Consiglio di Sicurezza Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/consiglio-di-sicurezza/ geopolitica etc Sun, 21 Jul 2024 13:13:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 n. 3 – Due Corti internazionali a confronto: il conflitto israelo-palestinese https://ogzero.org/corti-internazionali-a-confronto-il-conflitto-israelo-palestinese/ Sun, 23 Jun 2024 12:42:06 +0000 https://ogzero.org/?p=12735 Prosegue l’analisi di Fabiana Triburgo con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questo saggio in particolare si concentra sulla Corte internazionali di giustizia e sulla Corte penale internazionale, due entità autonome e che seguono tipi diversi di istruttorie e possono emanare provvedimenti differenti. Vediamo il caso del conflitto israelo-palestinese. L’immobilismo […]

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Prosegue l’analisi di Fabiana Triburgo con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questo saggio in particolare si concentra sulla Corte internazionali di giustizia e sulla Corte penale internazionale, due entità autonome e che seguono tipi diversi di istruttorie e possono emanare provvedimenti differenti. Vediamo il caso del conflitto israelo-palestinese.


L’immobilismo del processo decisionale determinatosi per diversi mesi all’interno del Consiglio di Sicurezza, in ragione del diritto di veto, relativamente all’ipotesi di una tregua o del passaggio degli aiuti umanitari nel conflitto israelo-palestinese è stato scosso dalla forza propulsiva delle risultanze giurisdizionali legate a due corti internazionali in particolare la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale, più nello specifico l’ufficio del procuratore generale (Office of the Prosecutor, cosiddetto OTP), entrambe aventi sede all’Aja nei Paesi Bassi.

Ruoli e funzioni

Questo attivismo così precipuo nei provvedimenti emanati da entrambi nel 2024 – a seguito di due diversi tipi di istruttoria – consentono di delineare meglio le funzioni e i ruoli dell’una e dell’altra Corte nell’alveo delle dinamiche internazionali, pur essendo doveroso anticipare fin da subito che – in considerazione della base volontaristica che caratterizza l’adesione degli stati al diritto internazionale – spesso i provvedimenti delle medesime, pur essendo vincolanti secondo le norme del diritto internazionale, non producono conseguenze giuridiche effettive nei confronti dei soggetti verso i quali vengono emanate ma assumono piuttosto una valenza di natura politica. Ad ogni modo nel corso degli anni – si rammenta che la data di costituzione della Corte di giustizia internazionale è il 1945 mentre la Corte penale internazionale è stata istituita nel 1998 oltre 50 anni dopo – si sono potenziati meccanismi legati alle consuetudini internazionali e alla cooperazione degli stati aderenti ai trattati, per ovviare, sia pure parzialmente, alla mancanza di efficacia sul piano della realtà delle decisioni di tali Corti così diverse tra loro da poter operare contemporaneamente rispetto alla medesima situazione internazionale come sta avvenendo nel conflitto scoppiato da oltre otto mesi nella striscia di Gaza.

Rispetto al confitto israelo-palestinese, più precisamente per gli eventi avvenuti in seguito all’attacco di Hamas il 7 ottobre 2023, la Corte di giustizia internazionale è stata adita mediante ricorso d’urgenza presentato dal Sudafrica nel quale si dichiarava che la guerra condotta dall’esercito israeliano nella striscia di Gaza fosse qualificabile come un atto di genocidio contro il popolo palestinese e che quindi Israele avesse violato la Convenzione sul genocidio del 1948. A tal proposito, come vedremo più avanti nel dettaglio, la Corte di giustizia internazionale si è pronunciata con l’applicazione di misure cautelari nei confronti dello Stato di Israele. Rispetto ai medesimi avvenimenti, l’azione di impulso della Corte penale internazionale è invece avvenuta motu proprio da parte del procuratore generale presso la corte Karimi Khan, secondo una delle ipotesi previste dallo Statuto di Roma del 1998 ed entrato in vigore il primo luglio 2002. Il procuratore, svolgendo attività di indagine nello Stato di Israele e in Cisgiordania, ha concluso emettendo un mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti di tre esponenti di Hamas ossia Yahya Sinwar, capo del movimento di resistenza islamica Hamas nella Striscia di Gaza, Mohammed Diab Ibrahim al-Masri, comandante in capo all’ala militare di Hamas, ossia delle cosiddette Brigate Al-Qassam e Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico di Hamas, ma nello stesso tempo nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu e del ministro israeliano della Difesa attualmente in carica, Yoav Gallant.

Due Corti, due teste

La diversità della tipologia e delle conseguenze dei provvedimenti adottati dalla Corte di giustizia internazionale e dal procuratore generale presso la Corte penale è dovuta alle differenze ontologiche dei due organismi internazionali e delle loro diverse funzioni. La Corte internazionale di giustizia infatti è il principale organo giurisdizionale delle Nazioni Unite e il suo statuto è parte integrante della Carta delle Nazioni Unite. Essa ha come scopo principale – oltre alla funzione consultiva esercitata a favore dell’Assemblea Generale, del Consiglio di Sicurezza e delle Agenzie delle Nazioni Unite – quello di risolvere le controversie tra gli stati applicando il diritto internazionale o “secondo equità”, qualora le parti ossia gli stati lo richiedano espressamente. Si rammenta che i 17 giudici che la compongono, ognuno di diversa nazionalità in carica per 9 anni e rieleggibili nominati dall’Assemblea Generale e dal Consiglio di Sicurezza, non sono rappresentanti delle posizioni politiche dei diversi stati dei quali sono cittadini e le decisioni vengono assunte con la maggioranza dei voti dei giudici presenti. Premesso ciò, rispetto al ricorso d’urgenza presentato dal Sudafrica contro Israele, la Corte di giustizia con Ordinanza 192 del 26 gennaio 2024 non ha chiaramente deciso nel merito degli accadimenti verificatisi dal 7 ottobre 2023 – decisione che potrebbe richiedere anni per la sua emanazione – ma ha emesso misure cautelari nei confronti dello Stato di Israele chiedendogli al contempo di fare tutto il possibile per prevenire atti genocidari nella striscia di Gaza e di consentire l’accesso agli aiuti umanitari.

L’ipotesi di genocidio: la Corte di giustizia definisce le vittime

Se con tale decisione la Corte di giustizia internazionale non ha dato seguito alla richiesta del Sudafrica di interrompere i combattimenti, imponendo il cessate il fuoco, ha tuttavia implicitamente riconosciuto, decidendo per l’applicazione delle misure cautelari, il cosiddetto fumus boni iuris – ovverossia l’ipotesi di genocidio – rispetto alle azioni compiute da Israele, avendo oltretutto sostenuto che i palestinesi sembrano costituire «gruppo nazionale etnico razziale o religioso» richiamando in tal modo proprio l’esatta dizione mediante la quale, nell’art. 2 della Convenzione sul genocidio del 1948, vengono individuati i destinatari di tale delitto. La Corte di giustizia infatti può adottare in base all’art. 41 del suo statuto nei confronti di uno stato provvedimenti cautelari qualora ritenga che vi sia: il rischio di un pregiudizio irreparabile rispetto ai diritti oggetto del procedimento giurisdizionale, nell’ipotesi in cui la violazione di questi diritti potrebbe comportare conseguenze irreparabili o ancora nei casi di urgenza, ossia qualora ricorra un rischio reale e imminente che sia arrecato un pregiudizio irreparabile a tali diritti prima della decisione definitiva della Corte.

Nello specifico la Corte internazionale di giustizia ha emesso alcune misure cautelari nei confronti di Israele. In primo luogo, la Corte ha ordinato a Israele che il suo esercito non violi la Convenzione sul genocidio – ratificata sia dal Sudafrica che da Israele – evitando l’uccisione dei civili palestinesi nonché di causare loro danni fisici e morali; la Corte ha poi statuito che Israele dovrà punire i cittadini israeliani che pongono in essere atti vietati ai sensi della Convenzione sul genocidio, consentire l’ingresso degli aiuti umanitari sulla striscia di Gaza senza alcuna limitazione, impedire la distruzione di prove utilizzabili nel corso del giudizio di merito sul genocidio e dovrà anche presentarsi davanti alla medesima dopo un mese per dimostrare che tutte le succitate misure cautelari siano state effettivamente adottate.

Vale la pena dunque soffermarsi sul delitto che secondo il Sudafrica sarebbe stato compiuto da Israele nei confronti del popolo palestinese ossia il genocidio che può essere realizzato sia in tempo di guerra che in tempo di pace.

Come già detto la commissione di condotte riconducibili al succitato crimine sono vietate da una specifica Convenzione del 1948 non solo ai fini della repressione ma anche della prevenzione di atti di natura genocidaria. Inoltre, il genocidio come ogni reato è composto sia dall’elemento cosiddetto oggettivo, ossia gli atti compiuti materialmente dagli autori del reato, che dall’elemento soggettivo – in questo caso dolo specifico – ossia la condizione mentale dei medesimi autori del reato atta a sorreggere quei comportamenti vietati dall’ordinamento internazionale. Integrano a tal fine atti di genocidio nei confronti delle vittime di tale delitto le seguenti condotte: le uccisioni, le gravi lesioni dell’integrità fisica e di quella mentale, la sottoposizione a condizioni di vita insostenibili, l’impedimento alle nascite e il trasferimento forzato dei minori. Va altresì precisato che anche i comportamenti definibili quali complicità, concorso, istigazione o incitamento pubblico alla commissione di condotte genocidarie sono punibili ai sensi della Convenzione. Per quanto riguarda invece l’elemento soggettivo del reato è necessario (ai sensi della Convenzione) che l’autore / gli autori – in questo caso lo stato o gli stati – abbiano posto in essere gli atti genocidari «al fine di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale etnico, razziale o religioso», gruppo che, come già anticipato in precedenza, può essere agevolmente considerato quello del popolo palestinese presente sulla Striscia di Gaza con circa oltre 2 milioni di abitanti.

Corti internazionali

Il riconoscimento di un singolo stato può minare i provvedimenti

Tuttavia, se da una parte è vero che tutti gli stati facenti parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite sono obbligati a conformarsi al contenuto dei provvedimenti emessi dalla Corte di giustizia, dall’altra ciò che è fondamentale sottolineare è che tale assunto è comunque subordinato al fatto che il singolo stato, facente parte della controversia dinanzi alla Corte, abbia accettato la giurisdizione della medesima mentre Israele non l’ha fatto, così come d’altronde gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. Questa posizione mina evidentemente la reale efficacia giuridica di un provvedimento della Corte di giustizia verso Israele o verso qualsiasi altro stato che non abbia accettato la sua giurisdizione tenuto conto che – come vedremo anche per la Corte penale internazionale – non vi è un organo in seno alle Nazioni Unite che sia in grado di far applicare i provvedimenti delle Corti internazionali in modo coercitivo. Ciò si ricollega indirettamente anche alla consuetudine internazionale delle missioni di peacekeeping ed è strettamente collegato al fatto che le disposizioni di cui agli artt. 43 e seguenti della Carta delle Nazioni Unite che prevedono un organo di “polizia internazionale” non hanno mai trovato applicazione. Secondo gli artt. 43, 44, 45, gli stati membri avrebbero dovuto stipulare con il Consiglio di Sicurezza il numero, il grado di preparazione e la dislocazione delle forze armate da impiegare nell’alveo di tale organo di polizia internazionale mediante vari contingenti nazionali facenti capo a un Comitato di Stato Maggiore, sottoposto all’autorità del Consiglio di Sicurezza.

Quali differenze tra le Corti internazionali?

Prima di soffermarci sul contenuto del mandato di arresto emesso dal procuratore generale presso la Corte penale internazionale il 20 maggio 2024 occorre specificare le differenze di tale Corte – oltre a quelle temporali relative all’anno della sua istituzione mediante lo Statuto di Roma del 1998 – rispetto alla Corte di giustizia internazionale.

“Sterminio di Gaza: violazione di norme di consuetudine internazionale”.

La Corte penale internazionale non è infatti un organo giurisdizionale delle Nazioni Unite e non persegue gli stati per le violazioni delle norme di diritto internazionale bensì i singoli individui per alcune fattispecie di reati rilevanti ai sensi del diritto penale internazionale, più nello specifico il genocidio, i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e i crimini contro la pace e di aggressione.

Tale distinzione comporta delle conseguenze non trascurabili in quanto come visto

la Corte di giustizia internazionale ha invece come destinatari gli stati che, in quanto enti collettivi qualificabili come persone giuridiche, non possono – qualora vengano condannati per violazione delle norme internazionali – commettere crimini penalmente sanzionabili e quindi le pene a essi comminate, mediante i provvedimenti giurisdizionali, non potranno mai essere quelle previste comunemente negli ordinamenti penali ma avranno tutt’altro tipo di contenuto

come per esempio l’embargo o la rottura dei rapporti diplomatici con gli altri stati delle Nazioni Unite. D’altro canto, va altresì precisato che la competenza giurisdizionale della Corte penale internazionale – così come definita dagli artt. 17 e 18 dello Statuto di Roma – è sussidiaria o meglio complementare rispetto a quella degli stati.

Essa quindi sussiste solo nell’ipotesi in cui gli stati non vogliano o non possano punire le quattro fattispecie dei crimini internazionali di cui sopra e può essere attivata solo mediante le tre modalità previste dallo Statuto di Roma, ossia su iniziativa spontanea del procuratore generale presso la Corte penale, come nel conflitto israelo-palestinese, o mediante richiesta di uno degli stati membri della Corte (a oggi sono 123) oppure ancora su richiesta del Consiglio di sicurezza ma solo riguardo questioni che attengano alla violazione o alla minaccia della pace o ipotesi di aggressione che il Consiglio di sicurezza ritenga non siano di propria competenza. Inoltre, è necessario precisare che l’art. 12 dello Statuto di Roma stabilisce che la Corte penale internazionale – come si è visto per la Corte internazionale di giustizia – è competente soltanto nell’ipotesi in cui la sua giurisdizione sia riconosciuta dallo stato interessato dai suoi provvedimenti.

Tale disposizione di legge nel caso del conflitto israelo-palestinese è particolarmente rilevante perché, se da un lato Israele – così come gli Stati Uniti e la Russia – è tra gli stati firmatari, ma non ha ratificato lo Statuto di Roma per cui formalmente non ha riconosciuto la giurisdizione della Corte, nel caso della Palestina non si può giungere alla stessa conclusione. Infatti, già nel 2015 la Palestina ha richiesto di essere riconosciuta stato parte della Corte penale internazionale in conseguenza degli accadimenti avvenuti a opera di Israele nel giugno del 2014. Non è insolito infatti che gli stati che non percepiscano alcuna tutela da un organo giurisdizionale interno per condotte penalmente rilevanti – come diversi stati africani – sperino di ottenerla mediante l’adesione alla Corte penale internazionale.

Nel 2021 dunque a fronte di tale richiesta la Camera preliminare ha deciso che la Palestina debba essere riconosciuta a tutti gli effetti uno stato ai fini della giurisdizione della Corte penale internazionale e che essa è pienamente esercitabile rispetto ai territori occupati da Israele nel 1967 ossia la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est.

corti internazionali

146 stati (e lo Stato Città del Vaticano) appartenenti all’Onu su 193 riconoscono lo Stato di Palestina.

Nel mandato di arresto del 20 maggio del 2024 il procuratore generale presso la Corte penale internazionale – in seguito alle attività di indagine svolte – ha ritenuto che sia i tre esponenti di Hamas sopraccitati che il primo ministro israeliano Netanyahu e il ministro della Difesa dello Stato di Israele sono responsabili della commissione di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità, ragione per la quale, ancor prima di analizzare il contenuto del provvedimento del procuratore occorre chiarire quali siano le fattispecie che vanno a integrare i suddetti crimini, perseguibili penalmente a livello internazionale.

Cosa sono i crimini di guerra?

Con crimini di guerra si fa riferimento alla violazione di quell’insieme di norme che disciplinano le condotte di quanti combattono nel corso delle ostilità. Tuttavia se è vero che non ogni violazione del cosiddetto Diritto bellico integri necessariamente un crimine internazionale, d’altro canto è vero che anche durante i conflitti armati debbano essere rispettate delle regole minime di civiltà non solo nei confronti della popolazione civile dello stato contro il quale si combatte ma anche rispetto ai prigionieri “dell’esercito nemico” che, non essendo più nella condizione di combattere, devono essere comunque rispettati nella loro condizione di esseri umani da cui discende come corollario il divieto assoluto di essere destinatari di qualsiasi forma ulteriore di violenza bellica, in esito alla loro cattura. Chiarito dunque quali sono i destinatari dei crimini di guerra occorre aggiungere che – così come per il genocidio – anche per i crimini di guerra è presente un complesso di norme internazionali scritte – più specificamente le quattro Convenzioni internazionali di Ginevra del 1949 – che indicano le fattispecie qualificabili come crimini di guerra. Come stabilito da tutte le quattro le Convenzioni di Ginevra del 1949 – trattandosi anche in questo caso di un reato – costituiscono l’elemento oggettivo del suddetto crimine le condotte di omicidio, di stupro, di tortura, la presa di ostaggi, la violazione della dignità personale e i trattamenti inumani e degradanti, ma solo se compiuti nel corso di un conflitto armato o comunque compiuti in ragione dello stesso ovverossia essi devono essere qualificabili come una forma di partecipazione al conflitto. Per quanto attiene all’elemento soggettivo del reato invece in questo caso non è richiesto il dolo specifico come nel caso del genocidio ma l’intenzione di reggere la condotta così come sopra delineata dal punto di vista fattuale.

Si ricorda inoltre che i crimini di guerra sanzionabili secondo le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 erano soltanto quelli internazionali, ossia tra due o più stati, mentre con lo Statuto di Roma del 1998 si sono fatti rientrare nel novero di tali crimini anche quelli compiuti nei conflitti civili ossia tra fazioni diverse ma appartenenti al medesimo stato.

Non un’unica definizione

Più nello specifico con riferimento alla competenza della Corte penale internazionale i crimini di guerra vengono definiti dall’art. 8 dello Statuto di Roma. Diversa analisi è quella che deve essere dedicata alla nozione dei crimini contro l’umanità disciplinati invece dall’art 7 dello statuto della Corte penale internazionale – ma rispetto ai quali non c’è una Convenzione internazionale di riferimento. I crimini contro l’umanità sono una tipologia di crimini che vennero delineati, dal punto di vista storico, mediante l’attività del Tribunale di Norimberga nel corso dell’accertamento dei crimini del regime nazista nel periodo antecedente la Seconda guerra mondiale nei confronti dei cittadini tedeschi come destinatari di condotte criminose, i quali – non essendoci un conflitto in corso – non potevano rientrare chiaramente nel novero dei prigionieri o dei civili dello stato nemico come nel caso dei crimini di guerra.

Ci troviamo sempre, ad ogni modo, dinanzi a reati di rilievo internazionale per cui come è stato individuato per altri crimini penalmente sanzionabili, occorre comprendere l’elemento oggettivo del reato ossia la condotta del “reo” e il suo elemento soggettivo.

Quando il contesto conta

Per quanto attiene al primo aspetto va preliminarmente chiarito – anche in funzione della comprensione del contenuto del mandato di arresto internazionale del procuratore Karimi Khan – che le condotte riconducibili a crimini contro l’umanità possono essere compiute tanto in tempo di guerra quanto in tempo di pace. Esse sono l’omicidio, la tortura, lo stupro, la violenza, la riduzione in schiavitù, e altri atti penalmente rilevanti ma considerati leciti dall’esecutivo al potere in un dato momento storico. Tuttavia, tali condotte vengono qualificate come crimini contro l’umanità solo se compiute nel corso di un attacco sistemico e massiccio, ragione per la quale non possono essere configurati crimini contro l’umanità atti isolati bensì soltanto gli atti che rispondono a una puntuale politica di governo, tollerata dalle autorità nazionali. Inoltre, per quanto riguarda l’elemento soggettivo del reato, anche nel caso dei crimini contro l’umanità ricorre la necessità di un dolo specifico – come si è visto per il genocidio – ossia non solo l’intenzione di porre in essere le condotte di cui sopra ma anche la consapevolezza che quanto si sta compiendo costituisca una violazione generalizzata dei diritti umani. Nel mandato di arresto del procuratore generale più nello specifico si ritengono responsabili – mediante diversi capi di accusa – gli esponenti di Hamas Yahya Sinwar, Mohammed Ibrahim al- Masri, e Ismail Haniyeh, tanto della commissione di crimini di guerra che di crimini contro l’umanità.

Corti internazionali

Quali crimini?

Con riferimento ai soli crimini di guerra (in conformità al succitato art. 8 dello Statuto di Roma) vengono annoverati nel mandato di arresto la presa in ostaggio, i trattamenti crudeli e gli oltraggi alla dignità personale perpetrati nel corso della prigionia mentre come crimini contro l’umanità – in base all’art. 7 – vengono indicati lo sterminio, l’omicidio, e altri atti disumani e degradanti anche se nel contesto della prigionia. Ricondotti ad entrambi i crimini invece sono la tortura, lo stupro e gli altri atti di violenza sessuale. Nel mandato di arresto, rispetto a tali fattispecie rilevanti penalmente a livello internazionale, viene specificato che i crimini di guerra sono stati compiuti nel corso di un conflitto armato qualificato al contempo come internazionale e non internazionale tra Israele e Hamas mentre i crimini contro l’umanità nel corso di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile di Israele, compiuto da parte di Hamas e di altri gruppi armati in conformità all’organizzazione del Movimento.

Tale contesto è il medesimo all’interno del quale il procuratore generale Karimi Khan ha ritenuto destinatari del mandato di arresto internazionale anche il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant in quanto responsabili penalmente, come i tre esponenti di Hamas, di crimini di guerra e contro l’umanità.

Più nello specifico vengono ascritti quali crimini di guerra dei due ministri israeliani: la fame dei civili e l’aver arrecato intenzionalmente grandi sofferenze, gravi lesioni al corpo o alla salute o trattamenti crudeli, nonché gli omicidi e di dirigere intenzionalmente gli attacchi contro la popolazione civile. Il primo ministro e il ministro della Difesa israeliano vengono inoltre ritenuti responsabili di aver provocato sterminio e omicidio anche nel contesto di morti per fame, la persecuzione e altri atti disumani e degradanti ossia crimini contro l’umanità. Tuttavia, poiché diverse delle condotte delle quali sono ritenuti responsabili Netanyahu e Gallant come crimini contro l’umanità sono le medesime idonee a integrare dal punto di vista oggettivo il crimine di genocidio non può passare inosservata in tale ricostruzione dei fatti l’affermazione del procuratore generale Khan mediante la quale si specifica che

«Israele ha intenzionalmente privato la popolazione civile in tutte le parti del territorio di Gaza di oggetti indispensabili alla sopravvivenza umana», ossia con dolo quale elemento soggettivo del reato.

L’integrale perfezionamento del crimine di genocidio – già sollevato dinanzi alla Corte di giustizia che ancora, ricordiamo non si è espressa con un provvedimento definitivo in esito a un giudizio nel merito, nel caso del mandato di arresto del procuratore generale presso la Corte penale internazionale difetta nell’accertamento unicamente della specificità del dolo ossia di quella «volontà di distruggere in tutto o in parte» i palestinesi che tuttavia si ricorda sono già stati considerati riconducibili alla nozione di «gruppo nazionale, etnico, razziale e religioso», unici destinatari di tale crimine secondo la Convenzione di Ginevra. Sulla valutazione dell’esistenza del dolo specifico potrebbero certamente pesare le dichiarazioni del ministro della difesa rilasciate il 9 ottobre del 2023.

Si vedrà solo con il passare degli anni se le due Corti addiverranno nel giudizio di merito a un’univoca ricostruzione dei fatti corroborata o meno dall’individuazione dell’integrazione del o dei medesimi crimini internazionali, sperando che l’attesa non sia ancora inondata di sangue versato da innocenti e che se giustizia non vi può essere perché l’efficacia del sistema di giustizia internazionale non è effettiva che quanto meno si dia una risposta politica così inequivocabile da tracciare non più confini ma filamenti di una maglia di integrazione così estesa e fitta da coprire – seppur con vivida memoria – gli orrori del passato e del presente.


In quanto a risposta inequivocabile a un mese circa dalla pubblicazione di questo articolo la Corte  internazionale di Giustizia dell’Aja ha dato un responso su cui le persone di buonsenso e qualsiasi approccio onesto in punta di Diritto internazionale non possono che concordare da 57 anni a questa parte: Israele ha saccheggiato territori non suoi, imposto un regime di apartheid su popolazioni che non dovrebbero dipendere dallo Stato ebraico, ha vessato, torturato, incarcerato, commesso crimini di guerra e perpetrato massacri, anche favorendo epidemie ed esecuzioni sommarie. Deve smantellare ogni colonia e ritirare le truppe di occupazione da Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme, rientrando nei suoi confini riconosciuti: quelli del 1967 antecedenti la Guerra dei sei giorni. Il fatto che 50.000 palestinesi siano stati uccisi nell’indifferenza generale, i feriti siano nell’ordine di centinaia di migliaia, Gaza distrutta, si continui a impedire la consegna di aiuti umanitari, medicinali salvavita, si diffonda scientemente la poliomielite è solo la dimostrazione che il Diritto internazionale è solo quello del più forte. Anche se – e proprio perché – le indicazioni della Corte comportano un obbligo preciso di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro il paese incriminato, questo assunto – che dovrebbe portare alla soluzione definitiva della questione israelo-palestinese e alla fine dell’arroganza di Tel Aviv – è dimostrato come mera utopia dall’ultima sentenza della Corte internazionale di Giustizia che nel 2003 aveva condannato Israele per l’illegalità del Muro di separazione eretto unilateralmente, derubando tra l’altro i bantustan palestinesi dell’accesso all’acqua.

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n. 1 – Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e il conflitto russo-ucraino https://ogzero.org/n-1-il-consiglio-di-sicurezza-dellonu-e-il-conflitto-russo-ucraino/ Sat, 06 May 2023 10:52:27 +0000 https://ogzero.org/?p=10924 Questo saggio di Fabiana Triburgo inaugura una serie di contributi che analizzano con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come il Consiglio di Sicurezza che è l’organo più importante delle Nazioni Unite e che ha potere decisionale in ambito militare e sugli armamenti a livello internazionale, e come le Corti internazionali e quelle regionali; la serie […]

L'articolo n. 1 – Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e il conflitto russo-ucraino proviene da OGzero.

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Questo saggio di Fabiana Triburgo inaugura una serie di contributi che analizzano con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come il Consiglio di Sicurezza che è l’organo più importante delle Nazioni Unite e che ha potere decisionale in ambito militare e sugli armamenti a livello internazionale, e come le Corti internazionali e quelle regionali; la serie continuerà con la descrizione del processo di alcuni stati di l’adesione all’Unione europea (anch’essa un organismo a carattere internazionale e sovranazionale). Sarà interessante vedere nel tempo – se finirà l’attuale follia bellica – che cosa rimarrà dell’Europa e capire quali sono le possibili porte girevoli da cui accedere all’Unione.

Questo primo intervento parte dal conflitto russo-ucraino per spiegare lo scopo della Carta delle Nazioni Unite, la fisionomia del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e le contraddizioni insite nelle normative che ne regolano l’attività, considerando il potere di veto per esempio della Russia quale membro permanente.


“Dove sono le Nazioni Unite?”. La domanda in riferimento alla guerra russo-ucraina che sta assumendo ogni giorno le dinamiche e i tratti salienti di un confitto internazionale, anche se principalmente per procura – sia mediante la fornitura di armi che di truppe di nazionalità diverse da quelle coinvolte direttamente nel conflitto – sembra il quesito maggiormente ricorrente, da oltre un anno, nell’opinione pubblica. La questione è invero l’emblema di quel divario – quasi mai colmato – tra quanto viene percepito dalla popolazione degli stati e quanto si determina attraverso il tecnicismo proprio dei “grandi palazzi del potere”, siano pur essi quelli di un’organizzazione internazionale quale l’Onu che detiene il primato tra quelle maggiormente rappresentative dell’intera comunità internazionale e quindi dei singoli stati che di essa fanno parte. La Carta delle Nazioni Unite, infatti, è un trattato internazionale, ma, dando vita a un complesso di organi preposti al suo interno – tra cui il Consiglio di Sicurezza, l’Assemblea Generale, il Segretariato Generale e la Corte di Giustizia internazionale – è considerata in dottrina anche una Costituzione [B. Conforti e C. Focarelli, Le Nazioni Unite, 12a edizione].

La Storia e la Carta delle Nazioni Unite

L’immobilismo apparente in una svolta risolutiva del conflitto ucraino (ma anche di altri al momento in corso) da parte dell’Onu è dovuto a questioni tutt’altro che ovvie o di facile comprensione tanto che sul tema attualmente sono aperti ampi e contrastanti dibattiti riguardanti la revisione della Carta delle Nazioni Unite, in modo particolare rispetto al funzionamento e alla composizione del suo organo più importante ossia il Consiglio di Sicurezza.

Secondo l’art. 24 della Carta esso è l’organo dell’Onu principalmente demandato al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale – uno degli scopi fondamentali della Carta elencati all’art. 1 –  potere conferitogli dagli stessi stati membri, con la possibilità di agire in loro nome.

È infatti necessario fin da subito sottolineare che lo scenario geopolitico che ha visto l’emanazione della Carta delle Nazioni Unite nel 1945 – nel corso della Conferenza di San Francisco – era completamente diverso rispetto all’attuale assetto internazionale per cui da 50 stati membri iniziali dell’organizzazione si è oggi arrivati a un numero di ben 193 paesi. Ciò è principalmente dovuto alla fine di numerosi colonialismi, alla dissoluzione dell’Unione sovietica e al conflitto dell’ex Jugoslavia, tutti fenomeni che hanno contribuito – pur se in modo molto diverso tra loro – alla formazione di nuove entità statali, dotate di una propria sovranità e indipendenza. Se rispetto alla rappresentanza degli stati, formatisi in seguito al venir meno dei colonialismi, si è data risposta nella Carta con l’emendamento che ha visto negli anni Sessanta l’estensione in seno al Consiglio di Sicurezza del numero dei suoi membri non permanenti, non si è invece ancora risolta la vicenda relativa a un ulteriore aumento della rappresentanza nel Consiglio di Sicurezza degli stati del continente africano e asiatico – che rivendicano il primato dell’indice demografico internazionale – e soprattutto quella concernente l’enorme divario, in termini di poteri esercitati in concreto, tra i membri permanenti del Consiglio – ossia le 5 potenze vincitrici la Seconda guerra mondiale quali Urss, Cina, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna e i membri non permanenti, attualmente 10, rispetto ai 6 iniziali – nominati a rotazione tra tutti i membri delle Nazioni Unite ogni biennio – dopo la succitata modifica dell’art. 23 della Carta nel 1965.

Il diritto di veto

La principale questione quindi da affrontare per comprendere meglio le ragioni del mancato intervento diretto del Consiglio di Sicurezza rispetto al conflitto russo-ucraino, dato il suo ruolo di “custode” della pace e della sicurezza internazionale e considerato che esso dall’inizio del conflitto si è riunito oltre venti volte, è quella del diritto di veto. Esso infatti consiste nel potere, conferito ai cinque membri permanenti del Consiglio, secondo il quale l’espressione del parere contrario di uno soltanto di tali stati è in grado di fermare una proposta di risoluzione presentata in seno a tale organo, addirittura nell’ipotesi in cui non solo siano favorevoli tutti i membri non permanenti ma anche qualora siano comunque favorevoli all’adozione della decisione tutti gli altri quattro membri permanenti. L’unica ipotesi nella quale ciò non avviene è quando il Consiglio si riunisce per deliberare in merito a questioni di carattere procedurale e non sostanziale come per esempio l’inserimento all’ordine del giorno di una determinata questione o nell’ipotesi in cui il Consiglio ritenga necessario convocare l’Assemblea generale – organo plenario in cui sono rappresentati tutti gli stati membri –  in “sessione speciale” (art. 20) – che, come vedremo, è accaduto diverse volte in conseguenza dell’invasione russa dell’Ucraina nel 2022.

È bene ricordare che tale richiesta non veniva avanzata dal Consiglio da circa 40 anni.

Infatti, il periodo emblematico durante il quale l’attività del Consiglio fu quasi del tutto immobilizzata fu quello della Guerra Fredda, per cui spesso – essendo Russia e Stati Uniti entrambi membri permanenti – si verificava il cosiddetto sistema dei “veti incrociati” mediante il quale i paesi del blocco occidentale (Usa, Francia e Gran Bretagna) si contrapponevano all’allora Unione Sovietica o più in generale ai paesi socialisti e viceversa. Vale la pena quindi ricordare che attualmente – considerato l’aumento dei membri non permanenti dopo un ventennio dall’emanazione della Carta – la maggioranza richiesta affinché venga adottata una delibera su aspetti di carattere sostanziale in seno al Consiglio è quella di almeno nove membri, compresi tutti e cinque i membri permanenti. Nel caso invece di una delibera riguardante questioni di carattere procedurale è sufficiente la maggioranza di nove membri, senza la necessità dell’unanimità dei membri permanenti del Consiglio, poiché il diritto di veto in quest’ultima ipotesi non opera. Quindi in primo luogo il Consiglio di Sicurezza dell’Onu – la cui presidenza di turno è stata assunta dal primo aprile 2023 proprio dalla Federazione Russa – non riesce a intervenire con effetti diretti nel conflitto russo-ucraino proprio per il diritto di veto. Al riguardo si rammenta che l’unica proposta di risoluzione del Consiglio di Sicurezza, rispetto al conflitto in questione, ad essere stata adottata – dall’inizio del conflitto – è quella del 6 maggio del 2022.

La minaccia alla pace

La risoluzione è stata approvata all’unanimità da tutti i membri del Consiglio di Sicurezza e quindi con il voto favorevole anche della Russia. Con la succitata risoluzione proposta da Norvegia e Messico si sostengono gli sforzi del Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres a trovare una soluzione pacifica nelle circostanze in questione;

tuttavia rispetto a tale risoluzione la Russia non ha posto il veto in quanto è l’unica risoluzione presentata dinanzi al Consiglio nella quale non vi è alcun riferimento nel testo né alla parola “guerra” né alla parola “invasione”.

L’esercizio del diritto di veto comporta poi anche una serie di conseguenze come per esempio il fatto che la Federazione Russa non possa essere destinataria delle misure coercitive ex art. 41 e  42 della Carta (Capitolo VII) decise appunto dal Consiglio contro determinati stati nell’ipotesi in cui esso stesso rileva sussistere una «minaccia alla pace», una «violazione della pace» o ancora un «atto di aggressione» (art. 39), ossia quelle condotte che potrebbero dirsi integrate con l’invasione armata dell’Ucraina da parte della Federazione Russa. Vale la pena ricordare che quando il Consiglio ha voluto applicare le sanzioni di cui al Capitolo VII ha sempre richiamato la «minaccia alla pace» che può consistere in un conflitto attuato o minacciato in situazioni di violenza bellica o diverse da questa.

Definire l’“aggressione”

Rispetto all’individuazione di queste ultime il Consiglio di sicurezza può trarre indicazioni dalle risoluzioni dell’Assemblea generale e quindi più precisamente dal consenso informale degli stati che viene valutato dal Consiglio caso per caso. Nel corso della storia il Consiglio di Sicurezza ha ritenuto rientranti nel concetto di “minaccia alla pace”: la repressione irachena dei curdi nel 1991, il genocidio e l’uccisione di civili in Ruanda nel 1994, gli attentati terroristici avvenuti a Istanbul nel 2003, quelli di Madrid nel 2004 e quelli di Londra e in Iraq nel 2005, così come le violazioni gravi e sistemiche dei diritti umani e del diritto internazionale nel Kosovo nel 1999. La minaccia alla pace non deve confondersi con la «minaccia o dell’uso della forza» vietate dall’art. 2 par. 4 in modo del tutto generico e indeterminato. Per violazione della pace ex art. 39, invece, si intende un conflitto interno o internazionale già in atto, anche nel caso in cui non sia stato raggiunto il livello più grave di aggressione. Infine, per la definizione di aggressione deve essere richiamata la risoluzione dell’Assemblea generale n. 3314 del 1974 che in tale termine ha annoverato un ampio numero di casi come l’invasione, l’occupazione militare, il bombardamento da parte di forze terrestri o navali, il blocco dei porti e delle coste o l’invio di forze irregolari o di mercenari da parte di uno stato verso l’altro.

È interessante però rilevare che il Consiglio di Sicurezza dal 1945 a oggi non ha mai dichiarato il compimento di un atto di aggressione ex art. 39, ma ha sempre preferito parlare di “violazione della pace” anche nelle ipotesi nelle quali si è verificato un vero e proprio atto di aggressione come nel caso dell’invasione del Kuwait nel 1991. Con il termine “pace” si intende poi in via interpretativa sia l’assenza di conflitti di caratteri interstatali o interni sia l’insieme di circostanze politiche, sociali ed economiche che impediscono l’insorgere di conflitti futuri. Quanto sovraesposto è di particolare rilevanza se si considera che il conflitto russo-ucraino sembrerebbe integrare –  con riferimento all’elenco contenuto nella succitata risoluzione n. 3314 del 1974 – un atto di aggressione.

Misure coercitive (prive di uso della forza)

Con riferimento alle misure coercitive di cui sopra, all’art. 41 sono previste quelle non implicanti l’uso della forza – adottate dal Consiglio di Sicurezza mediante decisioni – che tendono per lo più a isolare a livello internazionale un paese che ha posto in essere una condotta rilevante ai sensi dell’art. 39. Tra le misure di cui all’art. 41 si annoverano, infatti, l’interdizione parziale e totale delle relazioni economiche, l’interdizione delle comunicazioni come per esempio quelle ferroviarie, postali e marittime e la rottura delle relazioni diplomatiche. Si ricorda che tali misure, come quelle implicanti l’uso della forza nei confronti degli stati – di cui al successivo art. 42 – devono essere rispettate non solo dal paese che ne è diretto destinatario ma anche dagli altri stati membri delle Nazioni Unite ai sensi dell’art. 25.

L’uso della forza

Le misure implicanti l’uso della forza ex art. 42, invece, vengono decise mediante delibere operative del Consiglio di Sicurezza che mantiene anche la direzione di tali provvedimenti quando vengono attuati in concreto. Tuttavia, va fin da ora precisato che il sistema di sicurezza collettivo internazionale che si sarebbe dovuto basare sull’affidamento da parte degli stati dell’impiego della forza armata al Consiglio di Sicurezza, ossia a un organismo imparziale – per tutte le questioni riguardanti la pace e la sicurezza internazionale – ha subìto un vero e persistente fallimento. Basti pensare che le disposizioni di cui agli artt. 43 e seguenti – che tra i vari obblighi prevedono quello per gli stati membri di stipulare accordi con il Consiglio di Sicurezza per concordare il numero di uomini, il grado e la dislocazione di contingenti che ciascun paese deve mettere a disposizione dell’organo – sono rimasti “lettera morta” poiché non è stato mai creato un corpo militare univoco composto dai vari contingenti nazionali dei Paesi membri che facesse capo al Consiglio di Sicurezza. È per tale ragione infatti che sono nate e si sono consolidate le missioni di peace-keeping e le autorizzazioni all’uso della forza da parte del Consiglio agli stati membri: entrambe le ipotesi non sono previste da alcun articolo della Carta ma create da consuetudini integrative della medesima. Qualora non vi fosse il diritto di veto, dunque, le misure coercitive previste dall’art. 42, ossia misure implicanti l’uso della forza, adottate dal Consiglio mediante risoluzioni, potrebbero essere applicate in linea di principio – come anche quelle ex art. 41 – nei confronti della Federazione Russa. Infatti, con riferimento alla minaccia alla pace – intesa come violenza bellica – l’unica ipotesi nella quale le misure coercitive di cui sopra non possono essere applicate è quando uno stato agisce per legittima difesa individuale o collettiva ex art. 51.

Tuttavia, perché tale limite all’applicazione delle misure coercitive operi è necessario che l’attacco armato da parte di un altro stato sia già sferrato o in procinto di colpire un obiettivo. Per tale ragione è escluso l’impiego della forza per fini meramente preventivi.

Non è infatti un caso che nel discorso divulgato nella notte tra il 23 e il 24 febbraio del 2022 il presidente del Cremlino Putin dichiari primariamente: «non c’è stata lasciata altra scelta che difendere la Russia e il nostro popolo se non quella che stiamo oggi per compiere. In queste circostanze dobbiamo immediatamente e con coraggio entrare in azione» e dichiara che in tale contesto si stia agendo «in conformità con l’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite». In realtà il presidente russo quando richiama la necessità di difendere la Russia e il suo popolo fa riferimento indirettamente all’espansione della Nato verso est ossia sempre più in prossimità al territorio della Federazione Russa, circostanza questa che delinea il proprio intervento armato come squisitamente preventivo.

Legittima difesa?

È noto tuttavia che non sia questa l’unica circostanza nella storia nella quale uno stato membro abbia richiamato esplicitamente la legittima difesa per giustificare un uso della forza militare in chiave preventiva. Si ricordi tra tutti il caso della sentenza emanata dalla Corte di Giustizia delle Nazioni Unite del 1986 contro gli Stati Uniti per le operazioni militari in Nicaragua, affermando che queste eccedessero notevolmente la legittima difesa. Più recentemente non sono chiaramente ascrivibili all’esercizio del diritto di difesa degli stati di cui all’art. 51: la guerra contro l’Afghanistan nel 2001, il bombardamento della Libia nel 1986, la guerra contro l’Iraq nel 2003 e il bombardamento della Nato (organismo regionale i cui rapporti con il Consiglio di Sicurezza – come vedremo – sono disciplinati nel Capo VIII) contro la Repubblica dell’ex Jugoslavia durante la crisi del Kosovo nel 1999. Tuttavia, il Capo del Cremlino nella parte iniziale del suo discorso – evidentemente orchestrato ad hoc – fa un riferimento indiretto anche a quella parte dell’art. 51 che consente non solo la difesa da parte dello stato attaccato (autotutela individuale) ma anche quello operato da stati diversi da quello attaccato (autotutela collettiva) purché con il consenso di quest’ultimo. Tale richiamo a questa ulteriore parte dell’art. 51 viene esplicitata nella frase in cui il presidente della Federazione Russa sostiene che «Le Repubbliche popolari del Donbass hanno chiesto l’aiuto della Russia». Le Repubbliche popolari del Donbass, però, non hanno i caratteri propri degli stati nazionali, dotati di una propria sovranità e indipendenza, facendo essi parte a pieno titolo del territorio dell’Ucraina. Al riguardo è importante richiamare la risoluzione presentata a settembre del 2022 dagli Stati Uniti e dall’Albania in seno al Consiglio di Sicurezza di condanna dei referendum voluti dal Cremlino per l’annessione delle aree ad est dell’Ucraina in particolare delle repubbliche Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia, Kherson. La risoluzione ovviamente non è stata adottata proprio in ragione del veto della Russia e rispetto a essa si sono registrati 10 voti a favore ma 4 astenuti ossia Cina, India, Brasile e Gabon che hanno dichiarato di non voler inasprire ulteriormente la tensione internazionale.

Le risoluzioni pacifiche

Per completezza si ricorda che il Consiglio di Sicurezza sempre ex Capo VII e quindi in caso di minaccia o violazione della pace o aggressione (ex art. 39) può anche adottare «congiuntamente o alternativamente» alle misure coercitive, raccomandazioni non vincolanti con le quali indica agli stati interessati procedure e termini di regolamento quali: i negoziati, la mediazione, l’arbitrato e la conciliazione per la risoluzione delle controversie tra gli stati membri. Vale la pena ricordare che tali raccomandazioni ex art. 39 del Capo VII sono simili a quelle che il Consiglio emana ex Capo VI concernente la funzione conciliativa dell’organo, volta a una risoluzione pacifica di questioni o controversie che siano in grado di «mettere in pericolo il mantenimento della pace e la sicurezza internazionale» (artt. 33, 36, 37) e che quindi non integrano chiaramente le minacce o le violazioni della pace o gli atti di aggressione di cui all’art. 39. Nelle ipotesi del Capo VI infatti, il Consiglio ha il potere di adottare – dato in questo caso l’obiettivo della risoluzione pacifica – raccomandazioni sempre prive di forza vincolante rivolte agli stati interessati. Tuttavia, se il Consiglio di Sicurezza nell’adottare le misure previste dal Capo VII – ivi comprese le stesse  raccomandazioni – agisce come “protagonista” a livello decisionale contro determinati stati e anche tutti gli altri – diversi da quelli destinatari delle misure – sono obbligati a collaborare perché queste siano efficaci, nel Capo VI sono soltanto gli stati membri destinatari delle raccomandazioni i veri, protagonisti, in quanto hanno l’esclusiva possibilità di tramutare la forza propulsiva di tali atti del Consiglio in azioni che possano considerarsi in concreto risolutive rispetto alla controversia o alla situazione in questione.

Tale distinzione tra le due funzioni del Consiglio – coercitiva e conciliativa – è rilevante in particolar modo con riferimento all’obbligo di astensione dal voto di uno stato previsto dall’art. 27 par. 3. Esso opera infatti soltanto nei confronti di uno stato membro del Consiglio di Sicurezza parte di una controversia relativa a decisioni di cui al Capo VI e non anche nel caso delle decisioni concernenti le misure coercitive del Consiglio di Sicurezza. Inoltre, l’apposizione del veto – comportando l’impossibilità di comminare per la Russia misure coercitive – determina come conseguenza anche quella di non poter essere destinataria di una sospensione dallo status di paese membro delle Nazioni Unite in quanto all’art. 5 della Carta è stabilito che «lo stato membro verso il quale il Consiglio abbia intrapreso un’azione punitiva o coercitiva può essere sospeso dall’esercizio di tutti i diritti e privilegi in seno all’Organizzazione con un’apposita delibera dell’Assemblea generale su proposta del Consiglio di Sicurezza».

Nel caso della Russia quindi non sarebbe possibile la sospensione, oltre per l’inapplicabilità delle misure coercitive, anche per il fatto che la stessa dovrebbe appunto essere proposta dal Consiglio di Sicurezza e la Russia quindi potrebbe apporre di nuovo il veto.

L’eccezione

A ogni modo l’unico caso in cui una Nazione sia stata sospesa come membro delle Nazioni Unite è quello del Sudafrica in ragione dell’Apartheid dal 1974 al 1994 ma fu una sospensione “anomala”, in quanto intervenne direttamente ed esclusivamente da una decisione dell’Assemblea generale senza la proposta del Consiglio di Sicurezza prevista dall’art. 5.  Rispetto all’espulsione di uno stato membro, prevista dal successivo articolo 6, nell’ipotesi in cui uno stato violi persistentemente la Carta, rileva la stessa preclusione in quanto la procedura prevista anche in questo caso prevede come presupposto della delibera dell’Assemblea Generale la richiesta del Consiglio di Sicurezza. Vi è da dire inoltre che tale norma dall’emanazione della Carta non ha mai trovato applicazione nei confronti di uno stato membro delle Nazioni Unite. Date le succitate preclusioni si è riaperto quindi il dibattito – in realtà mai sopito e iniziato nel 1990 – sulla possibilità della revisione della Carta delle Nazioni Unite prevista dall’art. 109.

Essa differisce dal semplice emendamento della Carta, di cui all’art. 108 – mediante il quale nel 1965 è stato aumentato il numero dei membri non permanenti – perché configura modifiche che incidono sensibilmente sulle caratteristiche dell’Organizzazione. Tuttavia, la procedura prevista dagli articoli 108 e 109 della Carta, anche se differente, in entrambi i casi non può essere portata a termine se non con il consenso di tutti e cinque i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.

Quindi per risolvere le questioni analizzate si dovrebbe ipotizzare una revisione della Carta che restringesse l’ambito operativo del diritto di veto dei membri permanenti – come quella proposta in passato dalla Francia – secondo la quale il diritto di veto dovrebbe essere limitato in presenza di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e crimini relativi alla violazione dei diritti umani.

Con onestà è lecito affermare che risulta molto difficile che i membri permanenti – senza l’unanime consenso dei quali non vi può essere né revisione né emendamento della Carta – rinuncino ai privilegi derivanti dal diritto di veto a loro riservato. Tale eventualità si considera quasi impossibile poi data l’attuale posizione della Russia nel pieno di un conflitto internazionale e quella delle Nazioni del “blocco occidentale del Consiglio di Sicurezza” che sostengono l’Ucraina. Tutto ciò premesso rimane quindi soltanto la possibilità di monitorare costantemente i lavori dell’Assemblea generale, sia per il fatto che essa stessa è stata convocata, in conseguenza della paralisi derivante dal diritto di veto, in sessione speciale dal Consiglio più volte (considerata anche la risoluzione dell’Assemblea generale n. 377 del 1950 che verrà analizzata in seguito) sia perché resta pur sempre l’Organo nel quale sono rappresentati tutti i paesi facenti parte dell’Onu, anche se in ambito del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale può emanare solo raccomandazioni verso gli stati, verso il Consiglio di Sicurezza o verso entrambi, prive di forza vincolante.

Ne consegue infatti che dalle raccomandazioni dell’Assemblea generale si riesce a desumere in quale direzione vada la posizione dei singoli stati membri rispetto a un conflitto che, essendo ancora così lungo e foriero di continue esacerbazioni, può vedere il cambiamento radicale della loro posizione rispetto a quest’ultimo considerato che – come vedremo in seguito, analizzando le decisioni dell’Assemblea generale sul tema – al momento non si intravede ancora l’unanime condanna della comunità internazionale dell’invasione del territorio ucraino da parte della Russia.

L'articolo n. 1 – Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e il conflitto russo-ucraino proviene da OGzero.

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