Eisenhower Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/eisenhower/ geopolitica etc Thu, 02 Nov 2023 19:10:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 L’invincibile intreccio tra industria bellica, finanza, politica e istituzioni americane https://ogzero.org/industria-bellica-e-finanza/ Thu, 02 Nov 2023 19:09:10 +0000 https://ogzero.org/?p=11798 Industria bellica e finanza, protagoniste dell’escalation in un’economia di sostegno alla guerra. Nella giornata di Halloween i principali leader militari e diplomatici degli Usa hanno esortato un Congresso sempre più diviso a inviare importanti aiuti immediati a Israele e all’Ucraina, sostenendo in un’audizione al Senato che un ampio sostegno all’assistenza darebbe un segnale di forza […]

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Industria bellica e finanza, protagoniste dell’escalation in un’economia di sostegno alla guerra. Nella giornata di Halloween i principali leader militari e diplomatici degli Usa hanno esortato un Congresso sempre più diviso a inviare importanti aiuti immediati a Israele e all’Ucraina, sostenendo in un’audizione al Senato che un ampio sostegno all’assistenza darebbe un segnale di forza degli Stati Uniti agli avversari in tutto il mondo.
La testimonianza del Segretario alla Difesa Lloyd Austin e del Segretario di Stato Antony Blinken è arrivata mentre la massiccia richiesta di aiuti d’emergenza dell’amministrazione per i conflitti nei due paesi, pari a 105 miliardi di dollari, incontrava ostacoli.

Eccitatissima la finanza: balzano nuovamente i titoli del comparto dell’industria pesante, dopo i dividendi a 9 cifre dopo la guerra in Ucraina;  si tratta di investimenti sicuri che provengono da contratti governativi a lungo termine e sicuri, finché prevale l’economia e la politica di guerra dell’amministrazione democratica. Altri miliardi di dollari gettati in guerre destinate a non trovare soluzione, perché non devono risolversi fino allo scoppio provocato di un nuovo orizzonte di guerra; foraggiare le grosse industrie belliche (strettamente correlate con l’amministrazione Biden e con il Pentagono) e… causare massacri di civili. In Usa vengono arrestati i manifestanti israeliti (300) contro questo dispendio di denaro; in Italia si estendono le servitù militari e le vendite di armi, le relazioni tra Idf, politecnici, industria delle armi.

Non può non stravincere la manovra guerrafondaia della amministrazione di Washington, perché l’economia di guerra è l’unica strategia rimasta a Biden per mantenere agli Usa il predominio sul mondo; dunque per chi avversa l’economia di guerra aprire una breccia in quel muro di miliardi bruciati nei missili è l’unica salvezza per evitare l’escalation che consentirebbe al sistema armi-potere-istituzioni di sopravvivere alla propria implosione.

Perciò abbiamo ritenuto utile riprendere un articolo di Eric Salerno uscito su “il manifesto” del 22 ottobre 2023 (i link esterni e interni sono stati aggiunti da ogzero), perché sta tornando nei palinsesti il confronto sul bilancio federale, che si scontra con lo stanziamento di 100 miliardi in supporti bellici per i 3 teatri di guerra (60 a Kyiv, 10 a Tel Aviv, il resto a Taipei): i 3 sostegni dell’economia di guerra; poi ci sono gli altri conflitti che assorbono altre armi, altre strategie, altre economie di guerra speculari e dipendenti da quello che è lo sgocciolamento sui conflitti periferici della economia di guerra di riferimento, proxy della nazione predominante


Non può non vincere l’import-export delle armi statunitensi

Chi sta vincendo? Chi vincerà?

Israele, certamente una grande potenza, ricca di un arsenale di armi nucleari di ultima generazione che non può utilizzare? Hamas, un movimento integralista, dotato, come si è visto, di armi a sufficienza per andare avanti almeno due settimane? Prima di cercare di rispondere credo che valga la pena raccontare un mio incontro, di molti anni fa, con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Non era ancora stato eletto premier ma aveva già scritto e pubblicato un libro – edito anche in Italia da Mondadori – sul terrorismo.
Per lui erano terroristi anche i combattenti, donne e uomini, del Fronte di liberazione algerino – Fln – che erano riusciti a costringere i francesi a lasciare il loro “territorio d’oltremare” e cercare, senza molto successo, di aprire un capitolo nuovo nella loro a dir poco devastante relazione con il popolo magrebino.
La nostra conversazione fu interrotta da una telefonata. C’era stato un attacco di militanti di Hezbollah contro una pattuglia israeliana. Se ricordo bene alcuni militari furono uccisi o feriti. Per lei sono terroristi?, chiesi. «Per me quelli di Hezbollah sono terroristi anche se, questa volta, attaccando una pattuglia di militari in divisa, hanno compiuto un’azione militare». I militanti di Hamas che hanno ucciso donne, bambini, uomini azioni, sono terroristi; quelli che hanno ucciso o catturato militari israeliani in divisa, dunque, hanno compiuto un’azione militare.

Non hanno vinto la loro guerra e anche se è presto per tirare le somme, dubito che usciranno vincitori da questo conflitto. E nemmeno, se parliamo di azioni armate, il popolo palestinese riuscirà a vincere. Israele allora? Sta vincendo? Ci vorranno molti anni, forse più di una generazione perché il popolo ebraico di quel giovane paese mediorientale possa considerarsi vincente.
E allora, chi vincerà? Quello che il generale americano Eisenhower, eroe della guerra in Europa e presidente degli Stati Uniti disse lasciando la Casa bianca: mise in guardia il popolo americano sul grande potere del “complesso politico-militare”. Mentre ora Biden chiede più di 100 miliardi di dollari al Congresso per le guerre in corso, per Israele, l’Ucraina e in vista per Taiwan, la grande industria americana degli armamenti ha già incassato miliardi, negli ultimi due anni, con la guerra in Ucraina e ora si prepara a guadagnare ancora di più con il conflitto Hamas-Israele.

Pacchetti di armi americane e proteste di americani

Il presidente Biden, interessato da sempre al benessere di Israele ma, comprensibilmente, oggi ancora più interessato a far vincere al suo partito (Democratico) le presidenziali dell’anno prossimo. Vorrebbe, dice, restare alla Casa bianca o quanto meno mantenere l’ambita poltrona per un suo collega di partito. Non tutti i democratici sono d’accordo con la politica di Biden e non solo quella che riguarda la sua politica e le sue alleanze incerte spesso contraddittorie. E proprio ora che ha promesso un nuovo pacchetto di armi per Israele arrivano una marea di proteste da sostenitori americani, molti dei quali ebrei.

Fedeli funzionari

Un funzionario del Dipartimento di stato americano con un ruolo chiave negli accordi sulle armi ha annunciato mercoledì le proprie dimissioni, citando le decisioni «miopi, distruttive, ingiuste e contraddittorie» dell’amministrazione Biden che lo hanno costretto a innumerevoli «compromessi morali». Josh Paul – così si chiama – per undici anni ha lavorato all’Ufficio per gli affari politico-militari del dipartimento che supervisiona proprio il commercio di armi con altri paesi e ha definito la risposta della Casa bianca all’attacco di Hamas

«una reazione impulsiva costruita su pregiudizi, convenienza politica, bancarotta intellettuale e inerzia burocratica».

Analisti finanziari

Gli analisti dei mercati finanziari, però, sono super-eccitati. Come leggiamo sul sito di uno dei grandi gestori di fondi e investimenti:

«Il National Defense Authorization Act per l’anno fiscale 2024 prevede 886,3 miliardi di dollari di spesa per la difesa statunitense, in aumento del 3,3% rispetto ai livelli del 2023. La guerra in Ucraina ha già incrementato la spesa degli Stati Uniti e dei suoi alleati, ma le dinamiche nel settore della difesa sono cambiate radicalmente dopo che Hamas ha attaccato Israele il 7 ottobre, portando alla successiva dichiarazione di guerra di Israele».

L’analista della Bank of America, Ronald Epstein afferma che

«la guerra in Medio Oriente potrebbe costringere il governo degli Stati Uniti ad aumentare gli investimenti nell’industria della difesa, e alcuni titoli del settore della difesa hanno registrato un balzo dall’inizio del conflitto. I titoli della difesa sono investimenti interessanti – spiega – perché spesso hanno contratti governativi prevedibili e a lungo termine».

Le cifre del Sipri

Dal Sipri, un po’ di cifre. Tre dei primi 10 importatori nel 2018-22 sono in Medio Oriente: Arabia Saudita, Qatar ed Egitto. L’Arabia Saudita è stata il secondo più grande importatore di armi al mondo nel 2018-22 e ha ricevuto il 9,6% di tutte le importazioni di armi in quel periodo. Le importazioni di armi del Qatar sono aumentate del 311% tra il 2013-17 e il 2018-22, rendendolo il terzo importatore di armi al mondo nel 2018-2022.

La grande maggioranza delle importazioni di armi in Medio Oriente proveniva dagli Stati Uniti (54%), seguita dalla Francia (12%), dalla Russia (8,6%) e dall’Italia (8,4%). Includevano più di 260 aerei da combattimento avanzati, 516 nuovi carri armati e 13 fregate. Gli Stati arabi della sola regione del Golfo hanno effettuato ordini per altri 180 aerei da combattimento, mentre 24 sono stati ordinati dalla Russia e dall’Iran (che non ha ricevuto praticamente armi importanti durante il 2018-2022).

L’escalation innescata da fanatici innominabili

Un dato molto interessante, quest’ultimo, quando si ascoltano voci che vorrebbero Teheran il maggiore sostenitore di Hamas mentre nessun, per ora, incolpa alcuni grandi acquirenti arabi notoriamente vicini all’organizzazione che ha sferrato l’attacco a Israele. Attacco che rischia di trascinare una parte del mondo in un conflitto di più vaste proporzioni.

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La guerra cambia https://ogzero.org/la-guerra-cambia-o-no/ Wed, 14 Apr 2021 07:14:44 +0000 https://ogzero.org/?p=3072 Blinken annuncia per il September/Eleven 2021 la fine del conflitto più lungo nella storia degli Usa. Con il ritiro degli ultimi 2000 boots on the ground dall’Afghanistan si concludono vent’anni di guerra che sono costati più di 100.000 morti civili e qualche migliaio di combattenti solo nel conflitto afgano. Dove sono stati utilizzati massicciamente quei […]

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Blinken annuncia per il September/Eleven 2021 la fine del conflitto più lungo nella storia degli Usa. Con il ritiro degli ultimi 2000 boots on the ground dall’Afghanistan si concludono vent’anni di guerra che sono costati più di 100.000 morti civili e qualche migliaio di combattenti solo nel conflitto afgano. Dove sono stati utilizzati massicciamente quei militari professionali appartenenti ad agenzie che forniscono servizi, anche e soprattutto bellici (ma pure logistici) in ogni situazione di conflitto: i “contractor”, quei prezzolati che seguono regole di ingaggio specificate nei contratti – spiegati con precisione da Stefano Ruzza nel video inserito nell’articolo – stipulati anche con governi, che non si possono permettere le “spese” di una guerra o di apparire come invasori. “La guerra cambia” è il titolo di questo splendido contributo di Eric Salerno, che descrive il mondo di questi militari di professione a partire da una sua intervista di sessant’anni fa a un soldato di ventura tedesco, impegnato nell’operazione coloniale contro il Congo di Lumumba… e così si insuffla il dubbio che la trasformazione della forma in cui si presenta la “Guerra” sia reale. Il discorso poi si dipana in giro per tutto il mondo e in ogni guerra più o meno dichiarata, mentre in parallelo scorrono racconti e figure inquietanti del passato, come il racconto dell’incontro vecchio di 50 anni di Roman Gary con un ex agente dell’Oas impazzito nella sua tana a Gibuti. E allora il dubbio su quanto sia cambiata la guerra diventa certezza in questa carrellata degna di Ermanno Olmi e del suo Il mestiere delle armi… che non cambia mai a dispetto di quanto sia cangiante l’idea di guerra.


Mercenari, legionari, contractors e… droni

La verità sulla morte di Lumumba

«I am a mercenary coming from the Congo. I want to tell you how Lumumba was killed». Così Gerd Arnim Katz – il suo nome dichiarato – si presentò alla redazione di “Paese Sera” una mattina del febbraio 1961. Ascoltai la sua storia (in parte vera in parte fantasia) e il quotidiano romano di sinistra uscì con un titolo a piena prima pagina sulla morte del leader africano, trucidato per ordine della Cia. Katz era una pedina minore in un campo di battaglia vasto come sta tornando a essere l’Africa di oggi.

"Paese Sera" - 23 e 24 febbraio 1961

Intervista a Gerd Arnim Katz, testimone dell’assassinio di Patrice Lumumba nella sede di “Paese Sera”

Non era certo un Mike Hoare, il più celebre dei mercenari del Novecento, che nel 1964 ebbe da Moise Ciombe, presidente dell’autoproclamato stato di Katanga, una provincia del Congo, l’incarico di reprimere la rivolta dei Simba, un esercito popolare di liberazione di ispirazione maoista che era riuscito a conquistare l’importante città di Stanleyville, prendendo in ostaggio oltre 1500 cittadini europei. E tanto meno poteva, quel mercenario approdato al quotidiano romano, essere paragonato a Rolf Steiner, ex legionario, ex capo dei mercenari in Biafra, ingaggiato come consulente militare dai ribelli cristiani Anya Nya impegnati con l’aiuto del Mossad israeliano nella guerra secessionista nel Sudan meridionale e finito in carcere dopo un lungo processo a Khartoum.

Legionari resi folli dall’inaccettabile fine dell’impero coloniale…

Katz fu, però, il primo di non pochi soldati di ventura che incontrai nei miei giri per l’Africa e altrove dove oggi, nel continente nero come nel resto del mondo, la guerra sta assumendo nuove forme e impiega nuovi-vecchi attori. I mercenari si chiamano contractors (suona meglio) ma spesso sono quelli di sempre; i drone operators si chiamano piloti anche se stanno seduti per ore davanti a uno schermo ben distante dal campo di battaglia. I fanti del prossimo futuro sono robot sofisticati come quelli di cui leggevo da bambino nei racconti di fantascienza di Isaac Asimov o Ray Bradbury. La guerra cambia. «In meglio!», asserisce chi ha investito nella nuova faccia del military-industrial complex, come lindustria degli armamenti o, diciamo, della guerra fu definita dal generale poi presidente degli Usa Eisenhower. «In peggio!», sostengono coloro che trovano difficile pensare a un robot o a un pilota della nuova generazione e tanto meno all’amministratore delegato di una società, che offre manodopera armata come se fossero colf, badanti o operatori del sesso, trascinato sul banco degli imputati per crimini di guerra.

Il mercato del lavoro a disposizione del quale si era messo quel Katz con cui parlai sessanta anni fa era ben diverso da ciò che offre il mondo d’oggi. All’epoca molti sbandati o pregiudicati come lui trovavano spazio nella vecchia Legione straniera francese, una specie di esercito parallelo a quello ufficiale di Parigi, formalmente sottoposto alle medesime regole di comportamento ma, come si vide nelle sue avventure in Vietnam o in Algeria, molto più elastico, per usare un eufemismo, nel trattamento del nemico.

Imaginez le drapeau tricolore sortant de ce nulle part. Un autre traîne sans vie au-dessus dune tour de guet que je reconnais immédiatement: cest celle des postes isolés en territoire viet. Une cabane de pierres entassées et autour Eh bien, oui: des sacs de sable contre les balles et une mitrailleuse qui pointe

Vous ne me croyez pas. Tant mieux. Je garderai mieux pour moi cette pierre qui brille de tous les éclats dune belle et pure folie Un homme vit là-dedans depuis six ans: lex capitaine Machonnard. Je dix ex: privé de son grade pour son action dans lOas. Devenu fou: cest ainsi quon appelle ceux qui ne peuvent se faire à la réalité. Un an dinternement. Un Homme pur qui le temps sest arrêté et ne se remettra plus jamais en marche : vous comprendrez dans un istant

Le capitaine sort une bouteille de champagne de sa serviette.

– Pour célébrer la victoire de Dien Bien Phu

[…]

Car, vous lignorez peut-être, mais Machonnard vous le dira : lIndochine et lAlgerie sont toujours françaises, le général Salan est président de la République, dans tout lAfrique  française les enfants noirs continuent à apprendre en chœur les premières lignes dIsaac et Malet : «Nos ancêtres les Gaulois avaient de longues moustaches blondes…»

(Roman Gary, Les Trésors de la mer Rouge, Gallimard-Folio, Paris, 1971)

… e i crimini incarnati in una figura di mercenario

Rolf Steiner

Ritratto di un mercenario realizzato da Eric Salerno il 21 agosto 1971 per “Il Messaggero”

Le nuove compagnie di ventura

Oggi la legislazione a livello internazionale distingue tra i mercenaries – tutti fuorilegge – e i contractors, ossia dipendenti delle numerose società private o semigovernative che operano saltellando da un conflitto a un altro. Certamente l’esempio più clamoroso risale ai momenti più caldi delle guerre in Iraq e in Afghanistan quando gli Usa impiegarono oltre 260.000 di questi contractors, in gran parte ex militari o ex agenti di polizia. Spesso erano più dei militari stelle e strisce schierati nei due fronti. I loro compiti andavano dalla costruzione delle basi e dei campi rifugiati al servizio mensa e al mantenimento delle armi; dalla sicurezza degli impianti a quella dei diplomatici. E anche all’interrogatorio dei detenuti non sempre condotto con il rispetto delle convenzioni internazionali sul trattamento riservato ai prigionieri di guerra.

I due fronti, afgano e iracheno, sono ancora vitali per l’industria militare (anche come testing ground per armi e sistemi) e ai contractors Usa si sono aggiunti molti altri. La famosa – o infame – Blackwater fondata nel 1997 da Erik Prince, un ex Navy Seal con un grande patrimonio di famiglia fu costretta a cambiare nome nel 2011 dopo numerosi scandali che coinvolgevano loro operativi e almeno un processo. L’incidente più clamoroso risale al 16 settembre 2007 quando a Baghdad 17 iracheni, di cui almeno 14 civili, rimasero uccisi dal fuoco dai contractors della compagnia militare privata: la Blackwater ora si chiama Academi. Ed è sempre la prima per importanza di un lungo elenco.

Erik Prince

Forze militari in affitto: Erik Prince, fondatore della Blackwater-Academi

Dall’altro lato di quella che era la cortina di ferro negli anni della contrapposizione Usa-Urss, gli fa concorrenza la misteriosa Wagner Group, una organizzazione paramilitare che secondo alcuni farebbe capo al ministero della difesa di Mosca. Formalmente, per quanto si riesce a capire, è di proprietà di un uomo d’affari (Yevgeny Prigozhin) con legami con il presidente russo Putin. Seppure a distanza (relativa) quelli di Academi e di Wagner si scontrano-sfiorano nel vasto, complicato, scacchiere della guerra in Siria la cui popolazione, peraltro, è diventata un grande serbatoio di reclutamento di mercenari. Il gruppo privato russo li usa sia nei conflitti indiretti non solo in Siria ma anche nella guerra in Donbass in Ucraina e in Libia. E secondo molte fonti anche in Sudan, Repubblica centroafricana, Zimbabwe, Angola, Madagascar, Guinea, Guinea Bissau, Mozambique e forse nella Repubblica democratica del Congo.

Sudan 1971

Mercenari già allora russi nel conflitto sudanese 1971 in un articolo di Eric Salerno per “il Messaggero” del 21 giugno 1971

Un altro esercito di mercenari (soprattutto ma non solo siriani) è quello creato dalla Turchia nel quadro dei suoi progetti egemonici. Almeno quattromila sono in Libia e altri furono utilizzati da Ankara a sostegno dell’Azerbaijan nel conflitto con gli armeni sul Nagorno-Karabakh. Questi i grandi attori ma non gli unici. Gli Emirati si sono serviti di mercenari provenienti dalla Colombia (addestrati dagli Usa) e da alcuni stati africani per la loro guerra a fianco dell’Arabia saudita in Yemen. Rifugiati afghani furono utilizzati dall’Iran in Siria a fianco di Assad. Lo stesso Gheddafi reclutava mercenari nei paesi africani a sud della Libia.

Mercenari subsahariani di Gheddafi

Gheddafi reclutava mercenari nelle zone dell’Africa subsahariana.

Milizie private, dunque, milizie al servizio di stati che cercano di nascondere il loro coinvolgimento ufficiale nei conflitti oppure ridurre-nascondere l’impatto economico o in termini di costo umano delle imprese volute dai rispettivi governi. Ma a parte queste considerazioni che riguardano la legalità dei contractors rispetto alle convenzioni internazionali viene da chiedersi cosa faranno questi mercenari quando non serviranno più ai loro committenti. Dove andranno a lavorare? Per chi?

Nuovi prodotti bellici e nuova carne da cannone

Quando l’industria della guerra riuscirà a sfornare i suoi nuovi prodotti quei mercenari sfruttati e mandati al macello non serviranno più. Nei campi di battaglia attuali si sperimentano gli eserciti del futuro. Stati Uniti, Russia e Israele sono all’avanguardia nello sviluppo di Sistemi d’Arma Autonomi Letali (Laws) che consentiranno di togliere gli esseri umani dai campi di battaglia. Recentemente uno dei responsabili del ministero della difesa di Londra si è detto convinto che nel giro di pochi anni il grosso delle forze armate del suo paese sarà rappresentato da robot-fanti in grado di uccidere in base all’input della loro intelligenza artificiale. Si parla di un’autonomia – con tutto quello che implica anche dal punto di vista legale – superiore a quella dei droni-suicida già operativi come l’Harop israeliano usato dall’Azerbaijan ripreso mentre distruggeva una batteria anti-missile russo in Armenia.

Harop Drone

Il drone suicida di fabbricazione israeliana Harop è utilizzato in ogni scenario di guerra

E qui vale la pena tornare ai contractors, a quanto possono essere considerati responsabili delle loro azioni e del controllo sui mezzi autonomi. Oggi mantenere in azione per 24 ore una pattuglia di droni armati Predator e Reaper delle forze armate americane richiede la “presenza” di 350 esseri umani molti dei quali dipendenti delle società militari private. La legislazione introdotta per
regolamentare il comportamento dei contractors Usa viene considerata da molti esperti di diritto internazionale insufficiente.

Negli altri stati che si servono di personale civile (non necessariamente cittadini di quei paesi) per operazioni militari la questione è ancora più complessa e controversa. E ci mette di fronte al futuro, quello in cui si vorrebbe affidare a un algoritmo il compito di cercare, identificare e uccidere il bersaglio giusto (umano o non) in un campo di battaglia complesso alla presenza di civili non combattenti. «Non bisogna dare retta a coloro che garantiscono che queste armi saranno intelligenti», il commento preoccupato di Noel Sharkey, presidente del Comitato internazionale per il controllo delle armi robotiche. Altri come lui sottolineano come queste nuove tecnologie sono tutte soggette a hacking e dunque possono sfuggire al controllo del committente. Un tentativo di studiare il fenomeno e creare una serie di regole d’uso è stato compiuto dal Sipri (2020). «Vi sono imperativi legali, etici e operazioni per il controllo umano dell’uso della forza e, dunque, sui sistemi di armamenti autonomi», si legge nelle conclusioni di Limits on Autonomy in Weapon Systems. Identifying Practical Elements of Human Control.

Tutto questo per quanto riguarda il mondo, diciamo, delle Nazioni disposte ad assumersi le proprie responsabilità in tempo di guerra. Pochi, finora, hanno voluto addentrarsi nel reame sempre più fluido dei conflitti per procura e degli eserciti di mercenari. Per non parlare del mondo parallelo della criminalità organizzata che oggi ancora più di ieri attinge al vasto mercato libero delle armi siano convenzionali che del futuro. Droni di fabbricazione israeliana sono stati segnalati sia nelle mani della polizia messicana che a disposizione dei grandi cartelli dei narcotrafficanti (trasporto di cocaina e altro). E le stesse organizzazioni si fronteggiano spesso grazie ai servizi di società private (molte di quelle israeliane formati da ex delle forze armate e dei servizi segreti sono sotto inchiesta a Tel Aviv) capeggiate da esperti nel mondo della cibernetica e dell’Intelligenza artificiale.

Paramilitari in Mexico

 

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Un complesso militar-industriale rinnovato e senza remore https://ogzero.org/nuovi-armamenti-e-suk-dell-usato-sicuro/ Thu, 12 Nov 2020 14:36:10 +0000 http://ogzero.org/?p=1722 A volte ritornano… le tangenti Lockheed Guerra e Pace. Pace e guerra. Distruzione e ricostruzione. Elementi fondamentali delle economie e delle contorte politiche mondiali. Appena incassati i cosiddetti “Accordi di Abramo” tra gli Emirati arabi e Israele, Donald Trump ha informato il Congresso della sua intenzione di vendere al piccolo stato arabo di fronte all’Iran […]

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A volte ritornano… le tangenti Lockheed

Guerra e Pace. Pace e guerra. Distruzione e ricostruzione. Elementi fondamentali delle economie e delle contorte politiche mondiali. Appena incassati i cosiddetti “Accordi di Abramo” tra gli Emirati arabi e Israele, Donald Trump ha informato il Congresso della sua intenzione di vendere al piccolo stato arabo di fronte all’Iran 50 caccia-bombardieri Lockheed Martin F-35-II, per una cifra che potrebbe aggirarsi attorno ai 10 miliardi di dollari (8421514000,00 euro). L’operazione ha bisogno dell’approvazione del Congresso e, indirettamente, di Israele che per bocca del suo premier Netanyahu, amico e complice del presidente uscente che farà i bagagli a fine gennaio, ha chiesto soltanto di far in modo che venisse mantenuto, come da accordi ormai consolidati dalla legislazione Usa, la superiorità militare del suo paese su tutte le altre nazioni arabe e del Vicino Oriente. E per mantenere questa superiorità serviranno nuove armi. Un funzionario della difesa israeliana ha atteso soltanto la conferma ufficiosa della sconfitta di Trump per dire al “Jerusalem Post” che non appena sarà possibile Tel Aviv vuole negoziare un nuovo pacchetto multimiliardario di assistenza militare da mettere in coda a quello stilato con Barak Obama e che scade nel 2027. Sicuramente dovrà tenere in considerazione la corsa degli arabi al F-35 e l’enorme quantità di armi acquistate dall’Arabia saudita negli ultimi anni. Sono stati che Israele considera alleati nella guerra all’Iran ma di cui si fida poco soprattutto per quanto riguarda la stabilità dei loro regimi. Stati clientelari per gli Usa che vi hanno basi militari importanti e che con i loro petro/gas-dollari continuano ad arricchire l’industria bellica americana. Spesso contro la volontà di una parte dell’establishment Usa, apparentemente incapace di contrastare la Casa bianca. Nel giugno di quest’anno l’Ispettore generale del Dipartimento di Stato (ossia il ministero degli esteri) fu licenziato su due piedi da Trump. Il presidente lo aveva scoraggiato dall’indagare sulla massiccia vendita di armi all’Arabia saudita portata avanti nonostante l’opposizione di una parte del Congresso. Il Regno era nel mirino dei parlamentari per il suo ruolo criminale nella guerra in Yemen; per l’assassinio del giornalista del “Washington Post” Jamal Khashoggi; e anche per i finanziamenti diretti o indiretti a organizzazioni islamiste collegate al terrorismo internazionale antioccidentale.

Nuovi armamenti sofisticati e suk dell’usato sicuro

È presto per capire cosa Joe Biden, sostenitore senza incertezze d’Israele, cambierà nella confusa politica Usa nei confronti di quella regione. È probabile un ritorno ai negoziati sul nucleare con l’Iran e forse ci sarà qualche passo per fermare l’idea – la “Abraham Peace” perorata da Trump e dal suo entourage di ebrei americani vicini a Netanyahu e alle sue idee estremiste – di mettere fine al conflitto arabo-israeliano, abbandonando completamente il popolo palestinese a un destino incomprensibile. Non è detto, però, che il Congresso bloccherà la vendita degli F-35 agli Emirati: non ha mai vietato una vendita già decisa al livello governativo. Di sicuro, se come probabile andrà avanti, favorirà una rinnovata corsa a nuovi più sofisticati armamenti da parte di tutti i giocatori, grandi e minuscoli, della regione. E con l’arrivo delle nuove armi, si movimenterà il solito grande suk dell’usato che come più di una volta in passato potrebbe portare armi “superate” ma più che efficienti nelle mani dei nemici degli Usa e dell’intero mondo occidentale.

Un filo di acciaio imbastisce l’industria bellica con la politica americana

Donald Trump, a differenza del suo predecessore Barak Obama, responsabile quanto meno della devastazione della Libia e, in qualche modo, anche della Siria, mantenendo le sue promesse pre-elettorali non ha avviato nuovi conflitti ma questo non significa che non abbia mantenuto quello stretto rapporto che da anni lega il mondo degli armamenti alla politica americana. E non solo americana. Oltre mezzo secolo dopo il famoso discorso-ammonimento d’addio dell’allora presidente Usa Dwight D. Eisenhower, i timori del generale passato alla politica sono diventati una realtà che influisce su tutti gli inquilini della sala ovale. E su chi aspira ad abitarci.

Dwight D. Eisenhower

Image from the broadcast of President Dwight D. Eisenhower and his farewell address to the nation on January 17, 1961, from the White House in Washington, D.C. (National Archives)

«Nei concili di governo dobbiamo guardarci dall’acquisizione di influenze che non diano garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro».

Ike didn’t like weapons?

Pochi allora vollero attribuire molta importanza a quelle parole di Eisenhower – il generale che aveva portato alla vittoria l’alleanza contro il nazifascismo – pronunciate il 17 gennaio 1961 nel momento in cui stava lasciando la Casa bianca. Era stato eletto nelle liste del Partito repubblicano, lo stesso di Donald Trump e di altri outsider alla politica come l’attore Ronald Reagan, di ben altro spessore grazie a una squadra di consiglieri più capaci. Ike, così era chiamato da tutti, era l’uomo più popolare degli Stati Uniti. Sei anni prima, il 17 giugno 1945, mia madre volle portarmi – avevo sei anni – dalla nostra casa nel Bronx fino a Manhattan per essere con i quattro milioni di americani che accolsero al suo ritorno negli Usa l’eroe della guerra. Indossavo orgoglioso una giacca “modello Ike” – di moda perché era stato adottato dal generale e da molte truppe – che la mamma aveva tagliato e cucito con le sue mani.

Per Eisenhower, furono sufficienti i due mandati, otto anni, alla Casa Bianca, per comprendere i rischi insiti in un’industria bellica capace di influenzare la politica di una grande potenza come erano diventati gli Stati Uniti. Voleva un’America in grado di difendersi dagli orrori che aveva visto con i suoi occhi in un’Europa devastata dalla ferocia delle menti e delle armi ma nutriva molto più di un sospetto sul mostro che era cresciuto in casa per combattere quei mali.

«Un elemento vitale nel mantenimento della pace sono le nostre istituzioni militari. Le nostre armi devono essere poderose, pronte all’azione istantanea, in modo che nessun aggressore potenziale possa essere tentato dal rischiare la propria distruzione…

Questa congiunzione tra un immenso corpo di istituzioni militari e un’enorme industria di armamenti è nuovo nell’esperienza americana. L’influenza totale nell’economia, nella politica, anche nella spiritualità è sentita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del governo federale. Riconosciamo il bisogno imperativo di questo sviluppo. Ma tuttavia non dobbiamo mancare di comprenderne le gravi implicazioni. La nostra filosofia ed etica, le nostre risorse e il nostro stile di vita sono coinvolti; la struttura portante della nostra società.

Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà o processi democratici. Non dobbiamo presumere che nessun diritto sia dato per garantito. Soltanto un popolo di cittadini allerta e consapevole può esercitare un adeguato compromesso tra l’enorme macchina industriale e militare di difesa e i nostri metodi pacifici e obiettivi a lungo termine in modo che sia la sicurezza che la libertà possano prosperare assieme».

Corruzione e finanziamenti nel traffico di armi

I rischi insiti nella politica degli armamenti Usa sono stati documentati e denunciati nel 2018 da uno studio approfondito di due ricercatori – A. Trevor Thrall e Caroline Dorminey – del Cato Institute: Risky Business: The Role of Arms Sales in U.S. Foreign Policy. Tra i pericoli illustrati e ampiamente documentati, le situazioni di guerra in cui le armi americane vendute a “paesi amici” finiscono nelle mani di nemici degli Usa e vengono usate contro le truppe americane. Il caso recente più clamoroso riguarda l’Iraq dove interi arsenali hanno armato gruppi di islamisti in lotta contro le forze occidentali in quel paese.

Tangenti Lockheed Martin nei decenni

Corruzione e finanziamenti sono all’ordine del giorno nel mondo degli armamenti. Per restare nella regione che ci interessa, Netanyahu e alcune personalità israeliane del mondo militare e civile sono sotto inchiesta per tangenti che sarebbero state pagate per un affare miliardario di sommergibili tedeschi. Qualcuno si chiederà se l’affare degli F-35 e le massicce vendite di armi all’Arabia saudita in questi ultimi anni sono servite a rafforzare economicamente le campagne elettorali del presidente uscente o di altri politici impegnati nelle lunghe costose campagne per presidenza, congresso e senato. Ipotesi basate su fatti avvenuti in passato. Gli stessi costruttori degli F-35 furono incriminati negli anni Settanta quando il Congresso americano accertò che la corruzione era un sistema diffuso da parte della Lockheed Corporation e della più piccola Northrop. Nel 1976 il “New York Magazine” scrisse che il senatore Church, capo della commissione d’inchiesta, «ha prove che la Lockheed ha pagato tangenti in almeno quindici paesi, e che in almeno sei paesi ha provocato gravi crisi di governo». L’Italia fu una di questi. Mario Tanassi, ministro della difesa, fu silurato per aver intascato una tangente di 50000 dollari su circa 2 milioni di dollari, destinati dalla Lockheed alla corruzione in Italia. Furono condannati anche il generale dell’aeronautica Duilio Fanali, il segretario di Tanassi Bruno Palmiotti, i faccendieri Ovidio Lefebvre e Antonio Lefebvre, e il presidente di Finmeccanica Camillo Crociani.

Nuovi armamenti e suk dell’usato sicuro

Torniamo in Vicino Oriente e dintorni. Non soltanto perché è il più grande mercato di armi di ogni tipo ma perché è il perfetto testing-ground, il terreno su cui le armi nuove possono essere sperimentate prima di finire sulla linea di produzione e poi sul mercato. Usa, Russia, Francia e Israele sono qui in prima linea. In tutti i sensi. Secondo una delle più recenti ricerche del Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), nella regione in guerra – dalla Siria, allo Yemen, dall’Iraq alla Palestina e poi al più distante Sud Sudan – le commesse sono aumentate del 61 per cento dal 2015 al 2019. Gli Usa sono in cima alla lista dei venditori lì e nel mondo: hanno ben 96 paesi-clienti. La Russia, ex superpotenza, ha perso una fetta importante del mercato dopo che l’India con un leader nazionalista di destra ha stretto rapporti con Israele dove ha trovato non soltanto una politica simile ma anche una delle più grandi, moderne e immorali delle industrie belliche pronte a vendere senza fare troppe domande. Nel maggio 2019 Amnesty International ha sottolineato che le armi israeliane vengono vendute a nazioni notoriamente colpevoli di violazioni dei diritti umani delle proprie popolazioni come Myanmar, Filippine, Sud Sudan e Sri Lanka. Negli ultimi mesi, bombe a grappolo israeliane, vietate dalle convenzioni internazionali, hanno seminato morte e feriti nella regione del Nagorno-Karabakh contesa tra Azerbaijan e Armenia. Grazie a testimonianze raccolte da giornalisti e analisi delle immagini dei bombardamenti nella capitale dell’autoproclamata repubblica dell‘Artsakh, Stepanakert, gli esperti di Amnesty hanno potuto confermare l’uso di bombe a grappolo di tipo M095 Dpicm, di fabbricazione israeliana. «Vecchi stock», hanno risposto da Tel Aviv per difendersi dalle critiche in uno scacchiere in cui le sue alleanze sono confuse. La guerra è guerra: la logica del potente apparato militare-industriale israeliano è strettamente controllato e gestito ai massimi livelli del governo.

Ma, ancora più importante della disponibilità a non fare domande o giudicare chi deve comprare, Israele offre (anche rispondendo a richieste specifiche quando possibile) di provare le armi nei conflitti dietro casa, da Gaza al Libano, alla Siria. Ci sono segnalazioni di richieste precise da parte di paesi acquirenti (gli Usa tra questi) perché certe armi sofisticate (come i droni e i loro armamenti ormai entrati in prima linea nelle moderne guerre) vengano usate in combattimento e approvate prima di finire sul mercato. La distruzione senza senso di abitazioni e altri edifici nella striscia di Gaza è spesso servita a questo scopo. E c’è chi – in Israele e fuori – vorrebbe assistere ad almeno uno scontro limitato con il meglio armato Hezbollah in Libano per mettere alla prova nuove generazioni di ordigni contro i bunker in profondità.

Nel 2017 le esportazioni di armi israeliane hanno raggiunto la cifra record di 9 miliardi di dollari. Questo non include il reddito delle società paramilitari che operano nel settore dell’informatica e della sicurezza. Un settore accusato di aver collaborato con regimi noti per i loro bassi voti nel rispetto dei diritti dei loro cittadini. E di spiare anche paesi amici.

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