Ebrahim Raisi Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/ebrahim-raisi/ geopolitica etc Sat, 02 Sep 2023 22:17:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Il sovranismo è l’altro colonialismo. Raisi l’Africano https://ogzero.org/il-sovranismo-e-laltro-colonialismo-raisi-lafricano/ Fri, 21 Jul 2023 09:49:29 +0000 https://ogzero.org/?p=11316 Razzisti e colonialisti di radice fascista e reazionaria di ogni latitudine stanno annusando l’aria di affari in un continente in bilico, dove i riferimenti coloniali classici (coperti finora dalla foglia di fico dell’appartenenza ideologica alle democrazie liberali) sono messi in crisi e quindi si propongono con i loro modelli ipocriti di cooperazione stracciona, senza orpelli […]

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Razzisti e colonialisti di radice fascista e reazionaria di ogni latitudine stanno annusando l’aria di affari in un continente in bilico, dove i riferimenti coloniali classici (coperti finora dalla foglia di fico dell’appartenenza ideologica alle democrazie liberali) sono messi in crisi e quindi si propongono con i loro modelli ipocriti di cooperazione stracciona, senza orpelli di richiamo retorica a un presunto riguardo all’umanitarismo. Meloni con Saied, due razzisti a pianificare lo sterminio di africani, Raisi con Museveni, due omofobi in sintonia… tutti, al di là degli accordi sbandierati, trovano terreni comuni in transazioni economiche, inventando fittizie posizioni di cooperazione alla pari.
Proprio quello è il vero interesse: concentrarsi sul continente terreno di scontro e spartizione globale. Ora persino il regime persiano dei turbanti, quasi mai interessato  all’Africa, organizza un viaggio ufficiale in tre stati non casualmente scelti, cercando di piazzare prodotti che non sono petroliferi – in primis i droni… ma per l’agricoltura, ovviamente –, ma soprattutto esportando un modello dittatoriale, come spiega con precisione Angelo Ferrari.


Visite all’Africa bazaar: offerte speciali di aree di influenza

ll presidente iraniano, Ebrahim Raisi, è sbarcato in Africa per un tour storico di tre giorni dove ha visitato il Kenya, poi l’Uganda e, infine, lo Zimbabwe. Il continente africano – e anche questa visita lo dimostra – è diventato il terreno “ideale” per le diplomazie dell’Est del Mondo per contrastare l’Occidente e ridisegnare la geopolitica mondiale. Dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia si è avuta un’accelerazione diplomatica sul continente senza precedenti. Lo scontro tra Occidente e Oriente si è trasferito, anche ma non solo, in Africa e tutti cercano di portare i paesi africani dalla propria parte. Condendo il tutto con la retorica anticoloniale: «Alcuni paesi hanno una visione colonialista dell’Africa, ma la nostra visione verso questo continente si basa sulla dignità umana e sulla sinergia», ha detto Raisi prima di lasciare Teheran.
L’obiettivo che vuole raggiungere Raisi è quello di aprire nuovi canali commerciali, da un lato, e dall’altro aprire vie diplomatiche che gli consentano di sviluppare le esportazioni non petrolifere verso il continente africano. Questo tour riflette il desiderio dichiarato di Teheran di moltiplicare i partner politici ed economici, anche per cercare di aggirare le sanzioni occidentali che le sono state imposte a causa del suo programma nucleare.

Lo spirito di Astana trasferito in Africa: le nuove “guerre siriane” da regolare

Dopo undici anni, dunque, torna sul suolo africano un presidente iraniano così da avviare “un nuovo inizio”, ha spiegato il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Nasser Kanani, con paesi che sono “molto ansiosi” – a detta sua – «di sviluppare le loro relazioni con l’Iran». Ma non solo. Secondo Teheran questo riavvicinamento – che si concretizza dopo il rafforzamento delle relazioni con Cina e Russia nell’ambito di una strategia rivolta a Est – sta avvenendo anche sulla base di “una visione comune”. Non è un caso, inoltre, che l’Iran sia entrato a fare parte della Shanghai Cooperation Organization (Sco), una struttura regionale creata nel 2001 di cui Cina e Russia sono membri fondatori.

Relazioni iraniane globalmente “antimperialiste”

Per cercare di capire questa nuova e quasi inedita offensiva diplomatica non si può non considerare la grave crisi economica che sta attraversando l’Iran e quindi, quel viaggio, si inserisce nella ricerca di nuove vie d’uscita alle numerose sfide che Teheran deve affrontare. La visita, poi, incornicia un quadro che il presidente iraniano Raisi ha spiegato ricevendo il ministro degli Esteri algerino, Ahmed Attaf: sviluppare relazioni politiche ed economiche con Algeri come con le tre capitali africane che ha visitato. E il tour africano si inserisce, inoltre, nel quadro delle visite che Raisi ha effettuato in Indonesia e con i tre “paesi amici” in America Latina, cioè Venezuela, Nicaragua e Cuba. Viaggi che gli hanno dato l’occasione di ribadire l’avversione di Teheran alle “potenze imperialiste”, avendo nel mirino, in particolare, gli Stati Uniti. Ma, durante questi viaggi, ha colto l’occasione per ribadire il suo appello a spezzare l’egemonia del dollaro sull’economia mondiale. Fattore che sta molto a cuore anche ai paesi africani e a quelli del Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – che nel vertice che si svolgerà il prossimo agosto in Sudafrica discuteranno anche di questo e delle richieste di numerosi paesi africani, che vogliono entrare a far parte di questo consesso internazionale.

La prima tappa: il Kenya di Ruto

Raisi, in Kenya ha incontrato, a Nairobi, il suo omologo William Ruto. Dopo un colloquio “cordiale” ha incontrato i giornalisti spiegando la sua visita in Kenya come «un punto di svolta nelle relazioni tra i due paesi», aggiungendo che queste discussioni hanno rispecchiato “la determinazione” dei due paesi a «estendere la loro cooperazione economica, commerciale, politica e culturale». Dal canto suo, Ruto ha descritto l’Iran come «un partner strategico essenziale per il Kenya» e ha annunciato la firma bilaterale di cinque memorandum d’intesa in vari settori tra cui quello tecnologico, la promozione degli investimenti e la pesca. «Questi protocolli», ha spiegato il presidente keniano, «svilupperanno e approfondiranno ulteriormente le nostre relazioni per consentire una crescita e uno sviluppo più sostenuti tra i nostri due paesi». L’Iran, inoltre, ha annunciato la volontà di creare una fabbrica nella città portuale di Mombasa per «produrre un veicolo di fabbricazione iraniana chiamato Kifaru, che in lingua kiswalili significa rinoceronte». I simboli hanno sempre un loro valore e fanno, a volte, più della diplomazia.

Il cuore del viaggio: 21 accordi commerciali

Il tour africano ha consentito di annunciare che la compagnia di navigazione Islamic repubblic of Iran Shipping Lines intende aprire un ufficio regionale nel continente per garantire la continuità delle proprie linee marittime dirette in Africa. Attualmente sono già operative linee di navigazione dirette tra l’Iran e l’Africa settentrionale e orientale, ma la compagnia iraniana prevede di espandere i propri servizi anche in altre regioni del continente.
Gli accordi commerciali sono fondamentali per l’Iran – ne sono stati firmati 21 con i tre paesi che ha visitato – ma Raisi si trova molto a suo agio con omologhi del suo stesso rango. A parte il Kenya, paese che sta cercando, non senza fatica, di far crescere la propria democrazia, consolidandola e riaffermandosi in un ruolo centrale per l’Africa orientale, gli altri paesi visitati – Uganda e Zimbabwe – assomigliano di più a vere e proprie dittature. Raisi, proprio in questi paesi, ha dato il meglio di sé in termini di propaganda e di sostegno ai due dittatori.

Museveni folgorato dal modello iraniano alternativo all’Occidente

Ma il vero affondo nella retorica antioccidentale, Raisi lo ha lanciato in Uganda. «L’imperialismo e l’occidente preferiscono che i paesi esportino petrolio e materie prime, consentendo loro di convertire queste risorse in prodotti a valore aggiunto, i nostri sforzi in Iran si concentrano sulla prevenzione delle esportazione delle materie prime», e ha sottolineato l’importanza di evitare le esportazioni verso l’occidente, «come auspicato dai paesi imperialisti». Museveni, dal canto suo, ha espresso la necessità di imparare dalle preziose «esperienze dell’Iran nel contrastare l’egemonia occidentale».

La seconda tappa: l’Uganda di Museveni

Cominciamo dall’Uganda. Senza troppo girarci intorno, Raisi, incontrando il suo omologo Yoweri Museveni – in quanto a longevità al potere non ha eguali – ha elogiato la legge “antiomosessualità” dell’Uganda, una delle più repressive al mondo che prevede sanzioni che possono arrivare fino alla pena di morte e vieta la “promozione dell’omosessualità”. «L’occidente, – ha detto Raisi, – sta cercando oggi di promuovere l’idea dell’omosessualità e, promuovendola, sta cercando di porre fine alla specie umana». Diversi paesi, tra cui gli Stati Uniti, hanno promesso sanzioni economiche contro l’Uganda. Ma l’Uganda tira dritto: «L’occidente non verrà a governare il nostro paese», parole del presidente del parlamento ugandese. Museveni, accogliendo le parole di Raisi ha spiegato che «i paesi occidentali stanno agendo contro il patrimonio delle culture e delle nazioni». Si può capire quale sia la “visione politica comune” che il presidente iraniano ha evocato prima di lasciare Teheran per recarsi in Africa. E di sicuro Museveni ringrazia.

Mnangagwa, il patriota senza critiche per legge

Poi c’è lo Zimbabwe, che non è secondo a nessuno in termini di repressione di tutto ciò che non è allineato al potere. Rober Mugabe, padre della patria e dittatore insegna. Non solo, prima di lasciare questo mondo aveva giurato che il suo fantasma avrebbe perseguito per sempre il paese.

La terza tappa: lo Zimbabwe di Mnangagwa

Fantasma che si è reincarnato perfettamente nell’attuale dittatore, Emmerson Mnangagwa, salito al potere con un golpe nel 2017 rovesciando proprio Mugabe. Nel paese ogni voce dissenziente è messa a tacere. Ma il presidente iraniano Raisi è arrivato ad Harare in un momento cruciale per il paese: cioè le elezioni per la presidenza che si dovrebbero tenere il 23 agosto e Mnangagwa è candidato. Tra dittatori ci si spalleggia. Ma arrivano in un momento ben preciso: il presidente ha appena firmato una legge “patriottica” che vieta ogni critica al paese. Raisi, c’è da crederci, avrà dato qualche suggerimento, sul tema, al suo amico zimbabwano. Ora, in Zimbabwe, è considerato un crimine “danneggiare deliberatamente la sovranità e l’interesse nazionale” del paese e sarà punito chiunque partecipi a riunioni o incontri con persone che promuovono sanzioni contro lo Zimbabwe. Una legge molto “vaga” che lascia una grande libertà di manovra a chi governa e che può decidere a suo piacimento cosa è male e cosa è bene per il paese. Insomma, una legge “patriottica” che consentirebbe di condannare a morte persone percepite – solo percepite – come critiche nei confronti del governo. Il ministro dell’Informazione, Monica Mutsvangwa, ha spiegato che il «ruolo di questa legge è garantire che i cittadini amino il proprio paese. Bisogna essere patriottici». Più che amare il paese, i sudditi devono amare incondizionatamente il dittatore. Un bel capolavoro.
Questo testo conferma che lo Zimbabwe è una dittatura a tutti gli effetti con un regime peggiore di quello di Robert Mugabe, ha assicurato l’avvocato Fadzayi Mahere, portavoce della Citizens Coalition for Change, un partito fondato nel 2022 e guidato da Nelson Chamisa, avversario numero uno di Mnangagwa nella corsa alle presidenziali. I sodali di questo partito di opposizione hanno già subito ondate di arresti e numerosi procedimenti giudiziari.

Davvero un “nuovo inizio” nelle relazioni tra Iran e continente africano.

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L’eterogenea unità dell’opposizione iraniana https://ogzero.org/leterogenea-unita-dellopposizione-iraniana/ Tue, 21 Mar 2023 23:43:39 +0000 https://ogzero.org/?p=10543 Un bell’ossimoro quello del titolo, ma se si facessero paragoni con il passato e le modalità con cui si andò agglomerando l’enorme insurrezione contro il regime dello shah nel 1978, portando alla sua caduta l’anno successivo, potrebbe assomigliare molto a un corso e ricorso storico: infatti anche allora ci fu un coacervo di opposte fazioni […]

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Un bell’ossimoro quello del titolo, ma se si facessero paragoni con il passato e le modalità con cui si andò agglomerando l’enorme insurrezione contro il regime dello shah nel 1978, portando alla sua caduta l’anno successivo, potrebbe assomigliare molto a un corso e ricorso storico: infatti anche allora ci fu un coacervo di opposte fazioni e ideologie politiche che portarono al potere Khomeini, il quale per prima cosa fece stragi dei comunisti e dei più progressisti, che furono i più impegnati nello sforzo di cacciare Pahlavi (al punto che il quotidiano “Lotta continua” esaltava la lotta che avrebbe condotto alla repubblica islamica). Quell’ossimoro discende da una situazione che vede la diaspora diversificata (e che si permette di dire che il Savak non si sarebbe dovuto sciogliere!) ringalluzzita dalle lotte che i giovani stanno portando nelle piazze iraniane e pronta ad approfittarne, magari sognando di mettere il cappello sull’onda degli insorti e dei morti costati alla spontanea rivolta… proprio come gli ayatollah 44 anni fa.

Giulia Della Michelina è riuscita a raccogliere informazioni e dati sulle manovre dei fuorusciti più eminenti che stanno preparandosi a rientrare in scena nel caso le rivolte dovessero aprire varchi nel regime, in cui potrebbero intrufolarsi, cavalcando il malcontento… e la restaurazione. 


Diaspora al vertice con dinastia

Mentre la Repubblica islamica si preparava a festeggiare il suo 44esimo anniversario con manifestazioni pubbliche e decine di migliaia di partecipanti, a 10.000 chilometri di distanza, a Washington, si teneva un incontro tra 8 figure della diaspora iraniana. Il tema del vertice era il futuro di quelle proteste che il presidente Ebrahim Raisi ha dichiarato di aver sconfitto durante le celebrazioni della Rivoluzione. Gli attivisti si sono riuniti al Georgetown Institute for Women, Peace and Security per costruire una piattaforma comune atta a preparare la transizione democratica del paese. È il primo tentativo di consolidamento dell’opposizione all’estero dall’inizio delle rivolte, innescate lo scorso settembre dall’omicidio della ventiduenne curda Mahsa Jina Amini in custodia della polizia morale. Eppure, sono molti i dubbi che aleggiano su questo progetto, capeggiato da Reza Pahlavi, figlio dell’ultimo shah deposto con la rivoluzione del 1979.

Ritorno alla monarchia… certo: “liberale”

Pahlavi invoca da anni il cambio di regime e la costruzione di uno stato secolare e liberale, sostenuto da alcuni iraniani residenti all’estero che lo ritengono un interlocutore affidabile per dialogare con la comunità internazionale. A gennaio l’attore Ehsan Karami aveva lanciato una petizione sottoscritta da 456.000 persone per sostenere il suo progetto di transizione, basato su tre principi: integrità territoriale, democrazia laica e rispettosa dei diritti umani e diritto del popolo a scegliere la nuova forma di governo attraverso il voto. In diverse occasioni il figlio dello shah ha precisato che il gruppo riunito a Washington non intende proporsi come nuova leadership, ma che il suo intento è creare le condizioni per trovare una nuova guida per il paese. Tuttavia Pahlavi, che non disdegna di farsi chiamare “principe” dai suoi sostenitori, ha espresso anche la sua apertura alla possibilità di instaurare una “monarchia elettiva”. Tra i suoi sostenitori ci sarebbero infatti diversi nostalgici della monarchia, come il prigioniero politico Manouchehr Bakhtiari, ma anche persone comuni che a colpi di tweet e di hashtag l’hanno investito del potere di rappresentanza in attesa della caduta della repubblica islamica. Al contempo Pahlavi è stato duramente criticato per non aver mai preso sufficientemente le distanze dal regime di Mohammad Reza, una dittatura non meno sanguinaria di quella degli ayatollah. L’accusa è di aver approfittato del patrimonio familiare costruito sulle sofferenze degli iraniani per la propria ascesa personale.

La coa(li)zione a ripetere

Kamelia Entekhabifard, caporedattrice dell’“Independent Persian” ha sollevato il dubbio che affidare a Pahlavi il mandato di transizione possa impedire la candidatura di persone più qualificate, con un passato più chiaro e richieste ben definite. Per esempio tra le migliaia di prigionieri rinchiusi nelle carceri come quello di Evin, tristemente ribattezzato “l’università Evin” per il grande numero di studenti e intellettuali presenti. In molti hanno sottolineato come affidare la responsabilità della transizione a una sola figura sia già di per sé lontano dalla democrazia auspicata. C’è poi chi vede nell’investitura di Pahlavi il ripetersi di una storia che l’Iran ha già vissuto affidandosi all’ayatollah Ruollah Khomeini per sbarazzarsi del padre dell’odierno candidato a rappresentare la volontà popolare.

Secondo lo scrittore e traduttore Khashayar Dayhimi se ci fosse un referendum «Pahlavi vincerebbe solo perché gli iraniani non conoscono un’altra alternativa».

La coalizione sta cercando di consolidarsi: si è dotata di un nome ufficiale e di un manifesto, intitolato Mahsa Charter. Sul loro sito si legge che l’obiettivo dell’Adfi (Alleanza per la democrazia e la libertà in Iran) è rovesciare il regime in maniera non violenta e costruire le fondamenta di una democrazia laica che possa servire la volontà del popolo iraniano. Oltre a Reza Pahlavi i primi firmatari del manifesto sono l’attivista e giornalista Masih Alinejad, l’attrice Nazanin Boniadi, l’avvocata premio Nobel Shirin Ebadi, Hamed Esmaeilion (ex portavoce dei familiari delle vittime del volo ucraino PS752) e il segretario del partito curdo Komala Abdulla Mohtadi.

Un supporto esterno alle lotte… neutrale, da Occidente

Secondo l’Adfi l’attivismo al di fuori del paese deve essere uno strumento per facilitare l’azione degli iraniani in patria. Un altro punto fondamentale è l’isolamento della Repubblica islamica, per cui è richiesta la collaborazione della comunità internazionale. Un sostegno che la coalizione sta cercando di guadagnarsi in diversi modi, partecipando a eventi internazionali e proclamando la propria adesione ai valori e agli obiettivi dei paesi occidentali. Tra i punti del manifesto compaiono l’adesione alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura, la Convenzione Internazionale sulla Sicurezza nucleare. Quest’ultimo punto risulta particolarmente sensibile dopo che i funzionari dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) hanno riportato che l’Iran ha arricchito l’uranio all’83,7%, un livello prossimo a quello necessario per la bomba atomica. Si cita inoltre la volontà di stabilire politiche di pacificazione nella regione. Pahlavi ha già dichiarato che un nuovo governo «non sarà belligerante e non manderà droni». Il figlio dello shah ha anche menzionato la volontà di cooperare con l’Europa sulla questione migratoria.

Quale legittimazione fuori dai confini iraniani?

Alcuni membri della coalizione hanno preso parte alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, che si è svolta dal 17 al 19 febbraio e dalla quale è stato escluso il governo di Teheran. Per i dissidenti è stata un’importante opportunità per dimostrarsi all’altezza di dialogare con i paesi occidentali e guadagnarsi la loro approvazione. La loro presenza non è stata sostenuta all’unanimità. Un gruppo di attivisti ha scritto una lettera aperta per denunciare la contraddizione di questa partecipazione con i valori della rivoluzione e la «completa mancanza di legittimazione democratica» della coalizione. Reza Pahlavi ha affermato di essere in contatto con i dissidenti in Iran, ma il reale supporto per la sua coalizione all’interno del paese rimane difficile da sondare.
Il 21 febbraio Alinejad e Esmaeilion hanno partecipato a un incontro al Senato italiano, dove solo un paio di mesi prima era stata invitata anche Maryam Rajavi, leader del Consiglio Nazionale della Resistenza dell’Iran, evoluzione dei Mojahedin-e-Khalq. Odiata dalla maggioranza degli iraniani in patria per la sua attività terroristica e per aver appoggiato Saddam Hussein durante la guerra tra Iran e Iraq, l’organizzazione gode di appoggio e finanziamenti di diversi paesi occidentali. Se la presenza di Rajavi ha suscitato lo sdegno della comunità iraniana in Italia, quella di Alinejad è stata accolta molto più calorosamente, sia dai suoi connazionali che dai media italiani.

Il volto conservatore non incorniciato dall’hijab

La conduttrice di Voice of America vive da anni in esilio negli Stati Uniti e si è sempre battuta per i diritti delle donne, in particolare per il diritto di scegliere di non indossare il velo. Il suo attivismo le è costato prima il suo lavoro di giornalista in Iran e poi diverse minacce di morte. Allo stesso tempo è stata bersagliata dalle critiche per la sua vicinanza a personaggi conservatori e antifemministi come Mike Pompeo e John Bolton. Secondo alcuni, Alinejad sarebbe la portavoce di quel femminismo “accettabile” agli occhi degli occidentali ossessionati dall’hijab e da una visione pietistica delle donne dei paesi musulmani.

“La diaspora iraniana e la realtà del paese dopo 40 anni”.

 

Manovre strategiche globali

I rapporti tra questa nuova coalizione e gli Stati Uniti rimangono un nodo importante da chiarire, oltre che una fonte di preoccupazione per il futuro delle proteste in Iran. Washington potrebbe trarre numerosi benefici da un nuovo “governo amico” allineato alle sue politiche. Inoltre, la mediazione cinese nell’accordo tra Iran e Arabia Saudita potrebbe portare gli Stati Uniti a un’ulteriore accelerazione nel sostegno all’opposizione al regime di Ali Khamenei, già avallata formalmente da diverse risoluzioni del Congresso.
Nel frattempo però anche all’interno del paese non mancano i tentativi di organizzazione e di confronto in vista di uno scenario postrivoluzionario. Mir Hossein Mousavi, ex primo ministro e leader delle proteste dell’Onda Verde del 2009 ha invocato un libero referendum per scrivere una nuova costituzione. Mousavi, agli arresti domiciliari dal 2011, si è sempre collocato nell’area riformista dell’establishment della repubblica islamica, pur facendosi portavoce di uno dei movimenti di contestazione più importanti degli ultimi anni. Questa presa di posizione rende ancora più evidente la fine dell’ambizione di trasformare il regime dall’interno e la necessità di un cambiamento radicale per il futuro dell’Iran.

Richieste dell’opposizione vera: cittadini che rischiano e lottano

Il 16 febbraio una ventina di sindacati, associazioni studentesche e gruppi femministi hanno pubblicato un documento contenente le richieste minime per «costruire una nuova, moderna e più umana società». Tra queste ci sono il rilascio incondizionato dei prigionieri politici, la separazione della religione dalla sfera pubblica, la libertà d’opinione e di espressione, la parità tra uomini e donne, il rispetto dei diritti della comunità Lgbtqia + e delle minoranze etniche e religiose.
Secondo l’antropologa Chowra Makaremi l’orizzontalità dell’organizzazione politica che si sta sviluppando nell’opposizione iraniana è un valore, coerente con le istanze portate avanti dalle proteste.


Per quella che si proclama una rivoluzione partita dalle donne e che porta avanti le rivendicazioni delle minoranze e della classe lavoratrice sarebbe un punto di forza mantenere in dialogo una pluralità di voci e di visioni.

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«Kurdistan, Kurdistan: occhi e luce dell’Iran!» https://ogzero.org/kurdistan-kurdistan-occhi-e-luce-delliran/ Sat, 24 Sep 2022 11:58:16 +0000 https://ogzero.org/?p=9006 Un punto di vista attento alle origini curde di Jîna Mahsa Amini per raccontare ulteriori aspetti (rispetto a quelli rilevati da Marina Forti) della vicenda che ha scatenato un movimento determinato a ottenere almeno un allentamento dell’oppressione religiosa… e che forse può avviare un più ampio processo di emancipazione dal sistema oscurantista legato ai turbanti […]

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Un punto di vista attento alle origini curde di Jîna Mahsa Amini per raccontare ulteriori aspetti (rispetto a quelli rilevati da Marina Forti) della vicenda che ha scatenato un movimento determinato a ottenere almeno un allentamento dell’oppressione religiosa… e che forse può avviare un più ampio processo di emancipazione dal sistema oscurantista legato ai turbanti di Tehran, estendendo le proteste al desiderio di liberazione dal manto plumbeo degli ayatollah, con un gesto come i tanti dal hejjab. Gianni Sartori in questo pezzo comparso su “Osservatorio repressione” ricostruisce gli eventi di questi giorni con lo sguardo dei curdi del Khorasan, in particolare del Rojhilat (le province del Nordovest), esteso al resto delle speranze soprattutto dei giovani in piazza in questi giorni, rischiando anche di venire giustiziati, come da richieste degli oscurantisti chiamati in una contromanifestazione dal governo conservatore di Raisi, che si rende conto del pericolo di insurrezione.  


In Iran non si placano le proteste per l’assassinio di Jîna Mahsa Amini

Sappiamo che la popolazione curda del Rojhilat (il Kurdistan orientale, sotto amministrazione iraniana) detiene il record non invidiabile del maggior numero (in percentuale) di giustiziati e giustiziate del pianeta. Altri – e altre – invece sono vittime della tortura.
L’ultimo caso, quello della ventiduenne curda Jîna Mahsa Amini, ha scatenato la rivolta prima nella regione, poi nell’intero paese.
Nei primi cinque giorni (e cinque notti, come a Parma nel 1922) manifestazioni e scontri erano avvenuti a Sine, Dehgulan, Diwandara, Mahabad, Urmia, Piranshahr, Saqqez…
Mentre ancora il 22 settembre i telegiornali parlavano “soltanto” di una decina di manifestanti uccisi dalla polizia iraniana nel Rojhilat, alcune agenzie ne calcolavano già una trentina.

È probabile che ormai le vittime siano più di cinquanta e destinate, purtroppo, ad aumentare. Per non parlare della sorte di centinaia di feriti e di migliaia di persone arrestate.

Immediatamente veniva indetto dal Pjak (Partito per una vita libera nel Kurdistan) e da Kodar (Società democratica e libera del Kurdistan orientale) lo sciopero generale. Sciopero a cui avevano aderito i partiti affiliati al Centro di cooperazione dei partiti del Kurdistan iraniano, il Partito comunista iraniano-Kurdistan, altri partiti del Kurdistan orientale, numerose organizzazioni della società civile e vari esponenti politici. E così il 19 settembre scuole e negozi sono rimasti chiusi in gran parte della regione.
Il giorno dopo, 20 settembre, nel corso di una manifestazione, a Kermanshah moriva un’altra donna curda, Minoo Majidi, madre di tre bambini. Colpita dalle pallottole (dal “fuego real”) delle unità speciali antisommossa, prontamente mobilitate dal regime.

Nel frattempo le proteste per l’uccisione di Jîna Mahsa Amini (22 anni, deceduta per emorragia cerebrale a seguito delle torture subite) si estendevano all’intero paese.

In almeno una quindicina di città uomini e donne (la gran parte delle quali aveva gettato via il velo) sono scesi in strada. Non solo aTeheran, ma anche a Mashhad (nel nord-est), Tabriz (nord-ovest), Rasht (nord), Ispahan (centro) e Kish (sud). Bloccando la circolazione, incendiando i veicoli della polizia, lanciando pietre sulle forze di sicurezza e distruggendo i ritratti degli ayatollah (così come era accaduto a Saqqez, città natale della giovane curda). Oltre naturalmente a scandire slogan contro il regime. Sia quello diffuso tra le donne curde del Bakur e del Rojava: “Jin jiyan azadi“ (La Donna, la Vita, la Libertà), sia uno di nuovo conio:

“Kurdistan, Kurdistan: occhi e luce dell’Iran”.

Identificata dai media come Mahsa Amini, in realtà si chiamava Jîna (o anche Zhina) che significa “donna” (Jin) in curdo. Ma al momento di registrarla all’anagrafe, il funzionario del regime, come in tanti altri casi, si era rifiutato e aveva imposto la sostituzione del nome curdo con quello di Masha. Un evidente caso di colonialismo culturale che costringe milioni di curdi, espropriati del loro stesso nome, a portarne altri turchizzati (in Bakur), arabizzati o persianizzati (in Rojhilat).

Arrestata dalla polizia per un velo portato in maniera “scorretta”, o qualcosa del genere, mentre si trovava nell’auto del fratello da cui si era recata in visita, è morta all’ospedale di Kasra a Teheran, dove era giunta già in stato di morte cerebrale.

Mentre le autorità iraniane si giustificavano evocando improbabili “preesistenti problemi di salute” –  parlando prima di una presunta epilessia, poi di problemi cardiovascolari – dalle lastre e altri esami al cranio della giovane curda emergeva la conferma di quanto già si sospettava: Jina è morta a causa delle torture, delle percosse subite appena dopo l’arresto. In particolare quella che sembra una tomografia assiale computerizzata, ha evidenziato fratture ossee, un’emorragia e un edema cerebrale.
Una fonte ospedaliera ha parlato di “tessuto cerebrale schiacciato, danneggiato da numerosi colpi”. Inoltre i polmoni erano “pieni di sangue e non poteva più essere rianimata”. In alcune delle foto di lei sul letto dell’ospedale si vede chiaramente che le orecchie sanguinano, e ciò sarebbe un segno inequivocabile che il coma era la conseguenza di un trauma cranico.

Indignate manifestazioni di protesta si sono immediatamente svolte soprattutto nel Rojhilat dove scuole e negozi sono rimasti chiusi per lo sciopero generale.

Secondo il giornalista Ammar Goli (Erdelan) le forze di sicurezza del regime iraniano utilizzerebbero anche le ambulanze per reprimere i manifestanti, in violazione del diritto internazionale. Infatti «molte delle persone arrestate vengono portate nei centri di detenzione a bordo delle ambulanze in quanto le forze di sicurezza sanno che non verranno assalite dai manifestanti. E ovviamente molti manifestanti feriti si rifiutano di recarsi negli ospedali per paura di essere arrestati».

Dalla giornalista Behrouz Boochani un appello alla comunità internazionale per intendere la voce delle donne iraniane insorte contro la dittatura islamista: «Le donne dell’Iran sono fonte di ispirazione: stanno costruendo la Storia nelle strade ribellandosi alla dittatura. Non ignoratele; se siete femministe, siate la loro voce, amplificate il loro appello! Questa è una rivoluzione femminista storica».

 

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Sollevato il velo di Mahsa. La società iraniana sfida la “morale” repressiva https://ogzero.org/mahsa-amini-la-societa-iraniana-sfida-la-morale-repressiva/ Fri, 23 Sep 2022 23:57:45 +0000 https://ogzero.org/?p=8988 La sensibilità della vivace società iraniana è avvezza alla protesta di piazza senza paura della feroce repressione del sistema ispirato da una dottrina morale ormai scollata dal comune sentire. Abbiamo dato conto in altre occasioni al malcontento sfociato in rivolta: individualmente, quando donne ai semafori platealmente liberavano le chiome, sfidando le basi del paternalismo; oppure […]

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La sensibilità della vivace società iraniana è avvezza alla protesta di piazza senza paura della feroce repressione del sistema ispirato da una dottrina morale ormai scollata dal comune sentire. Abbiamo dato conto in altre occasioni al malcontento sfociato in rivolta: individualmente, quando donne ai semafori platealmente liberavano le chiome, sfidando le basi del paternalismo; oppure nei momenti in cui la siccità minava i precari equilibri della sopravvivenza nelle aree rurali; oppure quando l’autarchia imposta dalle sanzioni erodeva l’economia popolare. Questa volta però in piazza, in occasione della morte di Mahsa Amini, scendono uomini e donne per un’enormità intollerabile, che però mina le fondamenta del sistema… e questo sentire comune si va espandendo incontenibile in tutto il paese a difesa dei diritti delle donne. Dopo il rientro di Raisi dall’intervento all’Onu la repressione si è moltiplicata con il conteggio dei morti, ma sembra non riuscire ancora a soffocare le proteste che in una settimana sempre più hanno posto nel mirino i vertici di un sistema che si sta esprimendo con esagerati giri di vite conservatori che hanno esacerbato il rapporto con la società civile. E stavolta la rivolta è fuori controllo. Ne abbiamo parlato con Marina Forti – e potete trovare nel podcast inserito nel suo articolo la sua voce che approfondisce alcuni aspetti accennati nell’articolo, dove vengono illustrati tutti i singoli elementi che compongono questo snodo epocale – per collocare nella storia dell’Iran e nella comunità che attualmente abita il paese questa incontenibile indignazione che può fare paura al sistema che da 43 anni governa e impone la morale con una polizia anacronistica.
Si è poi aggiunto un nuovo contributo propostoci da Gianni Sartori sulle lotte che in questi giorni fanno scricchiolare il consenso degli ayatollah nelle strade iraniane.


La spontanea protesta contro morali anacronistiche

Una folla di giovani circonda un falò, in una piazza: gridano “azadi”, libertà. Una ragazza si avvicina volteggiando, si toglie dalla testa il foulard e lo agita prima di gettarlo tra le fiamme, poi si si riunisce alla folla danzando. Altre la seguono, altre sciarpe finiscono bruciate tra gli applausi. È una delle numerose scene di protesta venute dall’Iran negli ultimi giorni, catturate da miriadi di telefonini e circolate sui social media in tutto il mondo.

Sono proteste spontanee, proseguono da una settimana nonostante la repressione. E se è già avvenuto in anni recenti che proteste spontanee infiammino il paese, è la prima volta che questo avviene in nome della libertà delle donne.
Ad accendere le proteste infatti è la morte di una giovane donna, Mahsa Amini, 22 anni. Era stata fermata il 13 settembre a Tehran dalla “polizia morale”, quella incaricata di far rispettare le norme di abbigliamento islamico: a quanto pare portava pantaloni attillati e il foulard lasciava scoperti i capelli. Qualche ora dopo il fermo Mahsa era in coma; trasferita all’ospedale Kasra di Tehran, è morta il 16 settembre.

La sorte di questa giovane donna di Saqqez, nella provincia del Kurdistan iraniano, in visita a Tehran insieme al fratello, ha suscitato grande emozione: fin da quando è circolata la foto di lei incosciente sul lettino, con flebo e respiratore e segni di ematomi sul volto. Davanti all’ospedale si sono riunite molte persone in attesa di notizie, e l’annuncio della morte ha suscitato profonda indignazione. Al funerale, avvenuto il giorno dopo nella cittadina del Kurdistan dove vive la famiglia Amini, la tensione era palpabile; le foto circolate mostrano una famiglia distrutta dal dolore.

Le proteste sono cominciate all’indomani: le prime e più intense proprio in Kurdistan, poi a Tehran e altrove. Al 23 settembre c’era notizia di dimostrazioni in almeno 18 città, da Rasht sul mar Caspio a Isfahan e Shiraz; da Kermanshah a ovest a Mashhad a est, fino a Kerman nel sud.

Le sfide

Migliaia di brevi video caricati sui social media mostrano folle di donne e uomini, per lo più giovani ma non solo, che esprimono grande rabbia. Molti video mostrano ragazze che bruciano il foulard; una si taglia pubblicamente i capelli in segno di lutto e protesta (a Kerman, 20 settembre). A Mashhad, sede di un famoso mausoleo shiita e luogo di pellegrinaggio, una ragazza senza foulard arringa la folla dal tetto di un’automobile: le nipoti della rivoluzione si rivoltano contro i nonni, commenta chi ha messo in rete il video.

 


A morte il dittatore

Le forze di sicurezza reagiscono. Altre immagini mostrano agenti in motocicletta che salgono sul marciapiede per intimidire i cittadini mentre un agente in borghese manganella alcune donne. La polizia che spara lacrimogeni contro i manifestanti in una nota piazza di Tehran. Agenti con manganelli che inseguono dimostranti; un agente circondato da giovani infuriati che lo gettano a terra e prendono a calci (a Rasht, 20 settembre). Si sentono ragazze urlare “vergogna, vergogna” agli agenti dei Basij (la milizia civile inquadrata nelle Guardie della Rivoluzione spesso usata per reprimere le proteste).

Manifestazioni particolarmente numerose sono avvenute nelle università di Tehran, sia nel campus centrale che al Politecnico. All’Università Azad è stato udito lo slogan “Uccideremo chi ha ucciso nostra sorella”. Anche negli atenei di altre città si segnalano proteste. Ovunque si sente gridare “la nostra pazienza è finita”, “libertà”, e spesso anche “a morte il dittatore”: lo slogan urlato a suo tempo contro lo shah Reza Pahlavi. A Tehran si sentiva “giustizia, libertà, hejjab facoltativo”, e “Mahsa è il nostro simbolo”.

La vicenda di Mahsa Amini: riformare la polizia morale?

La sorte di Mahsa Amini ha suscitato reazioni anche oltre le proteste di piazza. Il giorno del suo funerale, la foto della giovane sorridente e gli interrogativi sulla sua morte erano sulle prime pagine di numerosi quotidiani in Iran, di ispirazione riformista e non solo. Dure critiche alla “polizia morale” sono venute da esponenti riformisti e perfino vicine alla maggioranza conservatrice al governo. La morte di una donna in custodia di polizia non è giustificabile con nessun codice, e ha messo in imbarazzo il governo, a pochi giorni dall’intervento del presidente Ebrahim Raisì all’Assemblea generale dell’Onu.

Così il presidente Raisi in persona ha telefonato al signor Amini, per esprimere il suo cordoglio: «Come fosse mia figlia», gli ha detto, promettendo una indagine per chiarire fatti e responsabilità.

In effetti il ministero dell’interno ha ordinato un’inchiesta; così la magistratura e pure il Majles (il parlamento). Il capo della polizia morale, colonnello Mirzai, è stato sospeso in attesa di accertare i fatti, si leggeva il 19 settembre sul quotidiano “Hamshari (“Il cittadino”, di proprietà della municipalità di Tehran e considerato vicino a correnti riformiste). Perfino l’ayatollah Ali Khamenei, Leader supremo della Repubblica islamica, ha mandato un suo stretto collaboratore dalla famiglia Amini per esprimere “il suo grande dolore”: secondo l’agenzia stampa Tasnim (affiliata alle Guardie della Rivoluzione), l’inviato del leader ha detto che «tutte le istituzioni prenderanno misure per difendere i diritti che sono stati violati».

Per il momento però la polizia si attiene alla sua prima versione: Mahsa Amini avrebbe avuto un infarto mentre si trovava nella sala del commissariato, una morte dovuta a condizioni pregresse. Ha anche distribuito un video in cui si vede la ragazza che discute con una poliziotta, nella sala del commissariato, poi si accascia su sé stessa. Ma il video è chiaramente manipolato.

 

Sentito al telefono giovedì 22 settembre dalla Bbc, il signor Amini ha smentito che sua figlia avesse problemi di cuore. «Sono tutte bugie», ha detto, i referti medici sono pieni di menzogne, non ha potuto vedere il corpo della figlia né i filmati integrali di quelle ore; si è sentito rispondere che le body-cam degli agenti erano fuori uso perché scariche.

Le giovani donne fermate con Mahsa Amini – o Jina, il nome curdo noto agli amici – hanno raccontato invece che la giovane è stata colpita da violente manganellate nel cellulare che le trasferiva nello speciale commissariato dove alle donne fermate per “abbigliamento improprio” viene di solito impartita una lezione sulla moralità dei costumi islamici. Chi è passato attraverso quell’esperienza parla di umiliazioni verbali e spesso fisiche. Questa volta è andata molto peggio.

Prima di ripartire da New York, a margine del suo intervento ufficiale (in cui non ha fatto parola delle proteste in corso), il presidente iraniano Raisì ha tenuto una conferenza stampa per esprimere cordoglio e confermare di aver ordinato una indagine sulla morte della giovane Mahsa Amini.

Le promesse di indagini, le telefonate e le visite altolocate alla famiglia Amini non hanno certo calmato le proteste. Né hanno impedito che fossero represse con violenza.

Il bilancio è pesante. In diverse occasioni la polizia ha usato proiettili di metallo ad altezza d’uomo, secondo notizie raccolte da Amnesty International. Al 24 settembre la polizia ammette 35 morti ma circolano stime molto più alte, forse più di cinquanta, tra cui alcuni poliziotti. Dirigenti di polizia e magistrati ora parlano di “provocatori esterni”, nemici infiltrati. Martedì il capo della polizia del Kurdistan, brigadiere-generale Ali Azadi, ha attribuito la morte di tre dimostranti a imprecisati “gruppi ostili” perché, ha detto all’agenzia di stampa Tasnim, le armi usate non sono quelle di ordinanza delle forze di sicurezza. A Kermanshah, il procuratore capo ha dichiarato che due manifestanti morti il 21 settembre sono stati uccisi da “controrivoluzionari”.

Il governatore della provincia di Tehran, Mohsen Mansouri, ha detto che secondo notizie di intelligence, circa 1800 tra i dimostranti visti nella capitale «hanno preso parte a disordini in passato» e molti hanno «pesanti precedenti giudiziari». In un post su Twitter se la prende con l’attivo intervento di «servizi di intelligence e ambasciate stranieri».

Elementi ostili, infiltrati, facinorosi: ogni volta che l’Iran ha visto proteste di massa, la narrativa ufficiale ha additato “nemici esterni”. Al sesto giorno di proteste, i media ufficiali hanno cominciato a usare il termine “disordini”. Da mercoledì 21 settembre il servizio internet è soggetto a interruzioni; i social media sono stati bloccati “per motivi di sicurezza”. Da giovedì 22 è bloccato Instagram, ultimo social media ancora disponibile, e così anche WhatsApp. Nelle strade ormai si respira tensione: provocazioni da un lato, rabbia dall’altro.

Tutto questo sembra preludere a un intervento d’ordine più violento per mettere fine davvero alla protesta, ora che il presidente Raisi non è più sotto i riflettori a New York.

Mahsa Amini: una insofferenza collettiva

“La protesta avvolta nel velo di morte di Mahsa Amini”.

Restano però i veli bruciati nelle strade: come un gesto di insofferenza collettiva verso una delle prescrizioni simboliche fondamentali della Repubblica Islamica.

L’insofferenza in effetti è profonda. Nei cortei si vedevano giovani donne in chador e altre con i semplici soprabiti e foulard ormai più comuni, accomunate dalla protesta. Molti ormai in Iran considerano assurde e datate le prescrizioni sull’abbigliamento femminile, e ancor di più la “polizia morale”. Assurde le proibizioni sulla musica, sui colori, sui comportamenti personali. Solo pochi oltranzisti considerano normale che lo stato si permetta di dire alle famiglie come devono coprire le proprie figlie. Alcuni autorevoli ayatollah ripetono da tempo che l’obbligo del velo è insostenibile e datato.

Hassan Rohani, pragmatico e fautore di aperture politiche ma pur sempre un clerico ed esponente della nomenklatura rivoluzionaria, quando era presidente ironizzava sulla polizia morale che «vuole mandare tutti per forza in paradiso».

Il fatto è che l’abbigliamento femminile, come del resto ogni ambito della vita pubblica e della cultura, sono un terreno di battaglia politica in Iran. E l’avvento dell’ultraconservatore Raisi ha segnato un giro di vite. È stato il suo governo a proclamare il 12 luglio “giorno del hejjab e della castità”. Il presidente si è detto addolorato dalla morte di Mahsa Amini: ma è stato proprio lui a firmare, il 15 agosto, un decreto per ripristinare le corrette norme di abbigliamento islamico e prescrivere punizioni severe per chi viola il codice, sia in pubblico che online (è diventato comune mettere sui social media proprie foto a testa scoperta, video di persone che ballano, in aperta sfida alle prescrizioni ufficiali).

Sarà costretto a fare qualche marcia indietro? Ora diverse voci tornano a chiedere di abolire la cosiddetta “polizia morale”, che dipende dal ministero della “cultura e della guida islamica”, noto come Ershad.

Tanto che il ministro della cultura Mohammad Mehdi Esmaili, sulla difensiva, ha dichiarato che stava considerando di riformare la polizia morale già prima della morte di Amini: «Siamo consapevoli di molte critiche e problemi», ha detto.

Il vertice della repubblica islamica però dovrebbe ormai sapere che nella società iraniana la rabbia e la frustrazione sono profonde. Ed è già successo che proteste nate da un preciso episodio poi si allargano. L’Iran sta attraversando una crisi economica che ha impoverito anche le classi medie. Ogni rincaro dei generi alimentari o della benzina colpisce gli strati più modesti della società, e quindi il sistema di consenso che regge da quattro decenni le basi della Repubblica islamica. Soprattutto, i giovani iraniani non vedono un futuro. Si sentono soffocare. La rabbia è pronta a esplodere a ogni occasione. Non che sia una minaccia immediata, per il vertice politico: sono proteste spontanee, non ci sono forze organizzate che possano abbattere il sistema. Ma lo scollamento sociale cresce. Un sistema che tiene alla sua sopravvivenza dovrà tenerne conto.

 

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Raisi, il Giudice senza grazia https://ogzero.org/l-iran-e-in-ebollizione-raisi-le-sanzioni-e-le-sfide-internazionali/ Wed, 25 Aug 2021 11:03:15 +0000 https://ogzero.org/?p=4708 Non c’è luna di miele per Ebrahim Raisi, insediato il 5 agosto nella carica di presidente della repubblica iraniana. Nessun “periodo di grazia”, né all’interno di un paese attraversato da proteste sociali e stremata da una nuova ondata di Covid-19, e neppure sul piano internazionale. Durante il suo discorso inaugurale il presidente Raisi si è […]

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Non c’è luna di miele per Ebrahim Raisi, insediato il 5 agosto nella carica di presidente della repubblica iraniana. Nessun “periodo di grazia”, né all’interno di un paese attraversato da proteste sociali e stremata da una nuova ondata di Covid-19, e neppure sul piano internazionale.

Durante il suo discorso inaugurale il presidente Raisi si è dichiarato un «servitore del popolo», e ha detto che la sua priorità sarà risollevare l’economia e portare il benessere «sul tavolo da pranzo di tutti gli iraniani». Ha anche detto che perseguirà una «diplomazia intelligente» per veder togliere le «crudeli sanzioni che opprimono» l’Iran, riferimento ai negoziati in corso a Vienna per riesumare l’accordo sul nucleare iraniano (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa) firmato nel 2015, e vanificato nel maggio 2018 quando l’allora presidente degli Stati uniti Donald Trump ha deciso di uscirne, decretando nuove sanzioni all’Iran.

Il sessantenne Raisi, un religioso di medio rango, è molto vicino al leader supremo Ali Khamenei, di cui era stato allievo. Ha svolto tutta la sua carriera nella magistratura, roccaforte delle correnti più ortodosse della Repubblica Islamica. Negli anni Ottanta è stato nel comitato di giudici incaricati di epurare le carceri iraniane mettendo a morte migliaia di detenuti politici, una delle pagine più inquietanti dell’Iran rivoluzionario. Negli ultimi due anni, come Procuratore capo della repubblica si è fatto paladino della lotta alla corruzione, suo tema di battaglia elettorale. È stato alla testa di una delle più potenti fondazioni islamiche, la Astan Qods Razavi di Mashhad, che controlla un impero commerciale e una rete di beneficenza e opere sociali: un pilastro del consenso al sistema.

Oggi ripete che la sua sarà un’amministrazione «popolare».

Eppure Ebrahim Raisi è stato eletto con il voto meno partecipato nella storia dell’Iran repubblicano: meno di metà degli aventi diritto è andata alle urne. È stato un voto senza concorrenti, poiché gli avversari di qualche peso erano stati esclusi: quella del 18 giugno scorso è stata l’elezione presidenziale meno libera da sempre perfino per gli standard della Repubblica Islamica dell’Iran, dove un organismo che risponde solo al leader supremo ha potere di veto sulle candidature. Insomma, la legittimità popolare del nuovo presidente è molto debole. Lo stesso Raisi riconosce che bisogna «ripristinare la fiducia» degli elettori.

Sta di fatto che, con Raisi alla presidenza, gli oltranzisti del sistema (quelli che alcuni chiamano il deep state, lo stato profondo) controllano tutti i centri di potere della Repubblica Islamica: eletti (il parlamento, la presidenza) e non. La lista dei suoi ministri, sottoposta al parlamento il 12 agosto è significativa: comprende uomini delle Guardie della rivoluzione, ex militari, ex dirigenti dei servizi di intelligence e della Tv di stato (altra roccaforte del sistema). Ci sono anche i dirigenti di due potenti fondazioni islamiche, la Astan Qods Razavi, già citata, e quella intitolata all’Imam Khomeini (rispettivamente ministri dell’istruzione e del lavoro e welfare).

Dunque legge, ordine, forze armate, e welfare. Eppure il neopresidente non avrà periodo di grazia.

La sfida di Vienna

Sul piano internazionale, la prima sfida è proprio quella che si gioca a Vienna. L’amministrazione di Joe Biden ha dichiarato di voler rientrare nell’accordo sul nucleare stracciato da Trump, ma sei round di colloqui tra i partner residui (Iran, Francia, Germania, Regno Unito, Cina e Russia), e indirettamente con gli Usa, non hanno ancora dato esito positivo.

Fare previsioni è inutile; meglio ricapitolare ciò che sappiamo. Il nuovo presidente iraniano ha dichiarato di volere il negoziato, «nei termini indicati dal Leader Supremo» (in effetti è stato Khamenei sei mesi fa ad avallare i colloqui di Vienna). Ebrahim Raisi non ha competenze specifiche in politica internazionale. Come ministro degli Esteri ha scelto un diplomatico di carriera: Hossein Amir-Abdollahian, già viceministro degli Esteri nel primo governo Rohani, poi consigliere di politica internazionale dell’ex presidente del parlamento Ali Larijani. Un uomo di regime con solidi legami con le Guardie della rivoluzione, ma non uno degli oltranzisti che avevano avversato l’accordo sul nucleare (di cui pure erano circolati i nomi). Amir-Abdollahian conosce il dossier nucleare e ha esperienza di colloqui con le controparti occidentali, inclusi gli Usa. Presenterà un volto più duro dei predecessori. Però si può aspettare che nel futuro negoziato l’amministrazione Raisi avrà meno opposizioni interne del suo predecessore Hassan Rohani, il quale è stato boicottato in tutti i modi (interessante il suo ultimo discorso al governo uscente: l’accordo era quasi fatto e le principali sanzioni statunitensi sarebbero cadute già da tempo, ha detto, non fosse stato per l’attivo boicottaggio del parlamento dominato dagli oltranzisti).

Non sarà un negoziato facile neppure per la nuova amministrazione. Non sono di buon auspicio gli “incidenti” navali di fine luglio, che riaccendono i riflettori sulla guerra-ombra in corso tra Israele e Iran (e forse su un nuovo “consenso” anglo-americano contro l’Iran). Ma ci sono anche segnali positivi per la diplomazia: l’inviato dell’Unione Europea ai negoziati sul nucleare, Enrique Mora, era a Tehran per l’inaugurazione del presidente Raisi, con cui si è intrattenuto (anche se il suo gesto è stato criticato da molti difensori per i diritti umani, tra cui l’avvocata Narges Mohammadi).

Un paese impoverito e disilluso

Ma lasciamo per un istante lo scenario internazionale. L’altra sfida per il neopresidente Raisi è all’interno del paese, ed è perfino più urgente. È la crisi dell’economia, appesantita dalle sanzioni internazionali: l’inflazione supera il 44 per cento, le imprese sono in difficoltà, la disoccupazione galoppa, mentre le grandi ricchezze sono sempre più grandi: pochi miliardari e una classe media impoverita. Tutto aggravato dalla lunga pandemia di Covid-19, dalla siccità, i conflitti per l’acqua, la penuria di energia elettrica. Un paese impoverito, disilluso, e senza fiducia nel futuro.

«La tensione nel paese è molto forte e Raisi deve prendere decisioni molto in fretta», dice l’economista e analista politico Saeed Leylaz (riprendo questo commento dal “Financial Times”). Per esempio il contrasto all’inflazione o la conduzione della campagna di vaccinazioni, spiega il presidente:

«ha bisogno di presentare qualche carta vincente, che gli permetta di prendere tempo fino a quando ci saranno decisioni definitive sull’accordo nucleare e sulle sanzioni».

L’urgenza è evidente. L’insediamento di Ebrahim Raisi è stato preceduto da settimane di proteste per la mancanza d’acqua che attanaglia le province occidentali, e per i blackout di corrente elettrica divenuti frequenti in tutto il paese nella stagione estiva.

La rivolta dell’acqua

La rivolta dell’acqua è scoppiata la sera del 15 luglio ad Ahwaz, capoluogo del Khuzestan, provincia occidentale affacciata sul golfo Persico e confinante con l’Iraq.

 

I quattro fiumi della provincia sono ridotti ai minimi storici, l’acqua è razionata, esce dai rubinetti solo un’ora al giorno. La folla gridava «il fiume ha sete», «noi abbiamo sete».  E poi

«abbiamo dato il sangue e la vita per il Karun»,

il fiume che attraversa Ahwaz. I manifestanti chiedevano forniture urgenti d’acqua. Molti chiedevano le dimissioni delle autorità locali accusate di incompetenza, o di corruzione, o entrambe le cose.

La crisi è tutt’altro che inaspettata. In maggio il ministero dell’Energia aveva avvertito che l’Iran andava verso l’estate più secca da 50 anni, con temperature che potevano sfiorare i 50 gradi, e l’allarme era stato ripreso da tutti i giornali. Poi è successo, e le conseguenze sono devastanti: per chi deve sopportare un’estate torrida e umida senza acqua, ma anche per l’agricoltura e l’intera economia.

Il paradosso è che il Khuzestan è tra le province più povere dell’Iran, in termini di sviluppo sociale: la disoccupazione e il tasso di povertà assoluta sono i più alti del paese (secondo Iran Open Data, che analizza statistiche ufficiali), ma è tra le più ricche in termini di risorse: racchiude circa l’80 percento delle riserve di petrolio e il 60 per cento di quelle di gas naturale per paese, e produce una parte importante del prodotto interno lordo iraniano (il 15 per cento nel 2019). Inoltre il Khuzestan era una terra fertile e ricca d’acqua, anche se oggi pare incredibile: ha quattro fiumi tra cui il Karun; due importanti zone umide (incluse le paludi condivise con l’Iraq), e aveva un’importante economia agro-industriale – ora in crisi.

Il sito storico del sistema idrico di Shushtar, patrimonio Unesco.

Il giorno dopo le prime manifestazioni, il governatore provinciale ha mandato camion cisterna a portare acqua in oltre 700 villaggi e cittadine del Khuzestan, cosa che non ha placato gli animi. La penuria d’acqua è da attribuire in parte al cambiamento globale del clima: dall’inizio del secolo il regime delle piogge è sempre più scarso, le temperature sempre più alte, e la siccità è ormai cronica nell’Iran occidentale insieme a ampie zone dei vicini Iraq e Siria.

Le tempeste di sabbia che avvolgono periodicamente città come Ahvaz ne sono una conseguenza tangibile.

È in causa però anche la gestione dell’acqua disponibile. Negli ultimi decenni sono state costruite numerose dighe sui fiumi dell’Iran occidentale, sia per produrre elettricità, sia per sostenere ambiziosi progetti di espansione agricola, o per trasferire acqua verso la provincia centrale di Isfahan.

Il ponte di Allahverdi Khan sul fiume ormai secco, Isfahan (foto Wanchana Phuangwan).

Negli ultimi anni inoltre le autorità hanno autorizzato lo scavo di migliaia di pozzi. Dunque sempre più acqua è estratta dal sottosuolo, ma le piogge non bastano a “ricaricare” le riserve. Il livello delle falde idriche così è crollato; l’acqua salmastra del Golfo penetra sempre più all’interno. La salinità dei terreni causa ulteriori problemi per l’agricoltura; a nord di Ahwaz le famose palme da datteri cominciano a morire. Nelle zone petrolifere inoltre l’acqua disponibile è spesso inquinata da sversamenti di greggio.

Ad aumentare la rabbia poi ci sono ragioni storiche. Le proteste per l’acqua hanno coinvolto città come Abadan, Khorramshahr, e altre: sono nomi che richiamano la Guerra Iran-Iraq. Su Abadan e le sue raffinerie puntava l’esercito di Saddam Hussein quando invase l’Iran nel settembre 1980; nella “città martire” di Khorramshahr si combatté casa per casa. Tutto l’ovest dell’Iran fu il fronte di quella guerra sanguinosa, durata otto anni. In Khuzestan però la ricostruzione è stata solo parziale, le attività economiche non sono mai tornate al benessere precedente. Perché? I dirigenti iraniani adducono la mancanza di mezzi e risorse da investire, o la cronica instabilità nel vicino Iraq. La provincia è abitata da una forte minoranza arabo-iraniana (c’è anche un movimento indipendentista, minuscolo ma foraggiato dai potenti vicini arabi del Golfo). A precedere le proteste generali, il 6 luglio una delegazione di agricoltori e anziani delle tribù arabe era andata a Ahwaz per fare rimostranze alle autorità locali per la penuria d’acqua.

La rivolta “legittima” e la polizia che spara

Insomma: la provincia si sente negletta. L’agricoltura e le fabbriche che ne dipendono sono sempre più in crisi. I giovani non trovano lavoro. Aumenta l’emigrazione verso le grandi città; a Tehran o Isfahan sorgono nuove borgate di migranti arrivati dalle zone rurali del Sudovest.

Cambiamento climatico, dighe, inquinamento, cattiva gestione delle risorse, disoccupazione, discriminazione delle minoranze: tutto spiega la rabbia esplosa in luglio.

«Per otto anni [durante la guerra con l’Iraq] questa provincia è stata devastata, e ora i nostri soldati sparano contro di noi», diceva un manifestante di 24 anni di Dezful al corrispondente di “Middle East Eye”.

Di fronte alla protesta infatti lo stato ha risposto come al solito: con la forza. Anche perché le proteste si sono estese; c’è notizia di manifestazioni a Kermanshah, capoluogo della provincia omonima nell’Iran occidentale, nel Lorestan, a Isfahan, fino a Tehran. Organizzazioni di avvocati, attivisti sociali, l’associazione degli scrittori, hanno manifestato solidarietà. Sui social media sono circolate foto di blindati e veicoli antisommossa scaricati dagli aerei cargo nell’aeroporto di Ahwaz. Le proteste si sono prolungate per giorni. Le autorità hanno sospeso internet in gran parte del Khuzestan, senza riuscire a bloccare del tutto le informazioni.

È cominciata la guerra di notizie: il 20 luglio, dopo la quinta notte consecutiva di proteste, il governatore del Khuzestan ha parlato di un morto, una persona che accompagnava le forze di polizia e sarebbe stato ucciso dai dimostranti (i media di stato hanno addirittura accusato “terroristi armati”). Pochi giorni dopo Amnesty International ha parlato di almeno otto morti, tutti manifestanti.

Le proteste bloccano la strada tra Ahvaz e Andimeshk.

Eppure perfino il Leader supremo l’ayatollah Ali Khamenei ha ammesso che la protesta è legittima. È intervenuto tardi, ben una settimana dopo l’inizio delle manifestazioni e degli scontri, ma infine lo ha riconosciuto:

«Se i problemi dell’acqua e delle fogne in Khuzestan fossero stati risolti, non vedremmo oggi questi problemi». E poi: «Le persone esprimono il loro malcontento perché sono esasperate. (…) Le autorità devono risolvere al più presto i problemi della leale popolazione di questa provincia».

Il fatto è che mentre il leader parlava così, la polizia sparava sui manifestanti. Risolvere il problema dell’acqua è di sicuro una sfida per la nuova amministrazione, come lo è stato per le precedenti: ma richiede strategie a lungo termine, rivedere le scelte di sviluppo, combattere sprechi e malversazioni, rilanciare il dialogo con le minoranze e con gli enti locali. Nell’immediato, reprimere le proteste è più facile.

Le proteste per l’acqua, o quelle segnalate a Tehran alla fine di luglio per i continui blackout di corrente, non alludono a un’opposizione politica organizzata – anche se in alcuni casi sono stati sentiti slogan come «abbasso la Repubblica islamica», o «a morte il dittatore», «a morte Khamenei». Proprio come era successo nel dicembre del 2019 nelle proteste suscitate dall’aumento del prezzo dei carburanti, e due anni prima per il carovita.

Proteste senza una direzione politica riconoscibile, “solo” manifestazioni spontanee di esasperazione.

Ma questo non dovrebbe preoccupare di meno i dirigenti iraniani: al contrario.

Si aggiungano croniche proteste di lavoratori in tutto il paese, e un’ondata di scioperi tra gli addetti dell’industria petrolifera. Mentre la “variante delta” del virus fa strage, i medici lanciano appelli disperati, e solo il 3 per cento degli iraniani è completamente vaccinato: anche nelle code alle farmacie si sente imprecare contro il leader supremo, che mesi fa ha vietato di importare vaccini prodotti in Usa e Regno Unito.

L’Iran dunque è in ebollizione. Il neopresidente Raisi dovrà mostrare qualcosa di concreto, in fretta, che non siano solo i blindati antisommossa. Ma per questo ha anche bisogno di veder togliere le sanzioni che soffocano l’economia del paese: come al solito, le sfide internazionali e quelle interne sono strettamente legate.

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Elezioni iraniane: l’astensionismo è social https://ogzero.org/astensionismo-e-social-prospettive-iraniane/ Thu, 17 Jun 2021 10:55:32 +0000 https://ogzero.org/?p=3899 Il 18 giugno in Iran eleggeranno il successore di Hasan Rohani, il dibattito politico ferve tra affollate assemblee e serate pubbliche, ma il boicottaggio al voto viaggia sui social, su quelli che resistono alla censura, nelle stanze virtuali in cui cresce il “partito” dell’astensionismo derivante dalla disillusione degli iraniani: un paradosso per un regime che […]

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Il 18 giugno in Iran eleggeranno il successore di Hasan Rohani, il dibattito politico ferve tra affollate assemblee e serate pubbliche, ma il boicottaggio al voto viaggia sui social, su quelli che resistono alla censura, nelle stanze virtuali in cui cresce il “partito” dell’astensionismo derivante dalla disillusione degli iraniani: un paradosso per un regime che ha sempre indicato la partecipazione popolare come la prova della sua legittimità.


Figure molto in vista del governo iraniano hanno partecipato ad affollate assemblee per rispondere alle domande di cittadini e giornalisti. I candidati alle prossime elezioni presidenziali si sono presentati in serate pubbliche di dialogo, mentre una nota esponente riformista ha lanciato dure critiche alla selezione dei candidati. Un’attivista per i diritti umani ha spiegato perché lei non voterà. Si moltiplicano gli appelli a boicottare il voto. Anche le correnti conservatrici hanno organizzato eventi soprattutto per criticare il governo sulla gestione dell’economia, tema sempre molto popolare. E tutto questo avviene in eventi in diretta sui social media.

Il 18 giugno gli iraniani eleggeranno un successore al presidente Hasan Rohani, giunto al termine del suo secondo mandato, e il dibattito politico ferve.

Ma non sono stati i confronti in diretta Tv tra i sette candidati a mobilitare gli ascolti, quanto i social media: e tra questi soprattutto Clubhouse, ultimo grido in fatto di spazi virtuali.

Perché? Nel recente passato i dibattiti televisivi tra i candidati, inaugurati dalla Tv di stato nel primo decennio del Duemila, avevano avuto risonanza. Davano un’idea di apertura. Per la prima volta i candidati erano messi a confronto in diretta in ore di grande ascolto, con un contraddittorio che metteva alla prova la capacità di comunicare e rispondere a domande scomode.

Senza concorrenti

Non questa volta. Ma non è solo questione di format televisivi. Il fatto è che mai come questa volta il processo di selezione dei candidati è stato restrittivo: il Consiglio dei Guardiani, consesso di giuristi islamici che ha il compito di vagliare le credenziali di ogni candidato alle cariche pubbliche, ha squalificato molti nomi noti. In particolare, ha escluso l’attuale vicepresidente Eshaq Jehangiri, rappresentante di spicco dello schieramento riformista, e perfino l’ex presidente del parlamento Ali Larijani, e questo è stato davvero inatteso: in fondo Larijani è un esponente della nomenklatura della Repubblica Islamica, un conservatore, già caponegoziatore sul nucleare; non è mai stato neppure lontanamente vicino ai riformisti, anche se è un moderato e nelle ultime due legislature si è avvicinato al presidente uscente Rohani. Eppure è fuori. Escluso anche l’ex vicepresidente Mahmoud Ahmadi Nejad.

In altre parole, l’organismo di controllo ha escluso dalla competizione elettorale ogni reale concorrente all’unico candidato favorito dal sistema, e cioè Ebrahim Raisi, attuale capo della potentissima magistratura (che nel sistema istituzionale iraniano risponde solo al Leader supremo), esponente della corrente più oltranzista del sistema politico iraniano.

Il favorito del Leader

Il nome di Ebrahim Raisi emerge in alcune delle pagine più inquietanti della Repubblica islamica dell’Iran. Originario di un villaggio vicino a Mashhad, seconda città iraniana e sede di uno dei più importanti mausolei sciiti, Raisi ha studiato teologia a Qom, dove è stato discepolo di Ali Khamenei (oggi Leader supremo del paese). La sua carriera giudiziaria è cominciata nel 1981, subito dopo la Rivoluzione. Nel 1985 era viceprocuratore di Tehran e nel 1988, sul finire della sanguinosa guerra Iran-Iraq, fece parte di uno speciale gruppo di quattro magistrati che per incarico speciale dell’ayatollah Khomeini (l’allora Leader supremo) doveva epurare i detenuti politici di cui straboccavano le carceri: fu un massacro, l’esecuzione sommaria di migliaia di persone (circa cinquemila, secondo Amnesty International).

Durante la campagna per le presidenziali del 2017, quando Raisi si era candidato contro il presidente Rohani, questi ha rinfacciato a Raisi il suo ruolo nel “comitato della morte”: lui si è difeso minimizzando,  distinguendo tra gli accusatori e chi emette la sentenza.

L’astensionismo è social

Sta di fatto che da allora Raisi ha fatto una carriera sfolgorante, ricoprendo numerose alte cariche nella magistratura. Nel 2009 ha confermato la condanna a morte di numerose persone per aver partecipato alle proteste dopo la rielezione di Ahmadi Nejad. Nel 2016 Khamenei lo ha nominato “custode” della danarosa fondazione Astan Quds Razavi, che gestisce il mausoleo dell’Imam Reza a Mashad e soprattutto gestisce un cospicuo patrimonio e controlla una fitta rete di industrie e aziende commerciali. Nel 2019 Khamenei lo ha nominato Procuratore generale della Repubblica islamica.

È da allora che Raisi sta lavorando alla sua rivincita elettorale. Da capo della magistratura ha lanciato una “guerra alla corruzione”. In un paese dove alcuni sono riusciti ad ammassare grandi fortune in modo poco chiaro mentre le classi medie sono impoverite da crisi e sanzioni, il tema è di sicuro appeal popolare. Qualcuno sostiene che nella sua crociata anticorruzione il Procuratore generale Raisi si sia rivolto solo ai circoli più vicini alla famiglia Rafsanjani e alla sua corrente politica (che include parte del governo uscente), sorvolando sulle malefatte di altre parti politiche.

Certo è che da un paio d’anni Ebrahim Raisi gira per il paese tuonando contro i figli dell’élite “occidentalizzata” e corrotta, tiene incontri pubblici, visita moschee e fondazioni caritatevoli, arringa fedeli, accusa i riformisti di essere elitari e il governo di aver perso contatto con “i poveri”: come una lunga campagna elettorale, di cui ora spera di raccogliere i frutti. Raisi dispone con ogni evidenza dell’appoggio del deep state, i poteri forti della Repubblica islamica, con tutti gli apparati di consenso popolare (tra cui le fondazioni caritatevoli rivoluzionarie come quella di Mashhad che lui presiede).

Ciò che invece manca a Ebrahim Raisi è un carisma personale.

Nei dibattiti elettorali (in Tv: non sono noti suoi interventi su Clubhouse o altri social media) Raisi ha promesso di combattere «la povertà e la corruzione, l’umiliazione e la discriminazione», ed è tutto ciò che ha ripetuto durante uno dei rari comizi “in presenza” di questa campagna elettorale, pochi giorni fa in uno stadio della città sudoccidentale di Ahwaz (nonostante il paese stia ancora facendo i conti con la pandemia di Covid-19).

“Non è un’elezione, è una nomina”

«Questa non è più un’elezione, è una nomina», ha commentato Faezeh Hashemi, ex deputata ed esponente riformista, durante un incontro pubblico la cui registrazione è circolata online. Figlia dell’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, un grande vecchio della politica iraniana, Faezeh Hashemi è nota per prese di posizione molto schiette. «Non capisco perché abbiano pensato che Larijani fosse un pericolo per Raissi», osserva, visto che il capo della magistratura è di fatto in campagna da due anni. «È molto più grave che in passato», sostiene: lasciare in lizza Larijani almeno «avrebbe dato il senso di un confronto, anche se in effetti era offrire una scelta tra il male e il peggio». Ora non c’è davvero più nessun motivo per votare, conclude Hashemi.

Il veto sui candidati non è una novità in Iran. Nonostante tutto però in passato abbiamo visto una certa competizione politica, e il risultato delle urne non era scontato. Nel 1997 fu una sorpresa l’elezione di Mohammad Khatami, il primo fautore di aperture e riforme interne al sistema, che sconfisse il favorito dall’establishment. Nel 2013, quando i Guardiani hanno messo il veto sulla candidatura dell’ex presidente Rafsanjani, i voti di riformisti, moderati, e di tutti coloro che volevano mettere fine ai tempi bui di Ahmadi Nejad si sono riversati sul pragmatico e moderato Hasan Rohani – che in effetti ha riportato qualche apertura nella politica iraniana sia interna, sia internazionale.

Questa volta però non resta alternativa. Nell’ultima settimana di maggio il portavoce del Fronte riformista ha dichiarato che i riformisti non hanno alcun candidato in campo, ovvero che non ritengono di poter riversare i propri voti su nessuno.

Al contrario, si moltiplicano gli appelli a boicottare il voto.

Così, non sorprende che i dibattiti televisivi tra i sette candidati superstiti, andati in onda il 4, l’8 e il 12 di giugno, abbiano suscitato scarso interesse (anche se bisogna riconoscere che non ha aiutato la coincidenza con importanti partite della nazionale di calcio iraniana). I resoconti sono unanimi: dibattiti farciti di veementi accuse e sarcasmi reciproci, ma pochi discorsi concreti sui programmi, solo vaghe promesse.

L’astensionismo è social

L’unico candidato che mostra di crescere in popolarità, almeno secondo i sondaggi, è Abdolnaser Hemmati, già governatore della banca centrale iraniana da cui ha dovuto dimettersi quando ha registrato la sua candidatura in aprile. Hemmati per esempio ha criticato la decisione del governo Rohani di aumentare il prezzo della benzina nel novembre 2019. Si ricorderà che quell’aumento di prezzi aveva scatenato proteste popolari in molte città iraniane, poi represse con violenza dalla polizia e dalle Guardie della Rivoluzione, lasciando un trauma ancora aperto nella società iraniana. Ora Hemmati dice che lui era contrario al rincaro; che se sarà eletto chiederà che sia fatta luce sugli eventi di quei giorni e su quante persone sono state uccise dalle forze di sicurezza, e si accerterà che le famiglie delle vittime ricevano i risarcimenti a cui hanno diritto.

La “stanze” virtuali

Non è chiaro se simili dichiarazioni di simpatia per le vittime del novembre 2019 bastino a ridare qualche entusiasmo agli elettori. La cosa interessante però è che Hemmati ha fatto le dichiarazioni più veementi su Clubhouse.

Nata poco più di un anno fa negli Stati Uniti, Clubhouse è una video-chat che permette agli utilizzatori di aprire una “stanza” virtuale dove invitare fino a ottomila partecipanti per ogni sessione. In Iran ha avuto un immediato successo perché offre uno spazio pubblico, sebbene virtuale, dove si parla di un po’ tutto – cinema, eventi culturali, la pandemia, o anche se boicottare le elezioni.

Bisogna considerare che la diffusione di internet è molto alta in Iran fin dai primi anni Duemila, e ha avuto un’accelerazione nell’ultimo decennio. Un paese di 85 milioni di persone oggi ha quasi 95 milioni di allacciamenti alla banda larga. Negli otto anni di amministrazione Rohani, le sim card in uso sono passate da quasi 60 milioni a 131 milioni. L’uso di internet è pervasivo ormai anche nelle piccole città di provincia, e sono diffusissimi i social media: nel 2018 il ministero della Cultura annunciava che circa 40 milioni di iraniani avevano installato Instagram sui loro smartphone. Telegram è un altro social molto usato: permette di aprire “canali” dedicati che sono diventati veri e propri organi di informazione. Con Clubhouse si aggiunge la possibilità di incontri in diretta.

Come già Telegram e Instagram, molto popolari in Iran, o altri social media, anche Clubhouse è ampiamente usato sia da riformisti che conservatori, voci esterne al sistema politico e insider del regime. In una serata su Clubhouse ad esempio il comandante delle Guardia della Rivoluzione Rostam Qasemi, ha risposto alle domande del pubblico. Il ministro delle telecomunicazioni Mohammad Javad Azari Jahromi ha già animato diverse serate. È qui che opinionisti dei diversi schieramenti politici presentano candidati e lanciano discussioni – erodendo ancora un po’ il monopolio televisivo di stato (già minacciato dalle Tv satellitari straniere che il regime cerca invano di oscurare, o dalle piattaforme di cinema e serie Tv on demand).

È in una “stanza” di Clubhouse che, il 31 marzo, il ministro degli Esteri Zarif aveva discusso dell’accordo di cooperazione tra l’Iran e la Cina e di vari altri temi, in una affollatissima serata in cui ha accettato anche domande da giornalisti iraniani all’estero, come la reporter del “New York Times” Farnaz Fassihi o la free lance Negar Mortazavi che vive negli Usa, e perfino Masoud Behnoud, notissimo commentatore che collabora con Bbc Persian (oscurata in Iran): cosa che non sarebbe mai potuta accadere in un incontro più formale.

Sempre su Clubhouse l’avvocata e attivista Narges Mohammadi ha discusso della difesa dei diritti fondamentali nel paese in un evento pubblico che sarebbe impensabile in presenza. Mohammadi è la vicepresidente e portavoce del Centro dei Difensori dei Diritti umani, organizzazione che ha vita molto difficile in Iran: nel 2013 era stata condannata per “attentato alla sicurezza dello stato” e “propaganda contro il sistema”; scarcerata in via condizionale qualche anno dopo, di recente è stata confermata la sua condanna a 30 anni di reclusione.

In un evento del 31 maggio scorso, Mohammadi ha spiegato che boicotterà le elezioni del 18 giugno e farà propaganda attiva per l’astensione: «Se non sono garantiti i diritti politici dei cittadini, tra cui la libertà d’espressione e di riunione, il voto  non avrà un significato reale. […] Nel 2009 i cittadini hanno votato contro il governo; in altre occasioni hanno votato per candidati che si distinguevano almeno un po’ dal sistema.  Insomma, hanno usato quei minimi spazi politici. Ma nell’atmosfera politica attuale, non vedo uno spazio. Le elezioni hanno perso la loro funzione» (qui un resoconto più esteso dell’avvocata Mohammadi).

Cresce il partito dell’astensione

Mentre gli appelli all’astensione si moltiplicano, l’apatia degli elettori cresce. Secondo l’ultimo sondaggio  della Iran Students Polling Agency (Ispa), affiliata al ministero della Scienza e Tecnologia, solo il 34 per cento dei votanti si dichiara deciso ad andare alle urne; contando gli indecisi si arriva intorno al 38 per cento. Sono percentuali addirittura più basse di quelle registrate in maggio: come se la campagna elettorale oltre a non richiamare più elettori li avesse addirittura allontanati.

I sondaggi vanno presi con cautela, ma molti prevedono una partecipazione bassa.

Nelle ultime tre presidenziali la percentuale dei votanti ha oscillato tra il 72 e l’85 per cento.

Controcorrente, giorni fa l’anziano Mehdi Karroubi, autorevolissimo leader riformista, ha rivolto agli iraniani un appello a votare nonostante tutto, e ha chiesto ai riformisti di unirsi dietro a un nome, magari quello di Hemmati, per non lasciare ai conservatori una vittoria troppo facile. Un anno fa, l’apatia degli elettori e il veto su buona parte dei candidati riformisti hanno permesso alle correnti conservatrici di conquistare la maggioranza assoluta del parlamento iraniano; oggi si preparano a conquistare la presidenza.

La disillusione degli iraniani però è forte. «Ancora nel 2013 c’era uno spirito positivo negli elettori, c’era speranza», fa notare Faezeh Hashemi. Poi però le promesse di sviluppo e benessere aperte dalla presidenza Rohani e dall’accordo sul nucleare non si sono materializzate. L’avvento dell’amministrazione Trump ha riportato sanzioni e difficoltà per le classi medie iraniane, e accentuato la tensione internazionale. La repressione delle proteste popolari, la tragedia dell’aereo ucraino abbattuto per errore, l’incertezza economica – tutto concorre a erodere la fiducia pubblica. La scarsa affluenza al voto ne è un segno.

Bel paradosso per un regime che ha sempre indicato la partecipazione popolare come la prova della sua legittimità.

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