Covid-19 Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/covid-19/ geopolitica etc Sat, 04 Sep 2021 13:07:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Asean tra decimazione pandemica e decrescita tradizionalista https://ogzero.org/covid-golpe-birmano-e-repressione-thai-l-oriente-a-pezzi/ Wed, 01 Sep 2021 20:09:40 +0000 https://ogzero.org/?p=4769 Covid, golpe birmano, repressione thailandese: elementi di stravolgimento innescati per un cambio di rotta di difficile elaborazione per i criteri occidentali. Il Sudest asiatico va decifrato immergendosi in quel mondo altro e sfuggente ai parametri europei, però in grado di elaborare svolte che risultano incomprensibili per i farang, se non dopo che i processi si […]

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Covid, golpe birmano, repressione thailandese: elementi di stravolgimento innescati per un cambio di rotta di difficile elaborazione per i criteri occidentali. Il Sudest asiatico va decifrato immergendosi in quel mondo altro e sfuggente ai parametri europei, però in grado di elaborare svolte che risultano incomprensibili per i farang, se non dopo che i processi si sono ormai proiettati in una direzione inattesa per quanto linearmente coerente a quell’universo di riferimenti, ma di difficile interpretazione al di fuori di quelli, producendo svolte che estromettono gli elementi alieni alla comunità, che si ritrae nei valori tradizionali, forse per trovarvi nuova linfa in prospettiva futura, benché al momento appaia semplicemente reclinata in uno spirito conservatore e retrivo.

Solo una frequentazione ventennale dell’area come quella di Max Morello può cogliere gli elementi di affanno in cui si sta dibattendo innanzitutto la cultura del Sudest asiatico. E questo produce in lui un moto di delusione per l’implosione della sua fascinazione verso l’approccio filosofico delle società asiatiche che aveva imparato a frequentare, l’illusione di potersi lentamente avvicinare a interpretare quel mondo attraverso la conoscenza della filosofia che lo permea; ora sono quasi irriconoscibili nel loro travaglio… e l’inaudito è che questo forse consente di tornare a riconsiderare l’approccio della cultura occidentale, vista l’assenza di spunti progressivi per uscire da una crisi non solo economica e sanitaria da parte di una filosofia che invece risultava affascinante perché appariva capace di proposte globali e non identitarie.


Il grotesque della danse macabre

«Questa mattina è morto il padre di Cho. Soffocato. Non si trova più l’ossigeno… I militari se lo prendono per loro e i loro protetti. Negli ospedali pubblici c’è l’esercito che decide chi ha diritto al respiratore…».

Così mi ha scritto un amico che per fuggire dal caos e dal virus dilagante in Birmania ha abbandonato la casa che si era costruito a Yangon e si è trasferito in un condominio a Bangkok con il figlio e la moglie Cho.

«Non voglio fare il cinico ma mi sembra inutile fare il conto dei morti in Birmania. Qui si moriva comunque per qualsiasi altra malattia. La differenza è che adesso si muore soffocati»,

mi dice un altro amico rimasto in quel paese. Lui ha cercato di evitare il contagio, le manifestazioni e i combattimenti continuando a spostarsi tra i villaggi più isolati.

La Birmania, Yangon in particolare, è divenuta la scena di una tremenda rappresentazione pulp, splatter, horror, da teatro dell’assurdo e della crudeltà. I paragoni con generi o forme di spettacolo, di patologie psichiche reali o diaboliche, di miti e superstizioni non sono un espediente letterario. Servono a rappresentare una realtà che diviene sempre più difficile da credere, immaginare e descrivere se non si ricorre alla dimensione fantastica, a un vero e proprio lessico dell’orrore che si ritrova nei titoli, negli articoli, nei post, nei tweet.

A fine agosto le vittime della repressione militare sono oltre 1000. Circa 15.000 i morti per Covid. Entrambe le cifre, probabilmente, errate per difetto e sicuramente destinate ad aumentare. Soprattutto la seconda. In alcune zone metà della popolazione potrebbe essere già infetta. A Yangon i morti superano i 2000 al giorno.

Catastrofe umanitaria multidimensionale

«Stiamo morendo tutti. Il Myanmar è sull’orlo della decimazione»,

mi dice un altro amico ancora stremato dal contagio. I cadaveri vengono bruciati anche negli inceneritori, sepolti in fosse comuni o addirittura in discariche. Il Covid si diffonde ulteriormente tra i volontari che li trasportano. Molti muoiono in casa, soffocati, aspettando l’ossigeno che non arriva. L’esercito si riserva il controllo dell’ossigeno le cui scorte vanno esaurendosi.

La perfetta rappresentazione, anche semantica, di questa situazione sta tutta nella dichiarazione di Michelle Bachelet, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. Riferendosi alla situazione in Myanmar ha definito una crisi che sta precipitando in una “catastrofe umanitaria multidimensionale”. Espressione che ingloba l’angoscia, l’orrore, la miseria, la violenza del covid e del golpe.

Solo il 40% del già ridotto sistema sanitario birmano è operativo, secondo le stime più ottimistiche solo il 6% di una popolazione di 54 milioni è vaccinato. Molti medici vengono arrestati per aver violato il coprifuoco per visitare qualcuno o portargli ossigeno. Altri medici e infermiere finiscono in prigione per essersi rifiutati di lavorare negli ospedali dei militari. Migliaia di persone si ammalano e muoiono di Covid in carcere. I dirigenti anziani della National League for Democracy sono letteralmente decimati. Si estingue così una generazione sopravvissuta a decenni di lotte e persecuzioni. Insomma, il Covid diviene il miglior mezzo di controllo e repressione: sta stremando l’opposizione, è perfetta scusa alle morti per tortura. Ma soprattutto il Covid riduce la popolazione in uno stato di attonita impotenza, esacerbando diseguaglianze già abissali, condannando i più poveri, il cui numero è destinato a raddoppiare, a soffrire senza possibilità di reazione. Intanto è più che triplicato il numero dei rifugiati interni, uomini donne e bambini che hanno abbandonato i loro villaggi per sfuggire ai conflitti tra esercito e milizie etniche che si sono riaccesi in tutta la Birmania.

È una tempesta perfetta…

in cui non sembra aprirsi alcuno spiraglio. Le milizie sono vittime del “dilemma del prigioniero”: pur sapendo che l’unica possibilità di reale opposizione sta in un’alleanza, non riescono a unirsi per reciproca diffidenza e per l’incapacità di valutare rischi e benefici. Il People’s Defence Force (Pdf), braccio armato del National Unity Government (Nug), a sua volta, sembra paralizzato dal mancato appoggio delle milizie e dalla difficoltà di convertirsi alla lotta armata da parte di un’opposizione che, sotto la guida di Aung San Suu Kyi aveva fatto della non-violenza la sua forza. In molti casi, quindi, i gruppi di resistenza sembrano mossi dalla disperazione, pronti a un sacrificio rituale. Com’è accaduto ai giovani che si sono gettati da una finestra per evitare la cattura e la tortura.

A poco a poco, tuttavia, sembra che alcuni gruppi stiano evolvendo verso forme più organizzate e sofisticate di guerriglia, come l’agguato in cui sono stati uccisi cinque poliziotti proprio come rappresaglia per il suicidio degli studenti.

Sul fronte opposto la giunta militare non sembra in grado di vincere una guerra civile che non aveva previsto. Le forze armate, Tatmadaw, sono decimate anch’esse dal Covid, forse perché ai militari è stato somministrato a loro insaputa il Covaxin, un vaccino indiano ancora non approvato. Secondo fonti dell’opposizione, inoltre, sarebbero già più di 2000 i disertori – soprattutto soldati semplici, sottufficiali e poliziotti – che si sono uniti al Civil Disobedience Movement (Cdm).

In questo scenario da incubo, il programma politico presentato dal generale Min Aung Hlaing, artefice del golpe e autoproclamato primo ministro, appare come un “manifesto di pazzia”, paragonabile a quello dell’Angkar, l’organizzazione dei khmer rossi di Pol Pot, secondo cui chiunque si opponga all’organizzazione stessa è un nemico da sterminare. Anche se ciò significa far strage del proprio popolo. In questo delirio il nemico diviene l’incarnazione del male: Aung San Suu Kyi e la sua Nld sono addirittura accusati di aver violato il dharma, la legge buddhista di cui i militari si ergono a protettori e difensori. Una missione sacra che, secondo i monaci più fanatici, è stata premiata dalla divinità che ha fatto guarire dal Covid l’ultraottantenne generale Than Shwe, dittatore della Birmania dal 1992 al 2011, autore di una sanguinosa repressione con migliaia di dissidenti torturati e imprigionati. Il fatto che Than Shwe e sua moglie abbiano potuto godere di cure precluse al resto della popolazione è anch’esso da considerare come il segno di un karma miracoloso. Al contrario la Signora sarebbe stata punita per la sua incapacità nell’affrontare la crisi sanitaria, nel trovare un accordo con i diversi gruppi etnici e nel mantenere il sostegno dell’Occidente in seguito alla crisi determinata dalle violenze sui rohingya.

Accusa, quest’ultima, che appare grottesca pensando alle responsabilità di buona parte dell’intelligenza occidentale che ha abbandonato Aung San Suu Kyi – e con lei i rohingya – al proprio destino, accusandola di crimini contro l’umanità e genocidio per non essersi opposta con sufficiente forza alla persecuzione compiuta dai militari. È stato proprio l’Occidente, dunque, accecato da una hybris, a creare le condizioni per il golpe.

… per un’epidemia golpista

La situazione in Myanmar sta generando un effetto contagio in tutta l’area. Oltre a ridefinirsi come stato paria, è condannato a essere anche untore. E non solo per le decine di migliaia di persone in fuga. È come se tutti gli orrori della ex Birmania si replicassero o venissero alla luce nelle altre nazioni dell’Asean: la scarsità di ossigeno e di vaccini, il mistero sul numero di morti o contagiati, i cadaveri bruciati nei crematori dei monasteri o sepolti in fosse comuni, la miseria che rende un tampone un lusso (nelle Filippine, per esempio, costa otto volte il minimo salario giornaliero), la rinascita di pratiche magiche in sostituzione di cure mediche inesistenti, l’acuirsi di tensioni etniche, religiose e razziali in cui ognuno cerca nell’altro un capro espiatorio.

Inizialmente sembrava che la resistenza al virus dei popoli del Sudest asiatico fosse l’ennesima prova di una cultura che aveva gli anticorpi per contrastarlo. Per alcuni ricercatori, come l’italiano Antonio Bertoletti dell’Università di Singapore, poteva essere così, ma solo perché si era creata una sorta d’immunità dovuta all’esposizione a virus come la Sars.

Poi, nell’aprile scorso, è arrivata la variante Delta. I contagi e i decessi sono aumentati in modo esponenziale con una crescita superiore a ogni altra parte del mondo. Il Sudest asiatico e i suoi 655 milioni di abitanti sono divenuti l’ultimo hotspot della pandemia, rivelando i malfunzionamenti strutturali della regione: l’autoritarismo o la democrazia limitata, la corruzione e la burocrazia che l’alimenta, le diseguaglianze, il potere delle élite e delle oligarchie, l’assenza di un adeguato sistema di assistenza sociale e sanitaria.

La società disfunzionale e la trasmissione sessuale del virus

La Thailandia è un esempio perfetto di questa società disfunzionale: è stata modello per il golpe birmano e quindi vittima della stessa contaminazione tra Covid e politica, sia pure in forma meno virulenta. Dall’inizio della pandemia sino ad aprile 2021, i casi di Covid erano stati circa 28.000, con 98 morti. Da aprile a fine agosto i contagiati sono circa 400.000, i morti oltre 11.000.

L’epicentro di questa nuova ondata sono stati quei locali, come il Krystal Exclusive Club o l’Emerald, frequentati dai cosiddetti Vvip. Non semplicemente vip, bensì very very important person, che in quei locali incontrano ragazze che non sono semplici escort bensì aspiranti mia noi, moglie minore, amanti ufficiali, cui pagare l’affitto in un residence di lusso (o intestare un appartamento) e assicurare un tenore di vita adeguato allo status del Vvip.

La trasmissione del virus per via sessuale (in senso del tutto traslato), del resto, sembra comune ai paesi del Sudest asiatico. È accaduto anche in Cambogia dove i primi casi della nuova ondata si sono verificati tra i Vvip frequentatori del N8, esclusivo locale di Phnom Penh. A infettarli sarebbero state due delle quattro ragazze arrivate pochi giorni prima da Dubai a bordo di un jet privato.

In pochi giorni il Covid si è diffuso in modo tanto rapido e violento quanto inaspettato. In Thailandia il contagio e la morte, sempre più rapidamente, si sono spostati dai quartieri delle élite come Thonglor e Suan Luang, alle prigioni, ai dormitori dei lavoratori edili, agli slum come Khlong Toey, dove è impossibile qualunque distanziamento sociale, le condizioni igieniche sono precarie, l’assistenza medica limitata. E dove la malattia è vissuta come un ulteriore stigma sociale, il segno di un karma malefico.

Interessi regali in campagne vaccinali thailandesi

La crisi è aggravata dai ritardi nella campagna vaccinale. Il governo thailandese, infatti, l’aveva pianificata con l’uso quasi esclusivo del vaccino AstraZeneca, prodotto dalla compagnia nazionale Siam BioScience, su cui, a quanto sembra, facevano conto anche altri paesi del Sudest asiatico. A fine agosto, solo l’11% della popolazione era completamente vaccinato. Secondo alcuni siti dell’opposizione molte dosi sono state vendute all’estero. Ma sarà impossibile determinare responsabilità o cause: la società farmaceutica, infatti, fa parte del patrimonio della corona, controllato direttamente da re Vajiralongkorn. E qualsiasi critica o semplice dubbio rientra ineluttabilmente sotto la legge di lesa maestà.

Altro responsabile dei ritardi vaccinali è l’ineffabile ministro della Sanità Anutin Charnvirakul, già noto per aver dichiarato che i farang, gli occidentali, erano potenziali untori in quanto “sporchi”. Secondo molte indiscrezioni Anutin avrebbe dichiarato che il vaccino Pfizer non aveva dimostrato la sua efficacia sulle popolazioni asiatiche. Quindi avrebbe dato più fiducia al cinese Sinovac (che secondo le stesse indiscrezioni è in parte controllato da una delle più ricche famiglie thai).

Nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi mesi abbiano contenuto il dilagare della crisi sanitaria, il virus ha innescato la peggior crisi economica che abbia colpito la Thailandia negli ultimi vent’anni e 21 milioni di persone rischiano di non avere più mezzi di sostentamento. La Thailandia, che secondo un rapporto del 2018 era al primo posto nella graduatoria delle diseguaglianze sociali, rischia di incrementare in modo esponenziale il suo primato.

Ritorno al futuro della decrescita nella felice vita tradizionale 

La pretestuosità dei valori khwampenthai, la rivolta in salsa prik…

In una situazione del genere appare allucinante una delle soluzioni proposte dall’establishment, ispirata ai valori della khwampenthai, la thailandesità, più che a teorie macroeconomiche: un programma di decrescita felice secondo cui il popolo thai dovrebbe tornare a uno stile di vita tradizionale, che sembra finalizzato soprattutto a un maggior controllo. Sempre più detenuto dalle cinquanta famiglie più potenti del regno, il cui patrimonio combinato ha raggiunto la cifra record di 160 miliardi di dollari. A ogni buon conto, per evitare possibili conseguenze personali per qualsiasi eventuale errore, il ministro Anutin si è fatto latore di una legge che scarichi di qualsiasi responsabilità nella gestione del covid operatori sanitari e funzionari di ogni livello.

In questo clima era inevitabile che riprendessero le manifestazioni di piazza. Ma se prima si trattava soprattutto di una protesta d’élite che metteva in discussione la cultura gerarchica della tradizione thai, compreso il totem e tabù della monarchia, e si svolgevano secondo forme e modi da “indiani metropolitani” in salsa prik, piccante, oggi sono rivolte antigovernative, rabbiose, spesso violente, innescate dalla paura del virus e dal risentimento verso un sistema corrotto che non è riuscito a contenerlo. Altrettanto violenta la reazione della polizia che sempre più spesso fa uso della forza e sembra voler contendere all’esercito il ruolo di gendarme del governo, riappropriandosi del controllo delle strade (con tutti i benefici che ne conseguono).

… e i bachi nei principi della sapienza tradizionale

«La Thailandia sta precipitando in un nuovo caos», ha dichiarato un attivista di Human Rights Watch.

«C’è un certo conforto nella decadenza. È come confrontarsi con la prima nobile verità del Buddha, il dukka, l’inevitabile sofferenza che segna l’esistenza»,

mi aveva detto lo scrittore thailandese Tew Bunnag. Figlio lui stesso dell’ammart, l’élite, che ha ripudiato la sua classe sociale per dedicarsi alla meditazione e all’assistenza ai malati terminali, Bunnag commentava così il suo libro Il viaggio del Naga in cui il serpente gigante della mitologia hindu-buddista simboleggiava la natura che governa i destini umani.

«Vivi nella sensazione di questo sottile equilibrio tra il dukka e il tentativo di cogliere ogni attimo di piacere che ti offre la vita».

Il naga, oggi, sembra incarnarsi nel Coronavirus, ma sembra che la massa della popolazione thai abbia perduto la disperata capacità di cogliere il sanuk, quel piacere che allevia la sofferenza.

La pandemia di Covid-19, insomma, sta facendo crollare quella House of Cards, il castello di carte, che si reggeva sul principio del pii-nong, maggiore-minore, che riguarda l’età, il ruolo familiare, lo status professionale, economico, sociale, culturale, l’esperienza. Un complesso rapporto che era uno degli elementi della khwampenthai, divenuta espressione di un crescente orgoglio nazionale. Per la maggior parte dei locali, che fossero phrai o ammart, membri del popolo o delle élite, uniti in questo come nella passione per il som tam, l’insalata di papaya verde, la salvezza era insita nella loro capacità di rispettare le regole, nei loro rituali, come il wai, il modo di salutarsi giungendo le mani di fronte al volto, che evita ogni contatto.

Gli asiatici, infatti, giustificano ineguaglianze, colpi di stato, restrizioni e violazioni dei diritti umani affermando che per loro non si possono applicare i valori dell’Occidente. Al tempo stesso quegli stessi valori vengono contestati in funzione di una pretesa superiorità morale che deriverebbe dal mantenere immutati i propri valori. È qualcosa che va contro uno dei cardini della logica aristotelica: il principio di non-contraddizione. Ma, ancora una volta, parliamo di una logica occidentale, lineare, ben diversa da quella orientale. Qui vige un principio circolare in cui tutto è o può essere il contrario di tutto.

Il fallimento del minilateralismo

Quello che alcuni osservatori locali hanno definito “minilateralismo” dell’Asean a indicare un modello virtuoso di sviluppo in cui si confrontano gruppi di paesi, si sta rivelando come l’ulteriore limite di un’organizzazione sovrannazionale priva di visione strategica, di quella “centralità” che definisce la capacità di affrontare le sfide esterne al gruppo di nazioni. E come l’Asean si è rivelata del tutto incapace di gestire la crisi politica in Myanmar, ancor meno sembra capace di prendere posizione tra i grandi giocatori che si confrontano nello scacchiere dell’Asia orientale, in particolare nel Mar della Cina meridionale. Quella dell’Asean appare una vera e propria manifestazione di ignavia: i problemi non vengono risolti non tanto per divisioni interne, quanto perché non sono posti o sono rimossi. Ancora una volta si manifesta quel principio che in Thailandia è sintetizzato nell’espressione “mai pen rai”: non pensarci, non preoccuparti. Potrebbe accadere così anche per la ripresa dell’estremismo islamico nell’area – che non ha rinunciato al progetto di un califfato in Sudest asiatico.

Ripiegamento dall’arrembaggio asiatico…

In effetti sta accadendo il contrario di ciò che molti preconizzavano: il “Tramonto dell’Occidente” cui doveva succedere l’alba del “Nuovo secolo asiatico” sembra essersi arrestato al crepuscolo, cui sta seguendo un’improvvisa aurora che illumina l’ovest. Il “Post-Western World” sembra trascorso o comunque si è ristretto entro i confini dell’Impero di Mezzo. Sembra invertito un ordine che aveva assunto le caratteristiche di un processo naturale, quasi genetico, come se l’evoluzione della Repubblica Popolare Cinese si diffondesse in tutta l’Asia per partenogenesi. Un processo di cui facevano vanto soprattutto le nuove tigri asiatiche, le nazioni dell’Asean, del Sudest asiatico. Oggi invece la Cina diventa sempre più inaccessibile: le autorità della provincia dello Yunnan che segna il confine con il Sudest asiatico stanno progettando un muro che li protegga da ondate di profughi.

… e il ripiegamento dall’esotico

Agli occhi di un farang, quell’altrove dove anche le zone d’ombra facevano parte di uno scenario esotico in cui si compiaceva di vivere senza subirne le conseguenze, diviene un teatro della crudeltà dove non può più sottrarsi alla realtà, dove anche lui può divenire una vittima. La prima, più forte reazione a questa presa di coscienza è un desiderio di fuga, di ritorno in patria, con la pretesa di essere accolti come un figliol prodigo. È il preludio alla riconversione, al mea culpa, alla dichiarazione d’appartenenza a un mondo che, pur con tutti i suoi limiti, garantisce i fondamentali diritti umani, si basa su quei valori universali che si era stati tentati di rinnegare per la fatale attrazione degli “Asian Values” che apparivano più efficienti e adatti ad affrontare le sfide del nuovo millennio.

Ancora una volta la dicotomia è il velo alla semplificazione perché l’Asia stessa, i suoi valori cambiano profondamente in funzione geografica, culturale, religiosa, storica: Asia del Sud, centrale, orientale, Sudest asiatico, confucianesimo, buddismo (con le profonde differenze tra il Mahayana e il Theravada), islam, eredità coloniali, ideologia comunista o postmarxista, autocrazia e democrazia entrambe in più varianti del Covid.

Fallimento del policentrismo multipolare

«L’Asia è policentrica, multipolare… In Asia non c’è uniformità in termini di geopolitica e cultura e ognuna di quelle nazioni è un mondo a sé stante».

Lo ha scritto Francis Fukuyama in epoca prepandemica, quando il policentrismo appariva un antidoto alla globalizzazione, una nuova forma evolutiva. Oggi, però, si sta rivelando disfunzionale: la gestione della pandemia si è rivelata tra le peggiori al mondo (almeno secondo il Nikkei Covid-19 Recovery Index), circa 90 milioni di persone sono regredite alla condizione di povertà, la middle class è stata uccisa in culla, l’illiberalismo, l’autocrazia, l’etnonazionalismo e l’integralismo religioso si diffondono col virus. Le nazioni del Sudest asiatico si dimostrano non le nuove tigri bensì anatre zoppe che si dibattono in una palude distopica.

Resistenza confuciana?

In questo scenario apocalittico sembrano “salvarsi” solo Vietnam e Singapore, entrambi accomunati dalla comune radice confuciana. In Vietnam, che pure sta subendo una nuova e grave ondata del Covid, il controllo esercitato dal Partito, una classe dirigente più preparata e una lunghissima esperienza delle emergenze hanno contenuto il contagio e la crisi economica. Singapore, sempre più lanciata nella sua corsa verso la realizzazione di un’utopica Elysium, sta procedendo dalla pandemia all’endemia, ossia alla coesistenza col virus tenuto sotto controllo dai vaccini, dalle nuove terapie e da forme di rilevazione rapida del virus come l’analizzatore del respiro. Sono soprattutto questi modelli che hanno creato in molti occidentali l’illusione che tutto il Sudest asiatico potesse rappresentare un’alternativa politica ed esistenziale. Un equivoco, dunque, all’interno di un inganno.

Resilienza occidentalista?

In questa prospettiva culturale bisognerebbe ripensare a tutte le criticità europee rivalutando un sistema che si sta rivelando davvero resiliente. Tanto per usare in modo adeguato un termine abusato. Nel confronto con le nazioni dell’Asean si può comprendere e apprezzare il vero senso della libertà di cui godiamo. Proprio nei beni immateriali – quali la governance, l’innovazione, lo stato di diritto, il welfare, la cultura della libertà di pensiero e d’espressione – l’Europa può riaffermare il suo ruolo, definire un modello culturale. A condizione che ne abbia coscienza e capacità di affermarlo.

«Senza memoria, non vi è identità. E senza identità, siamo solo polvere sulla superficie dell’infinito», ha detto Jonathan Sacks, leader ecumenico, filosofo. Che avvertiva: «Le civiltà cominciano a morire quando perdono la passione morale che li ha portati a esistere».

  


Il pezzo che abbiamo proposto qui è un aggiornamento e un approfondimento operati dall’autore dopo la pubblicazione di un articolo che Massimo Morello stesso aveva scritto per “Il Foglio” uscito il 29 luglio 2021. Come già nella raffinata operazione iconografica operata da Roland Barthes – le due fotografie che corredavano L’Impero dei segni e riproducevano il ritratto di un medesimo giapponese con lievi, ma sostanziali differenze tra il volto nel primo frontespizio della prima illustrazione e la sua versione modificata al fondo del libro – qui si possono confrontare le due versioni e si noterà un’accresciuta amarezza orrifica proveniente sia dalle testimonianze aggiunte, sia dai nuovi dati sulla pandemia e il montaggio diverso nei due pezzi di argomenti simili e dati aggiornati restituisce moltiplicata la delusione dell’orientalista, il travaglio di una società che sembra fornire solo formule contraddittorie e regressive…

L’Oriente a pezzi

 

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Non ci si salva da soli nella Guerra dei vaccini https://ogzero.org/la-guerra-dei-vaccini-nessuno-si-salva-da-solo/ Sat, 29 May 2021 08:17:40 +0000 https://ogzero.org/?p=3676 La Guerra dei vaccini è iniziata. Sotto il benevolo ombrello “non ci si salva da soli”, le potenze occidentali hanno cominciato a capire che uno strumento diplomatico fondamentale per riconquistare mercati, prestigio e influenza in Africa passa, appunto, dai vaccini. Russia e Cina hanno cominciato la loro sfida da molti mesi. L’Occidente l’ha lanciata prima, […]

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La Guerra dei vaccini è iniziata. Sotto il benevolo ombrello “non ci si salva da soli”, le potenze occidentali hanno cominciato a capire che uno strumento diplomatico fondamentale per riconquistare mercati, prestigio e influenza in Africa passa, appunto, dai vaccini. Russia e Cina hanno cominciato la loro sfida da molti mesi. L’Occidente l’ha lanciata prima, durante il minivertice africano di Parigi e poi con il Global Health Summit di Roma.

La sfida dietro ai brevetti

Washington

Pregevole, e per nulla scontata, l’iniziativa del presidente americano Joe Biden di “sospendere i brevetti” e trasferire tecnologie per la produzione dei vaccini nel continente africano.

 

La Direttrice Generale della World Trade Organization (WTO), Ngozi Okonjo-Iweala, ha dichiarato che sospendere i brevetti sui vaccini garantirebbe ai paesi in via di sviluppo un accesso equo alla vaccinazione il più rapidamente possibile.

Immediatamente gli ha fatto eco il suo omologo francese, Emmanuel Macron, e poi la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. Parole importanti, piene di significato politico, forse anche umanitario, ma non può sfuggire che la mossa occidentale ha più il sapore della sfida a Russia e Cina che un vero e pregevole impegno per aiutare l’Africa a vaccinarsi. Ma andiamo per ordine.

Parigi

Oltre alle questioni legate al finanziamento delle economie africane, i partecipanti al vertice di Parigi, che si è tenuto sul tema il 18 e il 19 maggio, hanno affrontato le problematiche relative alla distribuzione dei vaccini anti-Covid-19 in Africa.

La richiesta, arrivata da un po’ tutte le parti in causa, è, appunto, l’eliminazione dei brevetti “per consentirne la produzione in Africa”.

Di questo si è fatto portavoce il presidente francese Emmanuel Macron che nella conferenza stampa finale ha aggiunto: «Chiediamo all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) e al Medicines patent pool di rimuovere tutti i vincoli in termini di proprietà intellettuale che bloccano la produzione di alcuni tipi di vaccini».

La paura delle potenziali varianti

Macron, dopo aver citato la lentezza della vaccinazione come uno dei principali problemi del continente, ha quindi fissato l’obiettivo di vaccinare il 40 per cento delle persone in Africa entro la fine del 2021, sottolineando che «la situazione attuale non è sostenibile, è ingiusta e inefficiente». Secondo il presidente francese infatti «non riuscendo a vaccinare gli africani si rischia di far emergere nel continente varianti di Covid-19 potenzialmente pericolose che poi potrebbero diffondersi in tutto il mondo». La direttrice del Fondo monetario internazionale (Fmi) Kristalina Georgieva ha avvertito che la mancata accelerazione del lancio del vaccino in Africa avrebbe anche conseguenze economiche: «È chiaro che non c’è un’uscita duratura dalla crisi economica se non si esce dalla crisi sanitaria». «Dobbiamo sostenere l’Africa nella costruzione delle proprie industrie e infrastrutture sanitarie.

«Il Team Europe lancerà un’iniziativa per aiutare a potenziare la produzione di vaccini in Africa, trasferendo le tecnologie necessarie», questo l’impegno preso dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen.

Roma

Durante il vertice di Roma l’Unione europea, infatti, ha promesso di impegnarsi per creare capacità produttiva nei paesi africani. Il continente, oggi, importa il 99 per cento dei vaccini.

L’iniziativa è a tutto tondo: investimenti in infrastrutture e impianti di produzione, sostegno alla gestione e la definizione del quadro normativo.

L’idea di fondo è quella di creare degli hub regionali così da dare impulso al trasferimento di tecnologie per la produzione di vaccini, ma anche di altro materiale sanitario.

Covax delay

Oltre alle difficoltà nella produzione locale, ad avere un impatto negativo nella copertura vaccinale dell’Africa sono i ritardi nelle consegne dei lotti. Dall’arrivo delle prime dosi di vaccino previste dal programma Covax dell’Oms, molti paesi africani hanno segnalato, nelle ultime settimane, ritardi nella consegna dei secondi lotti. A confermarlo a metà aprile è stato John Nkengasong, direttore dell’agenzia Africa Centres for disease control and prevention (Africa Cdc). E il Ruanda ha dovuto interrompere la vaccinazione contro il coronavirus a causa dei ritardi nelle consegne. A Roma, poi, si sono registrate promesse di nuovi finanziamenti per il programma Covax sia da parte di governi sia di case farmaceutiche.

In ogni caso, allo stato attuale, il programma è ampiamente sottofinanziato.

L’obiettivo dichiarato al termine del Glogal health summit è quello di arrivare a un accordo entro il vertice del G20 che si terrà alla fine di ottobre. Insomma, i negoziati, se mai inizieranno, saranno lunghi.

Ankara

All’appuntamento con la storia, poi, non poteva mancare il sultano di Ankara, che di affari in Africa ne ha molti ed è tutto teso ad ampliare la sua sfera di influenza sul continente. Anche lui ha chiesto un accesso equo per tutti i paesi. «Ci sono gravi ingiustizie nell’acquisizione dei vaccini», ha detto Recep Tayyip Erdoğan, e l’80 per cento di essi sono stati acquistati dai paesi ad alto o medio reddito. «Sebbene la maggior parte della popolazione nei paesi sviluppati sia stata vaccinata almeno con una dose, questo tasso non ha nemmeno raggiunto l’1 per cento nell’Africa subsahariana».

Iniziative sanitarie e finanziarie

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Non vi è dubbio che tutte queste iniziative siano lodevoli. Macron chiede che venga vaccinato il 40 per cento della popolazione africana, ciò significa, grosso modo, 600 milioni di persone entro il 2021. Per raggiungere l’obiettivo, oltre a un’imponente macchina logistica, occorre fornire al continente più di un miliardo di dosi. Sospendere i brevetti e trasferire tecnologie servirà per il futuro, non certo per il presente. Sicuramente porterà sviluppo. Ma per raggiungere l’obiettivo fissato dal presidente Macron si deve fare uno sforzo in più e subito:

donare le dosi in eccesso prodotte dai paesi occidentali. Non si può aspettare che l’Africa sia in grado da sola di produrre vaccini. Donare dosi o, come intende fare Big Pharma, venderle a un prezzo calmierato, senza guadagno.

Vedremo se sarà in grado di farlo.

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G20

Al vertice di Parigi, poi, si è discusso di finanziamenti per sostenere le economie africane. Una decisione è stata presa. È stata confermata l’emissione di Diritti speciali di prelievo (Dsp) per un importo di 33 miliardi di dollari per l’intero continente, di cui 24 per l’Africa subsahariana. Il Dsp non è altro che una sorta di assegno convertibile in dollari, distribuito in proporzione al peso specifico dei paesi e al loro contributo alle risorse. In molti considerano il Dsp come una moneta del Fondo monetario internazionale. Denari concessi a prestito e a tasso zero. Comunque, da restituire. Il G20, tuttavia, si era detto favorevole all’emissione di diritti speciali fino a 650 miliardi di dollari.

La società civile, invece, proponeva di emettere diritti per almeno 3000 miliardi di dollari, così da creare una massa di liquidità considerevole per rilanciare le economie africane.

Nella dichiarazione finale i partecipanti al minivertice di Parigi hanno detto di fare affidamento sul sistema finanziario internazionale. È necessaria «una decisione rapida su un’assegnazione generale di Dsp per un importo senza precedenti, che dovrebbe raggiungere 650 miliardi di dollari, di cui quasi 33 miliardi destinati ad aumentare le attività di riserva dei paesi africani e a implementarlo appena possibile, e chiediamo ai paesi di utilizzare queste nuove risorse in modo trasparente ed efficiente», si legge nella nota finale.

Abidjan

Uno sforzo multilaterale che coinvolgerà la rete di Banche pubbliche di sviluppo africane, che coinvolgono la Banca africana per lo sviluppo (Afdb) – con sede ad Abidjan – e istituzioni finanziarie pubbliche nazionali e regionali. «Per alleviare le economie africane che soffrono di vulnerabilità legate al loro debito pubblico estero, i creditori del G20 e del Club di Parigi agiscono come concordato nel comunicato stampa dei ministri delle Finanze e dei governatori delle banche Centrali del G20 ad aprile e il quadro comune per i trattamenti del debito oltre la Debt service suspension initiative (Issd) adottata nel novembre 2020», hanno approvato i firmatari. Tradotto in soldoni significa moratoria del debito per il 2020 e il 2021. Per promuovere la crescita e la creazione di posti di lavoro, i partecipanti hanno espresso sostegno alle strategie nazionali africane accogliendo con favore l’ambizione di sviluppare un’alleanza per l’imprenditorialità in Africa, che avrà un’ampia portata panafricana e garantirà un posto preponderante per le aziende.

Questa alleanza, nelle intenzioni, renderà possibile mobilitare tutti i partner che desiderano mettere risorse finanziarie e tecniche al servizio dello sviluppo del settore privato in Africa.

Pieno appoggio all’iniziativa del G20 sul sostegno all’industrializzazione in Africa e nei paesi meno sviluppati, del partenariato del G20 con l’Africa, Compact with Africa.

Parole importanti e belle. Anche qui i tempi non sono propriamente brevi. Nelle prossime settimane verranno avviati i lavori tecnici, che dovrebbero sfociare in un accordo politico tra giugno e ottobre. Buon per loro. Insomma, un New Deal per l’Africa attraverso la creazione di nuove linee di credito. Anche qui staremo a vedere come e quando questi pronunciamenti si tradurranno in fatti concreti.

ReleaseG20: riconvertire il pagamento del debito in investimento

Roma

Insomma, timidi passi in avanti. Anche la rete di ong Link2007 giudica positivamente, almeno vede nelle affermazioni finali un passo in avanti per l’Africa. Il presidente della rete di ong, Roberto Ridolfi, spiega a “InfoAfrica”, che ci sono diversi punti da evidenziare: «Il primo è che al vertice non hanno partecipato tutti i paesi africani e non hanno partecipato tutti i paesi del G20, una partecipazione significativa, ma non massiccia». Per Ridolfi ci sono stati alcuni messaggi importanti, come quello sui diritti speciali di prelievo, che, tuttavia, «non bastano. Parliamo di 33 miliardi per tutta l’Africa su un totale sollecitato di 650». E poi c’è la questione che riguarda la vulnerabilità dei paesi africani. «Questa richiede un’attitudine diversa delle banche di sviluppo, più propensa al rischio. Le banche di sviluppo devono essere capaci di prenderlo questo rischio». C’è poi la sospensione dei pagamenti dei debiti: «Non è sufficiente, noi di Link2007 lo abbiamo detto più volte ed è ciò che portiamo avanti con la nostra proposta ReleaseG20, che il gruppo di lavoro e sviluppo del G20 mi sembra stia prendendo in considerazione: cancellare laddove possibile ma in larga parte riconvertire il pagamento del debito in un’azione di investimento verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile», una sorta di recovery fund per i paesi fragili. «Si menziona poi un’alleanza con il settore privato, che va alimentata e per questo torno sul fondo di riconversione del debito – conclude Ridolfi – che può essere costituito a livello nazionale e diventare un fondo Sdgs (Sustainable development goals founds, un meccanismo di cooperazione internazionale a favore dello sviluppo sostenibile) per alimentare e proteggere gli investimenti privati».

Durante il vertice francese la parola sostenibilità non è stata mai menzionata.

Parigi, Africa

Al vertice di Parigi non hanno partecipato tutti i paesi africani e nemmeno tutti quelli del G20, ma quelli che contano sì: dalla Cina all’Arabia Saudita, dagli Stati Uniti agli Emirati, dal Giappone al Portogallo, dalla Germania all’Italia e altre ex potenze coloniali. Per quando riguarda l’Africa i paesi strategici c’erano tutti: dal Sudafrica all’Angola, dal Congo alla Costa d’Avorio, dall’Egitto al Kenya, dalla Nigeria al Ruanda.

Situazioni ufficiali, parate e discorsi…

… In coda per ricevere il vaccino…

 

 

 

 

 

 

 

 

… o per ricevere aiuti alimentari…

Un minivertice, dunque, con il quale Parigi intende riaffermare e sviluppare la sua presenza nel Continente, nonché la sua influenza.

All’Africa, tuttavia, non servono parole. E non ha bisogno nemmeno che diventi terreno fertile per un’altra guerra diplomatica tra potenze occidentali. Servono fatti e subito. In cinque parole: l’Africa-ha-bisogno-di-giustizia.

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La crisi iraniana ai tempi del coronavirus https://ogzero.org/la-crisi-iraniana-ai-tempi-del-coronavirus/ Tue, 28 Jul 2020 17:50:16 +0000 http://ogzero.org/?p=417 I dispacci del ministero della sanità iraniano non lasciano dubbi: in Iran il coronavirus ha ripreso a correre. I contagi sono in costante aumento e il numero totale dei decessi ufficialmente attribuiti al Covid-19 ha superato ormai le 17000 persone. L’allarme era scattato alla fine di giugno, con una media di oltre cento morti al […]

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I dispacci del ministero della sanità iraniano non lasciano dubbi: in Iran il coronavirus ha ripreso a correre. I contagi sono in costante aumento e il numero totale dei decessi ufficialmente attribuiti al Covid-19 ha superato ormai le 17000 persone. L’allarme era scattato alla fine di giugno, con una media di oltre cento morti al giorno; un mese dopo, il 27 luglio il portavoce del ministero della sanità ha avvertito che la media ormai supera i 200 decessi quotidiani. L’epidemia di Covid-19 così è tornata di prepotenza sulle prime pagine della stampa iraniana, da cui era pressoché scomparsa, con titoli allarmati: Il coronavirus uccide un iraniano ogni 12 minuti. Alcuni parlano di «seconda ondata», altri di «una nuova, pericolosa fase del coronavirus in Iran», e invitano a «prendere il coronavirus sul serio».

I messaggi di allarme sono alternati però a tentativi di rassicurare. Il 25 giugno il presidente Hassan Rohani aveva annunciato che l’uso della mascherina in pubblico sarebbe stato reso obbligatorio, ma aveva aggiunto che non sarebbe stato necessario chiudere gli esercizi commerciali – se tutti avessero mostrato senso di responsabilità e rispettato le norme del “distanziamento”. Alla fine di luglio, di fronte al contagio che continua ad aumentare, il viceministro della Sanità Iraj Harirchi ha osservato che è Tehran la «fonte di diffusione» del coronavirus nel resto del paese, visto che ogni giorno centinaia di migliaia di persone raggiungono l’area metropolitana per lavoro o altro. Un moltiplicatore di contagi sono «usanze e tradizioni locali» come feste e celebrazioni religiose: Harischi cita il caso di 120 persone infettate dopo aver partecipato alla stessa festa di matrimonio. Ha però aggiunto che il 95 per cento dei contagiati guarisce senza bisogno di particolari cure.

Sta di fatto che a metà giugno il ministero della sanità ha dichiarato “zona rossa” cinque province (Bushehr, Khuzestan, Est Azarbaijan, Kermanshah e Hormozgan, nel sud-ovest, ovest e nord del paese) e poi via via altre: ora sono 12, sul totale di 31.

Se basteranno le mascherine e gli appelli al distanziamento, resta da vedere. Intanto, la ripresa dell’epidemia pone un dilemma ai dirigenti della Repubblica Islamica dell’Iran, restìi ad ammettere che le restrizioni imposte in marzo sono state probabilmente tolte troppo presto.

All’inizio di marzo l’Iran era emerso tra i maggiori punti caldi della pandemia del coronavirus Sars-CoV-2 fuori dalla Cina (prima di essere superato dall’Italia). Colta di sorpresa, Tehran aveva dapprima cercato di minimizzare: il primo decesso ufficialmente attribuito al Covid-19 risale al 19 febbraio, ma solo il 5 marzo il governo iraniano ha dichiarato la “mobilitazione nazionale” per contenere l’epidemia. I media internazionali ne hanno riferito soprattutto per accusare le autorità iraniane di lentezza e avanzare dubbi sul conteggio ufficiale dei decessi, che molti in Iran e fuori considerano sottostimati. In effetti una analisi del Centro studi del Parlamento iraniano in aprile suggerisce che il numero reale dei decessi dovuti a Covid-19 sarebbe quasi il doppio di quello dichiarato dal ministero della sanità.

In ogni caso alla vigilia di Nowrooz, il capodanno persiano che quest’anno cadeva il 20 marzo, il governo ha imposto una chiusura generalizzata, benché non totale: chiuse scuole e università, sospese le preghiere del venerdì, annullate tutte le manifestazioni culturali e festival di ogni tipo, limitate le attività commerciali, scoraggiati (benché non vietati) gli spostamenti interni.

Poi però, a partire dall’11 di aprile il blocco è stato gradualmente revocato, nonostante il parere contrario di molti esperti di sanità pubblica: prima le attività “a basso rischio” poi via via tutto il resto (solo eventi culturali, cinema e moschee hanno prolungato la chiusura per tutto maggio).

Il punto è che l’epidemia ha colpito l’Iran in un momento difficile, tra crescenti tensioni internazionali e con un’economia già colpita dalla recessione e dalle sanzioni imposte dagli americani. E con un quadro politico interno decisamente spostato a favore delle fazioni conservatrici, opposte al presidente Rohani e alla sua linea di dialogo internazionale e moderazione interna: sono queste che dominano la nuova legislatura insediata formalmente il 27 maggio.

Per ironia, le elezioni parlamentari tenute il 21 febbraio sarebbero proprio uno dei motivi per cui il governo non aveva voluto dichiarare l’emergenza per il coronavirus né isolare il primo focolaio, registrato allora nella città di Qom, sede delle scuole teologiche molto presenti nella politica interna: temeva di scoraggiare la partecipazione al voto. Infatti era previsione unanime che l’affluenza alle urne sarebbe stata bassa, dopo mesi di crisi: la repressione delle proteste di novembre, l’escalation della tensione con gli Stati Uniti e l’uccisione del generale Soleimani, lo sconcertante episodio dell’aereo ucraino abbattuto per errore. Per non parlare dell’esclusione di gran parte dei candidati “riformisti”. E infatti la nuova legislatura, dominata dagli ultraconservatori, è stata eletta con il voto meno partecipato nella storia della Repubblica Islamica: appena il 42 per cento di affluenza, e solo il 25 per cento a Tehran (le precedenti elezioni parlamentari avevano visto votare il 61 per cento degli elettori, e per le presidenziali del 2017 alle urne si era recato il 73 per cento degli aventi diritto).

Perché l’Iran è uscito dal “lockdown”

Rimettere in moto l’economia era “una necessità” per il paese,  ha argomentato il presidente Rohani in un discorso del 22 aprile: l’Iran non poteva permettersi di prolungare il blocco.

Per capire perché il presidente Rohani abbia preso una decisione così rischiosa sul piano sanitario bisogna ricordare che già prima dell’epidemia, l’Iran era in recessione profonda. Il Prodotto interno lordo aveva registrato una crescita negativa del 7 per cento nell’anno fiscale concluso il 20 marzo (secondo il Fondo monetario internazionale la decrescita sarebbe più profonda, meno 9,5). L’inflazione aveva raggiunto il 41 per cento secondo la stima della Banca centrale iraniana, un livello che non si vedeva dalla fine della disastrosa presidenza di Ahmadi Nejad.

Tutto questo è in buona parte conseguenza della nuova ondata di sanzioni decretata dagli Stati uniti a partire dal maggio 2018, quando il presidente Donald Trump ha deciso di ritirarsi dall’accordo sul nucleare (il Joint Comprehensive Plan of Action, o Jcpoa) firmato nel 2015 dall’Iran e da sei potenze mondiali (Usa, Russia, Cina, e da Francia, Regno unito e Germania in rappresentanza dell’Unione europea). Tre anni dopo le grandi speranze aperte da quell’accordo, per l’Iran è cominciata una nuova stagione di isolamento economico.

Le sanzioni decretate da Washington infatti sono particolarmente pesanti, benché unilaterali, sia perché gli Usa bloccano l’accesso dell’Iran al circuito bancario internazionale, sia perché con il meccanismo delle sanzioni secondarie colpiscono anche i soggetti di paesi terzi che mantengono relazioni economiche con Tehran. I paesi europei firmatari del Jcpoa hanno più volte proclamato la volontà di mantenere aperti canali commerciali con l’Iran; a questo dovrebbe servire uno strumento finanziario chiamato Instex, lungamente discusso e varato infine nel gennaio del 2019: ma senza grandi conseguenze pratiche;  la prima e per ora unica transazione di merci con questo meccanismo è avvenuta nel marzo del 2020.

La prima conseguenza che le esportazioni iraniane sono crollate e le importazioni sono diventate più care. In particolare è crollato l’export di petrolio, specialmente preso di mira da quella che la Casa Bianca  definisce “strategia della massima pressione”.

L’effetto è stato drastico. Nel giugno 2018, quando gli Stati uniti si sono ritirati dall’accordo nucleare, l’Iran esportava 2,7 milioni di barili di greggio al giorno (bpd, barrel-per-day); nel settembre di quell’anno (ancora prima che le nuove sanzioni entrassero in vigore) era già sceso a 1,9 milioni. Da allora ha continuato a scendere: un milione di bpd nell’aprile del 2019, una media di 260000 bpd nell’ottobre 2019. Il ricavato netto è sceso di conseguenza, da un picco di 67 miliardi di dollari nel 2018 a circa 20 miliardi di dollari nei primi sei mesi del 2019 (secondo la Aie, Agenzia internazionale per l’energia). In altre parole, le sanzioni costano all’Iran miliardi di dollari di mancato reddito. Ed è a questo punto che arriva il coronavirus.

La pandemia sotto sanzioni

L’Iran è l’unico paese al mondo che stia combattendo una pandemia sotto sanzioni. Il paese ha un servizio sanitario tra i migliori della regione mediorientale, con una rete di strutture decentrata e personale medico e paramedico di ottimo livello, tra cui molti specializzati all’estero (anche se ha un numero di posti letto per abitante appena sufficiente in tempi normali). Ma sconta una cronica carenza di attrezzature e farmaci, proprio a causa delle sanzioni applicate dagli Stati Uniti. Il materiale sanitario in teoria non è coperto da embargo, ma di fatto anche importare attrezzature mediche o ospedaliere è quasi impossibile perché l’esclusione delle banche iraniane dal sistema bancario globale blocca i normali canali di pagamento. Il 27 febbraio il governo svizzero ha ufficialmente varato un meccanismo finanziario per permettere l’acquisto da parte iraniana di medicinali, cibo e forniture “umanitarie”. Ma due mesi dopo la prima transazione “pilota”, una vendita di materiale medico per 2,5 milioni di dollari, non si è visto più nulla: segno che la “massima pressione” esercitata da Washington continua a dissuadere molte aziende dal vendere all’Iran materiale medico peraltro perfettamente legale.

Il confinamento intanto ha aggravato la recessione, com’era inevitabile. Ha colpito in primo luogo il commercio, perché gli acquisti che precedono il Nowrooz contano per circa metà del fatturato annuo dei negozianti e di molte imprese di beni di consumo. Poi l’industria turistica: ristoranti, agenzie viaggi e hotel sono rimasti semivuoti durante le vacanze più importanti dell’anno; il giro d’affari del settore è crollato di oltre il 90 per cento, secondo le prime stime.

Un bilancio più approfondito resta da fare. L’economia iraniana è molto più diversificata di molti altri paesi grandi produttori di idrocarburi, e le sanzioni hanno accelerato l’emancipazione dell’Iran dal petrolio. Il settore manifatturiero rappresenta già da tempo l’ossatura dell’economia nazionale, con una struttura di piccole e medie imprese che producono sia per un mercato interno di 80 milioni di persone, sia per l’esportazione – in particolare nella regione circostante (dall’Iraq alla Turchia, agli Emirati arabi, alle repubbliche dell’Asia centrale). Anzi: è proprio questo settore – dalle automobili alla meccanica all’agroalimentare – che ha permesso all’economia iraniana di resistere alla “massima pressione” esercitata dalle sanzioni Usa. L’anno scorso l’export di prodotti non-oil ha fatto 41 miliardi di dollari superando per la prima volta il reddito petrolifero. E mentre il settore petrolifero si è contratto del 35 per cento nell’anno appena trascorso a causa delle sanzioni, il manifatturiero si è contratto appena dell’1,8 per cento.

Se questo lascia sperare per una futura ripresa, il punto è che l’epidemia di Covid-19 ha effetti disastrosi nell’immediato.

Secondo alcune stime il prodotto interno iraniano sarà diminuito del 15 per cento a causa del blocco delle attività durante il confinamento. Il valore della valuta iraniana, il Rial, è crollato negli ultimi due anni e ha avuto un ulteriore crollo alla fine di giugno: sotto la duplice spinta delle aspettative nere e di manovre speculative.  Di sicuro sono andati in fumo molti posti di lavoro. Anche qui sono stime preliminari: la  stampa iraniana cita la Mezzaluna rossa iraniana secondo cui due milioni di lavoratori alla giornata hanno perso ogni reddito. Prima del coronavirus circa 3 milioni di iraniani figuravano disoccupati (ma secondo alcune stime erano di più); l’11 aprile un portavoce del governo aveva detto che un lockdown prolungato avrebbe aggiunto altri 4 milioni di disoccupati. In termini di impoverimento e aumento delle diseguaglianze, il futuro è fosco.

L’allarme degli economisti

In una lettera indirizzata al presidente Hassan Rohani il 3 aprile, una cinquantina di economisti iraniani avvertivano che l’impatto dell’epidemia aggraverà in modo insostenibile la recessione e il declino della produzione interna, con la conseguenza di accrescere la povertà e il disagio sociale, approfondire il deficit di bilancio dello stato, far lievitare l’inflazione. Dicevano che l’Iran rischia nuove proteste e disordini nelle periferie urbane a basso reddito – magari alla fine di quest’anno o nei primi mesi del prossimo.

Una prospettiva tutt’altro che remota, per chi ricordi l’ondata di rabbia innescata dall’aumento del prezzo della benzina nel novembre scorso. Allora la repressione fu così brutale da suscitare sconcerto nel paese e spingere il Majlis (il parlamento) a istituire una commissione d’inchiesta. Alla fine di maggio proprio il deputato che presiede quella commissione ha dichiarato che 230 manifestanti sono stati uccisi durante i disordini: la prima ammissione, benché semiufficiale.

Nella loro lettera, gli economisti propongono diverse misure per attutire il crollo dell’economia, a cominciare da una serie di sussidi ai cittadini e alle imprese.

In parte, è proprio ciò che il presidente Rohani ha fatto. Il 16 marzo il suo governo ha annunciato misure come un “bonus” una tantum per i cittadini già percipienti dei programmi di welfare statale; piccoli prestiti senza interesse ripagabili in trent’anni a piccoli negozianti e venditori ambulanti; sussidi e inserimento al lavoro per le madri sole. È stato annunciato anche un aumento del 50 per cento del salario degli impiegati pubblici di basso livello, che rientrano senza dubbio tra le fasce più povere della società.

Questi però sono piccoli interventi. Il governo ha anche sospeso per tre mesi l’esazione delle imposte per le aziende in difficoltà. E ha promesso di stanziare l’equivalente di 6,25 milioni di dollari per garantire prestiti a tasso agevolato (ripagabili in tre anni al tasso del 12 per cento, mentre le banche praticano normalmente tassi del 20 per cento): molti hanno obiettato che doveva offrire almeno prestiti a interesse zero.

In termini di “stimolo” per rilanciare l’economia è ben poco, se si pensa alle migliaia di miliardi mobilitati in Europa. Il fatto è che il governo ha serie difficoltà a offrire assistenza finanziaria  agli imprenditori iraniani, per il semplice motivo che le entrate dello stato si sono ridotte in modo drammatico proprio in questi mesi di crisi sanitaria. La domanda mondiale di petrolio è crollata in seguito alla pandemia, facendo scendere il prezzo, e questo ha colpito le già declinanti esportazioni iraniane. Anche le entrate fiscali sono crollate, con tante aziende costrette a chiudere o in crisi.

Questo ha spinto il governo Rohani prima a chiedere (e ottenere) il permesso del parlamento a prelevare un miliardo di euro dal Fondo nazionale per lo sviluppo, una riserva speciale dello stato. Poi a chiedere di attingere al fondo speciale del Fondo monetario internazionale (Fmi) per la lotta al Covid-19, con un prestito di 5 miliardi di dollari: la prima volta che l’Iran chiede un prestito al  Fmi dalla Rivoluzione del 1979. Un gesto “politico” dunque, con cui Rohani si è guadagnato forti critiche interne dall’opposizione conservatrice. Ma comunque vano: è assai improbabile che il prestito sia concesso, tanto più che Washington ha una posizione preminente nel Consiglio d’Amministrazione del Fmi e blocca la domanda iraniana.

Il governo si è poi rivolto all’interno, proponendo dei titoli di stato (una sorta di “coronavirus bond”) per attingere al risparmio degli iraniani – e magari alle grandi fortune che un certo numero di super-ricchi nazionali tiene ben al sicuro all’estero: con quanta fortuna si vedrà.

C’è però da considerare un altro aspetto della risposta pubblica alla crisi sanitaria. Anche in Iran l’epidemia ha mobilitato a vari livelli la società civile, suscitando un diffuso movimento di solidarietà esemplificata da casi di “crowdfunding” per finanziare servizi medici, o la Campagna chiamata Nafas, “respiro”: una coalizione di organizzazioni umanitarie non governative, imprese e camere di commercio, che ha cercato di facilitare l’importazione di beni necessari (protezioni mediche, per esempio), arrivando ad allestire una clinica specializzata in pazienti Covid (ne accenna qui l’analista Bijan Khajehpour).

Notizie come questa fanno pensare alla capacità di resistenza degli iraniani: abituati a vivere tra crisi e sanzioni, faranno fronte anche all’epidemia.

Il 27 luglio il portavoce del ministero della Sanità iraniano ha annunciato che in media 200 persone al giorno sono morte di Covid-19 nelle ultime due settimane; il numero totale dei decessi attribuiti ufficialmente alla pandemia ora supera i 16000. Le provincie sottoposte a restrizioni per motivi sanitari sono salite a 12 (su 31). Secondo il viceministro della Sanità Iraj Harirchi però è Tehran la “fonte di diffusione” del coronavirus nel resto del paese, visto che centinaia di migliaia di persone vi si recano ogni giorno per lavoro o altro. Il dato positivo e che il 95 per cento delle persone infettate guarisce senza bisogno di particolari cure.

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