elettronico a quello tradizionale nelle scuole in cui i partiti di opposizione non hanno possibilità di realizzare alcun controllo, il meno 6% per Russia Unita è ben più che un campanello d’allarme: evidentemente l’oliata macchina della raccolta del consenso pilotato si è inceppata.

Non è bastata l’estrazione di premi (appartamenti, automobili, buoni-acquisto nei supermercati) finanziata dalle grandi imprese russe per chi avesse deciso di votare elettronicamente; non è bastato un assegno una-tantum a militari, poliziotti e pensionati di quasi 200 euro; non è bastata la giornata libera del venerdì per i lavoratori dei municipi, per dare l’impressione che tutto stesse andando come al solito, con una squillante vittoria putiniana. E non è bastato neppure mettere alla testa delle liste di Russia Unita candidati civetta – che mai si presenteranno in parlamento come i popolari ministri della Difesa (Sergey Shougu) e quello degli Esteri (Sergey Lavrov). I russi seppur compassati sufficientemente dal non credere che il voto sia sufficiente a far cambiare qualcosa, hanno voluto comunque evidenziare che il corso dell’attuale amministrazione a loro non piace.

Mosca - elezioni 2021, risultati variabili

La grafica riportata qui sopra mostra come sarebbero andate le cose nei collegi uninominali di Mosca (il 50% dei deputati vengono eletti così mentre il restante 50% su base proporzionale con lo sbarramento del 5%) se non fosse intervenuto l’“aiutino” del voto elettronico ad aggiustare il responso. A sinistra i risultati delle circoscrizioni prima dell’aggiunta dei voti elettronici (dove con il colore verde si indica dove il partito comunista avrebbe preso la maggioranza e in blu dove l’avrebbe preso Russia Unita) e a destra quello venuto fuori una volta aggiunti i voti elettronici. Nella quota proporzionale il trend della capitale è lo stesso: il partito di Putin al 36,7% e i comunisti al 22,7% mentre il complesso delle liste di opposizione si colloca intorno al 40% dei suffragi. In Siberia come nella Jacuzia, dove la crisi economica e il disfacimento sociale sono elementi caratterizzanti e persistenti e dove l’egemonia comunista era troppo evidente, i comunisti superano spesso agevolmente Russia Unita anche nei collegi uninominali.

Si è trattato delle elezioni più manipolate della storia russa come ha voluto sottolineare qualcuno? Difficile dirlo, ma la percezione è che nelle scorse tornate il fenomeno dei brogli più classici (la manomissione dell’urna da parte della commissione elettorale) era stato più accentuato. Il dato essenziale e più interessante è un altro: malgrado i brogli milioni di russi continuano comunque ad andare alle urne.

Il voto è intelligente, non nostalgico

Il partito comunista quindi è diventato come catalizzatore del disagio quando non della protesta. Come è possibile che un partito che ancora rivendica la continuità del “programma di Lenin e di Stalin” sia riuscito a invertire un declino che da 20 anni era sembrato a tutti inesorabile? Come è possibile che un partito che alle amministrative di Mosca superava a stento il 5%, sia diventato il vincitore (perlomeno morale) delle elezioni per la Duma? I motivi sono molteplici. In primo luogo il partito di Zyuganov, è stato quello che – con maggiore enfasi – si è opposto alla controriforma delle pensioni del 2018 che ha innalzato per la prima volta l’età pensionabile in Russia (gradualmente innalzata da 60 a 65 anni per gli uomini e da 55 a 63 per le donne). E in linea generale è stata la formazione politica che ha votato alla Duma contro tutte le misure antisociali promosse dal governo negli ultimi anni. Malgrado le timidezze (i comunisti avevano promesso che sulla previdenza avrebbero raccolto le firme per un referendum, ma alle parole poi non sono seguiti i fatti), malgrado troppe volte – soprattutto in politica estera – non si sia mai distinto strategicamente dal corso putiniano, si tratta comunque del partito che parla di quello che sta più a cuore a milioni di russi: ovvero della disastrosa distruzione del welfare iniziata da Eltsin e proseguita nei decenni turboliberisti di zar Putin.

A ciò si deve aggiungere la tattica del “voto intelligente” scelta da quel che rimane del gruppo dirigente del partito Navalny che non si trova ancora in prigione o in esilio. Schiacciata dalla repressione (in questi mesi sono proseguiti selettivamente arresti, fermi, condanne e chiusure di siti internet) quella vasta galassia di opposizione “liberal” (cioè giovanile e residente nelle grandi città che la stampa occidentale fa coincidere superficialmente tout-court con Navalny) nei social network ha iniziato il tam tam per il voto ai comunisti come unica arma per incalzare il Cremlino (una tattica a cui si è unita la rarefatta area della “sinistra alternativa”).

La lunga marcia verso il 2024

Era inevitabile che con il “paziente berlinese” in prigione (e lo resterà ancora per almeno due anni) il pallino del gioco di chi deve dirigere l’opposizione sarebbe spettato ad altri e così è stato. Ora toccherà ai comunisti decidere se mettersi in gioco e diventare un ampio polo di riferimento per chi vuole mettere fine a un regime in affanno, o ripetere alla Duma la tattica accorta dell’opposizione “costruttiva” delle scorse legislature. Nel primo caso non potrebbe essere un’operazione di maquillage, ma dovrebbe essere la trasformazione di un partito, percepito come poco più che una reliquia nostalgica dell’Unione Sovietica, in un organismo “moderno”, di impianto socialdemocratico come invocano soprattutto i suoi nuovi quadri emergenti che punti direttamente – nelle prossime elezioni presidenziali del 2024 – a contendere seriamente la presidenza a Putin. Sotto questo profilo gli impazienti dovranno rassegnarsi: la lotta dell’opposizione russa non è una gara di velocità ma piuttosto una maratona.

Nuove Persone, un embrione per nuovi oligarchi?

In questa tornata Putin ha riconfermato di avere un approccio “tecnologico” alla politica. I risultati delle elezioni erano stati “disegnati” in modo da garantire il controllo assoluto di Russia Unita sul parlamento ma con un’allusione al pluralismo. “C’è più scontento, ecco vedete, faccio avanzare un po’ i comunisti”. “Si vogliono più libertà? Ecco per voi il nuovo partito Nuove Persone”. Questa formazione, di ispirazione vagamente liberale, che riesce alla sua prima apparizione nell’agone politico a superare lo sbarramento del 5% e a entrare alla Duma, è la quintessenza di ciò che al Cremlino si immagina debba essere il “quadro politico nazionale”. Movimento fondato poco più di un anno fa, Nuove Persone dice di far riferimento alle teorie interdisciplinari del filosofo sovietico (dissidente) Georgy Shchedrovitsky, scomparso nel 1994. Dietro però ci sono corposi interessi che hanno permesso alla lista di spendere almeno 20 milioni di rubli nella campagna elettorale. In primo luogo il patrimonio del proprietario dell’azienda di cosmetica Faberlic Alexey Necaev ma anche secondo il portale sempre ben informato “The Bell”, di Yuri Kovalchuk, comproprietario di Rossiya Bank e ben piazzato ai vertici nella classifica dei più ricchi uomini del paese di “Forbes Russia. Un partito non putiniano ma non avverso al potere che ha raccolto il voto soprattutto nella fascia demografica che va dai 18 ai 30 anni.

Cedimento strutturale: scricchiolii nel sistema economico

Congiuntura economica: una differenziazione in ritardo

Del resto nella lettura della società del capo del Cremlino non c’è spazio per l’alternanza al potere e men che meno, per i movimenti e le aspirazioni delle classi sociali: queste possono essere sempre manipolate e incanalate grazie proprio a quelle tecnologie politiche create ad hoc. Oggi chi lavora su questo aspetto è principalmente Sergey Kirienko, nello staff della segretaria presidenziale già dal 2016.

Tuttavia le cose, piaccia o meno alla presidenza russa, dal punto di vista “oggettivo” – materialistico – gli equilibri stanno cambiando in fretta nel mondo e metteranno ancora più in crisi l’approccio tecnocratica che piace tanto allo “Zar”. Da qualche mese il prezzo del petrolio è tornato a galleggiare verso l’alto, stabilmente sopra i 75 dollari al barile dopo i lunghi mesi di magra della pandemia. Ciò ha dato, e darà ancora, una boccata d’aria all’economia russa, ma gli effetti non si sono visti né nelle entrate delle famiglie né sul rublo che resta ben oltre gli 85 rubli contro euro, schiacciando così importazioni e consumi. I veri problemi dell’economia russa però non sono neppure congiunturali ma strutturali. Si tratta di capire, in primo luogo, come un paese che ha prosperato sull’esportazione degli idrocarburi potrà affrontare la sfida della green economy che in prospettiva dovrebbe rendere l’Europa indipendente dalle forniture di gas e petrolio russo. Una sfida decisiva per la Federazione che solo ora sta iniziando a ragionare in termini di differenziazione dell’economia (dopo averci già provato durante la presidenza Medvedev). A cui si collega il problema di un saldo demografico disastroso destinato a peggiorare in conseguenza di un covid-19 che in Russia non cessa di mordere (da oltre due mesi i casi di contagio sono rimasti intorno ai 20.000 al giorno con una media di 800 morti).

Le elezioni hanno avviato il cambiamento, malgrado i risultati

Ecco, dentro questa dinamica profonda, probabilmente il dibattito delle oligarchie e i gruppi di potere del capitalismo di stato russo è già iniziato e l’emergere di un partito come Nuove Persone potrebbe non essere un fuoco di paglia. In alcuni circoli russi si dubita già che l’ex direttore del Fsb ormai quasi settantenne, sempre meno popolare e senza una grande formazione economica potrà gestire la sfida del prossimo decennio.

La soluzione non è a portata di mano visto che per ora non si vede all’orizzonte un leader o una nuova classe dirigente che possa garantire una transizione morbida o permetta a Putin se non di andare in pensione almeno di tirare le fila politiche russe da una posizione defilata. Per storia e tradizione tutti i cambi di regime in Russia sono stati complessi e spesso segnati da fortissime fibrillazioni e c’è ragione di pensare che anche questa volta possa essere così: Putin è stato – ed è ancora – il punto di equilibrio tra un complesso di poteri e interessi che verosimilmente faranno molto fatica a trovare una mediazione stabilizzante.

Del resto, a ben vedere, si tratta di una questione che va ben oltre le camarille moscovite e investe tutte le grandi capitali europee se è vero, come è vero, che l’Europa potrà affrancarsi dall’abbraccio americano solo se troverà una sponda in Russia. Sullo sfondo potrebbe tornare in auge persino il vecchio dilemma russo: slavofili o occidentalisti?

Se proiettato su scala internazionale il voto russo ha prodotto un paradosso politico che le cancellerie dei paesi occidentali stenteranno a comprendere: il loro sostegno a Navalny ha determinato per ora il rafforzamento dei comunisti. Né Merkel,né Macron, né Biden, avrebbero immaginato che i loro sforzi per sostenere l’opposizione “liberale” avrebbero potuto avere un simile sviluppo. Nei prossimi mesi potremmo avere persino un’Europa che si riappacifica con Putin. Una svolta “comunista” nel paese, sarebbe ancora più nazionalista e statalista (e sicuramente filo-cinese) di quanto a Bruxelles e a Washington si possano permettere.

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Elezioni iraniane: l’astensionismo è social https://ogzero.org/astensionismo-e-social-prospettive-iraniane/ Thu, 17 Jun 2021 10:55:32 +0000 https://ogzero.org/?p=3899 Il 18 giugno in Iran eleggeranno il successore di Hasan Rohani, il dibattito politico ferve tra affollate assemblee e serate pubbliche, ma il boicottaggio al voto viaggia sui social, su quelli che resistono alla censura, nelle stanze virtuali in cui cresce il “partito” dell’astensionismo derivante dalla disillusione degli iraniani: un paradosso per un regime che […]

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Il 18 giugno in Iran eleggeranno il successore di Hasan Rohani, il dibattito politico ferve tra affollate assemblee e serate pubbliche, ma il boicottaggio al voto viaggia sui social, su quelli che resistono alla censura, nelle stanze virtuali in cui cresce il “partito” dell’astensionismo derivante dalla disillusione degli iraniani: un paradosso per un regime che ha sempre indicato la partecipazione popolare come la prova della sua legittimità.


Figure molto in vista del governo iraniano hanno partecipato ad affollate assemblee per rispondere alle domande di cittadini e giornalisti. I candidati alle prossime elezioni presidenziali si sono presentati in serate pubbliche di dialogo, mentre una nota esponente riformista ha lanciato dure critiche alla selezione dei candidati. Un’attivista per i diritti umani ha spiegato perché lei non voterà. Si moltiplicano gli appelli a boicottare il voto. Anche le correnti conservatrici hanno organizzato eventi soprattutto per criticare il governo sulla gestione dell’economia, tema sempre molto popolare. E tutto questo avviene in eventi in diretta sui social media.

Il 18 giugno gli iraniani eleggeranno un successore al presidente Hasan Rohani, giunto al termine del suo secondo mandato, e il dibattito politico ferve.

Ma non sono stati i confronti in diretta Tv tra i sette candidati a mobilitare gli ascolti, quanto i social media: e tra questi soprattutto Clubhouse, ultimo grido in fatto di spazi virtuali.

Perché? Nel recente passato i dibattiti televisivi tra i candidati, inaugurati dalla Tv di stato nel primo decennio del Duemila, avevano avuto risonanza. Davano un’idea di apertura. Per la prima volta i candidati erano messi a confronto in diretta in ore di grande ascolto, con un contraddittorio che metteva alla prova la capacità di comunicare e rispondere a domande scomode.

Senza concorrenti

Non questa volta. Ma non è solo questione di format televisivi. Il fatto è che mai come questa volta il processo di selezione dei candidati è stato restrittivo: il Consiglio dei Guardiani, consesso di giuristi islamici che ha il compito di vagliare le credenziali di ogni candidato alle cariche pubbliche, ha squalificato molti nomi noti. In particolare, ha escluso l’attuale vicepresidente Eshaq Jehangiri, rappresentante di spicco dello schieramento riformista, e perfino l’ex presidente del parlamento Ali Larijani, e questo è stato davvero inatteso: in fondo Larijani è un esponente della nomenklatura della Repubblica Islamica, un conservatore, già caponegoziatore sul nucleare; non è mai stato neppure lontanamente vicino ai riformisti, anche se è un moderato e nelle ultime due legislature si è avvicinato al presidente uscente Rohani. Eppure è fuori. Escluso anche l’ex vicepresidente Mahmoud Ahmadi Nejad.

In altre parole, l’organismo di controllo ha escluso dalla competizione elettorale ogni reale concorrente all’unico candidato favorito dal sistema, e cioè Ebrahim Raisi, attuale capo della potentissima magistratura (che nel sistema istituzionale iraniano risponde solo al Leader supremo), esponente della corrente più oltranzista del sistema politico iraniano.

Il favorito del Leader

Il nome di Ebrahim Raisi emerge in alcune delle pagine più inquietanti della Repubblica islamica dell’Iran. Originario di un villaggio vicino a Mashhad, seconda città iraniana e sede di uno dei più importanti mausolei sciiti, Raisi ha studiato teologia a Qom, dove è stato discepolo di Ali Khamenei (oggi Leader supremo del paese). La sua carriera giudiziaria è cominciata nel 1981, subito dopo la Rivoluzione. Nel 1985 era viceprocuratore di Tehran e nel 1988, sul finire della sanguinosa guerra Iran-Iraq, fece parte di uno speciale gruppo di quattro magistrati che per incarico speciale dell’ayatollah Khomeini (l’allora Leader supremo) doveva epurare i detenuti politici di cui straboccavano le carceri: fu un massacro, l’esecuzione sommaria di migliaia di persone (circa cinquemila, secondo Amnesty International).

Durante la campagna per le presidenziali del 2017, quando Raisi si era candidato contro il presidente Rohani, questi ha rinfacciato a Raisi il suo ruolo nel “comitato della morte”: lui si è difeso minimizzando,  distinguendo tra gli accusatori e chi emette la sentenza.

L’astensionismo è social

Sta di fatto che da allora Raisi ha fatto una carriera sfolgorante, ricoprendo numerose alte cariche nella magistratura. Nel 2009 ha confermato la condanna a morte di numerose persone per aver partecipato alle proteste dopo la rielezione di Ahmadi Nejad. Nel 2016 Khamenei lo ha nominato “custode” della danarosa fondazione Astan Quds Razavi, che gestisce il mausoleo dell’Imam Reza a Mashad e soprattutto gestisce un cospicuo patrimonio e controlla una fitta rete di industrie e aziende commerciali. Nel 2019 Khamenei lo ha nominato Procuratore generale della Repubblica islamica.

È da allora che Raisi sta lavorando alla sua rivincita elettorale. Da capo della magistratura ha lanciato una “guerra alla corruzione”. In un paese dove alcuni sono riusciti ad ammassare grandi fortune in modo poco chiaro mentre le classi medie sono impoverite da crisi e sanzioni, il tema è di sicuro appeal popolare. Qualcuno sostiene che nella sua crociata anticorruzione il Procuratore generale Raisi si sia rivolto solo ai circoli più vicini alla famiglia Rafsanjani e alla sua corrente politica (che include parte del governo uscente), sorvolando sulle malefatte di altre parti politiche.

Certo è che da un paio d’anni Ebrahim Raisi gira per il paese tuonando contro i figli dell’élite “occidentalizzata” e corrotta, tiene incontri pubblici, visita moschee e fondazioni caritatevoli, arringa fedeli, accusa i riformisti di essere elitari e il governo di aver perso contatto con “i poveri”: come una lunga campagna elettorale, di cui ora spera di raccogliere i frutti. Raisi dispone con ogni evidenza dell’appoggio del deep state, i poteri forti della Repubblica islamica, con tutti gli apparati di consenso popolare (tra cui le fondazioni caritatevoli rivoluzionarie come quella di Mashhad che lui presiede).

Ciò che invece manca a Ebrahim Raisi è un carisma personale.

Nei dibattiti elettorali (in Tv: non sono noti suoi interventi su Clubhouse o altri social media) Raisi ha promesso di combattere «la povertà e la corruzione, l’umiliazione e la discriminazione», ed è tutto ciò che ha ripetuto durante uno dei rari comizi “in presenza” di questa campagna elettorale, pochi giorni fa in uno stadio della città sudoccidentale di Ahwaz (nonostante il paese stia ancora facendo i conti con la pandemia di Covid-19).

“Non è un’elezione, è una nomina”

«Questa non è più un’elezione, è una nomina», ha commentato Faezeh Hashemi, ex deputata ed esponente riformista, durante un incontro pubblico la cui registrazione è circolata online. Figlia dell’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, un grande vecchio della politica iraniana, Faezeh Hashemi è nota per prese di posizione molto schiette. «Non capisco perché abbiano pensato che Larijani fosse un pericolo per Raissi», osserva, visto che il capo della magistratura è di fatto in campagna da due anni. «È molto più grave che in passato», sostiene: lasciare in lizza Larijani almeno «avrebbe dato il senso di un confronto, anche se in effetti era offrire una scelta tra il male e il peggio». Ora non c’è davvero più nessun motivo per votare, conclude Hashemi.

Il veto sui candidati non è una novità in Iran. Nonostante tutto però in passato abbiamo visto una certa competizione politica, e il risultato delle urne non era scontato. Nel 1997 fu una sorpresa l’elezione di Mohammad Khatami, il primo fautore di aperture e riforme interne al sistema, che sconfisse il favorito dall’establishment. Nel 2013, quando i Guardiani hanno messo il veto sulla candidatura dell’ex presidente Rafsanjani, i voti di riformisti, moderati, e di tutti coloro che volevano mettere fine ai tempi bui di Ahmadi Nejad si sono riversati sul pragmatico e moderato Hasan Rohani – che in effetti ha riportato qualche apertura nella politica iraniana sia interna, sia internazionale.

Questa volta però non resta alternativa. Nell’ultima settimana di maggio il portavoce del Fronte riformista ha dichiarato che i riformisti non hanno alcun candidato in campo, ovvero che non ritengono di poter riversare i propri voti su nessuno.

Al contrario, si moltiplicano gli appelli a boicottare il voto.

Così, non sorprende che i dibattiti televisivi tra i sette candidati superstiti, andati in onda il 4, l’8 e il 12 di giugno, abbiano suscitato scarso interesse (anche se bisogna riconoscere che non ha aiutato la coincidenza con importanti partite della nazionale di calcio iraniana). I resoconti sono unanimi: dibattiti farciti di veementi accuse e sarcasmi reciproci, ma pochi discorsi concreti sui programmi, solo vaghe promesse.

L’astensionismo è social

L’unico candidato che mostra di crescere in popolarità, almeno secondo i sondaggi, è Abdolnaser Hemmati, già governatore della banca centrale iraniana da cui ha dovuto dimettersi quando ha registrato la sua candidatura in aprile. Hemmati per esempio ha criticato la decisione del governo Rohani di aumentare il prezzo della benzina nel novembre 2019. Si ricorderà che quell’aumento di prezzi aveva scatenato proteste popolari in molte città iraniane, poi represse con violenza dalla polizia e dalle Guardie della Rivoluzione, lasciando un trauma ancora aperto nella società iraniana. Ora Hemmati dice che lui era contrario al rincaro; che se sarà eletto chiederà che sia fatta luce sugli eventi di quei giorni e su quante persone sono state uccise dalle forze di sicurezza, e si accerterà che le famiglie delle vittime ricevano i risarcimenti a cui hanno diritto.

La “stanze” virtuali

Non è chiaro se simili dichiarazioni di simpatia per le vittime del novembre 2019 bastino a ridare qualche entusiasmo agli elettori. La cosa interessante però è che Hemmati ha fatto le dichiarazioni più veementi su Clubhouse.

Nata poco più di un anno fa negli Stati Uniti, Clubhouse è una video-chat che permette agli utilizzatori di aprire una “stanza” virtuale dove invitare fino a ottomila partecipanti per ogni sessione. In Iran ha avuto un immediato successo perché offre uno spazio pubblico, sebbene virtuale, dove si parla di un po’ tutto – cinema, eventi culturali, la pandemia, o anche se boicottare le elezioni.

Bisogna considerare che la diffusione di internet è molto alta in Iran fin dai primi anni Duemila, e ha avuto un’accelerazione nell’ultimo decennio. Un paese di 85 milioni di persone oggi ha quasi 95 milioni di allacciamenti alla banda larga. Negli otto anni di amministrazione Rohani, le sim card in uso sono passate da quasi 60 milioni a 131 milioni. L’uso di internet è pervasivo ormai anche nelle piccole città di provincia, e sono diffusissimi i social media: nel 2018 il ministero della Cultura annunciava che circa 40 milioni di iraniani avevano installato Instagram sui loro smartphone. Telegram è un altro social molto usato: permette di aprire “canali” dedicati che sono diventati veri e propri organi di informazione. Con Clubhouse si aggiunge la possibilità di incontri in diretta.

Come già Telegram e Instagram, molto popolari in Iran, o altri social media, anche Clubhouse è ampiamente usato sia da riformisti che conservatori, voci esterne al sistema politico e insider del regime. In una serata su Clubhouse ad esempio il comandante delle Guardia della Rivoluzione Rostam Qasemi, ha risposto alle domande del pubblico. Il ministro delle telecomunicazioni Mohammad Javad Azari Jahromi ha già animato diverse serate. È qui che opinionisti dei diversi schieramenti politici presentano candidati e lanciano discussioni – erodendo ancora un po’ il monopolio televisivo di stato (già minacciato dalle Tv satellitari straniere che il regime cerca invano di oscurare, o dalle piattaforme di cinema e serie Tv on demand).

È in una “stanza” di Clubhouse che, il 31 marzo, il ministro degli Esteri Zarif aveva discusso dell’accordo di cooperazione tra l’Iran e la Cina e di vari altri temi, in una affollatissima serata in cui ha accettato anche domande da giornalisti iraniani all’estero, come la reporter del “New York Times” Farnaz Fassihi o la free lance Negar Mortazavi che vive negli Usa, e perfino Masoud Behnoud, notissimo commentatore che collabora con Bbc Persian (oscurata in Iran): cosa che non sarebbe mai potuta accadere in un incontro più formale.

Sempre su Clubhouse l’avvocata e attivista Narges Mohammadi ha discusso della difesa dei diritti fondamentali nel paese in un evento pubblico che sarebbe impensabile in presenza. Mohammadi è la vicepresidente e portavoce del Centro dei Difensori dei Diritti umani, organizzazione che ha vita molto difficile in Iran: nel 2013 era stata condannata per “attentato alla sicurezza dello stato” e “propaganda contro il sistema”; scarcerata in via condizionale qualche anno dopo, di recente è stata confermata la sua condanna a 30 anni di reclusione.

In un evento del 31 maggio scorso, Mohammadi ha spiegato che boicotterà le elezioni del 18 giugno e farà propaganda attiva per l’astensione: «Se non sono garantiti i diritti politici dei cittadini, tra cui la libertà d’espressione e di riunione, il voto  non avrà un significato reale. […] Nel 2009 i cittadini hanno votato contro il governo; in altre occasioni hanno votato per candidati che si distinguevano almeno un po’ dal sistema.  Insomma, hanno usato quei minimi spazi politici. Ma nell’atmosfera politica attuale, non vedo uno spazio. Le elezioni hanno perso la loro funzione» (qui un resoconto più esteso dell’avvocata Mohammadi).

Cresce il partito dell’astensione

Mentre gli appelli all’astensione si moltiplicano, l’apatia degli elettori cresce. Secondo l’ultimo sondaggio  della Iran Students Polling Agency (Ispa), affiliata al ministero della Scienza e Tecnologia, solo il 34 per cento dei votanti si dichiara deciso ad andare alle urne; contando gli indecisi si arriva intorno al 38 per cento. Sono percentuali addirittura più basse di quelle registrate in maggio: come se la campagna elettorale oltre a non richiamare più elettori li avesse addirittura allontanati.

I sondaggi vanno presi con cautela, ma molti prevedono una partecipazione bassa.

Nelle ultime tre presidenziali la percentuale dei votanti ha oscillato tra il 72 e l’85 per cento.

Controcorrente, giorni fa l’anziano Mehdi Karroubi, autorevolissimo leader riformista, ha rivolto agli iraniani un appello a votare nonostante tutto, e ha chiesto ai riformisti di unirsi dietro a un nome, magari quello di Hemmati, per non lasciare ai conservatori una vittoria troppo facile. Un anno fa, l’apatia degli elettori e il veto su buona parte dei candidati riformisti hanno permesso alle correnti conservatrici di conquistare la maggioranza assoluta del parlamento iraniano; oggi si preparano a conquistare la presidenza.

La disillusione degli iraniani però è forte. «Ancora nel 2013 c’era uno spirito positivo negli elettori, c’era speranza», fa notare Faezeh Hashemi. Poi però le promesse di sviluppo e benessere aperte dalla presidenza Rohani e dall’accordo sul nucleare non si sono materializzate. L’avvento dell’amministrazione Trump ha riportato sanzioni e difficoltà per le classi medie iraniane, e accentuato la tensione internazionale. La repressione delle proteste popolari, la tragedia dell’aereo ucraino abbattuto per errore, l’incertezza economica – tutto concorre a erodere la fiducia pubblica. La scarsa affluenza al voto ne è un segno.

Bel paradosso per un regime che ha sempre indicato la partecipazione popolare come la prova della sua legittimità.

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King Bibi in declino: un complesso effetto domino https://ogzero.org/la-crisi-politica-king-bibi-in-declino-un-complesso-effetto-domino/ Sat, 02 Jan 2021 14:47:34 +0000 http://ogzero.org/?p=2171 Israele si avvia alle quarte elezioni politiche in meno di 2 anni. La data prevista è il 23 marzo. La crisi della coalizione di governo era prevedibile fin dal suo nascere. I due principali partiti di governo, il Likud di Benjamin “Bibi” Netanyahu e Kahol Lavan (Blu e Bianco), l’alleanza di vari partiti guidata dall’ex […]

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Israele si avvia alle quarte elezioni politiche in meno di 2 anni. La data prevista è il 23 marzo.

La crisi della coalizione di governo era prevedibile fin dal suo nascere. I due principali partiti di governo, il Likud di Benjamin “Bibi” Netanyahu e Kahol Lavan (Blu e Bianco), l’alleanza di vari partiti guidata dall’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, otto mesi fa avevano dato vita a un’alleanza su basi molto fragili. Dopo tre elezioni in un anno che non avevano permesso di costituire un governo perché né Bibi né Benny era riuscito a prevalere sull’altro, era stata la lotta contro l’epidemia di Covid-19 a fornire il pretesto per uscire dall’impasse e formare un governo contro natura. Infatti in campagna elettorale Gantz si era impegnato a non allearsi per nessuna ragione con Netanyahu ed aveva raccolto i voti di quanti si riconoscevano nello slogan “chiunque meno Bibi”.

Un’ancora di salvezza per Netanyahu

La manovra aveva fatto uscire il paese dall’inutile serie di elezioni, che avevano comunque mantenuto al potere Netanyahu con un governo di transizione. Per il primo ministro in carica si trattava anche di un problema personale. Dovendo affrontare una serie di processi per corruzione, frode e abuso di potere, da semplice parlamentare si sarebbe trovato in una posizione di debolezza che non si poteva permettere. Inoltre, avendo il controllo sul governo, avrebbe potuto condizionare le decisioni relative alla nomina dei giudici, cosa che negli 8 mesi di coabitazione con Gantz ha effettivamente tentato di fare.

Un governo frammentato

Gantz avrebbe potuto formare un governo senza Netanyahu, ma con l’appoggio esterno della Lista Araba Unita, la terza formazione come numero di seggi in parlamento e che rappresenta la minoranza palestinese con cittadinanza israeliana. Non ha osato farlo, per timore di essere accusato di “connivenza con il nemico”.

Si è trovato però subito in una posizione di debolezza. Infatti 16 dei 33 deputati di Kahol Lavan non hanno seguito Gantz e sono passati all’opposizione. Per arrivare a 61 voti la coalizione ha dovuto includere alcuni piccoli partiti laici di centro, vari partiti religiosi e parte dei Laburisti. Il governo che ne è nato ha battuto ogni record quanto al numero di ministri e sottosegretari, ben 52 per un parlamento di 120 deputati.

Un’alternanza con le gambe corte

Naturalmente l’operazione non è stata a costo zero neppure per Netanyahu. Ha dovuto accettare di cedere a Kahol Lavan i principali ministeri: Difesa, Esteri, e, fondamentale per lui, Giustizia. Inoltre ha dovuto accettare l’alternanza nella carica di primo ministro dopo un anno e mezzo. Come detto, per lui, che è stato capo del governo ininterrottamente dal 2009, cedere il potere rischiava di metterlo in una situazione di debolezza di fronte ai giudici.

Molti in Israele avevano previsto che Bibi non avrebbe mai rispettato questa parte dell’accordo, e così è stato. Formalmente il governo di coalizione è caduto per il disaccordo tra Likud e Kahol Lavan sulla legge di bilancio, ma pochi dubitano che la vera ragione sia stata la decisione di Netanyahu di andare a elezioni in un momento che ha ritenuto favorevole.

Vittime del virus

Un’ulteriore debolezza del governo era legata proprio alla sua principale ragione di esistere: la lotta contro l’epidemia da Covid-19. Si diceva che fosse urgente avere un governo di unità nazionale per combatterlo efficacemente. Otto mesi dopo il bilancio è quanto meno deludente: il governo ha dovuto decretare il terzo blocco totale a partire da domenica 27 dicembre.

La protesta antigovernativa a Tel Aviv per la gestione della pandemia

La gestione è stata confusa e conflittuale a livello politico, con decisioni prese e smentite nel giro di qualche giorno. In un territorio grande più o meno come Piemonte e Val d’Aosta (includendo Israele, Cisgiordania e Gaza) ma con una densità di popolazione molto maggiore, i contatti tra israeliani, compresi i coloni nei territori occupati, e palestinesi sono inevitabili. E, mentre Israele ha un ottimo sistema sanitario, lo stesso non si può dire dell’Autorità Nazionale Palestinese, a causa della scarsità di mezzi per via dell’occupazione. Soprattutto, le aperture affrettate dopo i lockdown hanno portato a un rapido aumento dei casi.

I leader di governo hanno fatto a gara per attribuirsi il merito dei successi e a scaricare sui rivali le colpe dei fallimenti nella lotta all’epidemia, aumentando l’impressione di incompetenza e confusione.

Un dilettante allo sbaraglio

La principale vittima della caduta del governo è sicuramente Benny Gantz. Avendo tradito un vasto consenso esclusivamente grazie all’impegno a non allearsi mai con Netanyahu, non c’è da stupirsi se i primi sondaggi danno al suo partito solo 5 seggi sui 33 delle elezioni di marzo. Oltre al tradimento, sconta la scarsa affidabilità dimostrata da lui e dai suoi ministri, e non solo riguardo alla gestione della pandemia. Nella storia di Israele sono stati molti i generali al potere, ma nessuno ha dimostrato una simile sprovvedutezza.

e una vecchia volpe che perde il pelo

Ma anche Netanyahu è in difficoltà. Per liberarsi di Gantz ha scatenato effetti a catena che rischiano di sconvolgere il quadro politico che finora gli ha consentito di rimanere al potere. È indebolito dai guai giudiziari, dal fallimento del governo di coalizione e dalle continue manifestazioni contro di lui, violentemente represse dalla polizia. Da 26 settimane migliaia di israeliani, quasi esclusivamente ebrei, manifestano in tutto il paese. Si tratta di un movimento agguerrito quanto eterogeneo. Vi partecipano militanti di sinistra, persone che hanno perso il lavoro a causa del Covid, i delusi da Kahol Lavan, cittadini disgustati dalla corruzione e dall’attaccamento al potere di “King Bibi”. Oltre alla repressione della polizia, contro i dimostranti ci sono state anche aggressioni da parte di sostenitori di Netanyahu, dando l’impressione che il paese si trovi sull’orlo di una guerra civile.

Una grave perdita

Persino i successi di Netanyahu in politica estera gli si stanno ritorcendo contro. La normalizzazione dei rapporti con Israele sta coinvolgendo sempre più paesi arabi (con cui peraltro Israele aveva già solidi rapporti segreti), sconvolgendo le alleanze ed evidenziando la marginalità della causa palestinese. Per EAU e Bahrein si tratta soprattutto di creare un fronte contro il comune nemico, l’Iran; per altri, come il Sudan e il Marocco, del risultato dei ricatti e delle lusinghe di Trump. L’avvicinamento degli EAU ha comportato anche un accordo sulla Spianata delle Moschee che altera lo status quo e tende ad escludere l’influenza della Turchia e della Giordania sulla gestione dei luoghi santi musulmani.

Murales, West Bank di Betlemme: l’appoggio americano (non del tutto perso con il cambio della guardia) al governo israeliano

Ma proprio ora emerge il punto debole di Netanyahu in politica estera. Egli ha privilegiato i rapporti con il presidente Usa più filoisraeliano di sempre. Questa posizione ha coinciso con il grande favore che Trump riscuoteva nell’opinione pubblica israeliana, ma ignorava i timori della comunità ebraica Usa, tradizionalmente democratica e preoccupata della vicinanza ai suprematisti e dei discorsi antisemiti dell’ex presidente.

Netanyahu si trova senza il cavallo su cui aveva puntato, con la crescente ostilità dell’opinione pubblica statunitense nei confronti delle politiche israeliane e con un nuovo presidente almeno sulla carta meno acquiescente. È improbabile che altri, in particolare l’Arabia Saudita, si uniscano alla corsa per normalizzare i rapporti con Israele, tanto più che la possibile distensione tra l’Iran e l’amministrazione Biden potrebbero ridefinire il contesto regionale.

Convegno dell’Aipac: lobby americana in sostegno allo Stato di Israele

Ricomposizione della Destra

Come squali attirati dal sangue, i molti nemici di Bibi si stanno lanciando all’attacco di un leader che ritengono ormai in declino. L’8 dicembre Sa’ar, suo avversario interno, ha lasciato il Likud e ha fondato un nuovo partito, Tikva Hadasha (Nuova Speranza), a cui hanno subito aderito altri deputati del partito. La più clamorosa è quella di Zeev Elkin, che faceva parte del cerchio magico di Netanyahu. Come spesso capita agli apostati, essi stanno sparando a zero contro il loro ex leader, accusandolo delle stesse colpe dalle quali finora lo avevano difeso.

Tikva Hadasha non rappresenta un’alternativa politica al Likud. Appoggia la colonizzazione nei territori occupati, è contrario alla Soluzione a due stati e intende proporre una legge per imporre un maggiore controllo dell’esecutivo sul potere giudiziario. Rappresenta la stessa politica del Likud ma senza Bibi. Si porta in dote una parte dell’elettorato del Likud, stanco di Netanyahu, ma attira anche voti dell’estrema destra dei coloni. Il partito che li rappresenta, Yamina (La Destra), era dato in forte crescita. Il suo leader, Naftali Bennett, laureato in legge e finanziere, ha pubblicato un fortunato saggio su come combattere il virus. Forte di questa popolarità e della fama di politico onesto e competente, si è candidato a primo ministro contro Netanyahu, di cui prima dell’accordo di quest’ultimo con Gantz era alleato di governo. La comparsa di Sa’ar, che ottiene anche il gradimento di ex elettori delusi da Gantz e di quanti nel Centrosinistra lo ritengono l’unica alternativa plausibile all’odiato Netanyahu, potrebbe tarpagli le ali.

Centrosinistra residuale…

Il cosiddetto Centrosinistra rischia di subire l’ennesima sconfitta. Già Kahol Lavan era stato definito il partito dei generali. Come se non fosse servita la disastrosa esperienza di Gantz, ora pensa di candidare un altro ex capo di stato maggiore, Gadi Eisenkot. Durante la Seconda guerra del Libano fu l’ideatore della cosiddetta Dottrina Dahiya, dal nome di un quartiere sciita di Beirut. Essa prevede «una risposta sproporzionata ed enormi danni e distruzioni contro ogni zona abitata da cui vengano attaccate le forze israeliane». Non a caso Richard Falk, docente di diritto internazionale a Princeton e rapporteur dell’Onu, l’ha definita una forma di terrorismo di stato. Insomma, dopo Gantz, che durante la campagna elettorale si era vantato di aver fatto tornare parti di Gaza «all’età della pietra» durante l’operazione “Margine protettivo” del 2014, il Centrosinistra israeliano intende rincorrere la Destra sul suo stesso terreno.

Ma com’è noto, in genere gli elettori preferiscono gli originali alle copie.

…Sinistra sionista e coalizione dei partiti arabi in crisi

Quanto al Meretz, il partito storico della Sinistra sionista, ha ufficialmente accolto un nuovo candidato alla leadership: Yair Golan, un ex generale, che ha sostenuto di voler fare il possibile per silenziare quanti lo vogliono far diventare un partito arabo-israeliano. A suo favore può vantare il fatto di aver paragonato nel 2016, durante una manifestazione pubblica e in veste di vicecapo di stato maggiore, la situazione politica di Israele a quella della Germania dei primi anni Trenta.

Si prevede anche che la “Lista Araba Unita”, data la sua impossibilità di incidere sul quadro politico, perderà voti tra i molti elettori palestinesi con cittadinanza israeliana ormai disillusi. Oltretutto è indebolita da dissidi interni: recentemente la sua componente islamista ha addirittura avviato colloqui con Netanyahu per cercare di risolvere il problema della criminalità all’interno della comunità araba. Quindi probabilmente i vari partiti che la compongono si presenteranno separati.

Primarie della Destra

La tradizionale frammentazione del quadro politico israeliano è ulteriormente accentuata da uno schema che ancora una volta ruota attorno a Netanyahu. Ma una cosa è certa. Non sarà sulla soluzione del conflitto e sulle prospettive di pace con i palestinesi che verterà la campagna elettorale. Si prevede che i partiti di destra, di estrema destra e religiosi otterranno più di 80 seggi su 120. Il giornalista israeliano Gideon Levy ha scritto: «Il 23 marzo si terranno le grandi primarie della Destra, un evento che per qualche strana ragione viene ancora chiamato elezioni politiche per la Knesset».

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“L’occhio del Buddha” e la Realpolitik di Aung San Suu Kyi https://ogzero.org/myanmar-la-realpolitik-della-signora-e-locchio-del-buddha/ Wed, 02 Dec 2020 20:05:02 +0000 http://ogzero.org/?p=1916 «La spiegazione è semplice: la gente non dimentica» dice un vecchio amico che vive in Birmania da più di vent’anni, un uomo per tutte le stagioni. «La gente sta meglio e ha paura di perdere quel poco che ha guadagnato». La memoria di un passato prossimo vissuto nella paura e la percezione del cambiamento spiegherebbero […]

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«La spiegazione è semplice: la gente non dimentica» dice un vecchio amico che vive in Birmania da più di vent’anni, un uomo per tutte le stagioni. «La gente sta meglio e ha paura di perdere quel poco che ha guadagnato». La memoria di un passato prossimo vissuto nella paura e la percezione del cambiamento spiegherebbero il successo di Aung San Suu Kyi e della sua National League alle elezioni dell’8 novembre.

Una vittoria schiacciante per la Nld

I risultati vanno oltre il “landslide”, la valanga di voti, ottenuta nel 2015. La Nld ha conquistato l’83,2% dei voti di 37 milioni di votanti, aggiudicandosi 396 seggi su 476 nelle due Hluttaw (le camere). L’Usdp, lo Union Solidarity and Development Party, avatar civile di Tatmadaw, le forze armate, ha ottenuto solo il 6,9% dei voti: una “umiliante disfatta”, è la ricorrente definizione, che rischia di essere pagata a carissimo prezzo dai suoi leader. I militari conservano il 25% dei seggi in parlamento, come previsto dalla costituzione creata su misura nel 2008 che assicura loro l’effettivo mantenimento del potere, ma grazie a questo risultato la Nld può formare il nuovo governo e “nominare” il prossimo presidente.

«Un risultato comunque inatteso che dimostra che il popolo la ama e la segue. Rispetto alle precedenti elezioni, queste le conferiscono un vero mandato per il cambiamento. E sono la prova di discontinuità con il passato», commenta un diplomatico, uno di quelli che hanno cercato di far comprendere quanto la realtà locale fosse lontana dall’opinione pubblica occidentale.

«Secondo me ha vinto perché l’hanno vista all’Aja. Lei non ha difeso i militari, ha difeso la nazione» spiega un missionario che percorre le vie meno battute della Birmania, riferendosi all’intervento di Aung San Suu Kyi alla Corte Internazionale dell’Aia per opporsi alle accuse di genocidio nei confronti dei rohingya, l’ormai tragicamente famosa etnia musulmana. «Se la prima volta era entusiasmo, questa volta la vittoria è pensata. Lei rappresenta l’unità. E sono stati proprio i rohingya che hanno unito la nazione».

Burma: “hermit kingdom”

Bisogna ancora affidarsi a “voci” di personaggi che per lunga abitudine preferiscono restare anonimi, per sapere che cosa accade “inside Burma”, all’interno della Birmania, come si diceva sino a dieci anni fa. Allora il paese era un “hermit kingdom”, una nazione, come la Corea del Nord (che ne era uno dei maggiori sostenitori) autoisolata, metaforicamente e fisicamente, dal resto del mondo per proteggere un ordine autocratico. Allora la stessa denominazione del paese, Birmania versus Myanmar, era segno di una presa di posizione, dissidente nel primo caso, ufficiale o “collaborazionista” nel secondo. Allora le voci che arrivavano a noi erano messaggi trasmessi da dissidenti, reporter più o meno in incognito, informatori. E per trasmetterli era necessario un programma per bypassare i blocchi del governo.

Oggi il Myanmar (ormai il termine è divenuto politicamente accettabile, intercambiabile con Birmania) è nuovamente chiuso. Ma ora è per proteggersi da una pandemia che qui potrebbe avere conseguenze inimmaginabili. Se il Myanmar è sfuggito alla prima ondata, con 800 contagi alla fine di agosto, la seconda si è rivelata brutale, con oltre 85.000 casi e 1800 morti a fine novembre. Le notizie, tuttavia, continuano ad arrivare: via mail, consultando siti locali, tramite telefonate, Messenger, WhatsApp, Facebook. In alcuni casi le “voci” si confondono, sovrappongono, appaiono fake, raccontano oscuri complotti, citano altre voci o esprimono analisi geopolitiche.

Le Covid-elections

Tutte quelle voci, nel mattino italiano dell’8 novembre, quando le urne stavano per chiudersi in Birmania, parlavano di lunghissime code ai seggi aperti alle 6 locali, di «banchetti di cibo allestiti dai militari di fronte ai seggi, ma che la gente non mangiava», oppure dell’organizzazione dei seggi «dove erano fornite gratis mascherine N-95 e gel igienizzanti».

Le “Covid elections”, come definite da molti osservatori, hanno “dominato la psiche locale” per oltre un mese, dal giorno in cui Suu Kyi ha affermato che le elezioni «erano più importanti del Covid». Secondo i suoi oppositori, lo ha fatto per sfruttare la visibilità ottenuta con la gestione dell’emergenza. Ma è più probabile che l’abbia fatto perché i militari chiedevano un rinvio, in seguito a cui avrebbero potuto dichiarare lo stato d’emergenza – previsto dalla costituzione del 2008 – quindi sciogliere il parlamento e reclamare il potere in nome della salvezza nazionale.

In questa situazione le elezioni di domenica 8 novembre, si possono rivelare le più critiche e decisive per il futuro del paese proprio perché Aung San Suu Kyi ha ormai maturato quella Realpolitik che invece le ha fatto perdere il consenso dell’Occidente.

Un modello di normalizzazione

È una storia che comincia con le elezioni del 1990, le prime dopo quasi trent’anni di dittatura. Anche allora vinse la Nld, ma furono annullate dai militari anche per una forma d’ingenuità da parte di Aung San Suu Kyi e del suo partito, che aveva proposto un processo contro gli stessi generali. Da allora nemmeno il Nobel per la pace conferitole nel 1991 riuscì a proteggerla dagli arresti e dagli attentati.

«La Signora ha vissuto all’estero sino al 1988. Non conosceva il suo paese, non aveva esperienza politica» dice una delle “voci” che commentano le elezioni da Yangon. «Adesso sembra accettare il compromesso. Si metterà d’accordo con i giovani militari perché anche i militari non sono quelli di un tempo. Vogliono essere considerati un esercito di professionisti».

Con più sottigliezza politica (frutto di una lunga militanza nella sinistra democratica) è la stessa opinione della senatrice Albertina Soliani, Presidente dell’Associazione Amicizia Italia-Birmania e amica personale di Aung San Suu Kyi. «C’è bisogno di normalizzazione. Anche lei pensa a una nuova generazione di militari. Che si distacchino dalla politica in cambio di una legittimazione».

La storia si evolve con le prime elezioni semilibere del 2010, quando la Birmania sembra avviarsi sulla “road map” verso la democrazia. Anzi: “una democrazia fiorente nella disciplina”, come in molti paesi asiatici. Allora la National League di Aung San Suu Kyi, ancora icona di democrazia, rifiutò di partecipare. Nel 2015, invece, le elezioni furono vinte dalla Nld in un vero e proprio plebiscito. Il Myanmar apparve come una sorta di “modello” per tutto il Sud-est asiatico: un compromesso storico tra un partito democratico e popolare, i militari e le rappresentanze della miriade di etnie che si contendono larghe aree del paese.

L’Affair Rohingya

La crisi di questo modello è stata innescata proprio dal problema etnico, sommato alla questione rohingya. La crisi è stata esacerbata dall’atteggiamento dell’Occidente che ha giudicato e condannato “in remoto” (forse influenzata da lobby finanziarie islamiche) arrivando ad annunciare sanzioni che avrebbero effetti devastanti in un paese dove le milizie etniche sono veri e propri eserciti (come dimostra lo stesso Arakan Army, che si oppone al governo e condanna Aung San Suu Kyi giudicata “complice” dei rohingya). Non è un caso che l’Ashin (il Maestro) Wirathu, monaco ultranazionalista definito “il volto del terrore buddhista”, latitante da 18 mesi in quanto “fomentatore d’odio”, si sia costituito a pochi giorni dalle elezioni. Per sua ammissione, così poteva «chiamare il popolo a votare contro Aung San Suu Kyi e il ‘demone’ della National League for Democracy». Per alcuni dei suoi seguaci, Wirathu è un weikza, un mago. In questo caso però si è scontrato con una figura più forte, Amay Suu, Madre Suu, che incarna quello che è stato definito il “culto dell’eroe” diffuso in Birmania (e in tutta l’Asia, del resto, secondo gli studi di mitologia e religione comparata di Joseph Campbell).

Centinaia di rohingya passano il confine con il Bangladesh

Riconciliazione nazionale: un processo schizofrenico

I birmani, evidentemente, credono che la Signora sia la sola ad avere l’autorità politica e morale per evitare che il paese torni a essere una dittatura, realizzare la riforma costituzionale e sviluppare un’economia equa e solidale in un paese dove il 24% della popolazione vive sotto il livello di povertà. Obiettivi che dipendono da un processo di riconciliazione nazionale che procede in modo schizofrenico. È accaduto anche in queste elezioni, cancellate in molti distretti controllati da milizie etniche (negli stati Rakhine, Shan e Kachin). La decisione è stata presa per “ragioni di sicurezza” giustificate sia dagli scontri tra Tatmadaw e milizie, sia dagli appelli alla violenza di estremisti come Wirathu, e apparentemente ha ottenuto il solo risultato d’inasprire le tensioni. A differenza di quanto accaduto nel 2015, però, quando il governo eletto aveva peccato d’arroganza pensando che fosse sufficiente il sostegno della maggioranza d’etnia bamar, questa volta il portavoce della Nld ha immediatamente dichiarato la volontà di formare un governo d’unità nazionale con i partiti etnici.

A contestare il risultato delle elezioni è rimasto solo l’ex generale Than Htay, segretario dell’Usdp, che ha denunciato brogli d’ogni genere e, seguendo l’esempio di Trump, ha richiesto nuove elezioni. Peccato sia stato subito sconfessato dagli stessi militari, in particolare dal Comandante in Capo di Tatmadaw, il generale Min Aung Hlaing che ha dichiarato di accettare l’esito delle urne. A nulla è valso il supporto del segretario di stato americano Mike Pompeo, che è sembrato voler accomunare nell’ingiustizia Trump e Than Htay, senza rendersi conto di quanto potesse apparire grottesco.

Sia pure con motivazioni diverse, la vittoria della Nld appare malaccetta in gran parte dell’Occidente, dove sembra ci sia un rifiuto concettuale di ciò che hanno affermato tutte le nostre “voci” birmane: Aung San Suu Kyi è amata e gode della fiducia del suo popolo. Analisti e osservatori occidentali non cercano risposte bensì conferme alle loro opinioni. Nella maggior parte degli articoli sulle elezioni birmane la parola rohingya appare sin dalle prime righe, condizionando le analisi, piegandole alla tesi secondo cui l’utopia birmana incarnata da Aung San Suu Kyi sia mutata nell’ennesima manifestazione di dittatura.

Miscuglio febbrile

Sfugge così la complessità della situazione. «La Birmania somiglia a parti dell’Europa e del Nord America nel XIX secolo: un miscuglio febbrile di nuove libertà e nuovi nazionalismi, capitalismo sfrenato, nuove ricchezze e nuova povertà, città e baraccopoli che spuntano come funghi, governi eletti, popoli esclusi e violente guerre di frontiera; uno specchio del passato, turbo-esasperato da Facebook e dalla vicina potenza ad alta industrializzazione, la Cina» scrive Thant Myint-U nel saggio L’altra storia della Birmania. Myint-U è lui stesso un “miscuglio”: storico, ex funzionario dell’Onu, nipote di quel Maha Thray Sithu U Thant che tra il 1961 e il 1971 fu segretario generale delle Nazioni Unite, nel 2011 ha iniziato a collaborare col governo come consigliere del presidente Thein Sein, ex generale che è il vero artefice della transizione verso la semidemocrazia. Nei suoi libri la Birmania è una metafora della geopolitica asiatica. È “L’occhio del Budda”, a indicare l’importanza strategica della Birmania nello scenario della regione che era definita Indocina, punto di unione e collisione delle grandi civiltà asiatiche.

Accordi e disaccordi: rotte e trattati

Oggi unione e collisione sono tra Cina e Stati Uniti. Anzi, tra Asia e Occidente. Negli ultimi anni i fronti sono divenuti ancor più fluidi: Occidente significa Stati Uniti e Unione Europea, Asia vuol dire Cina, India, Asean (l’associazione delle nazioni del Sudest asiatico) e Asia orientale (Giappone e Corea).

Il Myanmar firma il Regional Comprehensive Economic Partnership

«Entrambe le parti, Nld e militari, seguono una linea di bilanciamento fra le grandi potenze secondo la politica sancita con la conferenza di Bandung», afferma una delle “voci” di Yangon riferendosi alla conferenza del 1955 che segnò l’affermazione del movimento dei non-allineati. Ma nella geopolitica contemporanea appare sempre più difficile – specie per paesi come il Myanmar – sfuggire all’orbita della megastrategia cinese. Se ne è avuta rappresentazione una settimana dopo il voto, il 15 novembre, quando è stato siglato il Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) l’accordo economico-commerciale tra i 10 paesi dell’Asean plus Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. Il Rcep, oltre a creare il blocco commerciale e d’investimento più grande al mondo, si integra nei progetti della Belt Road Iniziative (Bri), le nuove vie della seta, e segna lo spostamento dell’Asean nella sfera d’influenza di Pechino. È un movimento di dimensione tettonica provocato anche dalla politica estera statunitense. Il presidente Trump, per marcare il distacco dal “pivot to Asia” di Obama, che affermava il ruolo strategico dell’Asia extracinese, e ribadire il suo “America First”, nel 2017 si è ritirato dalla Trans-Pacific Partnership, l’accordo di libero scambio tra gli Usa, il Canada e altri 10 paesi del Pacifico che sino ad allora si era rivelato il maggior ostacolo al progetto della Rcep. Ironia della sorte: il 17 novembre il presidente Xi Jinping ha annunciato la disponibilità ad aderire alla Tpp.

India: la grande esclusa

Oltre all’America, altro grande assente dal Rcep è l’India, preoccupata dallo strapotere cinese. Per questo, almeno in apparenza, affianca gli Stati Uniti nella strategia per «un Indo-Pacifico libero, aperto e inclusivo». In realtà è probabile che l’India, con Giappone e Corea del Sud, cerchi di bypassare i progetti cinesi di collegare Oceano Indiano e Pacifico Occidentale. Progetti che hanno il loro centro nell’occhio del Buddha, il porto birmano di Kyaukphyu, terminale che collegherebbe la baia del Bengala con la provincia dello Yunnan e da là, seguendo uno dei corridoi delle vie della seta, con il Mar della Cina Orientale. Non a caso l’India si è rivelata ben più proattiva dell’America, “regalando” al Myanmar un sottomarino. «I militari adorano questi giocattoli e non amano troppo la dipendenza dalla Cina» aggiunge la “voce” da Yangon appassionata di questo risiko.

«Dopo le elezioni dovrebbe aprirsi una nuova stagione di partnership», dice la Soliani. Ma si riferisce a quelle americane. La senatrice, infatti, afferma che il presidente eletto Joe Biden avrebbe stabilito un rapporto personale con Aung San Suu Kyi sin dal 2016, quando era vicepresidente e incontrò la Signora a Washington, un anno dopo la visita di Obama a Yangon. Secondo la Soliani, inoltre, Suu Kyi e la nuova vicepresidente Kamala Harris sono accomunate dall’influenza del pensiero di Gandhi.

Il piano di rilancio economico

Biden ha già manifestato attenzione verso l’Asean e annunciato un piano di commercio internazionale che potrebbe contrastare la Rcep, ma sembra difficile che in Birmania se ne possano avvertire le conseguenze nel breve termine. Più probabile che la combinazione di un presidente americano attento al Sudest asiatico e l’eclatante vittoria della Nld possano invertire la tendenza di Stati Uniti e Unione Europea nei confronti di una nazione criminalizzata ma che invece esprime un percorso democratico più avanzato rispetto a molti paesi dell’area. È anche grazie al rafforzamento della Nld, inoltre, che il governo del Myanmar sta per lanciare un ambizioso piano di riforme economiche, il Myanmar Economic Resilience and Reform Plan (Merrp).

La Birmania come Singapore?

«Tutti sognano Singapore. Aung San Suu Kyi potrebbe essere come Lee Kuan Yew», dice un vecchio amico di Yangon che dimostra una fiducia totale nella Signora, tanto da paragonarla al demiurgo della città-stato. E per sottolineare quanto la Birmania stia mutando su quel modello fa un’osservazione bizzarra ma significativa riferendosi alle chiazze gialle delle cicche di betel (impasto euforizzante di noce d’areca, foglie di betel e calce) che disseminavano le strade di Yangon e di tutta la Birmania. «Per terra non c’è uno sputo di betel».

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La crisi iraniana ai tempi del coronavirus https://ogzero.org/la-crisi-iraniana-ai-tempi-del-coronavirus/ Tue, 28 Jul 2020 17:50:16 +0000 http://ogzero.org/?p=417 I dispacci del ministero della sanità iraniano non lasciano dubbi: in Iran il coronavirus ha ripreso a correre. I contagi sono in costante aumento e il numero totale dei decessi ufficialmente attribuiti al Covid-19 ha superato ormai le 17000 persone. L’allarme era scattato alla fine di giugno, con una media di oltre cento morti al […]

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I dispacci del ministero della sanità iraniano non lasciano dubbi: in Iran il coronavirus ha ripreso a correre. I contagi sono in costante aumento e il numero totale dei decessi ufficialmente attribuiti al Covid-19 ha superato ormai le 17000 persone. L’allarme era scattato alla fine di giugno, con una media di oltre cento morti al giorno; un mese dopo, il 27 luglio il portavoce del ministero della sanità ha avvertito che la media ormai supera i 200 decessi quotidiani. L’epidemia di Covid-19 così è tornata di prepotenza sulle prime pagine della stampa iraniana, da cui era pressoché scomparsa, con titoli allarmati: Il coronavirus uccide un iraniano ogni 12 minuti. Alcuni parlano di «seconda ondata», altri di «una nuova, pericolosa fase del coronavirus in Iran», e invitano a «prendere il coronavirus sul serio».

I messaggi di allarme sono alternati però a tentativi di rassicurare. Il 25 giugno il presidente Hassan Rohani aveva annunciato che l’uso della mascherina in pubblico sarebbe stato reso obbligatorio, ma aveva aggiunto che non sarebbe stato necessario chiudere gli esercizi commerciali – se tutti avessero mostrato senso di responsabilità e rispettato le norme del “distanziamento”. Alla fine di luglio, di fronte al contagio che continua ad aumentare, il viceministro della Sanità Iraj Harirchi ha osservato che è Tehran la «fonte di diffusione» del coronavirus nel resto del paese, visto che ogni giorno centinaia di migliaia di persone raggiungono l’area metropolitana per lavoro o altro. Un moltiplicatore di contagi sono «usanze e tradizioni locali» come feste e celebrazioni religiose: Harischi cita il caso di 120 persone infettate dopo aver partecipato alla stessa festa di matrimonio. Ha però aggiunto che il 95 per cento dei contagiati guarisce senza bisogno di particolari cure.

Sta di fatto che a metà giugno il ministero della sanità ha dichiarato “zona rossa” cinque province (Bushehr, Khuzestan, Est Azarbaijan, Kermanshah e Hormozgan, nel sud-ovest, ovest e nord del paese) e poi via via altre: ora sono 12, sul totale di 31.

Se basteranno le mascherine e gli appelli al distanziamento, resta da vedere. Intanto, la ripresa dell’epidemia pone un dilemma ai dirigenti della Repubblica Islamica dell’Iran, restìi ad ammettere che le restrizioni imposte in marzo sono state probabilmente tolte troppo presto.

All’inizio di marzo l’Iran era emerso tra i maggiori punti caldi della pandemia del coronavirus Sars-CoV-2 fuori dalla Cina (prima di essere superato dall’Italia). Colta di sorpresa, Tehran aveva dapprima cercato di minimizzare: il primo decesso ufficialmente attribuito al Covid-19 risale al 19 febbraio, ma solo il 5 marzo il governo iraniano ha dichiarato la “mobilitazione nazionale” per contenere l’epidemia. I media internazionali ne hanno riferito soprattutto per accusare le autorità iraniane di lentezza e avanzare dubbi sul conteggio ufficiale dei decessi, che molti in Iran e fuori considerano sottostimati. In effetti una analisi del Centro studi del Parlamento iraniano in aprile suggerisce che il numero reale dei decessi dovuti a Covid-19 sarebbe quasi il doppio di quello dichiarato dal ministero della sanità.

In ogni caso alla vigilia di Nowrooz, il capodanno persiano che quest’anno cadeva il 20 marzo, il governo ha imposto una chiusura generalizzata, benché non totale: chiuse scuole e università, sospese le preghiere del venerdì, annullate tutte le manifestazioni culturali e festival di ogni tipo, limitate le attività commerciali, scoraggiati (benché non vietati) gli spostamenti interni.

Poi però, a partire dall’11 di aprile il blocco è stato gradualmente revocato, nonostante il parere contrario di molti esperti di sanità pubblica: prima le attività “a basso rischio” poi via via tutto il resto (solo eventi culturali, cinema e moschee hanno prolungato la chiusura per tutto maggio).

Il punto è che l’epidemia ha colpito l’Iran in un momento difficile, tra crescenti tensioni internazionali e con un’economia già colpita dalla recessione e dalle sanzioni imposte dagli americani. E con un quadro politico interno decisamente spostato a favore delle fazioni conservatrici, opposte al presidente Rohani e alla sua linea di dialogo internazionale e moderazione interna: sono queste che dominano la nuova legislatura insediata formalmente il 27 maggio.

Per ironia, le elezioni parlamentari tenute il 21 febbraio sarebbero proprio uno dei motivi per cui il governo non aveva voluto dichiarare l’emergenza per il coronavirus né isolare il primo focolaio, registrato allora nella città di Qom, sede delle scuole teologiche molto presenti nella politica interna: temeva di scoraggiare la partecipazione al voto. Infatti era previsione unanime che l’affluenza alle urne sarebbe stata bassa, dopo mesi di crisi: la repressione delle proteste di novembre, l’escalation della tensione con gli Stati Uniti e l’uccisione del generale Soleimani, lo sconcertante episodio dell’aereo ucraino abbattuto per errore. Per non parlare dell’esclusione di gran parte dei candidati “riformisti”. E infatti la nuova legislatura, dominata dagli ultraconservatori, è stata eletta con il voto meno partecipato nella storia della Repubblica Islamica: appena il 42 per cento di affluenza, e solo il 25 per cento a Tehran (le precedenti elezioni parlamentari avevano visto votare il 61 per cento degli elettori, e per le presidenziali del 2017 alle urne si era recato il 73 per cento degli aventi diritto).

Perché l’Iran è uscito dal “lockdown”

Rimettere in moto l’economia era “una necessità” per il paese,  ha argomentato il presidente Rohani in un discorso del 22 aprile: l’Iran non poteva permettersi di prolungare il blocco.

Per capire perché il presidente Rohani abbia preso una decisione così rischiosa sul piano sanitario bisogna ricordare che già prima dell’epidemia, l’Iran era in recessione profonda. Il Prodotto interno lordo aveva registrato una crescita negativa del 7 per cento nell’anno fiscale concluso il 20 marzo (secondo il Fondo monetario internazionale la decrescita sarebbe più profonda, meno 9,5). L’inflazione aveva raggiunto il 41 per cento secondo la stima della Banca centrale iraniana, un livello che non si vedeva dalla fine della disastrosa presidenza di Ahmadi Nejad.

Tutto questo è in buona parte conseguenza della nuova ondata di sanzioni decretata dagli Stati uniti a partire dal maggio 2018, quando il presidente Donald Trump ha deciso di ritirarsi dall’accordo sul nucleare (il Joint Comprehensive Plan of Action, o Jcpoa) firmato nel 2015 dall’Iran e da sei potenze mondiali (Usa, Russia, Cina, e da Francia, Regno unito e Germania in rappresentanza dell’Unione europea). Tre anni dopo le grandi speranze aperte da quell’accordo, per l’Iran è cominciata una nuova stagione di isolamento economico.

Le sanzioni decretate da Washington infatti sono particolarmente pesanti, benché unilaterali, sia perché gli Usa bloccano l’accesso dell’Iran al circuito bancario internazionale, sia perché con il meccanismo delle sanzioni secondarie colpiscono anche i soggetti di paesi terzi che mantengono relazioni economiche con Tehran. I paesi europei firmatari del Jcpoa hanno più volte proclamato la volontà di mantenere aperti canali commerciali con l’Iran; a questo dovrebbe servire uno strumento finanziario chiamato Instex, lungamente discusso e varato infine nel gennaio del 2019: ma senza grandi conseguenze pratiche;  la prima e per ora unica transazione di merci con questo meccanismo è avvenuta nel marzo del 2020.

La prima conseguenza che le esportazioni iraniane sono crollate e le importazioni sono diventate più care. In particolare è crollato l’export di petrolio, specialmente preso di mira da quella che la Casa Bianca  definisce “strategia della massima pressione”.

L’effetto è stato drastico. Nel giugno 2018, quando gli Stati uniti si sono ritirati dall’accordo nucleare, l’Iran esportava 2,7 milioni di barili di greggio al giorno (bpd, barrel-per-day); nel settembre di quell’anno (ancora prima che le nuove sanzioni entrassero in vigore) era già sceso a 1,9 milioni. Da allora ha continuato a scendere: un milione di bpd nell’aprile del 2019, una media di 260000 bpd nell’ottobre 2019. Il ricavato netto è sceso di conseguenza, da un picco di 67 miliardi di dollari nel 2018 a circa 20 miliardi di dollari nei primi sei mesi del 2019 (secondo la Aie, Agenzia internazionale per l’energia). In altre parole, le sanzioni costano all’Iran miliardi di dollari di mancato reddito. Ed è a questo punto che arriva il coronavirus.

La pandemia sotto sanzioni

L’Iran è l’unico paese al mondo che stia combattendo una pandemia sotto sanzioni. Il paese ha un servizio sanitario tra i migliori della regione mediorientale, con una rete di strutture decentrata e personale medico e paramedico di ottimo livello, tra cui molti specializzati all’estero (anche se ha un numero di posti letto per abitante appena sufficiente in tempi normali). Ma sconta una cronica carenza di attrezzature e farmaci, proprio a causa delle sanzioni applicate dagli Stati Uniti. Il materiale sanitario in teoria non è coperto da embargo, ma di fatto anche importare attrezzature mediche o ospedaliere è quasi impossibile perché l’esclusione delle banche iraniane dal sistema bancario globale blocca i normali canali di pagamento. Il 27 febbraio il governo svizzero ha ufficialmente varato un meccanismo finanziario per permettere l’acquisto da parte iraniana di medicinali, cibo e forniture “umanitarie”. Ma due mesi dopo la prima transazione “pilota”, una vendita di materiale medico per 2,5 milioni di dollari, non si è visto più nulla: segno che la “massima pressione” esercitata da Washington continua a dissuadere molte aziende dal vendere all’Iran materiale medico peraltro perfettamente legale.

Il confinamento intanto ha aggravato la recessione, com’era inevitabile. Ha colpito in primo luogo il commercio, perché gli acquisti che precedono il Nowrooz contano per circa metà del fatturato annuo dei negozianti e di molte imprese di beni di consumo. Poi l’industria turistica: ristoranti, agenzie viaggi e hotel sono rimasti semivuoti durante le vacanze più importanti dell’anno; il giro d’affari del settore è crollato di oltre il 90 per cento, secondo le prime stime.

Un bilancio più approfondito resta da fare. L’economia iraniana è molto più diversificata di molti altri paesi grandi produttori di idrocarburi, e le sanzioni hanno accelerato l’emancipazione dell’Iran dal petrolio. Il settore manifatturiero rappresenta già da tempo l’ossatura dell’economia nazionale, con una struttura di piccole e medie imprese che producono sia per un mercato interno di 80 milioni di persone, sia per l’esportazione – in particolare nella regione circostante (dall’Iraq alla Turchia, agli Emirati arabi, alle repubbliche dell’Asia centrale). Anzi: è proprio questo settore – dalle automobili alla meccanica all’agroalimentare – che ha permesso all’economia iraniana di resistere alla “massima pressione” esercitata dalle sanzioni Usa. L’anno scorso l’export di prodotti non-oil ha fatto 41 miliardi di dollari superando per la prima volta il reddito petrolifero. E mentre il settore petrolifero si è contratto del 35 per cento nell’anno appena trascorso a causa delle sanzioni, il manifatturiero si è contratto appena dell’1,8 per cento.

Se questo lascia sperare per una futura ripresa, il punto è che l’epidemia di Covid-19 ha effetti disastrosi nell’immediato.

Secondo alcune stime il prodotto interno iraniano sarà diminuito del 15 per cento a causa del blocco delle attività durante il confinamento. Il valore della valuta iraniana, il Rial, è crollato negli ultimi due anni e ha avuto un ulteriore crollo alla fine di giugno: sotto la duplice spinta delle aspettative nere e di manovre speculative.  Di sicuro sono andati in fumo molti posti di lavoro. Anche qui sono stime preliminari: la  stampa iraniana cita la Mezzaluna rossa iraniana secondo cui due milioni di lavoratori alla giornata hanno perso ogni reddito. Prima del coronavirus circa 3 milioni di iraniani figuravano disoccupati (ma secondo alcune stime erano di più); l’11 aprile un portavoce del governo aveva detto che un lockdown prolungato avrebbe aggiunto altri 4 milioni di disoccupati. In termini di impoverimento e aumento delle diseguaglianze, il futuro è fosco.

L’allarme degli economisti

In una lettera indirizzata al presidente Hassan Rohani il 3 aprile, una cinquantina di economisti iraniani avvertivano che l’impatto dell’epidemia aggraverà in modo insostenibile la recessione e il declino della produzione interna, con la conseguenza di accrescere la povertà e il disagio sociale, approfondire il deficit di bilancio dello stato, far lievitare l’inflazione. Dicevano che l’Iran rischia nuove proteste e disordini nelle periferie urbane a basso reddito – magari alla fine di quest’anno o nei primi mesi del prossimo.

Una prospettiva tutt’altro che remota, per chi ricordi l’ondata di rabbia innescata dall’aumento del prezzo della benzina nel novembre scorso. Allora la repressione fu così brutale da suscitare sconcerto nel paese e spingere il Majlis (il parlamento) a istituire una commissione d’inchiesta. Alla fine di maggio proprio il deputato che presiede quella commissione ha dichiarato che 230 manifestanti sono stati uccisi durante i disordini: la prima ammissione, benché semiufficiale.

Nella loro lettera, gli economisti propongono diverse misure per attutire il crollo dell’economia, a cominciare da una serie di sussidi ai cittadini e alle imprese.

In parte, è proprio ciò che il presidente Rohani ha fatto. Il 16 marzo il suo governo ha annunciato misure come un “bonus” una tantum per i cittadini già percipienti dei programmi di welfare statale; piccoli prestiti senza interesse ripagabili in trent’anni a piccoli negozianti e venditori ambulanti; sussidi e inserimento al lavoro per le madri sole. È stato annunciato anche un aumento del 50 per cento del salario degli impiegati pubblici di basso livello, che rientrano senza dubbio tra le fasce più povere della società.

Questi però sono piccoli interventi. Il governo ha anche sospeso per tre mesi l’esazione delle imposte per le aziende in difficoltà. E ha promesso di stanziare l’equivalente di 6,25 milioni di dollari per garantire prestiti a tasso agevolato (ripagabili in tre anni al tasso del 12 per cento, mentre le banche praticano normalmente tassi del 20 per cento): molti hanno obiettato che doveva offrire almeno prestiti a interesse zero.

In termini di “stimolo” per rilanciare l’economia è ben poco, se si pensa alle migliaia di miliardi mobilitati in Europa. Il fatto è che il governo ha serie difficoltà a offrire assistenza finanziaria  agli imprenditori iraniani, per il semplice motivo che le entrate dello stato si sono ridotte in modo drammatico proprio in questi mesi di crisi sanitaria. La domanda mondiale di petrolio è crollata in seguito alla pandemia, facendo scendere il prezzo, e questo ha colpito le già declinanti esportazioni iraniane. Anche le entrate fiscali sono crollate, con tante aziende costrette a chiudere o in crisi.

Questo ha spinto il governo Rohani prima a chiedere (e ottenere) il permesso del parlamento a prelevare un miliardo di euro dal Fondo nazionale per lo sviluppo, una riserva speciale dello stato. Poi a chiedere di attingere al fondo speciale del Fondo monetario internazionale (Fmi) per la lotta al Covid-19, con un prestito di 5 miliardi di dollari: la prima volta che l’Iran chiede un prestito al  Fmi dalla Rivoluzione del 1979. Un gesto “politico” dunque, con cui Rohani si è guadagnato forti critiche interne dall’opposizione conservatrice. Ma comunque vano: è assai improbabile che il prestito sia concesso, tanto più che Washington ha una posizione preminente nel Consiglio d’Amministrazione del Fmi e blocca la domanda iraniana.

Il governo si è poi rivolto all’interno, proponendo dei titoli di stato (una sorta di “coronavirus bond”) per attingere al risparmio degli iraniani – e magari alle grandi fortune che un certo numero di super-ricchi nazionali tiene ben al sicuro all’estero: con quanta fortuna si vedrà.

C’è però da considerare un altro aspetto della risposta pubblica alla crisi sanitaria. Anche in Iran l’epidemia ha mobilitato a vari livelli la società civile, suscitando un diffuso movimento di solidarietà esemplificata da casi di “crowdfunding” per finanziare servizi medici, o la Campagna chiamata Nafas, “respiro”: una coalizione di organizzazioni umanitarie non governative, imprese e camere di commercio, che ha cercato di facilitare l’importazione di beni necessari (protezioni mediche, per esempio), arrivando ad allestire una clinica specializzata in pazienti Covid (ne accenna qui l’analista Bijan Khajehpour).

Notizie come questa fanno pensare alla capacità di resistenza degli iraniani: abituati a vivere tra crisi e sanzioni, faranno fronte anche all’epidemia.

Il 27 luglio il portavoce del ministero della Sanità iraniano ha annunciato che in media 200 persone al giorno sono morte di Covid-19 nelle ultime due settimane; il numero totale dei decessi attribuiti ufficialmente alla pandemia ora supera i 16000. Le provincie sottoposte a restrizioni per motivi sanitari sono salite a 12 (su 31). Secondo il viceministro della Sanità Iraj Harirchi però è Tehran la “fonte di diffusione” del coronavirus nel resto del paese, visto che centinaia di migliaia di persone vi si recano ogni giorno per lavoro o altro. Il dato positivo e che il 95 per cento delle persone infettate guarisce senza bisogno di particolari cure.

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