Egitto Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/egitto/ geopolitica etc Thu, 25 May 2023 07:08:15 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Pax africana in Ucraina https://ogzero.org/pax-africana-in-ucraina/ Tue, 23 May 2023 22:27:47 +0000 https://ogzero.org/?p=11105 La reazione all’esplosione del conflitto ai confini europei da parte degli stati africani è stata differenziata, ma spesso attenta a mantenere una neutralità interessata e spesso legata al forte intreccio di interessi e presenze russe sul territorio. Questo pone alcuni paesi nella condizione di proporsi come potenziali mediatori credibili. Al punto che la diplomazia americana […]

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La reazione all’esplosione del conflitto ai confini europei da parte degli stati africani è stata differenziata, ma spesso attenta a mantenere una neutralità interessata e spesso legata al forte intreccio di interessi e presenze russe sul territorio. Questo pone alcuni paesi nella condizione di proporsi come potenziali mediatori credibili. Al punto che la diplomazia americana ha subito cercato di delegittimare il governo più rappresentativo dei sei: non appena si è avuto sentore dell’iniziativa dei Sei Paesi in procinto di recarsi dai due contendenti la Casa Bianca ha scatenato i suoi giornali, accusando Pretoria di vendere armi ai russi e di non essere neutrale. Nonostante queste polpette avvelenate procede il piano elaborato a gennaio in gran segreto, proprio perché è ovvio che gli interessi di chi non vuole si raggiunga una tregua in vista di trattati di pace rimuoveranno chiunque si frapponga all’escalation.
Dall’altro lato è sintomatico che il ministro degli esteri ucraino Kuleba  incontri i leader dell’Unione africana in Etiopia: evidentemente la mediazione dell’Africa è presa sul serio da entrambe le parti in conflitto… e come spiega Angelo Ferrari nel suo articolo, l’Unione africana sarebbe l’interlocutore istituzionalmente più adatto, ma le pastoie burocratiche e diplomatiche che la contraddistinguono richiedono strutture più snelle ed efficaci. Ma il suo coinvolgimento dalla mossa di Kuleba avvia anche al livello più alto istituzionalmente il ruolo che potrebbe diventare – se non viene boicottato dagli americani e dai loro alleati – centrale nella composizione del conflitto.
L’estensore ci racconta i retroscena e i risvolti di questa “missione africana”, che non foss’altro per le forniture di cibo ha senz’altro bisogno  che ritorni una condizione di non belligeranza in Ucraina.


Il piano africano ha delle possibilità?

Il presidente del Sudafrica, Cyril Ramaphosa, ha annunciato che Kyiv e Mosca hanno concordato di ospitare una delegazione guidata dai presidenti di Zambia, Senegal, Congo-Brazzaville, Uganda, Egitto e Sudafrica per discutere un piano di pace, preparato in gran segreto dai sei capi di stato. Un piano elaborato già a gennaio e che, ora, dovrebbe concretizzarsi con un incontro con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, e quello russo, Vladimir Putin. Quale sarà il primo incontro non è stato ancora stabilito, e non sarà facile. Sulla missione, tuttavia, rimangono ancora dei dubbi sulla sua fattibilità e, in particolare, sui tempi. Di certo c’è che domenica 21 maggio è iniziata una visita interlocutoria del presidente della Fondazione Brazzaville, che sovrintende il progetto, Jean-Yves Olliver, accompagnato da due emissari, uno del Senegal e uno del Sudafrica, che li a portati in Russia e Ucraina, per “chiarire le posizioni” e soprattutto per parlare di logistica.
Muovere sei capi di Stato non è cosa da poco.

Attivismo americano di contrasto

Vi sono anche frizioni internazionali che rischiano di compromettere la missione. Su tutte i rapporti tesi tra il Sudafrica e gli Stati Uniti, dopo le dichiarazioni americane volte ad accusare Pretoria di aver fornito armi alla Russia, ma anche per il fatto che il comandante delle forze di terra del Sudafrica ha visitato ufficialmente Mosca.


Dopo queste accuse, mosse dall’ambasciatore americano a Pretoria, il governo sudafricano ha promesso di svolgere un’indagine su queste presunte consegne. L’esercito sudafricano non ha risposto immediatamente. Il presidente sudafricano Ramaphosa, dal canto suo, ha assicurato che il suo paese non sarebbe stato coinvolto in «una competizione tra potenze mondiali» sull’Ucraina e che è stato soggetto a «straordinarie pressioni» per scegliere da che parte stare.

«Non accettiamo che la nostra posizione di non allineamento favorisca la Russia rispetto ad altri paesi. Non accettiamo nemmeno che metta a repentaglio le nostre relazioni con altri paesi» – in particolare la Russia – si legge in una nota al bollettino presidenziale settimanale.

Abboccamenti con i russi e gli ucraini

Ramaphosa ha parlato al telefono la scorsa settimana con il presidente russo Putin, e i due leader hanno mostrato il desiderio di far crescere ulteriormente la loro cooperazione. È noto, inoltre, che gli Stati Uniti stiano facendo pressioni su numerosi paesi africani affinché scelgano da che parte stare, cioè abbandonino Mosca, e quindi sono siano più soggetti “neutrali” rispetto alla guerra ucraina.
Tornando al progetto di pace africano, in discussione ormai da settimane, questo ha avuto un impulso nell’ultimo fine settimana. Secondo Ramaphosa i due “campi”, Mosca e Kyiv, hanno accettato di ricevere la visita di questa missione di pace. Il presidente sudafricano, inoltre, si augura che questo viaggio possa avvenire “il prima possibile”, anche se le modalità sono ancora tutte da discutere, in particolare quale presidente, Zelensky o Putin, riceverà per primo la missione.

Criteri di scelta della delegazione

Secondo la Fondazione Brazzaville, questi sei paesi sono stati scelti per rappresentare le diverse visioni del continente africano sul conflitto, con paesi come il Sudafrica e l’Uganda che difendono i loro legami con la Russia, e altri come lo Zambia e l’Egitto, che hanno votato per il ritiro delle truppe russe dall’Ucraina nell’ultima risoluzione delle Nazioni Unite.
La Fondazione Brazzaville, creata nel 2015 è presieduta dal francese Jean-Yves Ollivier, uomo d’affari che ha fatto fortuna commerciando materie prime in tutto il mondo, in particolare in Africa, dove ha stretto forti legami con numerosi presidenti africani: dall’ex presidente ivoriano, Félix Houphouët-Boigny, al presidente del Congo-Brazzaville, Denis Sassou-Nguesso, passando per l’antico uomo forte angolano, José dos Santos.

Jean-Yves Ollivier è un habitué dei palazzi presidenziali. «Mi sono dedicato agli affari e la politica mi ha raggiunto».

Dietro questa missione c’è anche un po’ di Francia.

La disposizione sudafricana al dialogo

Da parte sudafricana, non sorprende che in questo progetto, tanto ambizioso quanto difficile da concretizzare, sia stato coinvolto Cyril Ramaphosa. Il presidente sudafricano è sempre stato, fin dall’inizio del conflitto, colui che ha sempre invitato al dialogo per trovare una soluzione negoziata al conflitto e, quindi, cominciare a parlare di pace, piuttosto che schierarsi da una parte o dall’altra. Un atteggiamento di neutralità che, tuttavia, ha anche nascosto contraddizioni. La recente visita del comandante di terra dell’esercito sudafricano a Mosca, Lawerence Mbatha, è lì a dimostrarlo. Secondo Pretoria, tuttavia, il segretario generale delle Nazioni Unite e dell’Unione africana avrebbero accolto con favore questa iniziativa.

Il calendario “africano”?

Molte questioni organizzative, tuttavia, rimangono in sospeso. L’Africa non ha voluto rimanere inattiva su un tema che la riguarda direttamente, non fosse per le conseguenze economiche di questo conflitto su tutto il continente. È con questa volontà che questa missione di pace si è concretizzata a gennaio nella massima segretezza con discussioni solo tra capi di stato. Ora, la parte più complessa è il calendario dell’iniziativa di pace, tutto da discutere. Putin avrebbe proposto che si svolgesse a margine del vertice Russia-Africa di fine luglio, i sei presidenti vogliono che si tenga prima, in particolare entro la fine di giugno. La Fondazione Brazzaville, che è all’origine di questo progetto, sostiene che la composizione della delegazione ha senso con sei Stati che hanno posizioni politiche diverse sul tema della guerra in Ucraina: appoggio a uno dei due campi o neutralità. Non è un nodo da poco da sciogliere. Da questo punto di vista, nonostante l’Unione Africana abbia fatto sapere di sostenere questa missione, l’istituzione e il suo attuale presidente, il capo di stato delle Comore, Azali Assoumani, hanno preferito fare un passo indietro per non rallentare il processo diplomatico. Coinvolgere l’istituzione Unione africana avrebbe portato con sé un lavoro diplomatico di non poco conto per convincere gli stati membri della necessità di una missione di pace, un’opera di convincimento complessa che, tuttavia, poteva sfociare in un nulla di fatto.

La fase di preparazione di questa missione diplomatica a Sei è ormai cominciata, anche se gli ostacoli affinché l’iniziativa africana abbia successo sono numerosi.

 

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Antiche strade che decidono il destino https://ogzero.org/le-vie-del-controllo/ Sun, 17 Jan 2021 12:06:04 +0000 http://ogzero.org/?p=2238 Alto è sicurezza. Alto è potere. Alto domina il paesaggio e come mi illustrava nel 1980 con una nota di orgoglio il portavoce dell’insediamento israeliano tra Gerusalemme e Hebron nella Cisgiordania occupata: «da qui si vede tutto: il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro». Quaranta anni fa la colonizzazione ebraica in Palestina, a […]

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Alto è sicurezza. Alto è potere. Alto domina il paesaggio e come mi illustrava nel 1980 con una nota di orgoglio il portavoce dell’insediamento israeliano tra Gerusalemme e Hebron nella Cisgiordania occupata: «da qui si vede tutto: il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro». Quaranta anni fa la colonizzazione ebraica in Palestina, a macchia di leopardo e apparentemente senza coordinamento, appariva ancora un fenomeno destinato a soccombere presto. L’Egitto di Sadat aveva firmato la pace con Israele e, si diceva, prima o poi la leadership israeliana e quella palestinese avrebbero trovato una via d’uscita dal conflitto. Due popoli si contendevano la stessa terra. Si trattava di mettersi d’accordo soltanto su un compromesso. Ma quale?

Camp David, nel 1978: Begin, Carter e Sadat

Di chi è la terra?

«Là in fondo verso il mare – insisteva il colono (termine che fa pensare a un agricoltore ma nella realtà dei territori occupati è quasi sempre tutt’altra cosa) – ci sono Ashkelon e Ashdod, due nostre antiche città. E poi… si giri. Da quest’altro lato c’è la discesa verso il mar Morto. Vede quel tracciato? È un’antica strada romana». Invece di polemizzare lanciai una provocazione. «Credo di comprendere quello che sente. Sono romano e quella strada l’hanno costruito i miei antenati. Questa terra era nostra…».

Essere ebrei dentro e fuori da Israele

L’archeologia, molto spesso al servizio dell’occupazione, conferma la vasta presenza delle comunità israelitiche nell’antichità relegando in secondo piano o addirittura nascondendo il passato delle altre popolazioni che abitavano questa terra. Quello che Bibbia e Storia non confermano è la pretesa che Israele sia “la patria storica del popolo ebraico”. A respingere questa teoria alla base del sionismo religioso è tornato recentemente uno degli uomini politici israeliani più noti e battaglieri. Avraham Burg, figlio di uno dei fondatori dello stato e del Partito nazional-religioso, ha militato a lungo nel partito laburista, è stato presidente della knesset, il parlamento israeliano, e anche presidente dell’Agenzia Ebraica, l’organizzazione israeliana che sostiene l’ebraicità di Israele e opera in stretto collegamento con le comunità ebraiche in tutto il mondo. «Il patriarca Abramo scoprì Dio al di fuori delle frontiere della Terra d’Israele, le tribù divennero un popolo al di fuori della Terra d’Israele, la Torà fu data fuori dalla Terra d’Israele, e il Talmud di Babilonia, che è molto più importante del Talmud di Gerusalemme, fu scritto fuori della Terra d’Israele. E aggiunge: “Gli ultimi duemila anni, che hanno formato il giudaismo di questa generazione, si svolsero fuori d’Israele. L’attuale popolo ebraico non è nato in Israele”».

Quando la religione costruisce le “vie” dell’occupazione

È una polemica che riguarda il mondo ebraico ma anche chi vuole comprendere origine e strategia della destra israeliana e dei suoi alleati e il furto strisciante delle terre palestinesi. Se una lettura di comodo della religione è – qui come per altri credenti – uno strumento di lotta, pianificazione urbanistica e territoriale sono le armi con le quali va avanti, in modo sistematico, l’occupazione. I vasti quartieri costruiti negli anni immediatamente successivi alla presa di Gerusalemme Est dopo la guerra del 1967 e buona parte degli insediamenti in Cisgiordania sono usciti dalle penne di architetti e strateghi militari. Per loro era essenziale un modello capace di garantire la difesa della nuova popolazione dagli attacchi dall’esterno. Questi stessi pianificatori studiarono a fondo la storia della vasta rete stradale, non soltanto regionale, degli antichi romani, che a loro volta avevano avuto come insegnanti egizi, etruschi, greci. I nuovi conquistatori (all’inizio circondati da paesi nemici) avevano bisogno di vie capaci di consentire uno spostamento rapido di truppe e mezzi militari, spesso da un fronte all’altro. Dal Sinai al Golan o viceversa. Nei territori occupati la rete, oltre a garantire il rapido schieramento di soldati e polizia, ha il compito di facilitare il movimento dei coloni e ridurre al massimo il contatto tra loro e la popolazione palestinese.

Vie di confine e di occupazione (foto di Eric Salerno)

La scuola romana: strategie di colonizzazione

I resti ancora visibili di quella via romana minore indicati dal colono ebraico sul costone dal quale si dominano mare e deserto risalgono ai primi decenni del secondo secolo d.C.. Giulio Cesare, nel 46 a.C. cominciò la presa dell’Africa e la costruzione di intere città lungo la costa meridionale del Mediterraneo. Meno di cento anni dopo la via Nerva, dal nome dell’imperatore che l’aveva ordinata, fu completata da Traiano. Collegava gli insediamenti romani d’Occidente con Alessandria d’Egitto e con la rete viaria che li legava alla Palestina, sul mare, e ai monti e ai deserti all’interno dell’Arabia. Poco meno di duemila anni dopo, i genieri israeliani, hanno seguito gli insegnamenti della scuola romana nel tracciare, a partire dal 1967, la prima grande arteria voluta dal progetto politico dei laburisti per il futuro dei Territori. La Via Allon scorre da Nord a Sud lungo le montagne di Samaria e Giudea. Il suo nome si rifaceva a Yigal Allon, politico e militare israeliano. Il suo scopo era chiaro. Metteva in conto l’eventuale restituzione alla Giordania di parte dei territori occupati salvo Gerusalemme e un vasto corridoio di terra lungo le rive del fiume Giordano per garantire a Israele una minima profondità strategica rispetto ai paesi con cui era formalmente in guerra. Mentre la piattaforma del Likud, il partito di centro di cui oggi Netanyahu è il leader e l’esponente più noto, ha sempre rivendicato per lo stato d’Israele tutto il territorio tra il Mediterraneo e il Giordano, i laburisti apparivano disposti a negoziare anche se ritenevano che per la difesa del paese era necessario annettere almeno una parte, non densamente popolata, della Cisgiordania. Il piano Allon gettò le basi per la situazione attuale in quanto stabiliva la creazione in quel “corridoio” di insediamenti agricoli e residenziali. Dal 1967 al 1977 i governi laburisti, spronati da Shimon Peres – premio Nobel con Rabin e Arafat per gli accordi di Oslo – ne autorizzarono ben ventuno accanto agli avamposti militari, tutti in alto, come Masada. L’antica fortezza che domina il mar Morto e fu scelta, curiosamente, come simbolo della eroica resistenza ebraica antica ai romani: secondo la storia tramandata, i suoi difensori, ribelli contro l’occupazione, si uccisero per non finire in mano ai conquistatori.

La scuola romana: la rete viaria in tempo tra pace e guerra

Israele-Palestina, un pezzo di ciò che i cristiani conoscono come Terra Santa, è intrisa di richiami religiosi e altri legati alle conquiste antiche e meno. In Marco 8:27 si legge: «Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: “Chi dice la gente che io sia?”». La “via” era un antico tracciato romano poche centinaia di chilometri a nord di Masada. Collegava la Galilea con Damasco, il centro amministrativo di Roma, passando dalle alture del Golan, terra siriana che gli israeliani hanno annesso e colonizzato. Coltivazioni, colonie agricole, tanto filo spinato, campi ancora minati e scavi archeologici per dimostrare che gli ebrei abitavano l’altopiano strategico millenni fa. La linea di confine, disegnata da Gran Bretagna e Francia nel 1924, per definire Libano, Israele-Palestina e Siria, segue un tracciato di una delle più importanti arterie della rete stradale romana che tra Mediterraneo e fiume Giordano raggiungeva una lunghezza di mille chilometri. Nel 1983, sottolineando come quella rete fu probabilmente il più importante progetto dell’amministrazione imperiale romana, Israel Roll, uno dei maggiori archeologi israeliani, pubblicò un sommario delle ricerche fatte dagli studiosi a partire dall’Ottocento. «Come per molti imperi – sottolineava – le preoccupazioni maggiori di Roma riguardavano l’amministrazione della provincia nei periodi di calma, e l’organizzazione e trasporto di unità militari alle aree chiave nei momenti di guerra e ribellione». Israele ha imparato la lezione.

“Alto” è potere, sicurezza, controllo

In cima a un’altura sul Golan che si affaccia sulla linea d’armistizio e alcune cittadine siriane, accanto a una postazione della forza di pace dell’Onu e a un bar-ristorante per turisti e pellegrini, gli israeliani hanno piantato un palo con le distanze delle città vicine e più distanti. È là per indicare insieme paura e aggressività anche se, come confermano gli stessi generali israeliani, pochi pensano più a scontri ravvicinati: carri armati e forze di terra sono stati ridotti a favore di droni e missili. E questo, in qualche modo, dovrebbe ridurre anche la giustificazione israeliana per l’occupazione del territorio palestinese come cuscinetto difensivo contro il mondo arabo.

“Alto” è controllo (foto di Eric Salerno)

L’autostrada per l’annessione: il progetto di dominio

Le strade, ormai autostrade, sono così diventate strumento di occupazione e di strisciante annessione della Cisgiordania. Yehuda Shaul, come quasi tutti gli israeliani, ha fatto il servizio militare. È oggi è uno dei leader del movimento per la pace. «Tutti sono convinti che l’annessione della West Bank sia stata congelata con la firma degli accordi di normalizzazione con gli Emirati arabi uniti ma in realtà Israele continua ad accelerare i lavori sull’autostrada per lannessione attraverso lo sviluppo di infrastrutture che consentiranno di raddoppiare il numero dei coloni e di solidificare per sempre il nostro controllo sul popolo palestinese». Pochi giorni dopo la presentazione della sua denuncia, è arrivata da B’Tselem, l’ong ebraica per i diritti umani un’altra denuncia: «Non c’è metro quadrato tra il fiume Giordano e il Mediterraneo in cui un palestinese e un ebreo siano uguali». E per la prima volta l’organizzazione parla apertamente di apartheid. L’accusa è stata subito definita antisemitismo puro. Il nuovo piano urbanistico e stradario per la Cisgiordania occupata, però, sembra confermare l’imposizione e le paure dei pacifisti israeliani. Per almeno due motivi. Da una parte le autostrade in costruzione o già funzionanti creano corridoi e spazi separati per le due popolazioni. Dall’altra, la rete nuova sarà collegata a quella israeliana, sempre più vasta, per consentire un legame diretto tra le comunità all’interno della “linea verde” – i confini finora riconosciuti di Israele –- e quelli dei coloni nei territori occupati.

La conquista dell’Arabia e di quella parte del Vicino Oriente – da Gaza al Libano e nell’interno fino ad Aqaba, sul mar Rosso, e Petra nel deserto della Giordania – non fu formalmente festeggiata da Roma se non dopo il completamento della via Traiana Nova negli anni 120. Soltanto da allora cominciarono ad apparire monete con l’effige di Traiano su un lato, e sull’altro un cammello. Israele non ha ancora completato il suo progetto di dominio su tutto il territorio dal mar Mediterraneo al fiume Giordano.

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Considerazioni sul Libano che vanno oltre il Libano https://ogzero.org/considerazioni-sul-libano-che-vanno-oltre-il-libano/ Thu, 03 Sep 2020 09:08:42 +0000 http://ogzero.org/?p=1121 Archiviare i rapporti di forza coloniali in questo periodo di nazionalismi esasperati può ricondurre a modelli vecchi di secoli, anziché soddisfare le richieste di emancipazione dei popoli repressi: l'impero ottomano e quello russo tentano di ricreare le antiche sfere di influenza.

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«Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: “la Padania è una repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore”». Parole di Umberto Bossi nella sua dichiarazione d’indipendenza della Padania, 15 settembre 1996. Una sfida, una provocazione politica. Ma anche la realtà di un mondo in cui le Nazioni, come sono state disegnate negli ultimi secoli, non necessariamente corrispondono agli elementi coesivi che finora hanno consentito loro di sopravvivere in pace.

Anni fa sentivo un giovane militare israeliano stanco della guerra contro l’indipendentismo palestinese affermare: «A cosa serve tutto questo. Presto il mondo sarà globalizzato e le nazioni, come le conosciamo oggi, non esisteranno più. Ognuno vivrà dove meglio si trova». Quel futuro (non solo per il Covid) c’è e non c’è. E invece assistiamo a una lenta e spesso cruenta trasformazione del mondo come fu tracciato nella sabbia o sulle cime dei monti dai nostri nonni e bisnonni. Divisioni e non consolidamento.

Confini tracciati altrove

Da Bossi e la Padania, tra razzismo e settarismo religioso, non è difficile approdare sulle sponde meridionali del Mediterraneo. Non soltanto perché sono poche ore d’aereo ma perché il Vicino Oriente come lo vediamo sulle cartine geografiche e nelle cronache dei telegiornali, fu creato o disegnato nel Castello Devachan a Sanremo tra il 19 e il 26 aprile 1920 e consolidato – si fa per dire – pochi mesi dopo a Sèvres, in una antica fabbrica di porcellane a sud di Parigi. Il tutto sulle rovine di uno dei più longevi, affascinanti, poco studiati e spesso incompresi imperi della storia. Di cui anche il minuscolo territorio che conosciamo come Libano faceva parte.

Segno di cambiamento degli equilibri

L’esplosione del 4 agosto 2020 a Beirut, che ha ucciso oltre 200 persone e ferito altre 7000 devastando vaste zone della capitale libanese, ha riportato il paese dei cedri sulle prime pagine dei giornali. Accanto a dubbi, incertezze, ipotesi (attentato o incidente?) sono riprese le considerazioni sulla stabilità, direi quasi la sopravvivenza, del piccolo paese creato dalla Francia e di cui Parigi sembra rivendicare un diritto di tutela se non di più. I legami tra Francia e Libano risalgono al XVI secolo quando la monarchia parigina si rivolse al sultano ottomano per proteggere i cristiani di una regione che, dalla nascita di Gesù in poi, il mondo religioso cresciuto attorno alla sua memoria definisce “Terra santa” ma che per 623 anni, dal 1299 al 1922, faceva parte di uno degli imperi più longevi e potenti e spesso più illuminati della storia controllando, in nome dell’islam sunnita, fette importanti dell’Europa e dell’Asia.

Dove le feroci Crociate dei cristiani d’Europa non riuscirono nel loro intento di dominare la terra d’altri, la forza militare e la diplomazia degli imperi più recenti del vecchio continente ebbero maggiore successo. Con la sconfitta tedesca nella Prima guerra mondiale e la conseguente distruzione del suo alleato di comodo – l’impero Ottomano appunto – francesi, inglesi e italiani (con il consenso dello zar di tutte le Russie) si divisero le spoglie. Non fu un processo indolore. Il trattato di Sèvres provocò la reazione immediata dei nazionalisti turchi sopravvissuti alla sconfitta del vecchio impero. Mustafa Kemal Atatürk, il padre della Turchia moderna, guidò una serie di guerre per cacciare francesi, italiani, greci dall’Anatolia e dopo appena tre anni, con il Trattato di Losanna, gli europei furono costretti a fare un piccolo passo indietro riconoscendo i confini della Turchia di oggi. Un prezzo relativamente modesto visto come Gran Bretagna e Francia erano riusciti a consolidare la loro presenza nel Vicino Oriente e determinare la realtà di nuove entità come Siria, Iraq, e a gettare le basi, con il patto semiclandestino di Sykes-Picot (16 maggio 1916), per la creazione di Israele. Nelle loro menti probabilmente più che un regalo ai sionisti ebrei (peraltro quasi tutti europei) doveva essere un elemento di disturbo nel mondo arabo dominato dalle due anime principali dell’islam.

Mandato coloniale permanente?

Torniamo al Libano. La Società delle Nazioni, ratificando l’accordo Sykes-Picot, affidò la Grande Siria (la Siria attuale e cinque province che costituiscono l’attuale Libano) al controllo diretto della Francia. E Parigi agendo da padrone colonialista, nel settembre 1920 istituì la Repubblica libanese con Beirut come capitale sul territorio allora in gran parte cristiana ma con una forte minoranza musulmana (oggi maggioranza) e drusa. Il paese divenne indipendente alla fine della Seconda guerra mondiale. Fu adottata una Costituzione che voleva garantire i diritti delle varie comunità con un sistema di divisione del potere. Per molti anni ha funzionato trasformando il piccolo stato sulle rive del Mediterraneo in una specie di Svizzera del Medio Oriente: nel bene e nel male.

Gli sviluppi politici nella regione dopo la creazione dello stato d’Israele e, più di recente, con la rivoluzione khomeinista in Iran, assommato ai grandi cambiamenti demografici in Libano, hanno portato alla situazione che vediamo oggi. Con una provocatoria petizione online firmata da 60000 tra residenti e membri della grande e influente diaspora libanese, è stato chiesto alla Francia di tornare a prendersi cura del Libano con un nuovo Mandato. «La Francia non lascerà mai il Libano», parole del leader francese Macron in visita a Beirut devastata dall’esplosione al porto. «Il cuore del popolo francese batte ancora al polso di Beirut». Solo retorica o il neocolonialismo francese fatica a morire? Per sottolineare il legame storico, Macron ha fatto il bis tornando a Beirut il 1° settembre, cento anni dopo quel famoso “Mandato”. Ancora parole, ma forse la consapevolezza che troppi fattori, locali e regionali, giocano contro un ruolo di Parigi che vada oltre eventuali piogge di euro per sostenere un sistema corrotto e fallimentare. Di sicuro, con la divisione del potere costituzionale che non rispecchia più la realtà demografica del Libano, il futuro della piccola nazione è sempre più in bilico in un mondo in cui montano le tendenze autonomiste, si inasprisce lo scontro tra Iran e Arabia saudita, gestori delle due verità contrapposte dell’islam, e prendono impeto le aspirazioni di vecchie potenze imperiali, tra cui la Turchia. Una nota: gli stati nazionali radicati nella storia della regione di cui parliamo sono appena quattro: Egitto, Iran, Yemen e Turchia.

Il passato, un incubo rinnovabile

La disgregazione dell’Unione sovietica e della Jugoslavia hanno aggiunto nuove nazioni all’Onu e si è parlato molto negli ultimi anni di ridisegnare i confini del Medio Oriente per soddisfare le istanze, per esempio, dei curdi, traditi dalle spartizioni postimpero Ottomano. Stesse ipotesi aleggiano per risolvere il conflitto interno della Libia, altra realtà complessa disegnata dall’Italia coloniale dopo la cacciata dei turchi da Cirenaica e Tripolitania. In essenza, è in corso nel bacino del Mediterraneo un grande gioco i cui protagonisti rispecchiano più il passato che un’idea rivoluzionaria per il futuro. Mentre la Francia rincorre la sua gloria appassita e la Russia agisce pensando non tanto all’Urss, di relativamente breve memoria storica, quanto al grande impero degli zar che molti osservatori tendono a dimenticare, la Turchia (membro della Nato, formalmente alleato dell’Occidente e, purtroppo, più volte respinta come possibile membro dell’Unione europea) sembra voler ripristinare la gloria dell’impero d’Oriente e dell’islam sunnita che dominarono per sei secoli sulle rovine dell’impero cristiano di Costantinopoli. La nuova classe dirigente turca e buona parte degli ufficiali superiori rivendicano quanto meno un ruolo di potenza regionale soprattutto sul Vicino Oriente islamico.

Per i servizi segreti israeliani, che guardano con simpatia alle mosse di Macron, e per la Cia, in uno stato di confusione anche per la politica attuale della Casa Bianca, la Turchia di Erdoğan (in corso di collisione con la Grecia per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nel Mediterraneo) «è più pericolosa dell’Iran» degli ayatollah. Di sicuro l’estensione della presenza militare di Ankara – dalla Libia a Siria, Libano settentrionale, Iraq, Qatar, Afghanistan, Somalia e i Balcani – non è mai stata tanto vasta dai giorni dell’Impero Ottomano. L’accordo tra gli Emirati arabi uniti (che hanno paura dell’Iran) e Israele (nemico principale di Tehran) fa parte del Grande gioco regionale che mette in difficoltà soprattutto le pedine più piccole e deboli. Quelle create a tavolino.

Assisteremo a nuove guerre e alla creazione di nuovi confini? Una piccola scintilla potrebbe far esplodere le istanze autonomiste di cui conflitti religiosi e tribali sono i sintomi sempre più evidenti. Se la nostra Padania non è veramente a rischio perché non vi esistono le condizioni fondamentali per rivendicare l’autodeterminazione, non è così per molte delle realtà nel Vicino Oriente (e non soltanto) dove vi sono popoli riconosciuti come tali sottomessi da governi non rappresentativi che li discrimina come razza, credo o colore.

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Tutti i nodi irrisolti tra Etiopia, Egitto e Sudan riaffiorano sulle acque del Nilo https://ogzero.org/tutti-i-nodi-irrisolti-tra-etiopia-egitto-e-sudan-riaffiorano-sulle-acque-del-nilo/ Fri, 24 Jul 2020 11:35:20 +0000 http://ogzero.org/?p=803 Il premio più ambito per un leader, il premio dei premi, il Nobel per la pace nel 2019 lo ha ricevuto il primo ministro etiope Abiy Ahmed. Un Nobel che premia un processo politico, non solo l’uomo che lo ha avviato. Un processo di riforme che sembrava impossibile e che invece, in appena due anni […]

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Il premio più ambito per un leader, il premio dei premi, il Nobel per la pace nel 2019 lo ha ricevuto il primo ministro etiope Abiy Ahmed. Un Nobel che premia un processo politico, non solo l’uomo che lo ha avviato. Un processo di riforme che sembrava impossibile e che invece, in appena due anni – dal 2 aprile 2018 – ha praticamente rivoltato l’Etiopia, trasformandola dal profondo. Un premio, tuttavia, che non nasconde le difficoltà e le contraddizioni che vive il paese. I nodi da sciogliere, ancora, sono enormi. Scontri etnici, problemi economici, la Grande Diga della Rinascita Etiope. Tutte questioni che rimangono ancora sul tavolo. Ma vi sono questioni politiche che devono essere affrontate, e a breve, per evitare un vuoto di potere, a ottobre, quando il parlamento scadrà. Le elezioni, previste per il 29 agosto, sono state cancellate causa coronavirus. Un appuntamento che, nelle intenzioni del premier, avrebbe dovuto rafforzare e consolidare la sua leadership e dare nuovo impulso alle riforme di cui l’Etiopia ha estremamente bisogno. Ma andiamo per ordine.

Sembrava impossibile che in Etiopia l’etnia minoritaria, ma egemone da sempre sul piano politico – i tigrini –, potesse cedere alcuni cruciali posti di potere, eppure è avvenuto. Sembrava impossibile che il mal sopportato cessate il fuoco con l’Eritrea si potesse trasformare in una vera pace, eppure è avvenuto. Sembrava impossibile che l’economia chiusa dell’Etiopia potesse aprire le porte a veri investitori esterni, eppure è avvenuto. Sembrava impossibile che migliaia di prigionieri potessero essere liberati, eppure è avvenuto. Tutto ciò è merito del premier Ahmed, del suo coraggio e della sua determinazione. Che sia stata un’impresa, che ci siano stati tentativi di resistenza lo testimoniano tre falliti colpi di stato con relativi attentati alla sua persona. Il Nobel è un modo per rafforzarlo, un modo per rendere più difficili e ardui i tentativi di fermarlo. Rimane, però, il fatto che negli ultimi due anni in Etiopia ci sono stati durissimi scontri tra tigrini, oromo, ahmara per la gestione della terra. Abiy Ahmed – un oromo – dovrà trovare un equilibrio e delle leggi democratiche che lo sanciscano. Il Nobel, inoltre, parla a tutta l’Africa, dice che si può cambiare, che ciò che appare impossibile può essere realizzato.

La strada, tuttavia, è ancora in salita. All’indomani dell’assegnazione del premio, si sono verificate rivolte degli oromo, con decine di morti e feriti, frutto dei combattimenti tra membri di vari gruppi etnici nella regione di Oromia. Le rivolte sono scoppiate dopo che l’oppositore Jawar Mohammed ha accusato le forze di sicurezza di aver pianificato un attentato ai suoi danni. Nonostante Abiy e Jawar appartengano alla stessa etnia e siano anche stati alleati prima dell’ascesa al potere dell’attuale premier, tra i due si è aperta una “guerra” molto virulenta. Jawar accusa Abiy di aver sviluppato tendenze autoritarie. Il premier, a detta di Jawar, sta cercando di intimidire i suoi detrattori, compresi gli alleati molto stretti che lo hanno portato al potere. Jawar, tuttavia, non ha mai nascosto l’aspirazione a candidarsi alle elezioni proprio contro il premier. Progetto svanito visto il rinvio delle elezioni a data da “destinarsi” e del tutto sepolto dopo il suo arresto per le rivolte dopo l’uccisione del musicista oromo.

Non si comprende, tuttavia, questa guerra etnica interna al gruppo degli oromo. Una scintilla banale o un omicidio eccellente scatenano una violenza inaudita, come l’uccisione del cantante oromo Hachalu Hundessa. Una rivolta che ha provocato più di 200 morti e oltre 5000 arresti. Il cantante molto popolare tra la popolazione oromo – l’etnia maggioritaria in Etiopia – e che, grazie alle sue canzoni di denuncia contro la presunta emarginazione del gruppo etnico dalla vita politica ed economica del paese, è diventato negli anni uno dei leader delle rivendicazioni. Rivendicazioni che, paradossalmente, si sono intensificate dopo l’entrata in carica del premier Abiy Ahmed: molti nazionalisti lo accusano infatti di non aver fatto abbastanza per difendere gli interessi della sua comunità. Il primo ministro, del resto, ha più volte promesso maggiori libertà politiche e che le prossime elezioni dovranno essere “libere ed eque”, tuttavia il suo nuovo Partito della prosperità (Pp) – nato nel novembre scorso dalla fusione dei partiti che formavano il Fronte democratico rivoluzionario dei popoli etiopi (Eprdf), la coalizione al potere in Etiopia dal 1991, con il preciso obiettivo di superare le divisioni in nome di uno sviluppo condiviso – si basa su una visione “panetiope” che si trova a dover fare i conti con una forte concorrenza da parte di nuovi partiti regionali determinati a sostenere le rivendicazioni delle rispettive etnie di appartenenza dopo decenni di repressione e a inasprire lo scontro interetnico. È proprio alle tensioni settarie e ai ripetuti tentativi di far “deragliare” il percorso di riforme avviato dal suo governo che lo stesso Ahmed ha fatto riferimento nel suo discorso trasmesso in diretta televisiva subito dopo la morte di Hundessa. Ahmed ha infatti sottolineato come la storia recente del paese sia stata minacciata per tre anni consecutivi da tre “inquietanti” episodi avvenuti sempre nel mese di giugno: l’esplosione di una bomba durante un suo comizio ad Addis Abeba il 24 giugno 2018; il tentato golpe del 22 giugno 2019 che causò l’uccisione del capo dell’esercito Seare Mekonnen e del governatore dello stato di Amhara, Ambachew Mekonnen; e ora l’assassinio di Hundessa. In un vago riferimento a un “tentativo organizzato” di ostacolare la sua agenda di riforme, il primo ministro ha quindi puntato il dito contro «agenti interni e stranieri» responsabili di «un atto malvagio» al fine di «destabilizzare la nostra pace e impedirci di conseguire le riforme che abbiamo intrapreso». Ahmed ha quindi accusato non meglio precisati “gruppi” di aver preso di mira non solo Hundessa, ma anche altre personalità di spicco di etnia oromo con l’obiettivo di «istigare ulteriori violenze per far deragliare ciò che abbiamo costruito per il paese», e ha inoltre assicurato che il governo intensificherà le misure per garantire la prevalenza dello stato di diritto in tutto il paese, invitando i cittadini a stare dalla parte del governo. Il premier ha spiegato che questo omicidio verrà “utilizzato” per unificare il paese, «coloro che hanno pianificato il crimine sono gli stessi che non sono contenti dell’attuale cambiamento in atto nel paese. Il loro obiettivo non è uccidere il nostro fratello – ha spiegato Ahmed – ma uccidere l’Etiopia uccidendo Hachalu. Tuttavia, ciò non accadrà e il loro piano non avrà successo». Il rinvio delle elezioni, tuttavia, può logorare il governo e la sua tenuta democratica.

Tutto ciò accade in un paese che, nonostante una rapida crescita economica, rimane una delle nazioni più povere al mondo. Negli anni la violenza etnica in Etiopia, oltre a centinaia di morti, ha costretto oltre due milioni di persone a lasciare le loro case e trovare rifugio altrove.

E poi c’è la Diga della Rinascita a inquietare la scena politica sia interna che esterna dell’Etiopia. E più che una diga della rinascita rischia di diventare, non solo della discordia – quella è un dato di fatto – ma il detonatore di una crisi regionale dagli effetti imprevedibili. I negoziati, fino a ora, tra Etiopia, Egitto e Sudan, non hanno ancora sciolto i nodi. Tutt’e tre i paesi rimangono sulle loro posizioni, senza che vi siano segnali, concreti, che si possa arrivare a un accordo in tempi brevi e condiviso da tutti. Ai nulla di fatto del negoziato si aggiungono dichiarazioni – che probabilmente hanno il solo scopo di irritare i protagonisti del negoziato – come quelle del ministro delle Risorse idriche, dell’irrigazione e dell’energia, Sileshi Bekele, a cui nei giorni scorsi l’emittente di stato etiope Ebc ha attribuito affermazioni circa l’avvio delle operazioni di riempimento del bacino idrico della diga. Lo stesso ministro, poi, ha parzialmente rettificato l’informazione, limitandosi ad affermare che il riempimento è in corso «in conformità con il normale processo di costruzione» della diga.

Gli ultimi colloqui trilaterali che si sono tenuti in videoconferenza dal 3 luglio al 13 alla presenza di undici osservatori – tra cui Unione europea, Stati uniti e Unione africana – si sono conclusi con un nulla di fatto. Colloqui che si ripeteranno nei prossimi giorni. «Le posizioni invariate e le richieste aggiuntive ed eccessive dell’Egitto e del Sudan hanno impedito che questo ciclo di negoziati si concludesse con un accordo», ha dichiarato lo stesso Seleshi, ribadendo al contempo la convinzione che un accordo negoziato sia «l’unica via d’uscita». Nel frattempo nuove immagini satellitari sembrano mostrare un aumento dei livelli delle acque nel bacino idrico della diga costruita sul fiume Nilo. Il governo etiope ha negato di aver deliberatamente iniziato a riempire la diga, anche se il riempimento è il nodo sul quale si arenano i negoziati. Non si capisce se tutto ciò sia tattica o confusione.

La partita è dunque delicatissima e sia l’Egitto sia l’Etiopia hanno tutti i motivi per difendere le loro posizioni. Dall’acqua del Nilo dipende tutto. Il Nilo è l’Egitto. Il paese delle piramidi potrebbe perdere fino a 300 milioni di dollari di elettricità e un miliardo e mezzo di dollari in agricoltura. Il Cairo, inoltre, dovrebbe aumentare le sue importazioni alimentari fino a poco meno di 600 milioni di dollari, con una perdita di circa un milione di posti di lavoro. L’Egitto consuma circa 80 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, di cui 50 provengono dal Nilo. L’Etiopia, invece, potrebbe perdere lo slancio economico che sta mettendo in campo il primo ministro Abyi Ahmed. Il balzo del Pil – attualmente la crescita sfiora le due cifre, ma occorre fare i conti con la pandemia di coronavirus – potrebbe rimane una chimera e deludere l’opinione pubblica interna, con conseguenze imprevedibili, vista l’attuale fragilità del tessuto sociale, spesso squassato da rivalità etniche e religiose. Un Pil, tuttavia, che non si riflette sull’economia reale, sul benessere della popolazione. Addis Abeba ha un gran bisogno di questa diga che, non a caso è stata definita “Diga della Rinascita etiope”. I lavori sono iniziati nel 2011 e affidati all’italiana Salini. L’invaso, inoltre, potrà immagazzinare fino a 74 miliardi di metri cubi di acqua e il riempimento dovrebbe cominciare o è già iniziato, almeno secondo le intenzioni di Addis Abeba, proprio in questo mese. L’oggetto del contendere è, infatti, sui tempi del riempimento che l’Egitto vorrebbe avvenisse in cinque anni mentre l’Etiopia in tre.

Sulla vicenda, inoltre, ci sono contratti milionari. La Cina, infatti, ha annunciato una megapartecipazione proprio in questa infrastruttura. La compagnia Ethiopian Electric Power (Eep) ha firmato un contratto del valore di 40 milioni di dollari con la China Gezhouba Group per la gestione delle attività relative alla diga. Tutto ciò spiega, inoltre, il fatto che l’Egitto boicotti l’iniziativa del bacino del Nilo, istituito con l’accordo di Entebbe firmato da sei paesi: Etiopia, Kenya, Ruanda, Tanzania, Uganda e Burundi. All’accordo non hanno aderito l’Egitto e il Sudan, a causa della riassegnazione delle quote d’acqua del Nilo che sfavorirebbe questi due paesi. Si spiega, dunque, l’asprezza del negoziato che, tutti si augurano, non sfoci nella Prima guerra dell’Acqua del terzo millennio.

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La contesa per l’acqua del Nilo https://ogzero.org/la-contesa-per-lacqua-del-nilo/ Thu, 02 Apr 2020 14:16:11 +0000 http://ogzero.org/?p=112 Raffaele Masto, Angelo Ferrari, 2020 Per l’Etiopia la decisione di cercare la pace con l’Eritrea fa parte di una svolta profonda anche nella politica interna. Il comitato esecutivo del partito al potere in una coalizione nella quale rappresenta la grande maggioranza ha anche annunciato la liberalizzazione dei settori delle telecomunicazioni, dell’energia e del trasporto aereo, […]

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Raffaele Masto, Angelo Ferrari, 2020

Per l’Etiopia la decisione di cercare la pace con l’Eritrea fa parte di una svolta profonda anche nella politica interna. Il comitato esecutivo del partito al potere in una coalizione nella quale rappresenta la grande maggioranza ha anche annunciato la liberalizzazione dei settori delle telecomunicazioni, dell’energia e del trasporto aereo, aprendoli a investimenti privati e interni, con l’obiettivo di allentare la presa dello stato sull’economia, una delle più chiuse e controllate del continente africano ma anche una delle più dinamiche e in crescita. Si tratta di riforme promesse dal nuovo premier Abiy Ahmed subentrato al dimissionario Hailemariam Dessalegn che, pur appartenendo a una minoranza etnica, rappresentava gli interessi dell’etnia tigrina al potere dalla cacciata, nei primi anni Novanta, del dittatore Menghistu. In questa svolta la potenziale guerra mai conclusa con l’Eritrea era un impiccio. Discorso diverso per l’Eritrea. Questo paese si è progressivamente chiuso anche grazie al pretesto della guerra con il grande vicino etiopico. Ora che questo spettro non c’è più Isaias Afewerki si trova a doversi riposizionare, sia sul piano esterno che su quello interno. Sulla carta vengono meno i motivi per non applicare la Costituzione, per evitare elezioni e per mantenere decine di migliaia di giovani nelle caserme.

La pace con l’Eritrea avrà delle conseguenze economiche. Stando alle parole dei due leader «verranno ripristinati i legami nei trasporti, nel commercio e nelle telecomunicazioni e rinnovati i legami e le attività diplomatiche». L’Etiopia aveva, proprio per ovviare al suo mancato sbocco sul mare, puntato sulla ferrovia e sulla strada per Gibuti costruite dai cinesi. Gibuti era praticamente diventato il porto dell’Etiopia sul Mar Rosso. Ora però la pace dovrebbe offrire di nuovo ad Addis Abeba i porti di Assab e Massaua. O meglio, si dovrà stare a vedere perché secondo molti analisti la guerra era proprio scoppiata non tanto per le pietraie di Badame, a 2400 metri di quota che ora l’Etiopia ha riconosciuto all’Eritrea, ma proprio perché l’Eritrea aveva richiesto i pagamenti dei diritti portuali in dollari e non più in nakfa, la valuta eritrea.

La pace avrà anche conseguenze regionali e internazionali. Sempre secondo quanto affermano i due leader «entrambi i paesi lavoreranno insieme per assicurare la pace regionale, lo sviluppo e la cooperazione». Questi venti anni di non-pace avevano spostato su fronti opposti negli equilibri regionali Eritrea ed Etiopia. Per esempio sulla diatriba tra Etiopia e Egitto per l’acqua del Nilo e la Diga della Rinascita, l’Eritrea aveva fatto da sponda ai paesi contrari ad Addis Abeba. Come pure in Somalia l’Eritrea veniva accusata di sostenere i ribelli jihadisti di al-Shabaab in funzione antietiopica.

La firma di questa pace storica, a detta di molti analisti, è avvenuta a Gedda, in Arabia Saudita il 16 settembre del 2018, e questo non è un fattore secondario. Se la pace poteva avere conseguenze su tutto il Corno d’Africa, sicuramente il luogo della firma impone la comprensione di nuovi scenari che si aprono in quel fazzoletto di terra. L’Arabia Saudita, come tutte le potenze mondiali, non fa nulla senza che questo abbia ripercussioni positive sui propri interessi sia economici che strategici e non ultimi quelli geopolitici. 

Raffaele Masto, 17 novembre 2019, intervento trasmesso da Radio Blackout sulla contesa relativa alla Diga della Rinascita costruita dall’Etiopia sul Nilo Azzurro

Lo spirito del Nilo patisce le dighe

Il Nilo è l’anima per buona parte dei paesi del suo bacino, che è vasto e costituisce un sistema di relazioni politiche che contribuiscono a formare gli equilibri geostrategici della regione. Nessuno può rinunciare alle sue acque: non gli stati relativamente piccoli intorno alle sue sorgenti come il Ruanda, il Burundi e l’Uganda né, a maggior ragione, grandi nazioni come l’Etiopia e il Sudan. Ma chi più di tutti non può fare a meno delle acque del Nilo è l’Egitto, la cui gloriosa storia passata e quella attuale dipendono quasi totalmente dal grande fiume. L’Egitto, che sia guidato dai faraoni, dai Fratelli Musulmani o dai militari di Nasser, di Mubarak o di al-Sisi, non può tollerare che qualcuno dei paesi del bacino del fiume costruisca opere sul suo corso, diminuendo la portata d’acqua che si riversa a valle. Proprio per questo motivo, da qualche anno, è in corso un pericoloso contrasto tra Egitto e Etiopia che fa comprendere quanto sia delicata la spartizione delle sue acque per gli equilibri di tutta l’Africa orientale. L’Etiopia, una delle nazioni africane più dinamiche dal punto di vista economico, ha in progetto da qualche anno una grande diga sul ramo del Nilo Azzurro, soprannominata la “Diga della Rinascita”. Un’opera che nelle intenzioni dovrebbe produrre energia elettrica per buona parte del paese e anche permettere di esportarla a quelli limitrofi, sostenendo in questo modo la formidabile crescita dell’Etiopia, che aspira al ruolo di potenza regionale. Nel 2013 sono cominciati i lavori, e l’Egitto – nonostante stesse vivendo una grave crisi politica interna – ha scatenato un’offensiva diplomatica arrivando a minacciare guerra e bombardamenti aerei sul cantiere della diga. Le tensioni sono tutt’ora all’ordine del giorno e gettano un timore di scontro tra i due paesi e non solo. Le minacce si alternano – da ambo le parti – a periodi di distensione, senza mai, però, arrivare a una soluzione accettabile per tutti.

L’Egitto fonda la propria posizione su un vecchio protocollo: circa cento anni fa, nei primi anni del secolo scorso, era infatti riuscito a stipulare un’intesa secondo la quale il 95 per cento della portata del Nilo risultava di proprietà egiziana, mentre il resto apparteneva al Sudan e le rimanenti briciole venivano lasciate agli altri stati del bacino. La questione è tutta apertissima e nella partita si sono inseriti anche gli Stati Uniti come forza mediatrice tra le parti. 

I negoziati, nonostante la mediazione degli Stati Uniti, sono stati infruttuosi. Nessuno cede e il pericolo di un conflitto, anche se non armato, ma solo diplomatico potrebbe rappresentare un grave rischio per una regione già attraversata da crisi immani come quelle del Sudan e del Sud Sudan. Il problema, ovviamente, è la riduzione della portata delle acque del Nilo. È evidente che una regione dove le crisi, le guerre, sono state dettate dal petrolio, dall’oro nero, da appetiti nazionali e internazionali, una nuova guerra, quella per l’oro blu, l’acqua, non è auspicabile. Ma le tensioni sull’oro blu potrebbero diventare la miccia per nuove guerre, per nuovi posizionamenti strategici. Coinvolgendo, se ce ne fosse ancora bisogno, le potenze straniere. Ma andiamo per ordine.

Il progressivo cambiamento della portata del Nilo Azzurro dal 2014 al 2019

La questione è questa: la Diga della Rinascita ridurrà inevitabilmente la portata dell’acqua del fiume e, di conseguenza, priverà l’Egitto di una risorsa irrinunciabile che ha consentito a questo paese, dalla civiltà dei faraoni a oggi, di avere il ruolo che ha nel Mediterraneo e nel Maghreb. L’acqua del Nilo, e il limo che deposita nelle ondate di piena, costituiscono letteralmente l’agricoltura dell’Egitto. Negli anni recenti hanno scoperto giacimenti di gas imponenti. Ma senza il Nilo l’Egitto non esiste. Non solo non esiste il suo passato, nemmeno il suo presente e, tantomeno, il suo futuro. Il Nilo è l’Egitto. 

Di contro, l’Etiopia vuole esistere, vuole continuare a crescere. A imporsi. È per questo che Addis Abeba non può rinunciare alla diga che sarà una fonte di energia, e che vuol dire elettricità in un paese che non ha ancora raggiunto l’autosufficienza alimentare. Ma fosse solo questo! Elettricità significa tante cose. Innanzitutto sviluppo. Significa luce per poter studiare. Per gli studenti uscire dall’isolamento. Energia per far funzionare le fabbriche. Vuol dire lavoro. Vuole dire ospedali che funzionano. Possibilità per i giovani di oggi di progettare un futuro che non aspiri, solo, a emigrare. Tanto, oggi, chi lo può fare è una esigua minoranza. Vuol dire poter fare figli sapendo che il loro futuro è garantito. Tutto questo per un paese significa energia vitale, che si traduce in elettricità che contagia, che arriva ovunque. Che la partita sia fondamentale è del tutto evidente. Ed è altrettanto scontato che forse i governanti, se non hanno dalla loro la lungimiranza, potrebbero anche scatenare una guerra per l’oro blu. Convinti, magari, che questa sia la soluzione. E le bombe dove cadrebbero? Proprio sulla diga, e addio elettricità.

Il confronto, dunque, è tra due necessità irrinunciabili. Due grandi paesi a confronto. La soluzione, inevitabilmente, passa attraverso la rinuncia di qualcosa da parte di entrambi i contendenti. Ma chi è disposto a fare il primo passo?

Per comprendere questo scontro è utile sapere cosa c’è in gioco concretamente: il paese delle piramidi potrebbe perdere fino a 300 milioni di dollari di elettricità e un miliardo e mezzo di dollari in agricoltura. Non solo: il Cairo dovrebbe aumentare le sue importazioni alimentari fino a poco meno di 600 milioni di dollari, con una perdita di circa un milione di posti di lavoro. L’Egitto consuma circa 80 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, di cui 50 provengono dal Nilo. L’Etiopia, invece, potrebbe perdere lo slancio economico che sta mettendo in campo grazie al suo primo ministro. Il balzo del Pil – attualmente la crescita sfiora le due cifre – potrebbe rimanere una chimera e deludere l’opinione pubblica interna, con conseguenze imprevedibili, vista l’attuale fragilità del tessuto sociale, spesso squassata da rivalità etniche e religiose. Un Pil, tuttavia, che non si riflette sull’economia reale, sul benessere della popolazione.

La diga, intanto, è in fase di costruzione sul confine occidentale dell’Etiopia con il Sudan. Prosegue il suo cammino. Sarà la più grande dell’Africa con un costo complessivo stimato in quattro miliardi di dollari, una capacità di 74 000 metri cubi d’acqua e una produzione di 6500 megawatt. Il negoziato è su tutto, persino sul riempimento della diga. L’Egitto ha chiesto di ottenere un periodo di riempimento di cinque anni anziché tre come proposto dall’Etiopia, una decisione che influenzerebbe fortemente però la quota dell’Egitto sull’acqua del Nilo.

La partita non è solo regionale, ma registra l’interventismo internazionale. In particolare quello cinese. Con l’Etiopia Pechino ha stretto collaborazioni molto promettenti, come l’accordo per un oleodotto che trasporti il gas naturale dei giacimenti dell’Ogaden a Gibuti perché possa essere commercializzato. Ma la Cina ha annunciato una megapartecipazione proprio nella più grande infrastrutturazione del paese. La compagnia Ethiopian Electric Power (Eep) ha firmato un contratto del valore di 40 milioni di dollari con la China Gezhouba Group per la gestione delle attività relative alla Grande Diga della Rinascita, che dovrebbe diventare operativa entro il 2022. L’accordo è stato firmato ad Addis Abeba dagli amministratori delegati di entrambe le società. Nelle intenzioni delle parti, l’intesa consentirà di accelerare il ritmo di realizzazione della diga. Pechino, inoltre, non si fa certo scrupoli, proprio grazie alla sua capacità finanziaria, di siglare accordi e iniettare denaro su progetti che hanno come attori soggetti contrapposti.

Tutto ciò spiega, inoltre, il fatto che l’Egitto boicotti l’iniziativa del bacino del Nilo, istituita con l’accordo di Entebbe firmato da sei paesi: Etiopia, Kenya, Ruanda, Tanzania, Uganda e Burundi. All’accordo non hanno, tuttavia, aderito l’Egitto e il Sudan, a causa della riassegnazione delle quote d’acqua del Nilo che sfavorirebbero questi due paesi. Una contesa lontana dal trovare una soluzione. Una contesa internazionale che potrebbe scatenare la Prima guerra dell’acqua del terzo millennio.

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