dighe Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/dighe/ geopolitica etc Sun, 31 Dec 2023 00:26:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Dighe e discariche a Panama https://ogzero.org/studium/dighe-e-discariche-a-panama/ Sat, 02 Dec 2023 23:09:38 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12012 L'articolo Dighe e discariche a Panama proviene da OGzero.

]]>

La devastazione corre sul filo… elettrico

Un flumicidio premeditato

L’agonia del fiume Tabasará iniziò nel 2007 con la complicità dello stato panamense che autorizzò una concessione per la società Genisa – Generadora del Istmo S.A. (creata ad hoc per la realizzazione del progetto idroelettrico di Barro Blanco): società che iniziò nel 2011 i lavori di costruzione in un clima di forte tensione. Le critiche erano legate alle preoccupazioni sull’impatto del progetto nonché alla mancanza di un’adeguata consultazione pubblica e alle violazioni dei diritti umani perpetrate dalla stessa società.

Quest’ultima, dopo un lungo processo di negoziazioni iniziato nel febbraio 2015, tra alcuni rappresentanti indigeni e lo stato panamense (con intervento dell’Onu), venne estromessa definitivamente dal progetto nel 2016: quando la centrale era già stata costruita per un 95%.

.

Con l’acqua alla gola

L’accordo siglato nel 2016 creò però non pochi attriti all’interno della comunità Ngäbe-Buglé, giacché non tutti i membri riconobbero la legittimità di tali accordi, che sancirono de facto l’inizio delle attività della centrale idroelettrica.
Dopo Genisa arrivò Cobra (impresa facente parte fino al 2002 del gruppo Impregilo e oggi parte del gruppo spagnolo Acs) e sul suo sito web si legge che il progetto è iniziato il 15 febbraio 2011 e si è concluso il 23 gennaio 2017: circa 6 anni di lavori. Quello che però attira di più l’attenzione è questo paragrafo che descrive le difficoltà nella realizzazione della centrale e della diga.

«La sfida più grande che venne affrontata durante i lavori fu la chiusura della diga, poiché a causa del tipo di idrologia del fiume Tabasará, c’erano inondazioni durante tutto l’anno e non c’era una stagione secca che facilitasse il getto del cancello di deviazione».

Non c’è traccia dunque delle problematiche legate all’inondazione del territorio indigeno ancestrale Ngäbe-Buglé e delle denunce dei caciques (leader indigeni) che lamentavano i danni irreparabili che avrebbero subito quasi 500 persone delle comunità di Quebrada Caña, Nuevo Palomar, Comunidad Cultural Kiad, Labramona e Calabacito, del distretto Müna, regione di Kodrí.

Non si parla neanche del movimento 10 di aprile e delle molteplici manifestazioni di protesta, blocchi stradali e scontri con la polizia che hanno caratterizzato la presidenza di Juan Carlos Varela (2014-2019). Un processo di invisibilizzazione di una resistenza costante e coraggiosa schiacciata da una centrale idroelettrica da 28,84 MW.

Indígenas panameños alzan su voz contra proyecto Barro Blanco (giugno 2016) | Foto: @jaimesaldana01

Popoli Indigeni di Panama

Quella dei Ngäbe-Buglé, che costituiscono il gruppo indigeno con la popolazione più numerosa (al censimento del 1990 superavano già i 123.000 abitanti), è una lotta che dura da anni ma il loro fronte non è l’unico aperto.

Sei Comarcas di emancipazione

A Panama, secondo i dati del censimento del 2010, sono 417.559 le persone che si riconoscono come indigene, un numero che corrispondeva per quell’anno a poco più del 12% della popolazione. Parliamo però di un gruppo molto eterogeneo che si diversifica in otto popoli indigeni: Ngäbe, Buglé, Guna, Emberá, Wounaan, Bri Bri, Naso Tjërdi e Bokota. Per questi popoli ancestrali, dopo le due indipendenze di quella che oggi è la Repubblica di Panama (nel 1821 dalla Corona spagnola e nel 1903 dalla Colombia) è iniziato un lungo e lento processo di emancipazione e rivendicazione di diritti nel nuovo spazio geografico e amministrativo del giovane paese centroamericano. Un processo fatto di accordi, scontri e rivoluzioni che ha portato il movimento indigeno a ottenere un certo grado di autonomia. A oggi infatti esistono a Panama 6 Comarcas Indigene (Contee) le cui leggi costitutive contengono il riconoscimento della tradizionale struttura politico-amministrativa di questi popoli, della loro autonomia, della loro identità e dei loro valori storico-culturali, nel sistema-stato panamense. Le 6 Contee Indigene coprono oggi un’area di 1,7 milioni di ettari e sono state create in epoche diverse: Guna Yala (1938), Emberá-Wounaan (1983), Guna Madungandi (1996), Ngäbe-Buglé (1997), Guna Wargandí (2000) e Naso Tjër Di (2020).

dighe e discariche

Parara Puru (2022). Comunità indigena Emberà sulla rive del fiume Chagres | Foto Diego Battistessa

1925. La rivoluzione Guna e la repubblica di Tule 

Una menzione speciale in questo processo di emancipazione e lotta per i diritti, merita la rivoluzione Guna scoppiata tra febbraio e marzo 1925 e che portò alla creazione dell’effimera repubblica di Tule. La ribellione fu la risposta del popolo indigeno Guna alla forzata occidentalizzazione imposta dal governo centrale che cancellava così secoli di storia dei nativi. Dopo gli scontri si arrivò a un accordo e la Comarca di Guna Yala fu la prima a essere creata. Da sottolineare che proprio dalla lingua di questo popolo indigeno arriva il concetto di Abya Yala, termine precolombiano che sempre più comunemente viene utilizzato dai popoli ancestrali e dai movimenti antiegemonici per riferirsi alle Americhe.

Territorio di Guna Yala (2021). Sulla barca di può vedere la bandiera del popolo Guna che riporta una svastica. Il simbolo, diventato manifestazione di orrore nella Germania nazista, è però antecedente al suo utilizzo da parte di Hitler | Foto Diego Battistessa

La gigantesca discarica del Cerro Patacón

Dalla devastazione idrica nelle comarcas al fuoco tossico in periferia

Non sono però solo i territori ancestrali delle popolazioni indigene a soffrire un deterioramento costante e un attacco frontale di una speculazione economica senza scrupoli: la stessa sorte è vissuta anche nella periferia della capitale e dentro la stesso Città di Panama. È il caso del Cerro Patacón, un luogo dantesco dove si concentra più del 40% della spazzatura prodotta in un paese di 4,5 milioni di abitanti, dove arrivano, al giorno, circa 2 tonnellate di rifiuti. Un centro di raccolta dei residui capitolini, meglio conosciuto come uno dei più grandi disastri ambientali e sanitari del paese centroamericano. Si tratta di un vero e proprio mostro di rifiuti, che secondo molti esperti è già collassato, con infiltrazioni nelle falde acquifere del sottosuolo, una contaminazione diretta del fiume Guabinoso che lo circonda e con frequenti incendi che liberano nell’aria miasmi tossici. La discarica copre più di 130 ettari, ma alcuni studi ambientali spiegano che la tossicità di questo gigante di rifiuti provoca un impatto negativo sui 9000 ettari circostanti: basti pensare che alcuni quartieri della capitale (Città di Panama) che si trovano a più di 3 km di distanza dalla discarica, soffrono direttamente la contaminazione area e gli effetti degli incendi che si sviluppano sul Cerro Patacón.

Pompieri lavorano nell’incendio del Cerro Patacón, La più grande discarica di Panama, considerata un disastro ambientale, che ha provocato una gran nube di fumo tossico che ammorba una parte della capitale (14 febbraio 2023) | Foto EFE/Carlos Lemos

La situazione è raccontata nel dettaglio da Errol Caballero, nell’encomiabile lavoro giornalistico del 2019 dal titolo La salud del Cerro Patacón pubblicato da Connectas – plataforma periodistica para las Americas.
In questo documento, che conta anche su materiale audiovisuale, troviamo parole lapidare che spiegano come la situazione sia completamente fuori controllo:

«La contaminazione mette a rischio la salute delle comunità vicine alla discarica di Città di Panama e le autorità stanno indagando sulla concessione della società Urbalia, per aver compromesso le fonti idriche a causa della mancanza di controlli. A sua volta, lo Stato non vigila sull’azienda, non offre soluzioni al problema e viene denunciato dagli abitanti della zona».

Una situazione già vista. Un’azienda privata che ottiene una concessione e massimizza i profitti non preoccupandosi delle esternalità negative e dell’incolumità della popolazione, uno stato inerte quando non connivente, che non fiscalizza e non effettua controlli. Nel reportage di Caballero troviamo però anche dure testimonianze, come questa:

«Jackeline Chango, 39 anni, è residente a La Isla, un quartiere marginale costruito sulle rive del Mocambo, uno dei fiumi che attraversa la zona. Quando il sistema di distribuzione dell’acqua potabile viene a mancare – come accade spesso nel settore – lei, insieme al marito Domecin e ai suoi figli, tutti di etnia indigena Emberá, si devono lavare nel ruscello. Lo fanno per necessità, sapendo che quell’acqua è completamente contaminata dalla spazzatura.
Suo figlio Kelvin, cinque anni, non era però cosciente del pericolo e mentre faceva il bagno nel ruscello ha bevuto alcuni sorsi d’acqua. Due giorni dopo hanno dovuto portarlo all’ospedale Santo Tomás, sofferente per dei dolori muscolari. I medici hanno identificato un batterio che aveva colpito uno dei polmoni. Suo padre gli ha donato sangue, ma non è bastato a salvarlo. Dopo aver subito un arresto cardiaco, Kelvin è morto a mezzogiorno del 31 dicembre, la vigilia di Capodanno».

Urbalia: basura business

La storia di questo enorme disastro che oggi incide negativamente sulla vita degli abitanti della zona e sul territorio, si fa risalire agli anni Ottanta, quando venne chiusa la vecchia discarica di Panama. Fin dall’inizio la gestione fu statale e si proiettava un’aspettativa di utilizzo di 25/30 anni della struttura di raccolta dei residui. Nel 2008 però il Consiglio Comunale della Città di Panama (organo che all’epoca aveva la potestà su queste decisioni) ordinò la concessione della discarica a una società spagnola, Urbasel Protosa. Solo due anni dopo, avvenuto un cambio di governo, l’appalto venne passato a Urbalia, mantenendo lo stesso contratto iniziale. Nel 2011 l’impresa Urbalia fu comprata dalla colombiana Interaseo SA., di proprietà di colui che viene definito lo “Zar della spazzatura”, cioè William Vélez Sierr. Già nel 2016 il Ministero dell’Ambiente di Panama aprì due procedimenti amministrativi contro Urbalia per «mancato rispetto delle misure stabilite negli strumenti di gestione ambientale» e finalmente il 27 marzo di quest’anno, le autorità statali di Panama hanno eseguito un’operazione di controllo sulla situazione del Cerro Patacón e a radice di quanto riscontrato hanno estromesso Urbalia dalle operazioni (a poche settimane dalla scadenza naturale del contratto). Attualmente vige lo stato di emergenza ambientale per il collasso di un mostro di rifiuti che continua a costare salute e vita alle persone più vulnerabili che già vivono in una situazione di estrema marginalità.

Testimoni locali di sopraffazione

Di fronte a tutto quanto letto finora, è importante poter far riferimento a voci di attivisti locali, voci lucide, che conoscono il contesto e che possono guidarci verso un’analisi di una profonda complessità, unificando tutti i territori diversamente devastati dal capitalismo. Una di queste voci è sicuramente quella di Olmedo Carrasquilla Ávila , ecologista, comunicatore sociale, attivista e dirigente di Covec che in una recente intervista per il giornale nazionale “La Estrella de Panamá” ha saputo manifestare in modo chiaro l’incoerenza dell’attuale azione di governo. Carrasquilla, intervistato nel contesto di una profonda crisi di siccità che ha colpito Panama in questo 2023, denuncia la mancanza di una politica chiara in materia socio-ambientale da parte di un governo che da un lato dichiara lo stato di emergenza ambientale per la scarsità d’acqua e dall’altra continua ad autorizzare concessioni minerarie a imprese per le cui operazioni servono ingenti quantità di acqua.

dighe e discariche

La siccità del Canale costringe a ridurre le quantità di navi che possono transitare da quel chokepointe delle catene di distribuzione

In questo podcast da “Liberation Font”, trasmissione di Radio Blackout del 13 dicembre, si trova un efficace riepilogo insieme a Diego Battistessa riguardo ai temi fin qui da lui trattati e dei molti snodi di interessi della finanza innanzitutto (che sotto traccia rappresenta l’impossibilità di concedere reale indipendenza a Panama), della gentrificazione interna, dello spolpamento predatorio di risorse da parte del colonialismo, dello sfruttamento imperialista di infrastrutture

Ma la storia affonda nei secoli

to be continued (4)

¡Ya Basta extractivismo! Marca-paese Merci rivolte e infrastrutture La Zona del Canale Ancestralità e gentrificazione Casco Viejo – CauseWay – Artificial Island

Segui tutti i contenuti attinenti a questo Studium

L'articolo Dighe e discariche a Panama proviene da OGzero.

]]> Marca-paese: capitale coloniale vs ambiente panamense https://ogzero.org/studium/marca-paese-capitale-coloniale-vs-ambiente-panamense/ Fri, 01 Dec 2023 00:53:41 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=11950 L'articolo Marca-paese: capitale coloniale vs ambiente panamense proviene da OGzero.

]]>

Cancellare l’ambiente per cancellare la cultura indigena

Cortizo doble cara 3

Insomma, nonostante gli accordi raggiunti e il disinnesco momentaneo della boma sociale, si intravedeva già nell’estate del 2022 che il livore verso la figura di Cortizo e in generale verso le istituzioni, attraversava tutto il paese. La questione dell’alto prezzo dei beni di consumo di base rimane aperta e anche la scarsità di medicine (e l’altissimo costo di quelle reperibili) mantengono alta la tensione sociale nel paese. Come se questo non bastasse, con un pessimo timing, il presidente Cortizo aveva approvato il 20 giugno 2022 (dopo aver negato la possibilità di abbassare le tasse sui carburanti) degli sgravi fiscali per il settore alberghiero (legge 314 che modifica la legge 80 del 2012) diminuendo ancora di più la sua credibilità di fronte alla popolazione. Inoltre, lo scandalo già soprannominato McCallan 18 anni che ha visto come protagonisti alcuni deputati dell’assemblea (1° luglio 2022) ha gettato ancora più benzina sul fuoco e tolto credito alle istituzioni. Uno scandalo partito da un video diventato subito virale dove si vedono i deputati del Partido revolucionario democrático (Prd) celebrare con un bottiglia di whiskey McCallan che nel paese centroamericano costa (nei supermercati) quasi 400 dollari. La sensazione generale è quella dunque di una diffusa corruzione e di una continua malversazione del denaro pubblico ad appannaggio di pochi eletti e delle grandi imprese che si beneficiano di un sistemico e atavico clientelismo.

La celebración por la reelección como presidente de la Asamblea Nacional del diputado oficialista Crispiano Adames

Depredazione ambientale e capitalismo selvaggio come “marca paese”

Chi non conosce Panama potrebbe pensare che il contesto relativo a Minera Cobre Panama nella provincia di Colón sia un caso isolato. Purtroppo non è così. Il Ciam, Radio Temblor e altre piattaforme di attivisti che monitorano e difendono i diritti della popolazione denunciano da anni uno spietato e sistematico utilizzo del capitale, spesso straniero, per operazioni di trasformazione del territorio, rurale e urbano, con il fine di massimizzare i guadagni senza considerare nessun tipo di esternalità negativa per gli abitanti della zona.

Cancellazione della cultura Ngäbe-Buglé e del suo fiume Tabasará

In termini ambientali possiamo citare per esempio il caso della dura repressione sofferta dagli indigeni Ngäbe-Buglé, come mi è occorso raccontare mentre mi trovavo a Panama nell’autunno del 2021. Il 29 ottobre di quell’anno infatti un gruppo di indigeni del popolo Ngäbe-Buglé che ancora resistevano sulle rive deli fiume Tabasará, nella zona adiacente al progetto idroelettrico di Barro Blanco, fu sgombrato con la forza dalla polizia nazionale panamense. Uomini, donne, bambini e anziani rimasero gravemente feriti (Attenzione, immagini molto forti) dall’impatto di proiettili di gomma sparati dalle guardie in tenuta antisommossa.

Il corpo di polizia che ha sgombrato con la forza le famiglie della comunità indigena Ngäbe-Buglé (ottobre 2021) – Foto di Basilio Jiménez. Radio Temblor Internacional

Il Collecttivo Voci Ecologiche – Covec denunciò in un manifesto l’accaduto, sottolineando l’ipocrisia dell’operato dell’attuale presidente di Panama, Laurentino Cortizo, che proprio nei giorni successivi agli scontri, partecipò a Glasgow alla Cop26 parlando delle misure adottate dal suo governo per rispettare la natura e i popoli indigeni:

«Il nostro impegno inizia col rispettare i popoli originari e le nostre foreste, misure attraverso le quali proteggiamo il 33% della superficie del nostro paese», dichiarava Cortizo in Scozia.

Nel documento del Covec leggiamo però che:

«La realtà è esattamente il contrario e come se questo non bastasse il governo ha appena approvato il Decreto Esecutivo N.141 del 2021 che crea i Certificati di Accreditamento di Uso del Suolo in Aree Protette con il quale punta a riconoscere diritti di proprietà (e sfruttamento) dentro le aree protette. Una chiara evidenza che il business della terra viene realizzato a esclusivo vantaggio delle multinazionali e delle imprese estrattive».

Una ennesima manifestazione di uno stato che nella zona di Barro Blanco (Caña Blanca de Tolé, provincia di Chiriquí) non riconosce ai membri della comunità indigena Ngäbe-Buglé il loro diritto di abitare un territorio al quale sono legati ancestralmente. L’azione della polizia mirava a sfollare membri della comunità indigena che abitano quelle terre da anni, una zona di “pubblica servitù” e sulla quale pende un contenzioso amministrativo non ancora risolto. Molte di quelle famiglie sono inoltre doppiamente sfollate perché avevano già perso i loro terreni a seguito della creazione della diga sul fiume Tabasará: un megaprogetto che ruota intorno alla centrale idroelettrica di Barro Blanco e che ha inondato 250 ettari di territorio, “uccidendo” lo stesso Tabasará.

Disastro ecologico-culturale

Un fiume trasformato oggi in un lago artificiale, che si trova dentro la Comarca Ngäbe Buglé, divisione amministrativa territoriale creata con la legge numero 10 del 7 marzo 1997. Le comunità indigene che abitano la suddetta Contea hanno provato a salvarlo (senza riuscirci) e con lui tutto un ecosistema purtroppo spazzato via dal progetto. La resistenza è iniziata nel 2008 (anche se fin dagli anni Settanta gli indigeni si sono fortemente opposti a interventi di sfruttamento massivo del loro territorio ancestrale) ed è proseguita con sorti alterne per anni.
Il fiume era utilizzato per la pesca di sussistenza dalle popolazioni autoctone e non (che ottenevano così un’importante fonte di cibo); ma anche in quanto luogo di svago, come di venerazione – ricco di incisioni rupestri, come fonte di acqua potabile e come mezzo di accesso e trasporto di merci ad altre città.
Inoltre i boschi circostanti, intrinsecamente dipendenti dal fiume, fornivano carne per la popolazione, legname per case, mobili, tralicci e barche, piante medicinali, materie prime per la produzione di articoli per uso personale e commerciale (come cesti, cappelli e borse). Tra i luoghi colpiti dal progetto alcuni dei punti simbolo dell’organizzazione e incontro della comunità: spazi di grande simbolismo religioso, educativo e culturale della zona, dove tra le altre attività si insegnava alle nuove generazioni la lingua Ngabere. Qui di seguito un ascolto tratto dal sito “Indomables

“Hacer las letras hablar”.

Un granello di sabbia nell’ingranaggio?

Il 28 novembre, diversi settori sociali, organizzazioni sociali e cittadini sono scesi in piazza per celebrare la sentenza di incostituzionalità emessa dalla Corte suprema di giustizia contro il contratto della Legge mineraria 406. Più di un mese di resistenza e lotta nelle strade di diversi settori, che hanno visto i settori sociali schierati compattamente contro l’estrattivismo minerario, prospettando una serie di conseguenze a livello economico, ambientale, di diritti umani e di ingovernabilità socio-ambientale ed evidenziando la mancanza di trasparenza, la corruzione e il legame di alcuni rappresentanti del governo legati a membri della famiglia con scopi commerciali con l’impresa Minera Cobre Panama, hanno ottenuto una prima soddisfazione. Il granello di sabbia nel meccanismo estrattivista sarà più risolutivo dei suoi precedenti?

Questo il comunicato su Instagram di Minera Cobre Panama:

Visualizza questo post su Instagram

Un post condiviso da Cobre Panamá (@cobrepanama)

Questa società operava dal 1997 attraverso un contratto di legge in cui non vi era alcuna partecipazione dei cittadini, con irregolarità anche nello studio di impatto ambientale.
Nel 2017 la Corte Suprema di Giustizia aveva emesso una sentenza, in cui se ne dichiarava l’incostituzionalità, tuttavia l’azienda e il governo centrale non si sono mai conformati a questa sentenza, che è diventata un oltraggio alla corte ed è rimasta lettera morta. La società Minera Panama ha continuato a esportare, sfruttare e operare in questa regione del paese, in particolare nel Corridoio Biologico Mesoamericano, dove esiste anche una ricca biodiversità e un’area protetta, oltre che una cultura comunitaria.

Dighe e discariche: uccisione del fiume Tabasará

to be continued (3)

¡Ya Basta extractivismo! Dighe e discariche Merci rivolte e infrastrutture La Zona del Canale Ancestralità e gentrificazione Casco Viejo – CauseWay – Artificial Island

Segui tutti i contenuti attinenti a questo Studium

L'articolo Marca-paese: capitale coloniale vs ambiente panamense proviene da OGzero.

]]> Dopo le strade “gli” vogliamo fare anche le dighe https://ogzero.org/dopo-le-strade-gli-vogliamo-fare-anche-le-dighe/ Fri, 17 Mar 2023 23:47:46 +0000 https://ogzero.org/?p=10496 Il secondo habitat più grande per i coccodrilli in Africa si è quasi completamente prosciugato in seguito al fallimento, negli ultimi anni, delle stagioni delle piogge. Si tratta del lago Kamnarok, nella Rift Valley del Kenya, che un tempo ospitava 10.000 coccodrilli, secondo per capacità di contenimento al lago Ciad. Un residente della zona ha […]

L'articolo Dopo le strade “gli” vogliamo fare anche le dighe proviene da OGzero.

]]>
Il secondo habitat più grande per i coccodrilli in Africa si è quasi completamente prosciugato in seguito al fallimento, negli ultimi anni, delle stagioni delle piogge. Si tratta del lago Kamnarok, nella Rift Valley del Kenya, che un tempo ospitava 10.000 coccodrilli, secondo per capacità di contenimento al lago Ciad. Un residente della zona ha dichiarato alla stazione televisiva Ntv che numerose sono le carcasse di coccodrillo visibili nel bacino del lago. Il lago si è ridotto nel corso degli anni a causa dei cambiamenti climatici. Inoltre, secondo i rapporti locali, ha scaricato le sue acque in un fiume vicino attraverso una fessura naturale (“AfricaRivista”).
Poco prima delle elezioni di agosto l’allora candidato William Ruto lamentava che le dighe di Kimwarer e di Arror fossero state cancellate per «punire i miei sostenitori». Il blocco della costruzione era stato adottato per reati di frode, violazioni delle procedure amministrative sugli appalti, corruzione dalla procura generale del Kenya; Ruto era stato coinvolto in diversi scandali keniani per corruzione, furto di terra e persino un omicidio. A commettere i reati sarebbero stati pubblici ufficiali del Kenya e il consorzio di aziende italiane a cui sono stati assegnati i lavori di costruzione: una joint venture tra la Cooperativa Muratori e Cementisti (CMC) di Ravenna e Itinera, società del Gruppo Gavio. Colonialmente gli stessi protagonisti della costruzione della linea ferroviaria per il Tav in Val di Susa.

«A cinque anni dall’inizio dei lavori di Kimwarer e Arror, i misteri intorno a quanto sia davvero successo ai circa 500 milioni di euro destinati alle dighe invece che diradarsi si sono sempre più infittiti». (Irpimedia)

Ora Ruto è presidente e quindi le dighe possono tornare a ergersi sulla valle del Kerio (lungo la faglia della Rift Valley anche questa), percorsa da bande armate che hanno provocato 150 morti solo nel 2022 per il controllo della zona molto ricca di acqua pascoli e terreni fertili. Ma priva di infrastrutture. Ruto, da delfino di Kenyatta, era caduto in disgrazia proprio in seguito all’inchiesta sulle dighe.

Sergio Mattarella è arrivato a Nairobi il 13 marzo in pompa magna con staff quirinalizio, consiglieri e il viceministro degli Esteri con delega all’Africa, Sua Eccellenza il vicerè Edmondo Cirielli (fratello d’Italia), rimanendo in Kenya per 3 giorni (Africarivista). Tra le altre cose è stato firmato un nuovo accordo di cooperazione da 100 milioni di euro, tra crediti e doni, in un piano di programmazione triennale… ecco: con Gianni Sartori vediamo qualche “dono” di questi Re Magi.


Estinguiamoli a casa loro, ma in nome dello Sviluppo

Sinceramente non ho compreso l’entusiasmo con cui alcune riviste e associazioni che si occupano dell’Africa con – diciamo così – “benevolenza” (se poi sia “carità pelosa” o neocolonialismo ricoperto da buonismo non spetta a me stabilirlo) hanno celebrato la recente visita di Mattarella in Kenya. Dove ha confermato e sottoscritto la ripresa dei lavori per la costruzione di alcune grandi dighe nella Kerio Valley (provincia del Rift): Arror, Itare e Kimwarer. La realizzazione di quest’ultima era stata interrotta da un’indagine che l’aveva ritenuta «tecnicamente e finanziariamente irrealizzabile».

Almeno ufficialmente, ma si era parlato anche di mancanza di trasparenza e altre irregolarità. Tanto che erano stati avviati alcuni procedimenti giudiziari per «frode, violazioni delle procedure amministrative sugli appalti, corruzione» nei confronti di pubblici ufficiali del Kenya. Coinvolgendo più o meno indirettamente il consorzio di aziende italiane interessate alla costruzione, una joint venture tra la Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna (ops! Sarà mica quella del Dal Molin?) e Itinera, società del Gruppo Gavio (sempre quelli del Tav in Valsusa).
E in seguito anche la Sace (prendo nota: società assicurativo-finanziaria italiana specializzata nel sostegno alle imprese e al tessuto economico nazionale a sostegno supporto della competitività in Italia e nel mondo) e Banca Intesa Sanpaolo (intervenute per la copertura finanziaria).

La visita di Mattarella è stata l’occasione per il presidente del Kenya William Ruto di annunciare il superamento del contenzioso con Roma, lo sblocco e la ripresa della costruzione delle tre dighe sopracitate. Riconfermando (o forse rinegoziando) la partecipazione di aziende italiane con l’impegno finanziario della Sace e di banche italiane.


Nel comunicato di Ruto e Mattarella si afferma che «il governo keniano e italiano hanno concordato un nuovo processo per appianare le problematiche (…). Sospenderemo la questione giuridica e il governo italiano da parte sua ritirerà i casi di arbitrato, siamo d’accordo che ci sarà un nuovo inizio di questo progetto, urgente e prioritario, necessario, che darà acqua a molti paesi oltre al Kenya, oltre a Baringo e zone circostanti». Aggiungendo che «andremo poi avanti con l’avvio della costruzione nel giro di una manciata di mesi».

Eppure sui danni sociali e ambientali provocati dalle dighe in Africa in generale (e in Kenya e in Etiopia in particolare) non mancavano certo denunce ben documentate.
Anche recentemente (febbraio 2023) un rapporto (Dam and sugar plantations yield starvation and death in Ethiopia’s Lower Amo Valley) diffuso dall’Oakland Institute (attivo nella difesa delle popolazioni indigene), affrontava l’annosa questione dell’impatto negativo delle grandi opere (dighe in primis) sulle popolazioni indigene. Interventi come quello nella valle del fiume Omo in Etiopia. Con la diga Gilgel Gibe III (alta quasi 250 metri, costruita dalla Salini Impregilo – di nuovo protagonista nella impresa trentennale del Tav in Valsusa – e inaugurata nel 2016) ci si riprometteva di aumentare in maniera significativa sia la produzione di energia elettrica che di canna da zucchero. A spese soprattutto di Kwegu, Modi, Mursi e altre minoranze (o meglio: popolazioni minorizzate).
Ancora nel 2015 Survival International denunciava una possibile scomparsa dei Kwegu (ridotti alla fame e nella condizione di profughi interni), vuoi per il disastro socio-ambientale, vuoi per il prevedibile accaparramento di terre (“land grabbing”) nel bacino del fiume Omo. L’anno successivo era stata la sezione locale di SI (“Kenya Survival International) a rivolgersi direttamente all’Ocse per denunciare la Salini Impregilo S.p.a.

Tornando al Kenya, risale al 2017 l’allarme lanciato da Human Rights Watch (Hrw) per l’evidente abbassamento riscontrato nelle acque del lago Turkana. Con gli altrettanto evidenti pericoli sia per l’ecosistema che per la sopravvivenza della popolazione locale.
Una conseguenza (effetto collaterale?) appunto del contestato sistema di dighe Gilgel Gibe (Gibe I, Gibe II, Gibe III, già previste una Gibe IV e Gibe V).
Sgorgando a circa 2500 metri sull’altopiano etiopico, il fiume Omo percorre ben 760 chilometri (con un dislivello di 2000 metri) per poi sfociare nel lago Turkana in Kenya.
È notorio che il bacino dell’Omo con il Turkana rappresentano la principale fonte di vita per almeno 17 gruppi indigeni (oltre 260.000 persone) qui insediati da sempre. Ora con il faraonico sistema di dighe gran parte dell’acqua viene deviata altrove, sia per la produzione di energia elettrica che per irrigare le estese piantagioni a monocoltura (circa 450.000 ettari per ora).

Appare quantomeno contraddittorio, paradossale che le dighe di Arror, Itare e Kimwarer vengano realizzate da imprese italiane quando la carenza d’acqua in Kenya è anche una conseguenza della realizzazione di altre dighe, sempre per mano italica, in Etiopia.

Come sottolineava il compianto André Gorz (alias Gerhart Hirsch, alias Gerhart Horst…): «Il capitalismo cerca il rimedio ai problemi che ha creato, creandone di nuovi e peggiori» (cito a memoria).


A dimostrazione di questa chiosa di Gianni Sartori capita l’articolo con cui “Pagine esteri dà notizia di un rapporto (Northern Kenya Grassland Carbon Project) che di nuovo denuncia l’approccio coloniale di un progetto improntato al greenwashing a detrimento della popolazione del Nord del Kenya. Infatti il progetto gestito dall’organizzazione Northern Rangelands Trust (NRT) insiste su un territorio abitato da oltre 100.000 indigeni tra cui i Samburu, i Borana e i Rendille e prevede un riscontro di 300-500 milioni di dollari. Si tratta di un programma di crediti di carbonio, ottenuti anche da Meta e Netflix, basato sullo smantellamento dei sistemi di pascolo dei popoli indigeni, sostituiti da una sorta di allevamento su larga scala che, eliminando la pratica della migrazione durante la siccità, rischia di estinguere la pastorizia locale tradizionale.

Inoltre «la vendita di crediti di carbonio dalle Aree Protette potrebbe aumentare enormemente il finanziamento delle violazioni dei diritti umani dei popoli indigeni, senza per altro fare nulla per combattere i cambiamenti climatici»: già si hanno notizie di pastori uccisi dai guardaparco mentre portavano al pascolo i loro armenti.

 

L'articolo Dopo le strade “gli” vogliamo fare anche le dighe proviene da OGzero.

]]>
Man made disasters: Floods in Pakistan https://ogzero.org/man-made-disasters-floods-in-pakistan/ Fri, 16 Sep 2022 00:52:07 +0000 https://ogzero.org/?p=8884 Abbiamo ricevuto da Masha Hassan un interessante punto di vista sul Pakistan nel momento in cui l’economia di Islamabad è sull’orlo della bancarotta e il Balochistan è stato devastato da alluvioni. Preferiamo proporlo nella sua lingua originale (trovate comunque la traduzione in calce), premettendo un abstract riassuntivo senz’altro riduttivo rispetto alla rotonda prosa che ci […]

L'articolo Man made disasters: Floods in Pakistan proviene da OGzero.

]]>
Abbiamo ricevuto da Masha Hassan un interessante punto di vista sul Pakistan nel momento in cui l’economia di Islamabad è sull’orlo della bancarotta e il Balochistan è stato devastato da alluvioni. Preferiamo proporlo nella sua lingua originale (trovate comunque la traduzione in calce), premettendo un abstract riassuntivo senz’altro riduttivo rispetto alla rotonda prosa che ci riconduce in spazi ridotti dalla gentrificazione e che prende spunto dalla vulnerabilità della nazione pakistana ai cambiamenti climatici; un aspetto che ha agevolato il disastro originato da monsoni e scioglimento di ghiacciai. Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, ma l’insostenibilità ambientale dei marchi pakistani di prodotti tessili andrebbe perseguita già solo perché sposta le emissioni occidentali in territorio pakistano e i danni irreparabili di questo disastro ambientale ricadono sulle case dei lavoratori schiavizzati del Balochistan, spazzate via, mentre le aziende – per nulla “sostenibili” – non vengono scalfite dalla furia delle acque. Nell’articolo si accenna alla rivendicazione diffusa nei paesi dell’area che non hanno partecipato al benessere derivante dalla debacle ambientale, ma ne subiscono pesantemente gli effetti: il nome per identificare questo stato è “apartheid climatica”, visto il paragone con le emissioni dell’esercito statunitense.
Ma le cause del disastro sono anche interne, visto il crollo di 12 dighe in Balochistan per l’uso di materie prime scadenti per la corruzione endemica negata dal governo provinciale, mentre l’approccio dovrebbe rifiutare l’idea di naturalezza dei disastri perché in realtà sono causati da processi sociali antropici che evidenziano la sproporzione nella spartizione delle risorse (di tradizione coloniale britannica) e l’assenza di infrastrutture pubbliche (causata dal collaborazionismo dei potentati locali, comprati con assegnazioni di terre irrigue), con il corollario di proprietari terrieri in solidi complessi abitativi e contadini che vivono in case di fango spazzate dalle inondazioni. Così si esprime Shozab Raza, ricercatore che ricorda come fin dai primi anni dello stato pakistano le dighe abbiano rappresentato la deportazione e la miseria di migliaia di persone; e già nel 2010 questo ha provocato le alluvioni. Il prossimo disastro è annunciato dal Corridoio economico sino-pachistano, una trappola del debito sul modello di quello che ha strozzato lo Sri-Lanka nell’esposizione con la Cina.
Un aspetto che non si considera mai a sufficienza dei disastri ambientali è quello di genere, perché le strutture sanitarie fuori uso per il cataclisma rendono ancora più complesso portare a termine una gravidanza e il disinteresse per i servizi sanitari ginecologici sono un’ulteriore prova di quanto l’atteggiamento patriarcale finisca con il rendere più vulnerabili minoranze sessuali, di genere, o le puerpere.

La dichiarazione d’intenti nell’epilogo dell’articolo è totalmente condivisibile: «Ciò che serve ora è una radicale decolonizzazione delle scienze della sostenibilità, una decrescita per i paesi occidentali, un piano d’azione per un sistema energetico decarbonizzato e, soprattutto, una decostruzione della femminilizzazione negativa della terra antropomorfizzata».


  • Pakistan’s climate change vulnerability: colonialism to blame

 

  • In the midst of celebrating rivalries between India and Pakistan’s cricket match, where both the countries were busy trolling each other on social media or bursting fireworks in their backyards, in other news, a third of Pakistan was under water.

Often referred to as the Third Pole, containing around 7200 glaciers, that is more glacial ice than anywhere else in the world outside of the polar-region, the Global Climate Index in its annual report of 2020 placed Pakistan on the fifth spot on the list of countries being most vulnerable to climate change. As this vulnerability increases with a considerably high rate of warming, Pakistan faced an extreme heat wave this summer. While climate analysts are unsure if torrential monsoon rains or accelerating of the melting of glaciers is the cause of these disastrous flooding but they are certain of the fact that climate crisis is a global responsibility.

 

Compared to the floods of 2010, this year’s damage is 4 times more. With 50 million people being affected and more than 1100 killed, around 90% of farmland has been flushed away hitting Pakistan’s major agricultural productions i.e. cotton and rice. The country being the fifth largest producer of cotton and fourth largest producer of rice, the impact of this loss will definitely be global. In 2021 Pakistan exported cotton worth $3.4 billion i.e. 6% of the global supply meaning that they fed the so called ‘sustainable’ cotton requirements of brands such as H&M, Zara and Gap.

Pakistan

September 13, 2012 Over 250 workers perished in the fire at a garment factory in Baldia

Climate change and slavery

Acknowledging the fact that there is nothing sustainable about these brands as their industry not only outsources western emissions (causing politicians such as Donald Trump and Peter Mackey playing the blame game by pointing fingers towards the population divide in the global south) it is also tightly linked to modern slavery, continuing to profit through labor exploitation with the deception of corporate greenwashing. The manufacturing industries remain intact whereas the irreparable damages of homes and livelihoods of the workers in Pakistan that have been washed away will fall only on to its shoulders.
In an article published by “the thirdpole”, Pakistan’s climate minister Sherry Rehman stated that the country “would press hard for big polluters to pay up at the annual UN climate summit in Egypt this November”. The country that is suffering from  ‘climate apartheid’, has less than 1% of carbon emissions but is disproportionately bearing the brunt of what wealthy nations have caused. We shouldn’t shy away from mentioning the less spoken role of the U.S military’s carbon boot print that is said to be as big as 140 countries. Remember two decades ago how the Bush administration unhesitatingly denied climate change that is caused due to human activity! The Biden presidency is no better. Although the U.S has rejoined the Paris agreement with a claim for a decarbonization push, it still avoids imposing limits in order to cut emissions produced by their department of defence.
The loss and damage is a contentious debate for the developed countries who have a historical responsibility since the time of the industrial revolution such as the UK and they remain worried regarding climate litigations and negotiations in terms of compensation and liability, for example the historic climate litigation between Luciano Lliuya v. RWE AG. Saúl Luciano Lliuya who is a farmer from Peru has sued the German energy company called RWE AG to pay for the damages for the floods that took place in his hometown in Huaraz. This lawsuit could be a landmark and a game changer, opening doors for many to sue against world’s largest polluters.

Lake Palcacocha in 2014. Siphons were installed in the glacial lake to lower the water level. Photo: Cooperación Suiza COSUDE/ via Flickr CC

Climate change and corruption

Sherry Rehman rightly called out the wealthy nations asking for reparations, however, international assistance is not the only solution for avoiding a climate catastrophe of this magnitude.

A ground level interview with The New Humanitarian reveals how in the southwestern province of Balochistan 12 dams broke. The provincial government’s response was a denial of corruption in sub standard construction of these Dams whereas local narratives explain otherwise that often water is released through irrigation canals that are not well constructed. The Pakistani elite as well as the provincial ministers are hiding behind the monsoon rains and the water overflow by calling it ‘natural disasters’, indirectly implying its inevitability and brushing off their responsibility by leaving us at the usual mercy of God. Many Risk mitigation scholars for decades have asked to give up the very phrase “natural disaster”,

Ilan Kelman from the Institute for Risk and Disaster Reduction at University of College London says “natural disasters do not exist”: «Disasters are caused by society and societal processes, forming and perpetuating vulnerabilities through activities, attitudes, behaviour, decisions, paradigms, and values».

These societal processes are undeniably anthropic posing questions such as; why there is a disproportionate division of resource? Why are people compelled to live on areas prone to climate disasters? Who is responsible for the approval or rejection of building codes and most importantly how much money is allotted and how much is actually used up to build public infrastructures?

The fault of British imperialism…

In Pakistan, this disproportionality has a close relationship to  Britain’s imperialist extractive legacy, resulting in economic and social invisibilisation of regions such as Balochistan that lies on the periphery. The alliances built during the 19th century between the British aristocrats and local elites collaborated together, mutually profiting through feudalism, pillaging and exploitation of these regions leaving the future generation with its after effects.

… responsibility of Pakistani notables…

Shozab Raza, writer and researcher, explains that the loyalty of tribal chiefs was bought by the British through allotting them huge amounts of land estates in irrigated areas. He further explains how the disparities grew between the peasant and the landlords resulting in unequal housing ownership. Peasants were forced to live in mud houses becoming vulnerable to the disasters of flooding whereas the landlords ended up constructing strong luxurious housing compounds for themselves on these land estates. In this neoliberal era, feudal societies and mutually benefitting extraction practices and extortion exists till date.
Raza further points out how after the 1950s the local elite politicians teaming up with international firms organized several hydropower and irrigation infrastructures such as the construction of the Taunsa Barrage leading to the displacement of thousands. Its faulty construction is said to play a significant role in the 2010 floods.

Pakistan

… and chinese Trap

Another such project that will dry up Pakistan is the China-Pakistan Economic Corridor (CPEC), the country that is already drowning in a debt crises with the IMF prior to these floods, with the CPEC that lacks transparency, they might end up(or probably already have) falling into a similar ‘debt trap’ that of Sri Lanka with the upcoming imperial power of China.

Man made disasters and Patriarchy

Around 8.2 million women are affected in this year’s floods where 650,000 are pregnant women and 73,000 are expected to deliver next month. Estimated 1,000 health care infrastructures are damaged. In the flood affected areas of Balochistan 198 health care structures are destroyed, and damaged bridges and roads is a logistical hindrance to gain access to health facilities. In Pakistan where there is a great stigma and taboo attached to menstruation, in many affected areas of Balochistan, Sindh and Southern Punjab menstruation materials were left out from donation lists of many foundations on the claim that it is a ‘luxury item’.  Inadequate supply of menstruation materials will create a high risk of urogenital infections like vaginosis and UTIs (urinary tract infections).  This disregard of health care infrastructures, toilets, feminine hygiene, menstruation relief and maternal health care services is a proof of how patriarchy and climate change are intrinsically intertwined. Perils of climate catastrophe are gendered which means that it amplifies social instability by disproportionately impacting the already marginalized and vulnerable people in the social ladder. Sexual and gendered minorities who lived inside a certain gendered space are now forced to move from a private to public domain, making them vulnerable to violence, harassment and sexual abuse inside flood relief camps.

As says Tithi Battacharya  “Against this explicitly anti-solidaristic policies of state and capital, feminists, now more than ever, need to rescue a solidarity that is as anti-capitalist as it is openly confrontational with capital. In the current moment of escalating social inequalities and the climate emergency we should realize how deeply imbricated are our fates with that of others.  And as wars and pandemics rip through the world, we need to re-animate a politics of recuperative hospitality, where the fate of our most vulnerable is only the vision of our own future”

As international funds very slowly pour in, there has been a call to cancel Pakistan’s international debt with the International Monetary Fund (IMF) and can prove to be an important step to avoid the further worsening of the economic crisis. Simultaneously asking for accountability from the disaster management and their lack of preparation in anticipatory action and prioritizing grassroots narratives by making them equal stakeholders in policy-making and resource management can be effective measures. What is required now is a radical decolonization of sustainability sciences, degrowth for Western countries, an action plan for a decarbonized energy system and most importantly a deconstruction of the negative feminization of the very anthropomorphized earth.

La vulnerabilità pakistana al cambiamento climatico: colonialismo alla sbarra

  • Pakistan

    2022 Pakistan Floods – August 27, 2021 vs. August 27, 2022 in Sindh Source: https://worldview.earthdata.nasa.gov/ Corrected Reflectance (Bands 7-2-1) Aqua / MODIS

  • Nel bel mezzo dei festeggiamenti per la partita di cricket tra India e Pakistan, in cui entrambi i paesi erano impegnati a trollarsi a vicenda sui social media o a far scoppiare fuochi d’artificio nei loro cortili, in altri servizi giornalistici, un terzo del Pakistan si trovava sott’acqua.

Spesso indicato come il Terzo Polo, che contiene circa 7200 ghiacciai, cioè più area glaciale di qualsiasi altra parte del mondo al di fuori della regione polare, il Global Climate Index nel suo rapporto annuale del 2020 ha collocato il Pakistan al quinto posto nella lista dei paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici. Poiché questa predisposizione aumenta con un tasso di riscaldamento considerevolmente elevato, quest’estate il Pakistan ha dovuto affrontare un’ondata di caldo estremo. Gli analisti climatici non sanno se le piogge torrenziali dei monsoni o l’accelerazione dello scioglimento dei ghiacciai siano la causa di queste disastrose inondazioni, ma sono certi che la crisi climatica sia una responsabilità globale.

Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo il paese il quinto produttore di cotone e il quarto di riso, l’impatto di questa perdita sarà sicuramente globale. Nel 2021 il Pakistan ha esportato cotone per un valore di 3,4 miliardi di dollari, pari al 6% dell’offerta globale, il che significa che ha alimentato il cosiddetto fabbisogno di cotone “sostenibile” di marchi come H&M, Zara e Gap.

Cambiamento climatico e schiavitù

Riconoscendo il fatto che non c’è nulla di sostenibile in questi marchi, poiché la loro industria non solo esternalizza le emissioni occidentali (facendo sì che politici come Donald Trump e Peter Mackey colpevolizzino il Sud del mondo per il divario demografico), ma è anche strettamente legata alla schiavitù moderna, continuando a trarre profitto attraverso lo sfruttamento del lavoro con l’inganno del greenwashing aziendale. Le industrie manifatturiere rimangono intatte, mentre i danni irreparabili alle case e ai mezzi di sussistenza dei lavoratori pakistani che sono stati spazzati via ricadranno solo sulle loro spalle

In un articolo pubblicato dal Terzo Polo, il ministro pakistano per il clima Sherry Rehman ha dichiarato che il paese «eserciterà forti pressioni affinché i grandi inquinatori paghino al vertice annuale delle Nazioni Unite sul clima che si terrà in Egitto a novembre». Il paese che soffre di “apartheid climatica”, ha meno dell’1% delle emissioni di carbonio ma sta sopportando in modo sproporzionato il peso di ciò che le nazioni ricche hanno causato. Non ci si può esimere a questo proposito dal menzionare il ruolo meno esposto dell’impatto di emissioni di carbonio dell’esercito statunitense, che si dice sia pari a quella di 140 Paesi. Ricordiamo che due decenni fa l’amministrazione Bush negava senza esitazione il cambiamento climatico dovuto all’attività umana! La presidenza Biden non è migliore. Sebbene gli Stati Uniti abbiano aderito all’accordo di Parigi con la richiesta di una spinta alla decarbonizzazione, continuano a evitare di imporre limiti per ridurre le emissioni prodotte dal loro dipartimento della difesa

Le perdite e i danni sono un dibattito controverso per i paesi sviluppati che hanno una responsabilità storica fin dai tempi della rivoluzione industriale, come il Regno Unito, e che continuano a essere preoccupati per le controversie e i negoziati sul clima in termini di risarcimento e responsabilità, come per esempio la storica controversia sul clima tra Luciano Lliuya e RWE AG. Saúl Luciano Lliuya, un agricoltore peruviano, ha citato in giudizio la società energetica tedesca RWE AG per il risarcimento dei danni causati dalle inondazioni che hanno colpito la sua città natale, Huaraz. Questa causa potrebbe essere un punto di riferimento e cambiare le carte in tavola, aprendo a molti la possibilità di fare causa ai maggiori inquinatori del mondo.

Cambiamento climatico e corruzione

Sherry Rehman ha giustamente richiamato le nazioni ricche che chiedono risarcimenti, ma l’assistenza internazionale non è l’unica soluzione per evitare una catastrofe climatica di questa portata.

Un’intervista sul campo con “The New Humanitarian” rivela che nella provincia sudoccidentale del Balochistan sono crollate 12 dighe. La risposta del governo provinciale è stata la negazione della corruzione nella costruzione di queste dighe al di sotto degli standard, mentre le narrazioni locali spiegano invece come spesso l’acqua viene rilasciata attraverso canali di irrigazione non ben costruiti. L’élite pakistana e i ministri provinciali si nascondono dietro le piogge monsoniche e gli straripamenti d’acqua chiamandoli “disastri naturali”, sottintendendo indirettamente la loro inevitabilità e scansando le loro responsabilità affidandosi alla solita misericordia di Dio. Molti studiosi del contenimento del rischio da decenni chiedono di abbandonare l’espressione stessa di “disastro naturale”.

Ilan Kelman dell’Istituto per la riduzione dei rischi e dei disastri dell’Università del College di Londra afferma che «i disastri naturali non esistono: I disastri sono causati dalla società e dai processi sociali, che formano e perpetuano le vulnerabilità attraverso attività, atteggiamenti, comportamenti, decisioni, paradigmi e valori».

Questi processi sociali sono innegabilmente antropici e pongono alcune domande come per esempio: perché c’è una divisione sproporzionata delle risorse? Perché le persone sono costrette a vivere in aree soggette a disastri climatici? Chi è responsabile dell’approvazione o del rifiuto delle norme edilizie e, soprattutto, quanto denaro viene stanziato e quanto viene effettivamente utilizzato per costruire infrastrutture pubbliche?

La colpa dell’imperialismo britannico…

In Pakistan questa sproporzione ha una stretta relazione con l’eredità estrattiva imperialista della Gran Bretagna, che ha portato all’invisibilizzazione economica e sociale di regioni come il Balochistan, che si trova alla periferia. Le alleanze costruite durante il Diciannovesimo secolo tra gli aristocratici britannici e le élite locali hanno collaborato strettamente, traendo reciproco profitto attraverso il feudalesimo, il saccheggio e lo sfruttamento di queste regioni, lasciando alle prossime generazioni tutti gli effetti collaterali.

… responsabilità dei notabili pakistani…

Shozab Raza, scrittore e ricercatore, spiega che la lealtà dei capi tribali fu comprata dagli inglesi attraverso l’assegnazione di enormi quantità di proprietà terriere in aree irrigue. Spiega inoltre come siano cresciute le disparità tra i contadini e i proprietari terrieri, con conseguenti disuguaglianze nella proprietà degli alloggi. I contadini furono costretti a vivere in case di fango, diventando così vulnerabili ai disastri delle inondazioni, mentre i proprietari terrieri finirono per costruire per loro stessi forti e lussuosi complessi abitativi in queste proprietà terriere. In quest’epoca neoliberale, le società feudali e le pratiche di estrazione ed estorsione a reciproco vantaggio permangono invariate ancora oggi. Raza sottolinea inoltre come, dopo gli anni Cinquanta, l’élite politica locale, in collaborazione con imprese internazionali, abbia organizzato diverse infrastrutture idroelettriche e di irrigazione, come la costruzione dello sbarramento di Taunsa, che ha portato alla deportazione di migliaia di persone. Si dice che la sua costruzione difettosa abbia giocato un ruolo significativo nelle alluvioni del 2010.

… e trappola cinese

Un altro progetto di questo tipo che prosciugherà il Pakistan è il Corridoio economico Cina-Pakistan (Cpec), il paese – che stava già affogando in una crisi del debito con il Fmi prima di queste inondazioni – con il Cpec, che manca di trasparenza, potrebbe finire (o probabilmente è già caduto) in una “trappola del debito” simile a quella dello Sri Lanka con l’immanente potenza imperiale della Cina.

Disastri ascrivibili all’uomo in generale e al patriarcato in particolare

Circa 8,2 milioni di donne sono state colpite dalle inondazioni di quest’anno, di cui 650.000 sono incinta e 73.000 dovrebbero partorire il mese prossimo. Si stima che 1000 infrastrutture sanitarie siano state danneggiate. Nelle aree colpite dalle inondazioni del Balochistan 198 strutture sanitarie sono state distrutte e i ponti e le strade danneggiati rappresentano un ostacolo logistico per accedere alle strutture sanitarie. In Pakistan, dove c’è un grande stigma e tabù legato alle mestruazioni, in molte aree colpite del Balochistan, del Sindh e del Punjab meridionale il materiale mestruale è stato escluso dalle liste di donazione di molte fondazioni, sostenendo che si tratta di un “bene di lusso”.  L’inadeguata fornitura di supporti ginecologici comporta un alto rischio di infezioni urogenitali, come vaginosi e UTI (infezioni del tratto urinario).  Questo disinteresse per le infrastrutture sanitarie, per i servizi igienici, per l’igiene femminile, per le mestruazioni e per i servizi di assistenza sanitaria materna è una prova di come il patriarcato e il cambiamento climatico siano intrinsecamente intrecciati. I pericoli delle catastrofi climatiche sono “di genere”, il che significa che amplificano l’instabilità sociale colpendo in modo sproporzionato le persone già emarginate e vulnerabili nella scala sociale. Le minoranze sessuali e di genere che vivevano all’interno di un certo spazio di genere sono ora costrette a spostarsi da un ambito privato a uno pubblico, rendendole vulnerabili alla violenza, alle molestie e agli abusi sessuali all’interno dei campi di soccorso per le alluvioni.

Come afferma Tithi Battacharya: «Contro queste politiche esplicitamente antisolidaristiche dello stato e del capitale, le femministe, ora più che mai, devono salvare una solidarietà che sia tanto anticapitalista quanto apertamente conflittuale con il capitale. Nell’attuale momento di escalation delle disuguaglianze sociali e di emergenza climatica, dobbiamo renderci conto di quanto i nostri destini siano profondamente intrecciati con quelli degli altri.  E mentre guerre e pandemie dilaniano il mondo, dobbiamo rianimare una politica di ospitalità recuperativa, in cui il destino dei più vulnerabili sia solo la visione del nostro futuro» (“Transnational Strike”).

Mentre i fondi internazionali arrivano molto lentamente, è stato chiesto di cancellare il debito internazionale del Pakistan con il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e può rivelarsi un passo importante per evitare un ulteriore peggioramento della crisi economica. Chiedere contemporaneamente la responsabilità della gestione delle catastrofi e la loro mancanza di preparazione nell’azione preventiva e dare priorità alle narrazioni della base, rendendole parti interessate a pieno titolo nella definizione delle politiche e nella gestione delle risorse, possono essere misure efficaci. Ciò che serve ora è una radicale decolonizzazione delle scienze della sostenibilità, una decrescita per i paesi occidentali, un piano d’azione per un sistema energetico decarbonizzato e, soprattutto, una decostruzione della femminilizzazione negativa della terra antropomorfizzata.

L'articolo Man made disasters: Floods in Pakistan proviene da OGzero.

]]>
Terre rare e guerre abbondanti https://ogzero.org/terre-rare-e-guerre-abbondanti/ Thu, 13 May 2021 16:45:36 +0000 https://ogzero.org/?p=3477 Lo stato kachin è una regione settentrionale di Myanmar/Birmania. Due volte la Svizzera, meno di 2 milioni di abitanti. Montagne himalaiane, fiumi solenni, distese vallate. Risorse naturali in eccesso: legname pregiato (teak), giada, oppio, oro. Una storia non placida: già retrovia dei nazionalisti cinesi di Chiang Kai-shek e del suo Kuomingtang, fin dall’indipendenza della Birmania […]

L'articolo Terre rare e guerre abbondanti proviene da OGzero.

]]>
Lo stato kachin è una regione settentrionale di Myanmar/Birmania. Due volte la Svizzera, meno di 2 milioni di abitanti. Montagne himalaiane, fiumi solenni, distese vallate. Risorse naturali in eccesso: legname pregiato (teak), giada, oppio, oro. Una storia non placida: già retrovia dei nazionalisti cinesi di Chiang Kai-shek e del suo Kuomingtang, fin dall’indipendenza della Birmania (1948) conflitti armati delle forze locali indipendentiste contro il governo centrale, popolazioni con culture, lingue e religioni diverse, profughi interni, andirivieni continuo sul lungo confine con la Cina.

terre rare e guerre

Gli stati che compongono il Myanmar e le etnie principali che vi abitano (fonte “Burma Blue”, di Massimo Morello, Rosenberg & Sellier, 2021, elaborazione OGzero).

Un boccone prelibato

Un concentrato genuino di geopolitica.

Le terre rare sono appetitose sostanze che fanno gola ai dispositivi che deliziano la nostra vita tecnologica, microchip, laser, energia solare, industria aerospaziale, militare …Un boccone prelibato. Hanno però un difetto, si trovano solo confuse e avvinghiate ad altri metalli tanto da richiedere enormi sbancamenti e lavorazioni molto elaborate, come si è accennato in un precedente articolo intitolato Materia della rete – rete della materia.

Dopo il colpo di stato del primo febbraio il traffico di autocarri e tir al confine cinese del Kachin si è molto intensificato. La Cina, tra i massimi produttori di terre rare, ne sta riducendo l’esportazione, per porre un limite alle devastazioni ambientali delle sue miniere e, soprattutto, per mettere in crisi l’impiego che ne fanno gli Usa principalmente in campo militare [un F-35 ha bisogno di 417 chilogrammi di terre rare]. Ne deriva che la supply chain – catena di approvvigionamento mondiale di terre rare entra in affanno.

Per le sue necessità la Cina da diversi anni si rivolge a Myanmar che ne è un ottimo produttore.

Da dove la Cina importa terre rare: percentuali per paese.

Gli eserciti etnici contro Tatmadaw

Ma Myanmar è in turbolenza. La feroce repressione della giunta militare non ha messo a tacere le proteste, ha, in qualche modo, addirittura ravvicinato le posizioni tra la maggior parte delle formazioni militari e politiche indipendentiste. Il più importante esercito dello stato kachin [Kia] ha abbattuto il 4 maggio un elicottero del Tatmadaw, l’esercito birmano.

Uno dei risultati del caos militare e politico è che nello stato kachin aumentano le già fiorenti miniere illegali di terre  rare, in una regione sfigurata da giganteschi scavi di altre materie e dalla deforestazione per il legname prezioso.

Miniere illegali a Pangwa, nel Kachin (fonte “Myitkyna Journal” e “The Irrawaddy”).

Il “capitalismo del cessate il fuoco”

Per concludere: nello stato kachin si ha una inequivocabile realizzazione dell’accumulazione per spoliazione attraverso la manipolazione della crisi permanente di una regione di frontiera dotata di risorse, schiacciata da appetiti di potenti apparati di potere (Cina, Myanmar, Signori della guerra locali) e dalla storica disarticolazione sociale prodotta dal colonialismo inglese. La globalizzazione del mercato ha aggravato una condizione già segnata da quello che Kevin Woods definiva dieci anni fa come capitalismo del cessate il fuoco: accordi saltuari di tregua tra militari e leader ribelli per spartirsi risorse e aree di influenza garantendosi reciproca impunità. Le citate miniere illegali sono gestite o direttamente da emissari che fanno riferimento alle aziende di stato cinesi o da milizie di frontiera collaborazioniste con l’esercito birmano. La ripartizione dei profitti ne è l’instabile architrave. Tutti i boss ci guadagnano.

terre rare e guerre

La rete di infrastrutture e le risorse (fonte “Burma Blue”, di Massimo Morello, Rosenberg & Sellier, 2021, elaborazione OGzero).

Non ci guadagnano le popolazioni che qualche volta al momento giusto riescono a reagire. È dal 2011 che la grande diga Myitsone, voluta dalla Cina famelica di energia elettrica, è stata bloccata dalle proteste popolari contro le evacuazioni di moltissimi villaggi, contro la distruzione radicale di un ampio sistema ecologico e, perché no?, contro la profanazione dell’anima idrica del paese, il fiume Irrawaddy.

La ricomposizione degli interessi e dei diritti è di là da venire.

terre rare e guerre

Fonti:

The Irrawaddy”, “S&P Global-Market Intelligence”, “Tea Circle”, “The Rare Earth Observer”, “Asia Times Financial”, “Roskill”.

 

Approfondimenti:

D. Harvey, The ‘new’ imperialism: Accumulation by dispossession, Socialist Register, n. 40, 2004.

K. Woods, Ceasefire Capitalism: Military–Private Partnerships, Resource Concessions and Military – State Building in the Burma – China Borderlands, “The Journal of Peasant Studies”, vol. 38, n. 4.

K. Dean e M. Viirand, Multiple borders and bordering processes in Kachin State, in A. Horstmann, M. Saxer, A. Rippa, Routledge Handbook of Asian Borderlands, Routledge, 2018.

R. Einzenberger, Frontier capitalism and politics of dispossession in Myanmar: The case of the Mwetaung (Gullu Mual) nickel mine in Chin State, “Austrian Journal of South-East Asian Studies”, vol. 11, n. 1.

L'articolo Terre rare e guerre abbondanti proviene da OGzero.

]]>
Geopolitica della siccità: chi ha ucciso il Mekong? https://ogzero.org/la-minaccia-della-siccita-chi-ha-ucciso-il-mekong/ Sun, 29 Nov 2020 19:04:58 +0000 http://ogzero.org/?p=1889 La “madre delle acque” Per il secondo anno consecutivo, la siccità sta divorando il bacino del Mekong. Le piogge monsoniche, che investono il Sudest asiatico tra maggio e agosto, sono state esigue. In ottobre, quando il fiume dovrebbe essere in piena, il livello dell’acqua era invece appena un terzo del normale. Lo stesso era successo […]

L'articolo Geopolitica della siccità: chi ha ucciso il Mekong? proviene da OGzero.

]]>
La “madre delle acque”

Per il secondo anno consecutivo, la siccità sta divorando il bacino del Mekong. Le piogge monsoniche, che investono il Sudest asiatico tra maggio e agosto, sono state esigue. In ottobre, quando il fiume dovrebbe essere in piena, il livello dell’acqua era invece appena un terzo del normale. Lo stesso era successo nel 2019. La Mekong River Commission, organismo intergovernativo che rappresenta i quattro paesi del basso bacino fluviale (Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam), parla di “siccità estrema”. La pesca e l’agricoltura da cui dipendono milioni di persone sono in crisi. E mentre la regione indocinese comincia a contare i danni, economici quanto ecologici, un istituto statunitense che usa immagini satellitari per monitorare i cambiamenti climatici accusa la Cina: avrebbe trattenuto preziosa acqua nei reservoir formati dalle sue undici dighe sull’alto corso del fiume, provocando il disastro a valle. Pechino respinge l’accusa. Ancora una volta, il Mekong si rivela un caso paradigmatico delle tensioni politico-diplomatiche, ambientali e sociali della convivenza lungo un grande fiume dall’ecosistema fragile e dalla storia tormentata.

dighe sul Mekong

Dighe già operative, in costruzione o in fase di progetto sul corso del Mekong

Le parti in causa sono sei paesi. Il Mekong infatti nasce sull’altopiano tibetano, oltre i 4500 metri d’altezza, e scorre per 4900 chilometri fino al Mar Cinese meridionale. La prima metà del suo percorso è in Cina, attraversa la provincia dello Yunnan tra gole spettacolari dove perde circa il 90 per cento del suo dislivello totale: questo è il “bacino dell’Alto Mekong”. Poi entra in Laos nella regione detta “triangolo d’oro”, segna il confine tra Laos e Myanmar e più a valle tra Laos e Thailandia; attraversa la Cambogia e infine forma un grande delta nel Vietnam meridionale: e questo è il “bacino del Basso Mekong”. La distinzione riflette la geografia, ma ancora di più la storia e la geopolitica della regione. A cominciare dal nome: in Cina è il Lancang Jang (“fiume turbolento”), nel resto del mondo è noto con il nome derivato dalla lingua thai, Mae Nam Khong, “madre delle acque”.

Il fiume che “respira”

La Mekong River Commission (Mrc) annuncia quest’anno una situazione ancora più grave che nel 2019.

I segni del disastro sono visibili nel delta, dove la portata d’acqua è così scarsa che i dodici bracci del fiume sono ridotti a rigagnoli e l’acqua salina del Mar Cinese meridionale sta penetrando sempre più all’interno. Più a monte, in Laos, dove il corso del Mekong è disseminato di scogli e rapide, l’inverno scorso il fiume era ridotto a pozze isolate tra ampi tratti in secca: questo inverno ci si aspetta la stessa scena.

Il segno più tangibile del disastro è che quest’anno il Tonle Sap (“grande lago”) non si è riempito. La particolarità del Mekong infatti è che la sua corrente cambia secondo le stagioni. Tra maggio e l’estate, alimentato dallo scioglimento dei ghiacci himalayani e dalle piogge monsoniche, il fiume si gonfia, la corrente è turbolenta e la piena allaga le zone pianeggianti ricoprendole di limo. Poco prima di raggiungere la capitale cambogiana Phnom Penh però la corrente cambia direzione e l’acqua risale un affluente laterale, il Tonle Sap, fino all’omonimo lago. Tra agosto e novembre questo cresce fino a cinque volte per superficie e volume d’acqua; poi si stabilizza e nell’inverno l’acqua riprende a scorrere verso il Mekong e il suo delta. Come se il fiume respirasse, e il Tonle Sap fosse il suo cuore.

Tonle Sap

Villaggio galleggiante sul lago Tonle Sap, sempre più secco, in Cambogia

Da questo “respiro” dipende il ciclo della vita fluviale, e in primo luogo la pesca. Gran parte dei pesci del Mekong sono specie migratorie, che risalgono la corrente nella stagione secca per riprodursi tra gli scogli a monte, per poi scendere con la piena a ingrassare nel Tonle Sap.  Secondo la Fao il basso bacino del Mekong è la più produttiva regione di pesca d’acqua dolce al mondo, con circa il 15 per cento del pescato mondiale (secondo altre fonti arriva al 20 o al 25 per cento del totale); tra pesca e acquacoltura, si stima una produzione annua di circa 4,5 milioni di tonnellate di pesce e altri organismi acquatici. Questo non include del tutto la pesca artigianale, a cui è legata la sussistenza di milioni di persone. Pesce e organismi acquatici sono la principale fonte di proteine animali per gli abitanti della regione (tra 40 e 60 per cento in media, fino all’80 per cento per la popolazione rurale e più povera). Nel Tonle Sap, le circa 500.000 tonnellate di pesce pescate nelle annate normali sono una parte consistente dell’economia locale. In queste settimane però le cronache raccontano di reti vuote, pescatori disperati, interi villaggi rurali sul lastrico. Anche l’agricoltura stagionale è in crisi: di solito, quando la piena si ritira, milioni di abitanti rivieraschi  coltivano orti e risaie sulle terre concimate dal limo, che quest’anno non è arrivato. E il livello del fiume è così basso che le pompe per l’irrigazione dei campi non arrivano a pescare acqua.

Bisogna pensare che circa 60 milioni di persone abitano il basso bacino del Mekong, di cui circa la metà vive entro 15 chilometri dal fiume e ne dipende direttamente. In altre parole, la siccità  minaccia l’economia e la sicurezza alimentare di milioni di persone, e in particolare della popolazione rurale.

Il clima e le dighe

La causa di tutto questo, afferma la Mekong River Commission, sono piogge monsoniche arrivate tardi e troppo scarse, conseguenza del fenomeno meteorologico detto “El Niño”.

Ma se le condizioni climatiche non fossero l’unica causa della crisi? Se il Mekong fosse in secca perché l’acqua viene trattenuta dalle dighe costruite nell’alto corso fluviale, cioè in Cina?

È proprio questa l’accusa lanciata da un istituto di ricerca statunitense, Eyes on Earth, in uno studio pubblicato nell’aprile di quest’anno e condotto insieme a un altro centro specializzato, il Global Environmental Satellite Applications. Sulla base di accurate osservazioni satellitari, lo studio conclude che nei sei mesi centrali del 2019, mentre il basso bacino del Mekong era a corto di piogge, nella parte alta del fiume le precipitazioni erano abbondanti e nel Lancang è affluita una quantità d’acqua superiore alla norma: ma è rimasta quasi tutta a monte, nei reservoir costituiti dalle dighe, e non è defluita a valle. L’accusa è precisa: «Le dighe sul tratto cinese hanno  trattenuto una quantità d’acqua senza precedenti», ha scritto Brian Eyler, direttore del Programma per il Sudest asiatico del Stimson Center (un’altra istituzione di ricerca statunitense), che ha ripreso quello studio in un articolo su “Foreign Policy”. Lo studio americano afferma inoltre che già da alcuni anni la Cina trattiene quantità crescenti d’acqua, cosa che già in passato ha creato condizioni di siccità a valle. Sostiene poi che la gestione delle dighe a monte, con improvvisi rilasci d’acqua, spiega anche le strane ondate di piena viste in passato nella stagione secca, che hanno provocato inondazioni lungo la frontiera laotiano-thailandese.

Toni da guerra fredda tra Cina e Usa

Lo studio qui citato ha monitorato la situazione nel decennio dal 2010 al 2019, con una metodologia che ha passato il vaglio di una peer-review (cioè la revisione di idrologi e climatologi, che hanno trovato convincenti le conclusioni). Eye on Earth è un’istituzione privata, ma lo studio è stato sostenuto dalla Lower Mekong Initiative, una “partnership multinazionale” avviata dagli Stati uniti con Cambogia, Laos, Myanmar, Thailandia e Vietnam, come si legge sul sito Mekongwater.org (fondato dal Dipartimento di stato Usa).

Così non stupisce che Pechino abbia risposto, più o meno con gli stessi strumenti. In luglio un gruppo di istituzioni accademiche coordinate dalla Tsinghua University, la più prestigiosa università statale cinese, ha pubblicato uno studio secondo cui le dighe sul Lancang hanno un effetto positivo nell’alleviare la siccità. «L’ultimo studio di ricercatori cinesi confuta i nessi causali e le sprezzanti accuse di alcuni media statunitensi», osserva il “Global Times”, media cinese in lingua inglese (Gli autori dello studio americano hanno poi ribattuto con un commento sul “Bangkok Post”, principale quotidiano thailandese in inglese).

I toni da guerra fredda sono evidenti. Ciò non toglie che i dati raccolti da Eye on Earth sembrano dare conferma a sospetti annosi.

Infatti è da quando la Cina ha cominciato a pianificare una serie di sbarramenti tra le gole del Lancang-Mekong, fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, che il malumore dei paesi a valle è andato crescendo. Anche perché Pechino non ha condiviso molto dei suoi progetti. La diga di Man Wan, la prima, costruita senza consultare i vicini, è entrata in attività nel 1996 (fornisce energia elettrica alla regione industriale di Kunming, capitale dello Yunnan). Poi la costruzione si è intensificata; oggi le dighe sono undici, e altre sono in progetto. Il governo della Repubblica popolare cinese le chiama la “cascata di dighe”. La più imponente oggi è quella di Nouzhadu, entrata in attività tra il 2012 e il 2014. (Secondo l’analisi di Eye on Earth è proprio da allora che il volume d’acqua trattenuto in territorio cinese è aumentato drasticamente).

Si capisce il nervosismo dei paesi a valle: con le sue dighe, la Cina può controllare il flusso d’acqua che raggiunge il basso Mekong. Senza contare che le dighe trattengono una buona parte dei sedimenti indispensabili all’agricoltura, come sottolinea un’organizzazione non governativa come International Rivers, che lavora per la difesa degli ecosistemi fluviali.

Mekong River Commission, ma senza la Cina

Del resto la Cina (insieme a Myanmar) non ha mai voluto aderire alla Mekong River Commission, nata nel 1995, prima e tuttora unica organizzazione stabile di cooperazione regionale nella regione indocinese (il peso dei conflitti indocinesi nell’ultima metà del Novecento è evidente). La Cina è riluttante perfino a condividere le osservazioni delle sue centrali di monitoraggio fluviale, cosa che fa solo in parte. Nel 2016 ha invece fondato il “suo” organismo parallelo, chiamato Lancang-Mekong Cooperation Framework, con Laos, Thailandia, Myanmar, Cambogia e Vietnam, per promuovere la cooperazione tecnica – in un organismo però in cui è dominante, accusano i critici.

La Cina è un vicino ingombrante, ma anche i paesi del basso Mekong si sono lanciati a costruire dighe. In particolare il Laos, povero e stretto tra vicini più potenti, ha fatto della produzione idroelettrica l’elemento portante della sua strategia di sviluppo, e dalla metà degli anni Novanta ha costruito una decina di impianti sugli affluenti del Mekong per esportare energia.

In questa strategia ci sono due momenti chiave. Uno è nei primi anni Duemila quando la Banca Asiatica di Sviluppo ha lanciato un programma regionale di infrastrutture per la “Greater Mekong Subregion”, che include tutti i sei paesi rivieraschi. Al centro del progetto ci sono corridoi stradali e una rete di trasmissione di energia elettrica, oltre a progetti di sviluppo del commercio e del turismo. Tutto alimentato da investimenti propiziati dalla Banca Asiatica di Sviluppo e in parte la Banca Mondiale. In altre parole, la prima sede di “integrazione regionale” non è stato un organismo di cooperazione intergovernativo, ma un programma di investimenti gestito da organismi finanziari internazionali. Inutile dire che una parte considerevole degli investimenti diretti in Laos e Cambogia (le due economie più deboli della regione) sono di fonte cinese, oltre che thailandese e vietnamita.

L’altro momento chiave, per motivi diversi, è stato il 2006, quando i governi di Laos, Cambogia e Thailandia hanno autorizzato i primi studi di fattibilità per costruire dighe sul basso Mekong: non più gli affluenti, ma il fiume principale. La cosa ha suscitato grandi controversie; non solo organizzazioni ambientaliste ma perfino l’intergovernativa e prudente Mekong River Commission ha pubblicato studi estremamente allarmati: sbarrare il fiume avrebbe creato danni irreversibili all’intera vita fluviale, interrotto le vie di migrazione dei pesci e il ciclo delle inondazioni. Un impatto mortale per il fiume, come argomenta la più recente analisi di International Rivers che riprende studi della Mekong Rivers Commission.

Nonostante tutto, il Laos ha costruito la prima diga sul Mekong nella parte centro-settentrionale  del paese (diga di Xayaburi) e un’altra al confine con la Cambogia presso le Siphandone – un punto dove il Mekong forma diversi canali per aggirare una miriade di piccole isole, formando salti e rapide spettacolari (da cui il nome: si-phan-don significa “mille isole” in lingua lao). Altre dighe sul Mekong sono in progetto; almeno tre progetti sono nella fase delle “consultazioni” presso la Mrc. Inutile dire che in queste imprese si sono riscontrati forti investimenti cinesi, oltre che di aziende thailandesi, sudcoreane, e altre.

La diga di Xayaburi in Laos

Nel frattempo il governo laotiano ha messo a tacere le conseguenze del disastro avvenuto due anni fa con il crollo di una diga nel sud del paese (la diga Xe-Pian Xe-Namnoy, di costruzione sudcoreana): 70 persone sono morte o disperse e 7000 sono sfollate, ma le richieste di giustizia sono rimaste vane. Del resto, la sorte degli sfollati di tante dighe non è mai stata all’ordine del giorno, per i governi della regione. Uniche buone notizie, per il fiume: la Cambogia ha annunciato di aver sospeso fino al 2030 ogni progetto di nuove dighe sul suo tratto del Mekong, perché il fabbisogno energetico è ampiamente coperto. Mentre la Thailandia ha sospeso il progetto di dinamitare le rapide del fiume a nord per renderlo navigabile.

È una piccola tregua per la “madre delle acque”. Perché a lavorare per ucciderla sono in molti.

L'articolo Geopolitica della siccità: chi ha ucciso il Mekong? proviene da OGzero.

]]>
Il fiume e il suo avvocato difensore https://ogzero.org/il-fiume-e-il-suo-avvocato-difensore/ Sun, 29 Mar 2020 22:39:34 +0000 http://ogzero.org/?p=74 La Valle del Munzur appartiene, senza esagerazioni, alle regioni più belle della Turchia. Il piccolo fiume scaturisce a nord di Tunceli (Dersim), capoluogo di provincia dell’Anatolia orientale e scorre dalla località di Ovacık fino a Dersim attraverso 60 chilometri di natura incontaminata, nella quale solamente una caserma fortificata della gendarmeria disturba l’idillio. L’acqua è chiara e […]

L'articolo Il fiume e il suo avvocato difensore proviene da OGzero.

]]>
La Valle del Munzur appartiene, senza esagerazioni, alle regioni più belle della Turchia. Il piccolo fiume scaturisce a nord di Tunceli (Dersim), capoluogo di provincia dell’Anatolia orientale e scorre dalla località di Ovacık fino a Dersim attraverso 60 chilometri di natura incontaminata, nella quale solamente una caserma fortificata della gendarmeria disturba l’idillio. L’acqua è chiara e fresca e brilla di verde turchese, quando il sole si trova in una particolare posizione, in certi punti scrosciano delle cascate. In altri il letto del fiume è largo e l’acqua profonda e abbastanza calma da poterci fare il bagno. Da queste parti in estate può essere veramente affollato, soprattutto durante il festival culturale annuale. Dersim è, con quasi 40 000 abitanti, di fatto uno dei più piccoli capoluoghi di provincia della Turchia, e la guerra con il Pkk curdo ha finora impedito che il turismo si potesse sviluppare. Ma si fa affidamento sulle molte persone che in parte già da molte generazioni vivono nelle città turche più grandi o in Europa e fanno ritorno in estate. La gente di Dersim vive in simbiosi con la sua città. Ed è legata al suo fiume.

Se fosse andato tutto secondo i piani del governo, di questo idilliaco habitat di oltre 200 tipi di piante endemiche non sarebbe presto rimasto nulla. Sebbene la Valle del Munzur e i monti circostanti siano stati dichiarati già nel 1971 parco nazionale protetto, il governo dell’Akp aveva in programma la costruzione di sei centrali idroelettriche e quattro dighe di sbarramento all’interno di un’area di 420 chilometri quadrati, accanto al fiume e al suo affluente Pvlümür.

Già negli anni Ottanta esistevano dei progetti simili, che si sono concretizzati solamente dopo la modifica di una legge del 2010, che permetteva la costruzione di centrali idroelettriche in parchi nazionali protetti. Solamente un tribunale è riuscito a fermare, all’inizio del 2013, i piani previsti per il parco nazionale.

Barış Yıldırım è uno di quelli che si può gloriare di aver salvato la Valle del Munzur. Trentaquattro anni, avvocato, un tipo magro, un po’ asciutto, ha studiato a İstanbul. 

«Ma volevo tornare a Dersim. Le persone, la natura, semplicemente amo questa città. Qui è tutto diverso da İstanbul, ma anche diverso dal resto dell’Anatolia orientale», dice. Ciò che si è riuscito a evitare nella Valle del Munzur, rimane in prospettiva per molti altri fiumi più grandi e più piccoli – oppure si è già concretizzato. Poiché ciò che per İstanbul sono i centri commerciali, per i fiumi e i torrenti lo sono le grandi e le piccole dighe di sbarramento e le centrali idroelettriche, che sono in progetto nell’intero paese o sono già in funzione e con le quali si vuole sfuggire alla dipendenza dalle forniture di gas russe e iraniane. Al momento sono previste 1700 centrali idroelettriche, molte delle quali sono così piccole che la corrente prodotta sarebbe sufficiente solo per una manciata di villaggi.

La diga Ilısu sul Tigri è divenuta celebre: è parte del progetto per l’Anatolia sudorientale già risalente agli anni Ottanta, attraverso il quale, nonostante le proteste internazionali, l’antica città fortezza di Hasankeyf e altri siti archeologici spariranno coperti dalle acque. «Perfino nelle centrali idroelettriche, dove gran parte delle acque non viene bloccata, ma condotta attraverso canali, l’attacco all’ecosistema è ingente», dice Yıldırım.

Finora in Turchia non esistono centrali atomiche, ma tre sono in programmazione: quella di Akkuyu nella provincia di Mersin sulla costa mediterranea, una a Sinope sul mar Nero e una in Tracia, quindi nella parte europea del paese. L’energia idroelettrica non sarebbe, visti i danni climatici delle centrali di carbone e i pericoli delle centrali nucleari – ancor più in Turchia, un paese a rischio sismico, dove tre placche tettoniche premono una contro l’altra  – , una soluzione ecologica? «Soluzioni ecologiche sarebbero sole e vento», pensa Yıldırım.

Ha altre idee per il Munzur: «Penso che Dersim abbia un notevole potenziale turistico che potrebbe sfruttare in armonia con la natura». Al di fuori delle aree naturali protette si potrebbe usare una parte dell’acqua per l’agricoltura ecologica. La condizione affinché possa avvenire è una pace duratura nella regione. Non sarebbe neanche male un impianto di depurazione per i 3000 abitanti totali del capoluogo distrettuale di Ovacık, per il corso superiore del fiume. «L’amministrazione dice che non ha soldi per questo», dice Yıldırım. «La mentalità è questa: danneggiare un fiume con le centrali oppure incanalare acqua di scarico non filtrata. La coscienza necessaria si sviluppa solamente poco a poco», dice.

Quindi il suo lavoro non è ancora finito, tanto più che nella provincia di Dersim sono previsti altri progetti. La resistenza esiste anche altrove, nelle regioni della sinistra come in quelle conservatrici: a Trebisonda e Rize sul mar Nero, nelle province di Adalia e Muğla sul Mar Mediterraneo e nella provincia di Artvin nella parte nordoccidentale più estrema. 

E precisamente lì, nel capoluogo distrettuale Hopa, il presidente Erdoğan ha tenuto il 31 maggio 2011 un comizio per la campagna elettorale. Alcune centinaia di persone hanno manifestato contro di lui; tra loro c’era Metin Lokumcu, un insegnante in pensione di cinquantaquattro anni, che apparteneva al Partito della libertà e della solidarietà (Ödp) – i Verdi di sinistra – e che aveva organizzato nel suo villaggio Dereiçi la resistenza contro la realizzazione di un progetto di una centrale idroelettrica. La polizia ha usato il gas lacrimogeno, Lokumcu, che era asmatico, ha avuto un infarto – la prima persona morta in Turchia a causa del gas lacrimogeno. In quello stesso giorno due anni dopo, in alcuni luoghi, per esempio a Smirne, si è passati senza soluzione di continuità dalle piccole manifestazioni in ricordo di Lokumcu alle prime grandi dimostrazioni di solidarietà per Gezi Park. 

«La resistenza contro la distruzione di Gezi Park ha preso tutta un’altra piega», dice Yıldırım. «Ma all’inizio è stata la versione metropolitana di ciò a cui abbiamo, nel nostro piccolo, dato inizio a Dersim e in molte altre regioni della Turchia: una resistenza locale, ecologica, contro un progetto di saccheggio della natura che non presta attenzione alle persone e alla cultura». Perché per la gente di Dersim la Valle del Munzur non è solo un luogo di villeggiatura, ha anche un significato culturale e religioso, giacché qui la popolazione è in gran parte alevita. In nessuna provincia l’Akp raccoglie così pochi voti come qui.

La città più libera d’Oriente

Yavuz Çobanoğlu ha 40 anni ed è da cinque anni docente di sociologia all’Università di Tunceli. Lui non è arrivato qui per la nostalgia di casa, come l’avvocato Barış Yıldırım, dal momento che proviene da Smirne, a 1400 chilometri da Tunceli. Nelle strade d’accesso a Tunceli la gendarmeria controlla ancora i documenti d’identità. Di certo in generale la situazione non si è calmata solamente con la tregua, almeno così raccontano gli abitanti, niente a che vedere con gli anni Novanta, quando nei dintorni i villaggi venivano evacuati con la forza e qui come in tutta la regione curda dominava lo stato d’emergenza. 

Come si vive qui secondo qualcuno che proviene da una metropoli moderna come Smirne? «Tunceli è la Smirne d’Oriente!», dice Çobanoğlu a gran voce. «Per me la situazione delle donne è fondamentale. A parte Smirne e Ankara non c’è nessun’altra città in tutta l’Anatolia dove le donne siano così libere come a Tunceli. Si vedono anche di sera per strada da sole o senza accompagnatori maschili nei ristoranti nei quali si servono alcolici».

L’odierna apertura della città incastonata tra le montagne e il fiume Munzur è paradossalmente un retaggio di un isolamento di centinaia di anni. Qui si è potuto conservare il credo alevita, che differenzia la popolazione locale dalla maggior parte degli altri curdi. Che discenda dalla linea turco-curda o da quella sunnita-alevita, la popolazione di Dersim fa sempre parte degli svantaggiati. Nella loro memoria collettiva si è impresso soprattutto un avvenimento: la cosiddetta insurrezione di Dersim nel 1937-1938.

Gli aleviti all’inizio avevano appoggiato la repubblica, perché questa aveva promesso gli stessi diritti a tutti i cittadini indipendentemente dall’appartenenza etnica e religiosa. Ma i kemalisti non si fidavano delle strutture feudali dei clan. E ugualmente sospetto per loro era il credo alevita, perché ogni deviazione dalla norma turco-sunnita era vista come un potenziale pericolo per lo stato nazionale. 

Nel 1936 Atatürk designò la “questione di Dersim” come il problema più importante di politica interna. La soluzione individuata fu lo spopolamento della provincia e ancora nello stesso anno venne cambiato il nome di Dersim in Tunceli, sottoponendo la città ad amministrazione militare. Si giunse a vessare la popolazione, i militanti appartenenti ai clan attaccarono una stazione di polizia e lo stato centrale reagì con tutta la sua forza: alla fine del 1937 le unità partigiane vennero sconfitte e Seyit Riza e gli altri capiclan giustiziati. L’anno dopo l’esercito continuò le proprie operazioni e si arrivò ai massacri. A migliaia vennero uccisi, decine di migliaia furono i deportati. Nell’operazione era coinvolta anche la figlia adottiva di Atatürk, Sabiha Gökçen, la prima pilota da combattimento al mondo, alla quale è stato intitolato il secondo aeroporto di İstanbul.

Nei decenni seguenti Dersim rimase una regione sottosviluppata, il tasso di emigrazione era estremamente alto, molti si trasferirono in Europa per lavorare, cosicché Tunceli raggiunse la densità di popolazione più scarsa di tutte le 81 province della Turchia. Nel 2011 il presidente Erdoğan si è scusato per il massacro e ha ammesso il numero di 14 000 morti. Nell’autunno 2013 ha annunciato all’interno del “pacchetto di democratizzazione” la ridenominazione di Tunceli in Dersim – l’unico provvedimento concreto a favore dei curdi. 

Inoltre il rapporto della gente di Dersim con i curdi è complicato: perché la popolazione non è soltanto alevita, ma la maggior parte non parla nemmeno kurmanji, ma zazaki – talvolta considerato un dialetto curdo, ma visto dall’iranistica ormai come ramo autonomo della famiglia linguistica iraniana. Tale questione non è interessante semplicemente per i linguisti, anzi ha effetti equivalenti sulla vita delle persone, almeno ne è convinto Çobanoğlu, e in ogni caso implica conseguenze politiche.

Per lungo tempo il Chp, che di solito non gioca nessun ruolo nelle zone curde, è stato la forza politica più potente nella provincia. Allo stesso tempo, dagli anni Settanta i gruppi della sinistra radicale hanno guadagnato un’influenza, che fino a oggi non è quasi mai stata messa in discussione. Durante le elezioni dell’amministrazione comunale del 2009 il candidato della Federazione dei diritti democratici – un’unione vicina all’illegale Partito comunista maoista (Mkp) – ottenne un risultato leggermente inferiore rispetto alla candidata del Bdp, ma si aggiudicò comunque il terzo posto. In compenso i Verdi di sinistra dell’Ödp hanno visto eleggere il proprio sindaco in un capoluogo distrettuale mentre in un altro è riuscito il Tkp marxista ortodosso – entrambi isolati. Ormai in quella zona il Bdp è diventato la forza politica più potente.

«A Dersim c’è un conflitto tra quelli che considerano lo zazaki come parte della lingua curda e quindi gli zaza come curdi, e quelli che vedono gli zaza come un’etnia più o meno autonoma e danno un forte rilievo alla cultura alevita», dice Çobanoğlu. «I simpatizzanti del Bdp rimproverano agli elettori del Chp di essere affetti dalla sindrome di Stoccolma e quindi di fraternizzare col nemico. I rappresentanti del Chp a loro volta accusano il Pkk di seguire una politica di assimilazione. Molti dicono: se oggi venisse fondato un Kurdistan indipendente, ci chiamerebbero curdi delle montagne, così come prima in Turchia si è fatto dei curdi i turchi delle montagne». La politica di assimilazione si mostra anche nei gruppi di sinistra. «Tutti quelli che si fossero avvicinati al Pkk, vi avrebbero incorporato la loro influenza».

Questa spaccatura politica viene alla luce durante le proteste di Gezi. Per quanto Dersim sia l’unica città curda in cui proteste e scontri sono stati imponenti, i sostenitori del Bdp si sono astenuti anche qui. Per strada c’erano giovani non appartenenti a gruppi politici così come simpatizzanti dei gruppi di sinistra e del Chp, il cui parlamentare Kılıçdaroğlu è originario di quella regione. Un paio di mesi dopo si verificarono nuovi disordini, quando delle persone protestarono davanti ad alcuni locali. I manifestanti pensavano che fossero luoghi in cui si esercitava la prostituzione e parlavano, come a Gazi, di “degrado”.

Çobanoğlu ha la sua spiegazione personale: «Penso dipenda dal Bdp. Il Bdp è un partito conservatore nelle zone curde. Per loro l’intero stile di vita di Dersim è sospetto. Ma camuffano questo con una retorica femminista e quelli di sinistra se la bevono. Sarebbe un peccato se l’islamizzazione attaccasse Dersim».

La particolarità della città emerge già dai suoi monumenti: il monumento a Seyit Riza, con il quale l’amministrazione comunale nel 2010 ha causato una controversia in tutto il paese, il monumento a Sevuşen, un senzatetto schizofrenico, che qui è considerato un santo, e il Monumento ai diritti umani in piazza Cumhuriyet, dove nel 1996 la combattente del Pkk Zeynep Kımacı si è fatta saltare in aria durante una cerimonia militare uccidendo otto reclute che stavano facendo il servizio militare obbligatorio – il primo attentato suicida della storia turca.

Il carattere particolare si palesa anche nella libreria Baran, dove non si trovano solo manuali e i bestseller di Elif Şafak e Ahmet Ümit tra le pubblicazioni esposte in vetrina, ma anche un volume della Scuola di Francoforte – anche se la giovane libraia dice che mai nessuno lo ha preso in mano. Yavuz Çobanoğlu vorrebbe che Dersim mantenesse queste unicità. Ma una cosa desidera in particolare: «Un bar dove si suoni musica rock e non sempre solo l’halay».

La trentatreenne insegnante di geologia Songül non ha alcun problema a danzare l’halay. In questo sabato sera ci si incontra in un ristorante del centro con un bel panorama sul fiume, ma dall’architettura amorfa. C’è la festa di una scuola di ballo, ci sono alcolici, dopo cena si balla: l’halay, ma anche l’horon, una danza proveniente dal mar Nero, e in più il tango, la salsa, il sirtaki. Forse ci sono un centinaio di persone nella sala spoglia, tutti tra i 25 e i 40 anni. Songül si trova lì con tre colleghe. L’attenzione del tavolo è rivolta alla reginetta non incoronata del ballo, una ragazza quasi trentenne in jeans e top rosso che le lascia scoperta la schiena, che padroneggia i balli più complicati. Pettegolezzi da donne, che più che criticarla la ammirano.

Songül più tardi racconta che le piace vivere a Dersim: «La mia famiglia vive in un villaggio nelle vicinanze, io abito da sola e non ho alcun problema qui. Ma ci sono dei limiti. Io e il mio ragazzo non abbiamo passeggiato neanche una sola volta attraverso la città tenendoci per mano». Ma ancor più le dà fastidio la chiusura mentale provinciale, di cui a un certo punto ci si rende conto.

La più grande eccitazione l’ha provata quando la protesta di Gezi è arrivata a Dersim. «C’era un tale fermento», dice Songül. Ha manifestato, partecipato ai concerti serali di protesta ed era presente quando venne dipinta una scala nei dintorni del Munzur. «Ma così all’improvviso com’è arrivato, è sparito tutto di nuovo. Come geologa mi dico: Gezi è forse come un fiume carsico. Spunta scrosciante, poi sparisce di nuovo sottoterra, per poi sgorgare da un’altra parte».

Frags da Ogni luogo è Taksim. Da Gezi Park al controgolpe di Erdoğan, di Deniz Yücel e Murat Cinar, con una prefazione di Alberto Negri, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018

L'articolo Il fiume e il suo avvocato difensore proviene da OGzero.

]]>