Cisgiordania Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/cisgiordania/ geopolitica etc Sat, 29 Oct 2022 23:24:46 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Palestina costruire l’apartheid https://ogzero.org/studium/palestina-costruire-lapartheid/ Fri, 06 May 2022 14:19:25 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7340 L'articolo Palestina costruire l’apartheid proviene da OGzero.

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Palestina – Costruire il Bantustan

Testo di Piero Grippa, mappe di Luigi Giroldo

Muro di separazione, muro di protezione, muro della vergogna, muro dell’apartheid. Molte espressioni vengono usate per descrivere la separazione della Cisgiordania dalle colonie e dal territorio israeliani. E dietro ogni definizione potremmo trovare un’interpretazione, un senso dato all’esistenza di quello che è in definitiva uno strumento di oppressione.

Oltre 700 chilometri per separare, segnare una distinzione netta tra un noi e un loro, ma anche per separare città, villaggi e comunità più o meno grandi le une dalle altre, e ognuna dalle proprie risorse idriche e agricole. Checkpoint, torrette, filo spinato e otto metri di cemento per proteggere quel noi dagli attacchi di quel loro, un confine militarizzato la cui necessità di protezione nasce con la sua stessa costruzione, in quello che potrebbe sembrare un paradosso politico, ma che rappresenta uno dei concetti chiave nella sostanza delle relazioni internazionali dalla guerra fredda in giù. Una piattaforma di resistenza, per chi subisce le umanamente umilianti conseguenze dell’esistenza del muro, e vuole gridare quella vergogna al mondo facendone arte. Uno degli strumenti per un’esperienza politica, sociale ed economica ben precisa, che in altri contesti e periodi si è chiamata apartheid, che decide al momento i confini entro i quali si svilupperanno le opportunità di tutta la vita.

Una sostanza ben più eloquente della forma in cui viene presentata si può individuare anche nella differenza tra il tracciato della Linea Verde – sul quale la barriera sarebbe dovuta sorgere – e l’effettivo tracciato del muro, che, prima di tutto, è ben più lungo di quella linea tracciata sulla carta. La sostanza del muro è il sistema di colonizzazione e isolamento di cui fa parte, insieme alle migliaia di chilometri di strade che collegano esclusivamente città e insediamenti israeliani, scavalcando (e in alcuni casi accerchiando) quelli palestinesi. La sostanza del muro è anche il modo in cui viene tagliato l’accesso alle risorse: è facile creare zone cuscinetto tra un muro di cemento e un confine disegnato sulla carta, così come farci rientrare terreni agricoli da utilizzare come ulteriore forma di controllo. Sono infatti numerosi i checkpoint e le porte destinati all’accesso alle zone agricole, che gli agricoltori palestinesi sono costretti ad attraversare (nei predeterminati periodi di apertura, naturalmente), vedendosi quindi dettare dall’esterno modalità e tempistiche di lavoro.

Molti significati possono quindi essere attribuiti all’esistenza e all’utilizzo del muro della Cisgiordania, non semplicemente (come se questo non fosse già abbastanza per innescare un dissenso) un confine artificiale, ma uno strumento ben integrato in un sistema coloniale e di oppressione attivo e in continua evoluzione, in interdipendenza con la rete infrastrutturale e la gestione degli insediamenti. L’esistenza dell’elemento muro deve quindi essere parte dell’interpretazione globale della questione palestinese, e, in conseguenza, delle possibili soluzioni. Un sistema in cui la separazione di un territorio abitato da un popolo si interseca con l’occupazione di quello stesso territorio (non impedendo per altro, ma militarizzando, la comunicazione con l’esterno) rende certamente più complicato pensare a una soluzione basata sul rafforzamento in forma statale del territorio, che sia in termini di autonomie o di totale indipendenza. Oltre 700 chilometri di cemento per 8 metri di altezza con centinaia di checkpoint rendono evidente che un sistema socio-politico in cui all’idea di apartheid si somma un controllo militarizzato è semplicemente un sistema coloniale, e, storicamente, prima della costruzione statale viene la decolonizzazione.

Una decolonizzazione che deve passare attraverso l’abbattimento di quel muro, per un libero accesso alle risorse e allo sfruttamento dei terreni agricoli; e anche l’appropriazione a livello simbolico che possiamo leggere nell’utilizzo del muro come base per la realizzazione di grandi opere (da parte non solo di chi ne è direttamente oppresso, ma anche di grandi nomi dell’arte internazionale) potrebbe essere uno dei passi verso la sua distruzione.

La Tana dei Leoni

E l’orgoglio palestinese non ha mai smesso di opporsi all’aggressione sionista, cercando di dissolvere quel muro che sta soffocando solo uno dei due popoli. Nelle ultime settimane in Cisgiordania e a Gerusalemme Est ha cominciato a crescere un movimento che i militari israeliani non possono contenere con il solito metodo stragista applicato a Gaza – essendosi costruiti un nemico jihadista e militare con Hamas –, e nemmeno cooptando attraverso accordi capestro un’autorità svuotata come l’Anp. Infatti La Tana dei Leoni è un movimento dal basso, costituito da giovani, senza leader riconosciuti, che si contrappongono con i loro corpi alle provocazioni costanti dei coloni (che il governo non può e non vuole contenere), le esecuzioni quotidiane di palestinesi, gli sfratti arbitrari, il regime di apartheid e marginalizzazione, di cui il muro è strumento e simbolo. Proponiamo a corredo del testo di Piero Grippa queste testimonianze giunteci da una compagna transitata a fine ottobre 2022 in Cisgiordania e a Gerusalemme con un gruppo di osservatori delle condizioni di vita in quei territori occupati, a cui si aggiunge la voce di Bassan, nativo di Nablus, ora facente parte di quella diaspora non mai silenziata.

“Testimonianze dal sopruso sionista: il genuino incendio attizzato dalla Tana dei Leoni”.

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]]> Barriere https://ogzero.org/studium/barriere-e-ostacoli-impediscono-il-libero-movimento-delle-persone/ Tue, 03 May 2022 15:50:06 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7240 L'articolo Barriere proviene da OGzero.

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Ostacolato movimento

In un mondo che vive di relazioni impostate sul confine, abbiamo la necessità di parlare di come il confine stesso si evolve, e come viene vissuto da chi lo rafforza, da chi lo combatte, da chi lo rende fluido, da chi se ne appropria facendone una parte di sé.

Abbiamo la necessità di raccontare che, mentre l’interconnessione globale permette di portare i confini della propria comunità di appartenenza come parte del bagaglio di viaggio, con i migranti che in tutto il mondo possono continuare a vivere attivamente più luoghi (se non fisici, sicuramente culturali e politici), assistiamo ancora alla tendenza a rafforzare, militarizzare e brutalizzare linee di demarcazione che dovrebbero e potrebbero essere ogni giorno meno visibili.

Abbiamo la necessità di raccontare le barriere e i muri che impediscono fisicamente il movimento, la migrazione, l’accesso alle risorse e la sostenibilità sociale.

Abbiamo scelto di raccontare il muro della vergogna di Lima, barriera tutta interna a una città e a un paese in cui la sperequazione sociale ed economica bolla, spesso incondizionatamente, la vita di migliaia e milioni di persone. Abbiamo scelto di raccontare le barriere tra Botswana e Zimbabwe, caso non isolato nella regione, che bloccano il movimento di animali e persone migranti, in controtendenza con l’integrazione di territori naturali da proteggere per il bene di tutti e tutte. Abbiamo scelto di raccontare il muro della Cisgiordania, da anni strumento di separazione e colonizzazione nei confronti di un popolo che si vede limitare l’accesso alle risorse naturali.

Abbiamo scelto di raccontare i muri e le barriere del mondo, per sostenere le pratiche e le esperienze reali che seguono processi sociali, economici e storici opposti a quelli che vedono e vogliono l’esistenza di quei muri.

(Testi di Piero Grippa, mappe di Luigi Giroldo)

25%

Avanzamento

Lima – Muro della vergogna

43 distretti, 10 milioni di abitanti, e un muro di 10 chilometri che se ci sbatti il muso non ti permette più – se mai ci fossi riuscito – di far finta di non vederlo, quel confine evidente in tutta la metropoli. Lima, il miraggio di una vita più serena, la grande città dove trovare lavoro e costruirsi un’esistenza per qualcuno impossibile da immaginare nei villaggi di provincia. La provincia, prima invasa e saccheggiata dagli imperi europei, oggi stritolata da compagnie minerarie. In mezzo, il periodo En la boca del lobo – come recita uno dei film più importanti prodotti in Perù nel 1988 per la regia di Francisco Lombardi – tra le minacce dei guerriglieri terroristi di Sendero Luminoso e della repressione governativa che non guardava in faccia a nessuno.


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Botswana-Zimbabwe: l’uomo e l’ambiente

Due storie diverse, separate da una linea – una tra le tante che segnano le mappe del continente – che arbitrariamente attraversa territori comuni agli allevatori e, soprattutto, al bestiame. E sono proprio gli animali – il bestiame da reddito destinato alle esportazioni, così come la fauna che popola gli ambienti naturali – che sembrano essere al centro di questa vicenda: per raccontare la gestione delle zone di confine tra Botswana e Zimbabwe (ma anche, ampliando lo sguardo, Namibia, Zambia e Sudafrica) non si possono non tenere in conto le relazioni tra bestiame allevato e selvatico, e tra uomo e ambiente, insieme alle dinamiche migratorie prettamente umane. Parliamo infatti di una regione caratterizzata dalla presenza (e dall’ampliamento) di parchi naturali e zone protette transfrontaliere, tra cui quella dell’Okavango-Zambesi. Ampie zone, quindi, in cui la protezione delle specie animali selvatiche da un lato, e dei bovini allevati per l’esportazione dall’altro, rappresenta evidentemente una priorità politica.


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Palestina – Mauer macht frei

Oltre 700 chilometri per separare, segnare una distinzione netta tra un noi e un loro, ma anche per separare città, villaggi e comunità più o meno grandi le une dalle altre, e ognuna dalle proprie risorse idriche e agricole. Checkpoint, torrette, filo spinato e otto metri di cemento per proteggere quel noi dagli attacchi di quel loro, un confine militarizzato la cui necessità di protezione nasce con la sua stessa costruzione, in quello che potrebbe sembrare un paradosso politico, ma che rappresenta uno dei concetti chiave nella sostanza delle relazioni internazionali dalla guerra fredda in giù.


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]]> Terre (r)esistenti https://ogzero.org/studium/terre-resistenti/ Sun, 07 Feb 2021 16:18:16 +0000 http://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=2340 L'articolo Terre (r)esistenti proviene da OGzero.

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Terre (r)esistenti

L’ambizione all’autonomia e all’indipendenza del popolo saharawi, di quello curdo e di quello palestinese li accomuna nell’impronta laica e progressista e nella persistenza dell’occupazione da parte di soggetti coloniali emanazione dei vecchi imperi ottocenteschi.
La Francia protegge e collabora con il regno marocchino per approvvigionarsi dei fosfati della regione dei saharawi; Israele occupa i territori della vecchia colonia britannica sottraendo le terre ai palestinesi; i curdi sono passati dall’oppressione ottomana al controllo da parte di quattro potenze locali. Tutte queste sono terre (r)esistenti.
Questi tre popoli hanno adottato nel tempo strategie diverse che contemplano anche la lotta armata, ma parzialmente diversi sono i modelli di convivenza che vorrebbero sviluppare, pur partendo da strutture comunitarie abbastanza assimilabili.
Il confederalismo democratico curdo appare come il più avanzato per superare il concetto di stato-nazione; l’attenzione alla democrazia partecipativa del Polisario si ispira a una sorta di socialismo reale fondato anche sulle rimesse della diaspora; la sovrastruttura oligarchica palestinese è infitta nel gioco dell’occupante al punto da rendere ancora più lontana la soluzione del problema.
In tutti e tre i casi è comunque vivace il confronto su una nuova idea di comunità e in tutti e tre i casi le loro disgrazie discendono da trattati disattesi, vulnus del diritto internazionale, che ha prodotto campi profughi per intere esistenze.

60%

Avanzamento

Saharawi. E da dove arriva questo conflitto

A ridosso del rinnovo della missione Onu Minurso, da sempre bloccata dal veto francese nel suo intento di organizzare il referendum i giovani saharawi avevano cominciato a mobilitarsi per richiedere un cambiamento sfociando a fine novembre in un blocco dell’unica strada che consente il passaggio di merci e uomini tra Maghreb e il Sahel occidentale. È stato l’intervento dell’esercito marocchino che ha imposto la riapertura della via di comunicazione a riaccendere gli scontri armati.

Qualche settimana dopo l’amministrazione Trump usa il contenzioso sul territorio del Sahara occidentale per comprare l’adesione del Marocco agli Abraham Accords e infatti il re Mohammed VI ha riconosciuto Israele, ma questa è un’altra storia che è raccontata dalla serie di documentari di Tullio Togni che trovate qui di seguito.


La ricchezza che impedisce la libertà

Giacimenti di fosfati, uranio, petrolio, e la costa di questa terra tra le più pescose del mondo fanno gola da sempre: la lotta per la libertà di questa terra si è scontrata negli ultimi decenni con i trafficanti di morte (armamenti, cacciatori di risorse…) di paesi europei come l’Italia e la Francia e ora il popolo saharawi si ribella al destino e rifiuta di essere semplice merce di scambio tra le potenze internazionali.


Scongelato un conflitto postcoloniale

Le interviste a El Ajun, Sahara occidentale, a pochi chilometri dal confine con il Marocco costano l’espulsione a Tullio Togni e ai suoi compagni seguiti e fermati dai servizi marocchini. L’attività giornalistica non embedded è un reato gravissimo nel territorio riconosciuto dagli Usa di Trump.
Il dibattito politico è intenso nella democrazia partecipativa della repubblica araba Saharawi, complessa realtà riconosciuta dall’Onu e del tutto simile a una qualunque agglomerazione comunitaria di altre società, locate in territori più ospitali. Qui potete ascoltare interviste a persone che animano queste realtà di servizi gratuiti.

La libertà nelle parole degli anziani che ricordano la loro terra, le loro case e le loro capre: un concetto di ricchezza diverso e perduto per finire sudditi di un regno alieno, perdendo le radici, i sepolcri dei propri cari. Da stabili, autonomi, indipendenti improvvisamente si diventa sottomessi da un invasore che arriva con l’intenzione di commettere un genocidio. E si diventa hijos de las nubes, figli delle nuvole, oppressi.
Gli anni di cessate il fuoco hanno solo congelato una situazione favorevole al Marocco e poi è bastato un presidente suprematista a Washington per far pendere la bilancia in bilico da 28 anni. Ma già prima i giovani saharawi erano spazientiti dalla complicità dell’Onu, e il Fronte Polisario deve seguire le indicazioni del suo popolo, in maggioranza fatto da giovani, colti e preparati, senza prospettive e proiettati verso la piena indipendenza, da conseguire anche con la Guerra, perché un altro proverbio recita: «Non si gioca con la pace».

A partire dall’intervento di Trump che riconosce la sovranità marocchina sul territorio delimitato dal suo stesso muro, costruito da Israele, a cui si aggiunge il dato che vede rapporti commerciali e militari tra il regno alawida e lo stato di apartheid di Tel Aviv, si è ragionato con Tullio Togni riguardo a potenziali comunanze – evidenziando anche le eventuali differenze – tra lotte di autonomia e indipendenza che combattono da più di 40 anni per raggiungere affrancamento da colonialismo e occupazione: saharawi, curdi e palestinesi hanno molti tratti che assimilano le loro vicende.

Rifugiati Saharawi Unhcr


Trump e Biden per la Palestina pari son

Nei suoi anni di mandato presidenziale, Trump ha ascoltato e assecondato tutti i sogni della destra israeliana, ignorando del tutto il diritto internazionale, tagliando gli aiuti all’Autorità nazionale palestinese e all’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati e infine ha affermato, come Israele, che non vanno più considerati tali. Ha proposto il cosiddetto “accordo del secolo”, che ignora praticamente ogni rivendicazione dei palestinesi. Esso prevede per loro uno stato frammentato, su modello dei bantustan sudafricani, ossia la formalizzazione dell’attuale situazione sul terreno, e quindi della colonizzazione israeliana dei territori palestinesi occupati.
Ma la propensione a votare Biden da parte della comunità ebraica americana non significa di per sé un allontanamento da Israele, anche se la spudorata identificazione di Netanyahu con Trump ha alienato almeno in parte le simpatie nei confronti dell’attuale governo israeliano. Nonostante le note differenze tra i due candidati alla Casa Bianca, sulla questione del conflitto israelo-palestinese c’è un sostanziale accordo. Le differenze sono più di metodo che di merito. Su pressione della lobby israeliana, dal programma elettorale del partito democratico è stata tolta la definizione di Israele come “potenza occupante”. Inoltre il candidato democratico ha dichiarato che manterrà l’ambasciata americana a Gerusalemme occupata e appoggerà l’accordo di Abramo promosso da Trump tra Israele e alcuni paesi arabi. Pur affermando di essere a favore della soluzione a due stati (ormai di fatto impraticabile), ha dichiarato che si opporrà in tutti i modi a ogni risoluzione dell’Onu che condanni le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele.



Antiche strade che decidono il destino

Quaranta anni fa la colonizzazione ebraica in Palestina, a macchia di leopardo e apparentemente senza coordinamento, appariva ancora un fenomeno destinato a soccombere presto.

Architetti e strateghi militari, gli stessi pianificatori urbanistici della Gerusalemme moderna dopo la guerra del 1967 e degli insediamenti in Cisgiordania, studiarono a fondo la storia della vasta rete stradale, non soltanto regionale, degli antichi romani, che a loro volta avevano avuto come insegnanti egizi, etruschi, greci. I nuovi conquistatori (all’inizio circondati da paesi nemici) avevano bisogno di vie capaci di consentire uno spostamento rapido di truppe e mezzi militari, spesso da un fronte all’altro. Dal Sinai al Golan o viceversa. Nei territori occupati la rete, oltre a garantire il rapido schieramento di soldati e polizia, ha il compito di facilitare il movimento dei coloni e ridurre al massimo il contatto tra loro e la popolazione palestinese. Le strade, ormai autostrade, sono così diventate strumento di occupazione e di strisciante annessione



Tuareg, i curdi dell’Africa

Il cammino intrapreso dal Pkk (fino ad approdare – nel 1998 – al Confederalismo democratico) era iniziato nei primi anni Novanta (quindi prima della cattura di Öcalan) in coincidenza con la caduta del socialismo reale. Una nuova strategia che rifletteva – tra l’altro – i cambiamenti demografici avvenuti nella società curda. Dei tredici milioni di abitanti di Istanbul, ricorda la giornalista «sei milioni sono curdi» e altri quattro milioni sarebbero i curdi emigrati in Europa. Al punto che ormai, secondo Debbie Bookchin «la maggior parte dei curdi non vive in Kurdistan». Ne consegue pertanto che «la lotta principale non è più nazionale, ma sociale». In qualche modo “più attraente” anche per tutti quei soggetti oppressi e sfruttati, umiliati e offesi che – senza esser curdi – subiscono comunque il tallone di ferro dell’imperialismo e dei vari regimi.
Purtroppo le circostanze sfavorevoli non consentirono un incontro di persona tra Bookchin, già anziano e con problemi di salute, e Öcalan in carcere, spesso sottoposto a lunghi periodi di isolamento. Per cui i loro contatti si limitarono a uno scambio epistolare.
Non abbiamo a che fare soltanto con una o più organizzazioni (Ypg, Jpg, Pkk…), ma anche – soprattutto – con un popolo. Un popolo che – come altre comunità minoritarie o minorizzate (in quanto separate da artificiosi confini statali) presenti in quei territori – rischia periodicamente, se non il vero e proprio genocidio, quantomeno l’etnocidio o l’assimilazione (forzata e non). Non solo quindi i popoli presi in considerazione direttamente in questo studium ma anche le comunità limitrofe subiscono la stessa sorte, in particolare gli azawad stanziali dall’Atlante alla Tripolitania e dal Lago Chad alle dune del Ouagadou.

Il mare di Astana: il Mediterraneo


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]]> Antiche strade che decidono il destino https://ogzero.org/le-vie-del-controllo/ Sun, 17 Jan 2021 12:06:04 +0000 http://ogzero.org/?p=2238 Alto è sicurezza. Alto è potere. Alto domina il paesaggio e come mi illustrava nel 1980 con una nota di orgoglio il portavoce dell’insediamento israeliano tra Gerusalemme e Hebron nella Cisgiordania occupata: «da qui si vede tutto: il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro». Quaranta anni fa la colonizzazione ebraica in Palestina, a […]

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Alto è sicurezza. Alto è potere. Alto domina il paesaggio e come mi illustrava nel 1980 con una nota di orgoglio il portavoce dell’insediamento israeliano tra Gerusalemme e Hebron nella Cisgiordania occupata: «da qui si vede tutto: il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro». Quaranta anni fa la colonizzazione ebraica in Palestina, a macchia di leopardo e apparentemente senza coordinamento, appariva ancora un fenomeno destinato a soccombere presto. L’Egitto di Sadat aveva firmato la pace con Israele e, si diceva, prima o poi la leadership israeliana e quella palestinese avrebbero trovato una via d’uscita dal conflitto. Due popoli si contendevano la stessa terra. Si trattava di mettersi d’accordo soltanto su un compromesso. Ma quale?

Camp David, nel 1978: Begin, Carter e Sadat

Di chi è la terra?

«Là in fondo verso il mare – insisteva il colono (termine che fa pensare a un agricoltore ma nella realtà dei territori occupati è quasi sempre tutt’altra cosa) – ci sono Ashkelon e Ashdod, due nostre antiche città. E poi… si giri. Da quest’altro lato c’è la discesa verso il mar Morto. Vede quel tracciato? È un’antica strada romana». Invece di polemizzare lanciai una provocazione. «Credo di comprendere quello che sente. Sono romano e quella strada l’hanno costruito i miei antenati. Questa terra era nostra…».

Essere ebrei dentro e fuori da Israele

L’archeologia, molto spesso al servizio dell’occupazione, conferma la vasta presenza delle comunità israelitiche nell’antichità relegando in secondo piano o addirittura nascondendo il passato delle altre popolazioni che abitavano questa terra. Quello che Bibbia e Storia non confermano è la pretesa che Israele sia “la patria storica del popolo ebraico”. A respingere questa teoria alla base del sionismo religioso è tornato recentemente uno degli uomini politici israeliani più noti e battaglieri. Avraham Burg, figlio di uno dei fondatori dello stato e del Partito nazional-religioso, ha militato a lungo nel partito laburista, è stato presidente della knesset, il parlamento israeliano, e anche presidente dell’Agenzia Ebraica, l’organizzazione israeliana che sostiene l’ebraicità di Israele e opera in stretto collegamento con le comunità ebraiche in tutto il mondo. «Il patriarca Abramo scoprì Dio al di fuori delle frontiere della Terra d’Israele, le tribù divennero un popolo al di fuori della Terra d’Israele, la Torà fu data fuori dalla Terra d’Israele, e il Talmud di Babilonia, che è molto più importante del Talmud di Gerusalemme, fu scritto fuori della Terra d’Israele. E aggiunge: “Gli ultimi duemila anni, che hanno formato il giudaismo di questa generazione, si svolsero fuori d’Israele. L’attuale popolo ebraico non è nato in Israele”».

Quando la religione costruisce le “vie” dell’occupazione

È una polemica che riguarda il mondo ebraico ma anche chi vuole comprendere origine e strategia della destra israeliana e dei suoi alleati e il furto strisciante delle terre palestinesi. Se una lettura di comodo della religione è – qui come per altri credenti – uno strumento di lotta, pianificazione urbanistica e territoriale sono le armi con le quali va avanti, in modo sistematico, l’occupazione. I vasti quartieri costruiti negli anni immediatamente successivi alla presa di Gerusalemme Est dopo la guerra del 1967 e buona parte degli insediamenti in Cisgiordania sono usciti dalle penne di architetti e strateghi militari. Per loro era essenziale un modello capace di garantire la difesa della nuova popolazione dagli attacchi dall’esterno. Questi stessi pianificatori studiarono a fondo la storia della vasta rete stradale, non soltanto regionale, degli antichi romani, che a loro volta avevano avuto come insegnanti egizi, etruschi, greci. I nuovi conquistatori (all’inizio circondati da paesi nemici) avevano bisogno di vie capaci di consentire uno spostamento rapido di truppe e mezzi militari, spesso da un fronte all’altro. Dal Sinai al Golan o viceversa. Nei territori occupati la rete, oltre a garantire il rapido schieramento di soldati e polizia, ha il compito di facilitare il movimento dei coloni e ridurre al massimo il contatto tra loro e la popolazione palestinese.

Vie di confine e di occupazione (foto di Eric Salerno)

La scuola romana: strategie di colonizzazione

I resti ancora visibili di quella via romana minore indicati dal colono ebraico sul costone dal quale si dominano mare e deserto risalgono ai primi decenni del secondo secolo d.C.. Giulio Cesare, nel 46 a.C. cominciò la presa dell’Africa e la costruzione di intere città lungo la costa meridionale del Mediterraneo. Meno di cento anni dopo la via Nerva, dal nome dell’imperatore che l’aveva ordinata, fu completata da Traiano. Collegava gli insediamenti romani d’Occidente con Alessandria d’Egitto e con la rete viaria che li legava alla Palestina, sul mare, e ai monti e ai deserti all’interno dell’Arabia. Poco meno di duemila anni dopo, i genieri israeliani, hanno seguito gli insegnamenti della scuola romana nel tracciare, a partire dal 1967, la prima grande arteria voluta dal progetto politico dei laburisti per il futuro dei Territori. La Via Allon scorre da Nord a Sud lungo le montagne di Samaria e Giudea. Il suo nome si rifaceva a Yigal Allon, politico e militare israeliano. Il suo scopo era chiaro. Metteva in conto l’eventuale restituzione alla Giordania di parte dei territori occupati salvo Gerusalemme e un vasto corridoio di terra lungo le rive del fiume Giordano per garantire a Israele una minima profondità strategica rispetto ai paesi con cui era formalmente in guerra. Mentre la piattaforma del Likud, il partito di centro di cui oggi Netanyahu è il leader e l’esponente più noto, ha sempre rivendicato per lo stato d’Israele tutto il territorio tra il Mediterraneo e il Giordano, i laburisti apparivano disposti a negoziare anche se ritenevano che per la difesa del paese era necessario annettere almeno una parte, non densamente popolata, della Cisgiordania. Il piano Allon gettò le basi per la situazione attuale in quanto stabiliva la creazione in quel “corridoio” di insediamenti agricoli e residenziali. Dal 1967 al 1977 i governi laburisti, spronati da Shimon Peres – premio Nobel con Rabin e Arafat per gli accordi di Oslo – ne autorizzarono ben ventuno accanto agli avamposti militari, tutti in alto, come Masada. L’antica fortezza che domina il mar Morto e fu scelta, curiosamente, come simbolo della eroica resistenza ebraica antica ai romani: secondo la storia tramandata, i suoi difensori, ribelli contro l’occupazione, si uccisero per non finire in mano ai conquistatori.

La scuola romana: la rete viaria in tempo tra pace e guerra

Israele-Palestina, un pezzo di ciò che i cristiani conoscono come Terra Santa, è intrisa di richiami religiosi e altri legati alle conquiste antiche e meno. In Marco 8:27 si legge: «Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: “Chi dice la gente che io sia?”». La “via” era un antico tracciato romano poche centinaia di chilometri a nord di Masada. Collegava la Galilea con Damasco, il centro amministrativo di Roma, passando dalle alture del Golan, terra siriana che gli israeliani hanno annesso e colonizzato. Coltivazioni, colonie agricole, tanto filo spinato, campi ancora minati e scavi archeologici per dimostrare che gli ebrei abitavano l’altopiano strategico millenni fa. La linea di confine, disegnata da Gran Bretagna e Francia nel 1924, per definire Libano, Israele-Palestina e Siria, segue un tracciato di una delle più importanti arterie della rete stradale romana che tra Mediterraneo e fiume Giordano raggiungeva una lunghezza di mille chilometri. Nel 1983, sottolineando come quella rete fu probabilmente il più importante progetto dell’amministrazione imperiale romana, Israel Roll, uno dei maggiori archeologi israeliani, pubblicò un sommario delle ricerche fatte dagli studiosi a partire dall’Ottocento. «Come per molti imperi – sottolineava – le preoccupazioni maggiori di Roma riguardavano l’amministrazione della provincia nei periodi di calma, e l’organizzazione e trasporto di unità militari alle aree chiave nei momenti di guerra e ribellione». Israele ha imparato la lezione.

“Alto” è potere, sicurezza, controllo

In cima a un’altura sul Golan che si affaccia sulla linea d’armistizio e alcune cittadine siriane, accanto a una postazione della forza di pace dell’Onu e a un bar-ristorante per turisti e pellegrini, gli israeliani hanno piantato un palo con le distanze delle città vicine e più distanti. È là per indicare insieme paura e aggressività anche se, come confermano gli stessi generali israeliani, pochi pensano più a scontri ravvicinati: carri armati e forze di terra sono stati ridotti a favore di droni e missili. E questo, in qualche modo, dovrebbe ridurre anche la giustificazione israeliana per l’occupazione del territorio palestinese come cuscinetto difensivo contro il mondo arabo.

“Alto” è controllo (foto di Eric Salerno)

L’autostrada per l’annessione: il progetto di dominio

Le strade, ormai autostrade, sono così diventate strumento di occupazione e di strisciante annessione della Cisgiordania. Yehuda Shaul, come quasi tutti gli israeliani, ha fatto il servizio militare. È oggi è uno dei leader del movimento per la pace. «Tutti sono convinti che l’annessione della West Bank sia stata congelata con la firma degli accordi di normalizzazione con gli Emirati arabi uniti ma in realtà Israele continua ad accelerare i lavori sull’autostrada per lannessione attraverso lo sviluppo di infrastrutture che consentiranno di raddoppiare il numero dei coloni e di solidificare per sempre il nostro controllo sul popolo palestinese». Pochi giorni dopo la presentazione della sua denuncia, è arrivata da B’Tselem, l’ong ebraica per i diritti umani un’altra denuncia: «Non c’è metro quadrato tra il fiume Giordano e il Mediterraneo in cui un palestinese e un ebreo siano uguali». E per la prima volta l’organizzazione parla apertamente di apartheid. L’accusa è stata subito definita antisemitismo puro. Il nuovo piano urbanistico e stradario per la Cisgiordania occupata, però, sembra confermare l’imposizione e le paure dei pacifisti israeliani. Per almeno due motivi. Da una parte le autostrade in costruzione o già funzionanti creano corridoi e spazi separati per le due popolazioni. Dall’altra, la rete nuova sarà collegata a quella israeliana, sempre più vasta, per consentire un legame diretto tra le comunità all’interno della “linea verde” – i confini finora riconosciuti di Israele –- e quelli dei coloni nei territori occupati.

La conquista dell’Arabia e di quella parte del Vicino Oriente – da Gaza al Libano e nell’interno fino ad Aqaba, sul mar Rosso, e Petra nel deserto della Giordania – non fu formalmente festeggiata da Roma se non dopo il completamento della via Traiana Nova negli anni 120. Soltanto da allora cominciarono ad apparire monete con l’effige di Traiano su un lato, e sull’altro un cammello. Israele non ha ancora completato il suo progetto di dominio su tutto il territorio dal mar Mediterraneo al fiume Giordano.

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