Ciad Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/ciad/ geopolitica etc Sat, 16 Sep 2023 16:50:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Sudan: cinque mesi di inutile sofferenza https://ogzero.org/sudan-cinque-mesi-di-inutile-sofferenza/ Sat, 16 Sep 2023 16:47:40 +0000 https://ogzero.org/?p=11593 Quando il Fmi diventa “modello di solidarietà” significa che la situazione è ormai oltre ogni accettabilità e a nessuno importa di una condizione infernale. Distratti da altre guerre, da altre bombe su mercati, i 46 morti del mercato di May a Khartoum non meritano un trafiletto, laddove invece Angelo Ferrari va oltre l’orrore per uno […]

L'articolo Sudan: cinque mesi di inutile sofferenza proviene da OGzero.

]]>
Quando il Fmi diventa “modello di solidarietà” significa che la situazione è ormai oltre ogni accettabilità e a nessuno importa di una condizione infernale. Distratti da altre guerre, da altre bombe su mercati, i 46 morti del mercato di May a Khartoum non meritano un trafiletto, laddove invece Angelo Ferrari va oltre l’orrore per uno scontro tra Signori della Guerra che produce cadaveri civili ancora una volta trasportati dal Nilo a valle con il poco limo residuo dalle barriere a monte della Gerd il cui riempimento dell’invaso è stato terminato in questi giorni: infatti metà dell’intervento dell’africanista è dedicato al vicino Ciad, già in “cattive acque”, che si sobbarca la fuga dei profughi di guerra.


La tradizionale arroganza di entrambi i militari…

La guerra in Sudan non si ferma. Le sofferenze, numero di morti e sfollati, si moltiplicano in un insensato scontro tra due generali che hanno solo a cuore la conquista del potere. Ma non si vedono, nemmeno, spiragli per una soluzione negoziata. Il generale Abdelfattah al-Burhan, a capo dell’esercito regolare, e le Forze di supporto rapido di Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, non hanno nessuna intenzione di sedersi a un tavolo negoziale per risolvere la crisi. Anzi, negli ultimi giorni i combattimenti si sono intensificati, si sono fatti, se è possibile, ancora più cruenti estendendosi a molte regioni del paese. Entrambi vogliono arrivare alla vittoria “assoluta” in Sudan. Per che cosa? Difendere interessi economici da sempre nelle mani dei militari. Ogni attività, infatti, è governata dall’esercito e dalle milizie armate: dalle banche alle materie prime, in una suddivisione, tra i due uomini forti che, evidentemente, non bastava più a entrambi. I due generali vogliono mettere mano su tutto e non importa se la gente soffre.

… diventa massacro

Il 13 settembre sono trascorsi cinque mesi di guerra e di inutile sofferenza, morte, perdita e distruzione.

L’Alto commissario delle Nazioni Unite, Volker Turk, ha spiegato che non c’è alcuna tregua in vista: «Il mio staff si è recato in Ciad e Etiopia tra giugno e luglio per raccogliere informazioni di prima mano dalle persone fuggite dalle violenze in Sudan. Le loro testimonianze evidenziano le informazioni che il mio ufficio ha ottenuto sulla portata e sulla brutalità di questo conflitto. Abbiamo ascoltato storie di familiari uccisi o violentati. Storie di parenti arrestati senza motivo. Di pile di corpi abbandonati nelle strade. Di una fame disperata e persistente».

Il conflitto, come prevedibile, ha paralizzato l’economia, spingendo milioni di persone sull’orlo della povertà, i servizi essenziali sono sull’orlo del collasso, quasi bloccati, come istruzione e assistenza sanitaria. Più di 7,4 milioni di bambini sono privi di acqua potabile e almeno in 700.000 sono a rischio malnutrizione grave.

Il Ciad nella morsa

Sul fronte dei profughi a subire pesanti conseguenze è soprattutto il Ciad, un paese che è preso a tenaglia a suoi confini, oltre alla crisi sudanese, il colpo di stato in Niger è la chiusura dei corridoi commerciali, sta provocando notevoli problemi di approvvigionamento di materie prime. E la situazione dei profughi che arrivano dal Sudan sta aggravando ulteriormente la situazione. Stando ai dati riportati delle Nazioni Unite, in Ciad sono arrivate 418.000 persone tra rifugiati e ciadiani che hanno deciso di ritornare a case. Circa l’85% dei profughi sudanesi e il 93% delle persone ritornate in patria sono donne e bambine. In questo contesto, la Banca mondiale ha annunciato una tranche di aiuti da 340 milioni di dollari per sostenere N’Djamena nella gestione dell’accoglienza, nonostante le Ong denuncino che solo il 34% degli aiuti richiesti è arrivato per sostenere gli aiuti umanitari.
Anna Bjerde, direttrice generale per le operazioni della Banca mondiale, ha annunciato il pacchetto di sostegni economici da un campo profughi nel Ciad orientale durante una due giorni di visita congiunta con l’Alto commissario per i rifugiati delle Nazioni Unite, Filippo Grandi.

Secondo Bjerde, «la crisi dei rifugiati nell’Est del paese sta aggiungendo ulteriore pressione alla fornitura di servizi sociali e alle risorse naturali. Collaborando con l’Unhcr e altri partner, restiamo impegnati ad aiutare le persone più bisognose e a sostenere la ripresa economica a lungo termine e la resilienza della regione».

Grandi, che a N’Djamena è stato ricevuto da diversi ministri del governo di transizione militare retto dal presidente Mahamat Idriss Déby Itno, si è augurato che «l’esempio della Banca Mondiale ispiri altri attori dello sviluppo a intensificare i loro interventi, poiché il Ciad non può essere lasciato solo ad affrontare questa grave crisi».

Aiutare il Ciad, per la comunità internazionale, dovrebbe essere prioritario. In una regione martoriata da guerre, colpi di stato e cambio di regimi. L’opinione pubblica ciadiana sta già soffrendo ed è in subbuglio. Difficoltà a reperire le materie prime, crisi dei profughi sudanesi, inoltre, potrebbe avere ripercussioni sull’inflazione del paese, già elevata. L’ultimo dato disponibile – riferito ad aprile 2023 – parla di un +12,5%, e di quella alimentare che è arrivata al 18,8% in aumento rispetto al dato precedente, +16%. Le difficolta di approvvigionamento delle merci, dunque, potrebbe pesare ulteriormente sulle entrate dello Stato, ma soprattutto già provata per via di un potere di acquisto che sta progressivamente diminuendo e, quindi, esacerbare ulteriormente gli animi di una società civile che non vede di buon occhio l’attuale regime “ereditato” dopo la morte di Deby padre, dal figlio.

.

 

L'articolo Sudan: cinque mesi di inutile sofferenza proviene da OGzero.

]]>
Il Sahelistan dall’Atlantico al Mar Rosso https://ogzero.org/il-sahelistan-dallatlantico-al-mar-rosso/ Mon, 21 Aug 2023 20:51:37 +0000 https://ogzero.org/?p=11453 La rapida fuga dei francesi cacciati dalla Françafrique, con i doverosi distinguo, richiama alla mente – soprattutto per la rapidità del dissolvimento di un potere coloniale – la precipitosa fuga americana da Kabul. La regione immediatamente subsahariana – che molto è intrecciata con i movimenti irredentisti del Maghreb, esplosi con la crisi libica (scatenata da […]

L'articolo Il Sahelistan dall’Atlantico al Mar Rosso proviene da OGzero.

]]>
La rapida fuga dei francesi cacciati dalla Françafrique, con i doverosi distinguo, richiama alla mente – soprattutto per la rapidità del dissolvimento di un potere coloniale – la precipitosa fuga americana da Kabul. La regione immediatamente subsahariana – che molto è intrecciata con i movimenti irredentisti del Maghreb, esplosi con la crisi libica (scatenata da Sarkozy) che furono alleati del jihad che imperversa nel territorio su cui sono segnati i confini tra Mali, Burkina e Niger – ha assistito alla penetrazione di nuove potenze (in particolare Russia con la presenza di Wagner e Cina che ha aperto una sede per manutenzione di veicoli della Norinco a Dakar – pronta a difendere i vasti interessi di Pechino nei tre paesi dei golpe, ma operativa anche in Senegal, Costa d’Avorio –, ma anche Turchia e paesi della penisola araba), che hanno sfruttato dispute interne, sentimenti antifrancesi, insorgere del jihad per piegare a loro favore lo sfruttamento delle risorse del territorio e la collocazione strategica di cerniera tra Africa centrale (e Corno d’Africa) e Mediterraneo da sud a nord; tra l’Oceano e l’importantissimo corridoio del Mar Rosso sul classico asse ovest/est. L’incendio si va estendendo ormai da quel Triangolo di paesi attualmente retti da giunte militari golpiste fino a legarsi al sanguinoso conflitto sudanese ormai impossibile da comporre (che sta causando nuovi esodi di massa, coinvolgendo in questo modo altri paesi in sofferenza, perché non più in grado di accogliere profughi, creando così nuovi motivi di tensione nell’area dopo quelli che hanno scosso l’Etiopia negli ultimi due anni).
A chi serve creare un’area a forte instabilità sul modello afgano di dimensioni così enormi? è tutto parte di un disegno globale di ridimensionamento del predominio dell’Occidente, oppure è un percorso senza alternative di decolonizzazione, che fa della Realpolitik l’accettazione di potenze alternative, pur di disfarsi del giogo classicamente coloniale? le reazioni interventiste dei paesi limitrofi sono ispirate dalla paura dell’epidemia; oppure dagli sponsor europei, come il solito Eliseo (Adamu Garba, esponente dell’Apc ha accusato Usa e Francia di aver voluto mandare avanti l’Ecowas per innescare una guerra regionale e recuperare posizioni “coloniali”, sfruttando l’instabilità e l’ennesima guerra per procura che finirebbe con il distruggere l’Africa occidentale)
?  Oppure nascono dalla consapevolezza che la regione è stata integralmente posta in un caos per cui nulla sarà più come prima? Sicuramente si sta spostando in campo africano lo scontro anche militare che contrappone gli interessi dei Brics allargati all’egemonia occidentale.
Angelo Ferrari ha cercato di fare il punto mettendo in relazione tutti gli elementi in campo per dipanare l’ingarbugliata matassa.


Il golpe nigerino sblocca definitivamente il modello afgano per l’intero Sahel?

A ovest del lago Ciad

Rulli di tamburi…

Tutti i riflettori della diplomazia internazionale sono puntati sul Niger, dopo il colpo di stato del 26 luglio. Mentre ciò accade il Sahel rischia di piombare in un caos senza precedenti che potrebbe coinvolgere tutta l’Africa occidentale e non solo: l’intera  striscia saheliana è attraversata da tensioni che vanno dal sentimento antifrancese e antioccidentale, che sta montando un po’ ovunque, a una crisi politica, umanitaria e di sicurezza senza precedenti. La decisione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) di intervenire militarmente in Niger sta esacerbando ulteriormente le opinioni pubbliche di diversi stati della regione; non più, dunque, una minaccia, ma un piano militare messo a punto dopo due giorni di vertice ad Accra, capitale del Ghana. Non si conoscono i dettagli dell’operazione, si sa solo che dovrebbe essere “lampo” perché nel Sahel c’è stato “un colpo di stato militare di troppo”, a detta dei generali riuniti ad Accra. Intervento armato, tuttavia, che non avrebbe alcuna legittimità internazionale: l’Unione africana infatti ha già detto il suo no e le Nazioni Unite non hanno nessuna intenzione di autorizzarlo.

… timide mosse diplomatiche…

Mentre si parla di piani militari, la diplomazia è ancora al lavoro. Una delegazione dell’Ecowas è arrivata a Niamey dove ha potuto incontrare il presidente destituito, Mohamed Bazoum; non solo, a Niamey è arrivata anche la nuova ambasciatrice degli Stati Uniti, Kathleen FitzGibbon, anche se non presenterà le credenziali alla giunta militare – perché Washington non la riconosce – esprimendo tuttavia l’intenzione americana di perseguire la via diplomatica e «per sostenere gli sforzi che aiutino a risolvere la crisi politica in questo momento». Un segno, dunque, che la giunta militare non respinge del tutto il dialogo.
tanto che in un discorso alla televisione pubblica nigerina, Télé Sahel, il generale Abdourahamane Tchiani, a capo della giunta militare, ha annunciato l’istituzione di un «dialogo nazionale inclusivo» entro 30 giorni e ha annunciato una transizione che «non può durare oltre i tre anni». L’obiettivo è formulare «proposte concrete per porre le basi di una nuova vita costituzionale».
Un mantra, quest’ultimo, che ha precedenti in Mali, Burkina Faso e Guinea, paesi che sono stati teatro di colpi di stato negli ultimi due anni e dove le transizioni si prolungano senza che vengano convocate elezioni per un ritorno dei civili al governo di questi paesi. Il generale Tchiani, tuttavia, non accetta la minaccia dell’Ecowas di un intervento militare e rilancia: «L’Ecowas si prepara ad attaccare il Niger allestendo un esercito di occupazione in collaborazione con un esercito straniero», ha detto Tchiani senza citare il paese “straniero”, ma in molti pensano alla Francia.

… esibizione di muscoli

«Né il Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria né il popolo del Niger vogliono la guerra, ma se dovesse essere intrapresa un’aggressione, non sarà la svolta in cui alcuni credono» e ha ammonito: «Le forze di difesa del Niger non si tireranno indietro», sostenute da Burkina Faso, Mali e Guinea, ha detto. «La nostra ambizione non è quella di confiscare il potere», ha anche promesso.

A est del lago Ciad

Il conflitto tra al-Burhan e Hemedti si estende a tutti i Signori della guerra

Mentre ciò accade nell’estremo ovest della striscia saheliana, il Sudan è entrato nel quinto mese di guerra senza che si intraveda all’orizzonte una soluzione. Anzi, sembra proprio che i contendenti vogliano arrivare alle estreme conseguenze. Intanto il conflitto si è esteso, impantanato, aggravato provocando un dramma umanitario che nemmeno l’Onu è in grado di affrontare. La guerra contrappone l’esercito regolare del generale al-Burhan alle Forze di supporto rapido (Fsr) dei paramilitari guidati dal generale Hemedti. Il conflitto ha causato più di quattromila morti, anche se la cifra delle vittime è sottostimata, e milioni tra profughi e sfollati interni. Quando la guerra è scoppiata, il 15 aprile 2023, il generale al-Burhan ha detto che sarebbe finita in due settimane, mentre Hemedti prometteva la vittoria. Oggi nessuna delle due parti sembra prendere un vantaggio decisivo. I militari dominano ancora lo spazio aereo, mentre soffrono la debolezza della loro fanteria, un compito, ironia della sorte, che avevano affidato proprio alle Fsr. L’esercito ha subito battute d’arresto nel Sud Kordofan, nel Nilo Azzurro e nel Darfur, le Forze di supporto rapido sembrano avere nelle mani la maggior parte del territorio di Khartoum, la capitale.
Il conflitto dunque, anziché attenuarsi, si intensifica è sta coinvolgendo altri movimenti armati che partecipano ai combattimenti. Insomma, questo conflitto, iniziato tra due generali, rischia di trasformarsi in una vera e propria guerra civile, secondo l’Onu, volgendo verso una situazione di anarchia totale. I negoziati, inoltre, non sono mai decollati e sono in una fase di stallo e i cessate il fuoco non sono mai durati.

S’intrecciano le crisi umanitarie regionali

Profughi e sfollati, di nuovo sulle sponde del Nilo

Sul versante umanitario le cifre sono da capogiro con oltre 3 milioni di sfollati e quasi 1 milione di rifugiati. Inoltre, entro settembre si prevede che il 40% della popolazione soffrirà di insicurezza alimentare. Le organizzazioni umanitarie stanno affrontando una situazione a dir poco scoraggiante con una mancanza allarmante di fondi, all’appello mancano due miliardi di dollari per far fronte alla crisi. Le donne sono particolarmente colpite, sono vittime di violenze e stupri perpetrati dai combattenti e private di un’adeguata assistenza psicologica e medica, hanno spiegato i portavoce delle agenzie umanitarie durante una riunione a Ginevra. Le agenzie possono aiutare circa 19 milioni di persone in Sudan e nei paesi limitrofi, tuttavia gli interventi sono finanziati solo al 27%. Le Nazioni Unite hanno lanciato due appelli, uno per finanziare gli aiuti all’interno del paese per un totale di 2,57 miliardi di dollari e l’altro per i rifugiati fuggiti dal Sudan per un importo di 566,4 milioni di dollari. Ma dopo la crisi innescata dal colpo di stato in Niger, del Sudan sembra si siano dimenticati tutti e ciò rischia di aggiungere catastrofe a catastrofe.

Profughi e sfollati, di nuovo sulle sponde del Niger

Le conseguenze di un intervento militare dell’Ecowas a Niamey sarebbero devastanti sia sul piano umanitario sia sul piano della sicurezza dell’intera regione. Già si vedono spostamenti di persone sul fiume Niger nella parte che confina con il Benin, considerato, ancora, uno stato sicuro. Nel paese la crisi umanitaria si sta già manifestando. Le frontiere chiuse impediscono il passaggio di merci necessarie alla sopravvivenza della popolazione, così come l’elettricità scarseggia in più parti del paese per via delle interruzioni delle forniture che arrivano dall’estero. Una guerra, per quanto lampo sia, aggraverebbe ulteriormente la situazione umanitaria.

A Ovest (speriamo) niente di nuovo

Una guerra, che potrebbe estendersi a buona parte del Sahel – Mali e Burkina Faso hanno già assicurato il loro appoggio al Niger – avrebbe ripercussioni preoccupanti sul fronte della lotta al terrorismo e ai gruppi jihadisti che imperversano nell’area, in particolare nella regione dei tre confini – Niger (Tilaberi), Mali (Tessit) e Burkina Faso (Tamba), dove storicamente la pastorizia nomade si scontra con coltivatori stanziali – ma anche sulla capacità dei paesi del Golfo di Guinea, già colpiti dal terrorismo a nord dei loro confini – Costa d’Avorio, Benin e Togo – di farvi fronte. Una situazione, dunque, esplosiva.

Recrudescenza jihadista dopo Barkhane

Dal colpo di stato in Niger di fine luglio, infatti, sono stati registrati nove attacchi jihadisti. Una tendenza che preoccupa gli osservatori. Con la recrudescenza degli attacchi islamisti, il timore è di “un rapido deterioramento della situazione”, in primo luogo perché Parigi ha sospeso la sua cooperazione militare con il Niger. L’esercito nazionale quindi non beneficia più dell’appoggio dell’esercito francese. Non ci sono più operazioni congiunte, aerei e droni non danno più supporto e i terroristi approfittano del vuoto. Poi, le minacce di intervento armato dell’Ecowas hanno portato a una riduzione del sistema militare occidentale, che hanno sospeso le loro attività ai confini. Ciò potrebbe portare un calo della reattività dell’esercito nigerino e i gruppi jihadisti potrebbero approfittarne riconquistando la loro libertà di manovra con un radicamento dello Stato Islamico proprio nell’area dei tre confini. Le preoccupazioni vanno ancora oltre, con la possibile creazione di zone grigie, in parte controllate da gruppi armati, in Mali, Burkina, Niger, persino Sudan, che potrebbero destabilizzare il vicino Ciad. Il Ciad, pur non essendo membro dell’Ecowas, condivide con il Niger 1200 chilometri di confine e dispone, oltre ad avere solidi rapporti con la Francia, di un esercito tra i più potenti dell’area. Quindi il Niger ha necessità di assicurarsi rapporti di buon vicinato – il primo ministro nigerino, nominato dalla giunta militare, ha fatto visita al presidente ciadiano Mahamat Idriss Deby – anche se N’Djamena è alle prese con una crisi interna di legittimità del potere e con l’emergenza profughi che arrivano a decine di migliaia dal Sudan.

A rischio sconfinamenti i paesi del Golfo

Si teme, inoltre, che i gruppi jihadisti possano contagiare anche i paesi del Golfo di Guinea. Questa è la maggior preoccupazione della Costa d’Avorio che è già alle prese con sconfinamenti dal Burkina Faso e con centinaia di profughi burkinabé che cercano rifugio nel nord del Paese. Ciò, inoltre, potrebbe spiegare la ferma posizione del presidente ivoriano, Alassane Ouattara, che si è schierato con decisione per un intervento militare in Niger, dicendosi disponibile a fornire un battaglione del suo esercito al contingente dell’Ecowas. Occorre ricordare che Ouattara è uno dei pochi “fedeli” alla Francia rimasti nella regione. E il presidente ivoriano è preoccupato che anche nel suo paese possa montare un sentimento antifrancese alimentato, soprattutto, dal suo rivale di sempre l’ex presidente Laurent Gbagbo, 78 anni, che non nasconde le sue velleità di tornare alla presidenza della Costa d’Avorio, nel 2025, con il suo nuovo Partito dei popoli africani-Costa d’Avorio (Ppa-Ci), di ispirazione e orientamento socialista e panafricanista, nemmeno troppo velatamente antifrancese.

Scosso anche il gigante Senegal da sommovimenti interni

Non meno turbolenta appare la situazione nell’estremo ovest della striscia saheliana, in un Senegal che vive un periodo di forte crisi politica e di legittimità democratica, soprattutto dopo l’arresto dell’oppositore Ousmane Sonko, uno dei leader politici più amati dai giovani senegalesi. Arresto che ha provocato manifestazioni di piazza violente, che hanno lasciato sulle strade numerosi feriti ma anche morti. In conseguenza di queste proteste il ministro dell’interno senegalese, Antoine Diome, ha annunciato lo scioglimento proprio del partito di Sonko, il Pastef – Les patriotes. Il leader dei “giovani senegalesi” è stato condannato per diffamazione e per corruzione giovanile. Secondo le opposizioni queste condanne non hanno altro significato che escludere Sonko, che gode di un buon seguito, dalle elezioni presidenziali del 2024. Il Senegal è un altro paese in forte ebollizione e non è bastata la decisone di Macky Sall, attuale presidente, di non candidarsi per un terzo mandato alle presidenziali a inizio luglio per stemperare la tensione nel paese. In punta di diritto potrebbe farlo, anche se la Costituzione prevede solo due mandati, ma è stata riformata, con una rimodulazione della lunghezza del mandato, proprio sotto la presidenza Sall. Le opposizioni, infatti, si rammaricano del fatto che il presidente Sall e il suo governo rimangano sordi alle richieste di allentamento, pacificazione e fine delle restrizioni agli spazi di libertà. I mesi, dunque, che separano il Senegal alle presidenziali del febbraio 2024 saranno particolarmente difficili. Non è un caso, inoltre, che le opposizioni senegalesi si siano schierate contro l’intervento militare dell’Ecowas in Niger.
Sono molte le ragioni che dovrebbero dissuadere dal mettere in atto lo scenario peggiore per il Sahel e per l’intera Africa occidentale. Un conflitto armato su vasta scala potrebbe scatenare reazioni non proprio prevedibili e trasformare il Sahel in un “Sahelistan” di afgana memoria.

L'articolo Il Sahelistan dall’Atlantico al Mar Rosso proviene da OGzero.

]]>
Mediterranean Shield: espansione Nato a sud https://ogzero.org/mediterranean-shield-espansione-nato-a-sud/ Fri, 08 Jul 2022 08:05:03 +0000 https://ogzero.org/?p=8103 Riprendiamo due articoli scritti da Angelo Ferrari per l’agenzia Agi correlati alla corsa al controllo del territorio saheliano, a partire dall’esigenza di contrastare l’avanzata di potenze coloniali alternative a quelle occidentali con la perentoria reazione di un’espansione Nato in epoca globalizzata: la sua estensione oltre le sponde meridionali del Mediterraneo attraverso accordi con potenze locali […]

L'articolo Mediterranean Shield: espansione Nato a sud proviene da OGzero.

]]>
Riprendiamo due articoli scritti da Angelo Ferrari per l’agenzia Agi correlati alla corsa al controllo del territorio saheliano, a partire dall’esigenza di contrastare l’avanzata di potenze coloniali alternative a quelle occidentali con la perentoria reazione di un’espansione Nato in epoca globalizzata: la sua estensione oltre le sponde meridionali del Mediterraneo attraverso accordi con potenze locali a fungere da satrapi ma sotto l’egida di un’alleanza che si estende sull’intero pianeta. Il vecchio approccio francese che fino a pochi mesi fa non poteva immaginare qualunque forma di autonomia locale va cestinato e ripensato completamente. Ma da nuovi protagonisti. 


Lo Scudo Nato a Sud

La Nato volge il suo sguardo anche a sud del Mediterraneo, in particolare verso il Sahel. E questa sembrerebbe una novità se non fosse che già nel passato la Nato è intervenuta nella gestione delle crisi su richiesta dell’Unione Africana (Ua). L’esordio è del 2005 quando, con l’acuirsi della crisi del Darfur, la Nato ha accolto la richiesta della Ua di supportare la sua missione di peacekeeping in Sudan. Poi nel 2009 la richiesta, sempre da parte della Ua di sostenere la missione in Somalia. Poi nel 2009 con l’operazione “Ocean Shield” per la lotta contro la pirateria nel Corno d’Africa. Per non dimenticare ciò che è successo in Libia a partire dal 2011. Sono solo alcuni esempi.

Con l’ultimo vertice della Nato a Madrid, che ha ridisegnato la postura dell’Allenza a livello globale puntando con più forza alla deterrenza e alla difesa collettiva, resta l’impegno verso la prevenzione e la gestione delle crisi con un focus significativo sul Nordafrica e il Sahel. Di sicuro l’Italia può dirsi soddisfatta del linguaggio usato nel nuovo Concetto strategico – come scrive su “Affarinternazionali.it”, Elio Calcagno – rispetto a una regione di primario interesse per il paese. Tuttavia il capitale politico, militare ed economico dell’Allenza verrà inevitabilmente incanalato verso est e verso la minaccia russa. L’Italia, dunque, dovrà giocare un ruolo più propositivo e concreto sul fianco sud in ambito Nato di quanto abbia fatto fino a oggi. Roma non può permettersi di stare a guardare e non può essere uno spettatore passivo come in Libia.

Necessari nuovi approcci alle crisi nelle marcoaree

La gestione e la prevenzione delle crisi, in particolare nel Sahel, dovranno necessariamente passare attraverso una “richiesta” dell’Unione africana e il consenso dei paesi coinvolti. E visto il clima antioccidentale che regna in questa regione dell’Africa è abbastanza complesso che i governi saheliani si affidino all’Alleanza per risolvere le crisi interne, senza dimenticare, poi, la forte presenza della Russia in quell’area.

Detta in parole povere la lotta al terrorismo nel Sahel non può essere camuffata come deterrenza nei confronti della minaccia russa. Insomma, i paesi dell’area saheliana hanno dimostrato, finora, di privilegiare il rapporto con Mosca. Un esempio eclatante è il ritiro dal Mali dei francesi con l’operazione Barkhane e di quella europea Takuba. Un bel rompicapo.

Soldati dell’operazione Barkhane in Mali (foto Fred Marie / Shutterstock)

Fino ad ora tutto è sulla carta ma alcune fughe in avanti di qualche ministro degli Esteri europeo, fanno già discutere nel Sahel. In particolare in Mali dove l’ambasciatore spagnolo a Bamako, Romero Gomez, è stato convocato dal ministro degli Esteri maliano, Abdoulaye Diop, dopo le parole del suo omologo spagnolo, Manuel Alvares che in una dichiarazione non escludeva un possibile intervento della Nato in Mali.

Diop non le ha mandate a dire e in un’intervista ha spiegato: «Oggi abbiamo convocato l’ambasciatore spagnolo per sollevare una forte protesta contro queste affermazioni. L’espansione del terrorismo nel Sahel è principalmente legata all’intervento della Nato in Libia, le cui conseguenze stiamo ancora pagando».

Parole dure, ma Diop non si ferma qui, ha infatti definito le affermazioni del suo omologo spagnolo “ostili, gravi e inaccettabili”, perché «tendono a incoraggiare l’aggressione contro un paese indipendente e sovrano». L’ambasciata spagnola, in un tweet, ha cercato di smorzare i toni spiegando che la «Spagna non ha richiesto, durante il vertice della Nato o in un qualsiasi altro momento, un intervento, una missione o qualsiasi azione dell’Alleanza in Mali». L’occidente dovrà abituarsi a questa ostilità che, in parte, è persino giustificata dalle missioni militari francesi ed europee nell’area.

Secondo il direttore del Centro studi sulla sicurezza dell’Istituto francese di relazioni internazionali (Ifri), Elie Tenenbaum, la Francia, ma anche l’Occidente nel suo insieme, deve “pensare” una nuova strategia, perché attualmente la «dinamica strategica produce l’opposto di ciò che si è prefissa». L’analista sostiene che i tentativi di entrare in partenariato con gli attori locali ha prodotto attriti – il Mali ne è un esempio –: i francesi hanno cercato di arginare il deterioramento della sicurezza in Sahel ma non ci sono riusciti. Nel difendere i propri interessi la Francia non ha fatto altro che alimentare un sentimento antifrancese.

Ma il problema su tutti è quello di avere trascurato le ambizioni russe, turche e cinesi

Attori nello scacchiere africano molto più spregiudicati e soprattutto meno interessati alle politiche interne dei paesi con cui diventano partner. La Francia, invece, non ha fatto altro che continuare, anche “sottobanco”, a determinare le politiche interne delle ex colonie, a “scegliere” chi di volta in volta avrebbe governato. Insomma, un’ingerenza inizialmente mal sopportata e ora totalmente avversata da buona parte delle popolazioni saheliane, certo con gradazioni diverse, ma pur sempre penetrante.

È chiaro che l’occidente dovrà ripensare completamente la sua strategia globale nel Sahel e nell’Africa occidentale se non vuole essere “sfrattato”. Ciò lo chiedono anche le opinioni pubbliche, in particolare quella francese, che cominciano a non capire più le politiche postcoloniali della Francia e quelle dell’Europa che sembra avere come unico obiettivo quello di spostare sempre più a sud il confine del Mediterraneo per arginare i flussi migratori.

Parigi vs Mosca in Françafrique

In Niger per rendere meno urticante la presenza francese in Sahel

La Francia cambia strategia nel Sahel, almeno ci prova. Dopo il ritiro dal Mali, che dovrebbe completarsi entro l’estate, Parigi trasferisce la sua presenza in Niger, paese diventato strategico per tutta la comunità occidentale. La sfida di Parigi è quella di mantenere una presenza nell’area per non vanificare la sua influenza storica, anche se è ormai messa a repentaglio da un sentimento antifrancese diffuso e alimentato ad arte dalla Russia, che esprime nella regione una politica molto aggressiva.

Dunque, un cambio di passo. L’esercito francese intende intervenire a “sostegno” e non più in sostituzione degli eserciti locali. Ma questo dipenderà, soprattutto, dalla volontà degli stati africani. Sono frenetiche le consultazioni e gli scambi tra capitali saheliane, Parigi e le capitali europee. Francesi ed europei si stanno muovendo in direzione di una maggiore cooperazione a seconda delle richieste dei paesi africani.

Dopo lo schiaffo maliano, Parigi intende operare non più da “protagonista” ma in seconda linea. Un modo per ridurre la visibilità della sua azione che finora ha dimostrato di essere un “irritante” per le opinioni pubbliche africane, ma di certo manterrà una presenza nella regione di influenza storica. L’attenzione si concentrerà in Niger, nuovo partner privilegiato, dove i francesi manterranno una presenza con circa mille uomini e capacità aeree. Quindi verrà avviato un partenariato strategico spiegato dal comandante del quartier generale, Hervé Pierre:

«Oggi invertiamo completamente il rapporto di partnership: è il partner che decide cosa vuole fare, le capacità di cui ha bisogno e controlla lui stesso le operazioni svolte con il nostro supporto. È il modo migliore per continuare ad agire efficacemente al loro fianco».

L’obiettivo di Parigi sarebbe quello di non irritare i partner e operare con discrezione, ma occorre anche sottolineare una mancanza di direttive chiare dell’esecutivo francese sulla prosecuzione delle operazioni. Si attendono “ordini” dalla politica in un quadro interno, dopo le legislative, molto complicato. L’opinione pubblica d’oltralpe non comprende più la politica postcoloniale della Francia.

Ciad, Burkina e sospettosamente il Golfo

Il quartier generale francese dell’operazione che succederà all’estinta Barkhane sarà mantenuto, per il momento, a N’Djamena, in Ciad, con cui la Francia ha un accordo di difesa. Ma la sua forza lavoro sarà ridotta. Per quando riguarda il Burkina Faso, dove altri civili sono stati uccisi per mano dei jihadisti nel fine settimana, sta ricevendo l’aiuto francese ma rimane perplesso sul fatto di una intensificazione della presenza sul terreno. Anche qui la propaganda antifrancese, ma soprattutto il sentimento che ne deriva, hanno attecchito molto bene.
Oltre a contribuire a contenere la violenza jihadista che minaccia di diffondersi nel Golfo di Guinea, la sfida per Parigi nel mantenere una sua presenza militare è quella di evitare un declassamento strategico, in un momento di accresciuta competizione sulla scena internazionale. In Africa occidentale i russi stanno perseguendo una strategia di influenza aggressiva, anche attraverso massicce campagne di disinformazione antifrancesi.

Le mosse Wagner

L’intelligence, infatti, sta monitorando gli attacchi compiuti da Wagner sui i social network che hanno superato i confini del Mali, e si stanno diffondendo in Africa. Un’ossessione francese? Non proprio, perché Mosca è riuscita a strappare all’impero d’oltralpe il Mali, si appresta a fare altrettanto in Burkina Faso, la Repubblica Centrafricana è saldamente nelle mani dei russi, e si stanno moltiplicando gli accordi militari con molti stati dell’area. Una penetrazione, tuttavia, che non è dell’ultima ora. È tempo che i russi stanno cercando di tornare ad avere un ruolo decisivo e strategico in Africa, dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda, consapevoli che non hanno molto da offrire sul piano commerciale ed economico, ma su quello militare e degli armamenti sì.

L’irritazione di Parigi è evidente. I nervi sono scoperti e lo chiarisce bene, in un’intervista a Radio France International, l’attuale comandante dell’operazione Barkhane, il generale Laurent Michon:

«La manipolazione della popolazione esiste, si diffondono enormi bugie sul fatto che armiamo gruppi terroristici, rapiamo bambini, lasciamo fosse comuni. È facile fare da capro espiatorio a persone che stanno attraversando situazioni umanitarie e di sicurezza estremamente difficili. C’è stata una manovra di disinformazione sulle reti, con mercenari Wagner che seppellivano cadaveri a Gossi, per accusare i francesi. Per la prima volta l’esercito francese ha deciso di spiegare come si fanno le cose nella vita reale, declassificando e mostrando le immagini dei droni. Vivono nel paese (i Wagner, N. d. A.), depredano, commettono abusi, hanno le mani sull’apparato di comando dell’esercito maliano e fanno le cose alle spalle dei leader. La reazione migliore è rispettare i nostri valori, essere chiari su ciò che stiamo facendo e lasciare che i giornalisti africani ed europei vengano a vedere, fare qualche verifica sui fatti. L’arma migliore è l’informazione verificata e sottoposta a controlli incrociati».

Approccio militare o cooperazione: il dilemma dell’Eliseo

La confusione regna sovrana e Parigi, anche senza ammetterlo, si rende conto che un declassamento strategico è in atto, ciò che si chiede è se è un fatto inesorabile oppure si possono, ancora, recuperare posizioni e, soprattutto mantenere una presenza che salvaguardi i propri interessi. L’operazione Barkhane, per essere gentili, è stata un fallimento. La Francia, invece, dovrebbe chiedersi se la strategia militare, che prevale su quella della cooperazione allo sviluppo, sia vincente.

L'articolo Mediterranean Shield: espansione Nato a sud proviene da OGzero.

]]>
La strategia del grano https://ogzero.org/la-strategia-del-grano/ Fri, 10 Jun 2022 16:01:50 +0000 https://ogzero.org/?p=7867 Sulla scorta della proverbiale definizione di “granaio del mondo” l’Occidente sta attribuendo integralmente alla guerra in Ucraina la responsabilità della fame che si sta annunciando per carenza di grano (ma non si parla del fatto che la Russia è il maggior esportatore di fertilizzanti), senza considerare che il prezzo dei cereali era già in aumento […]

L'articolo La strategia del grano proviene da OGzero.

]]>
Sulla scorta della proverbiale definizione di “granaio del mondo” l’Occidente sta attribuendo integralmente alla guerra in Ucraina la responsabilità della fame che si sta annunciando per carenza di grano (ma non si parla del fatto che la Russia è il maggior esportatore di fertilizzanti), senza considerare che il prezzo dei cereali era già in aumento prima del 24 febbraio e che sono periodiche le rivolte del pane (anche dopo il 2011 delle Primavere arabe).
La guerra è stata solo il la ciliegina su una torta immangiabile per i 20 milioni di potenziali morti per fame che la contingenza può creare e i due autocrati di Astana si stanno mettendo d’accordo anche in questo caso per spartirsi guadagni e prestigio nei paesi africani sbloccando la situazione del Mar Nero con il blocco delle tonnellate di grano ammassato nei silos ucraini che rappresentano comunque soltanto l’8 per cento del prodotto annuale mondiale. Un’arma ibrida come le bombe di migranti gettate ai confini, che si produrranno anche attraverso questa nuova fame indotta dalla guerra sarmatica. Ma non solo: esistono infinite esponenziali conseguenze al conflitto (e allo scellerato agribusiness, all’intollerabile landgrabbing, allo sfruttamento coloniale, che hanno preparato il terreno alla fame globale) che portano alle scelte strategiche dei singoli stati vincolati in qualche modo ai prodotti russi (per esempio il Brasile) e il ritorno d’immagine per i popoli affamati d’Africa che si troveranno a ringraziare i garanti russo-turchi delle forniture alimentari di cui sono responsabili per l’improvvisa carenza; senza contare la stagflazione ormai globale e l’indebitamento generalizzato.
Per questo riprendiamo, con l’accordo dell’autore – che ringraziamo –, un pezzo di Angelo Ferrari scritto per l’Agi sul ritorno delle mosse russo-turche nei paesi africani a rischio di carestia per la carenza di approvvigionamenti di cereali, a cui alleghiamo il podcast di un intervento di Alfredo Somoza su Radio Blackout a proposito delle cause globali della carestia.


La guerra del grano deve essere risolta nel più breve tempo possibile e vincerla non è solo una questione di “buon cuore”, ma anche strategica. I numeri dimostrano che la carestia potrebbe colpire oltre 400 milioni di persone. A questi si debbono aggiungere tutti coloro che vivono con gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite. Il Corno d’Africa e gran parte del Sahel si apprestano ad affrontare una carestia senza precedenti (Human rights watch) che, indubbiamente, sarà aggravata dalla guerra in Ucraina. Sbloccare centinaia di milioni di tonnellate di grano nei silos nei porti ucraini è dunque una priorità per scongiurare una catastrofe umanitaria che avrà ripercussioni globali che potrebbero durare anni. Molto attivi su questo fronte sono i turchi e i russi, anche se un accordo chiaro che garantisca tutti, in primo luogo gli ucraini, sembra lontano dall’essere siglato.

La penetrazione russa

La Russia, come stiamo vedendo in questi giorni, ha tutto l’interesse a scaricare sull’Occidente la responsabilità di una possibile crisi alimentare globale. Un interesse che non deve stupire. Di sicuro, come è già avvenuto, farà partire le sue navi cariche di grano dai porti ucraini conquistati sul mar d’Azov. Grano rubato, secondo gli ucraini. Grano di loro proprietà secondo Mosca. Al di là di chi abbia ragione questa è la realtà. Le navi hanno fatto rotta verso l’Africa dove la presenza russa si fa sempre più penetrante.
Il caso del Mali, nel Sahel, è l’aspetto più eclatante. È riuscita a “cacciare” la Francia da un’ex colonia. Poi c’è la Repubblica Centrafricana, anch’essa ex colonia francese. Qui la presenza russa è ancora più evidente. Senza dimenticare il Burkina Faso e ancora i recenti accordi militari e di sicurezza tra il Camerun e Mosca. Nel mirino di Putin c’è anche il Ciad, dove nella capitale N’Djamena ci sono state manifestazioni antifrancesi molto violente. Il sentimento antifrancese e antioccidentale sta dilagando in gran parte del Sahel e Mosca lo cavalca e incoraggia abilmente.

L’attivismo turco

Dall’altra parte del tavolo negoziale c’è la Turchia, il sultano Recep Erdoğan, che non fa nulla senza che ne abbia un tornaconto significativo. Anche Ankara ha interessi diffusi in Africa. Oramai è un po’ ovunque, ha stretto accordi commerciali, di fornitura di armi, ma anche si sta impegnando molto sul fronte dell’aiuto alimentare, come in Somalia. La forza della Turchia in Africa è assai maggiore di quella russa. Dal 2004 Erdoğan ha fatto più di 50 viaggi nel continente africano e visitato oltre 30 nazioni. Solo nell’ottobre del 2021 il capo di stato turco ha visitato Angola, Nigeria e Togo e nello stesso mese, Istanbul ha ospitato leader aziendali e dozzine di ministri degli stati africani per un vertice volto specificatamente ad aumentare il commercio. Nei primi mesi del 2021 il commercio bilaterale Turchia-Africa ha raggiunto i 30 miliardi di dollari e l’obiettivo della Turchia è di aumentarlo ad almeno 50-75 miliardi di dollari nei prossimi anni. Inoltre circa 25.000 lavoratori africani sono attualmente impiegati nel continente da aziende turche in progetti del valore di 78 miliardi di dollari e più di 14.000 studenti africani hanno studiato in Turchia. Il numero degli ambasciatori turchi distaccati nel continente è passato dai 12 del 2005 ai 43 nel 2021, mentre il numero degli ambasciatori africani ad Ankara è passato da 10 a 37. «Miriamo ad aumentare il numero dei nostri ambasciatori fino a 49», ha detto Erdoğan, affermando che il vertice di Istanbul ha dato luogo a sessioni congiunte a livello ministeriale nei settori della sanità, dell’istruzione, dell’agricoltura e della difesa. Turkish Airlines vola verso 61 destinazioni in Africa, l’Agenzia turca di cooperazione e coordinamento (Tika) ha 22 uffici locali, la Fondazione Maarif gestisce 175 scuole in 16 paesi e la presidenza dei turchi all’estero e delle comunità correlate offre borse di studio a oltre 5000 studenti africani. Una potenza di fuoco enorme che ha anche lo scopo di ottenere il sostegno africano per un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.Per Ankara, dunque, arrivare a una soluzione negoziata sul grano ucraino sarebbe un grande successo e rafforzerebbe i legami già molto stretti con l’intero continente. Obiettivo che ha anche lo zar di Mosca. Putin e Erdoğan, su questa partita si intendono benissimo. Tutto ciò avrebbe, inoltre, anche lo scopo di allontanare sempre di più il continente africano dall’influenza occidentale, sostituendola con quella turca e russa. La Cina, vera padrona del continente, sta a guardare anche perché non ha competitor. Vincere la guerra del grano non è solo una questione di buon cuore, ma ha una valenza strategica tale da spostare gli equilibri anche in Africa, dove quasi la metà degli stati non ha votato o si è astenuta per la risoluzione delle Nazioni Unite di condanna all’invasione russa dell’Ucraina. Di sicuro, se Erdoğan avrà ragione in questa partita, sarebbe la sconfitta dell’occidente – oltre che quella dell’Onu – la cui diplomazia non fa altro che accusare Mosca della catastrofe alimentare. Non basta. Agli africani di certo non basta.

Ascolta “Dormi sepolto in un campo di grano” su Spreaker.

L'articolo La strategia del grano proviene da OGzero.

]]>
I francesi non se ne sono mai andati dal Sahel. Parte 1 – Il Ciad prima di Déby https://ogzero.org/il-sahel-e-in-ebollizione-i-francesi-non-se-ne-sono-mai-andati-dal-sahel-parte-1-il-ciad-prima-di-deby/ Mon, 03 May 2021 08:56:24 +0000 https://ogzero.org/?p=3299 Inauguriamo con questo intervento di Eric Salerno, e con il successivo di Angelo Ferrari, cui si aggiunge un podcast finale che raccoglie un’analisi di Luca Raineri, una serie di articoli imperniati sul Ciad e la sua importanza per la regione del Sahel.  Le strategie neocoloniali si sono adeguate subito all’emancipazione africana che nel 1960 portò […]

L'articolo I francesi non se ne sono mai andati dal Sahel. Parte 1 – Il Ciad prima di Déby proviene da OGzero.

]]>
Inauguriamo con questo intervento di Eric Salerno, e con il successivo di Angelo Ferrari, cui si aggiunge un podcast finale che raccoglie un’analisi di Luca Raineri, una serie di articoli imperniati sul Ciad e la sua importanza per la regione del Sahel. 

Le strategie neocoloniali si sono adeguate subito all’emancipazione africana che nel 1960 portò all’indipendenza di 17 nazioni, dopo il processo di decolonizzazione seguito alla Seconda guerra mondiale. A sessant’anni di distanza la reazione alle richieste di autodeterminazione rimangono invariate: repressione attraverso governi-fantoccio di leader militari addestrati in accademie, installati al potere con lo scopo di depredare le risorse del territorio; appoggio dei conflitti etnici, che spesso nascondono strutture economiche in competizione per le stesse risorse della terra. Il Sahel è in ebollizione e la morte improvvisa di Idriss Déby, il gendarme di Francia usato negli ultimi 30 anni da tutti gli inquilini dell’Eliseo per interventi militari in tutta l’area, crea ulteriori tensioni, ribellioni e istanze anticoloniali. 


Il cuore della Françafrique

Tessalit è adagiato su un pendio che dal Sahara algerino scivola dolcemente verso il cuore del Mali. Nel 1969 le poche casupole di fango impastato circondate dalle acacie in fiore (mimose che si difendono con spine capaci di forare pneumatici) ruotavano attorno alla vecchia caserma della Legione straniera francese. Il suo comandante, un giovane ufficiale, ci accolse con tè e biscotti, un giradischi impolverato, tanti 33 giri di musica classica e la realtà di un mondo in transizione. Mezzo secolo dopo, quel mondo è ancora alla ricerca della sua vera identità. È Storia o soltanto cronaca quella degli ultimi cinquanta anni che si ripete mentre la maggioranza degli osservatori si concentra sul presente e guarda nell’attesa del nuovo il futuro sempre incerto? La scienza ha fatto balzi incredibili. Il mondo si è aperto come mai nella storia dell’umanità era accaduto. E, purtroppo, sbagliamo se crediamo che vecchie abitudini possano sparire con la stessa velocità.

Tissalit 1969

Dall’emancipazione panafricanista dei padri dell’indipendentismo (1960)…

Quellufficiale era arrivato a bordo di un fuoristrada di fabbricazione sovietica ad accogliere i quattro viaggiatori italiani che attendevano davanti al suo ufficio che era anche il suo domicilio. Era tirato a lucido. Indossava una divisa appena stirata. Lui, il capitano, era responsabile del “governatorato” nel quale ci trovavamo. Il suo francese era perfetto. Aveva studiato a Bamako, la capitale. Poi il servizio militare e l’accademia militare di St. Cyr in Francia, il luogo in cui i colonialisti, un po’ snob, avevano forgiato gli uomini in divisa che avrebbero dovuto guidare l’Impero. Il Mali, però, aveva scelto una strada autonoma. Il suo leader, Modibo Keïta, come molti altri padri della nuova Africa indipendente, si era appoggiato a sinistra, prima all’Urss, infine alla Cina. Lui, il capitano, era appena tornato da Mosca, l’ultima tappa nel suo percorso ma, ci confidò, preferiva St.Cyr. Si parlò più dell’Europa che del Mali e l’indomani ci chiedemmo per quale motivo l’ufficiale era sembrato restio a discutere le vicende del proprio paese. Qualche settimana dopo il nostro rientro in Italia, viaggio di piacere non di lavoro, lo ritrovai fotografato su un’altra jeep mentre sfilava a Bamako, la capitale del Mali. Un colpo di stato militare, caldeggiato da Parigi, aveva cambiato le carte in tavola.

… alle controrivoluzioni fomentate nelle accademie militari neocoloniali (fine anni Sessanta)

Sono oltre trenta le nazioni africane che hanno avuto, o hanno ancora, leader usciti dai ranghi delle forze armate. St. Cyr, era l’accademia dei francofoni; Sandhurst quella per la formazione iniziale degli ufficiali dell’esercito britannico. Felix Malloum, presidente e primo ministro del Ciad dal 1975 al 1978, era un prodotto dell’accademia militare francese, il suo “vicino” a nord, Muammar el Gheddafi di quello britannico. Jean-Bedel Bokassa, uno dei peggiori dittatori nella storia del continente, imperatore della Repubblica centrafricana, a sud del Ciad, aveva alle spalle una lunga carriera militare con le forze armate francesi. E merita di essere ricordato il sottufficiale Idi Amin Dada, che grazie a Gran Bretagna e Israele rovesciò con un golpe il progressista Milton Obote. Amin e Bokassa, re e imperatore, vengono spacciati per espressioni di unAfrica senza cultura. Invece sonoFigli della vecchia Europa: il titolo su un mio articolo del dicembre 1976 che cito solo per sottolineare come il mondo allora era consapevole dei giochi delle vecchie potenze. Tanto che a Parigi due anni dopo, Germania, Belgio e Gran Bretagna – ex potenze coloniali –- e Stati Uniti fecero capire senza mezzi termini che non si fidavano della politica di Valéry Giscard d’Estaing, come se loro fossero espressione di un mondo migliore.

Il conflitto etnico: l’altra faccia del neocolonialismo

Il Sahel è in ebollizione

Goukouni Ouaddei, presidente del Ciad dal marzo all’aprile 1979 e dal settembre 1979 al giugno 1982 non ha mai indossato la divisa. Rappresentava, però, un’altra realtà fondamentale del continente africano: il conflitto etnico, risultato in gran parte della politica coloniale e dai confini decisi a tavolino in Europa.

La prima volta che lo incontrai fu in una camera buia di un albergo di Tripoli dove godeva della protezione del leader libico e si preparava a tornare in patria. Aveva appeso alla parete una cartina del suo paese e mi spiegò la complessità della situazione geopolitica.

Il Sahel è in ebollizione

Goukouni Ouaddei illustra mappe rappresentanti le spartizioni del Sahel nel 1981. Non cambia molto

La geografia di ieri è la stessa di oggi. La politica, in qualche modo, pure. L’avrei rivisto, quel “protetto” del leader libico, a N’djamena dove nel 1981, ero arrivato dalla capitale libica a bordo di un aereo su cui avevano preso posto una manciata di giornalisti e una delegazione del governo di Tripoli che andava a festeggiare, diciamo così, il ritiro delle forze armate libiche dalla capitale ciadiana devastata dalla guerra.

“Il Messaggero”, 12 aprile 1981

Resistenza del Tibesti contro le appropriazioni coloniali: dai Senoussi (1935) ai Toubou (1973)

Per cercare di comprendere il passato, il presente e probabilmente il futuro, è fondamentale quella cartina appesa da Ouaddei alla parete della sua camera d’albergo. Lui, come mi raccontò allora, era figlio di Ouaddei Kichidemi, derde, ossia la maggiore autorità religiosa e politica dei Toubou del Tibesti, la vasta, impervia catena montagnosa che cavalca il confine tra Ciad e Libia. Là nacque l’ordine religioso dei Senoussi, la stessa che guidò la rivolta della Cirenaica contro il colonialismo italiano e che soffrì maggiormente per la violenza della repressione – genocidio – ordinata da Mussolini e perpetrata dal generale Graziani, criminale di guerra italiano.


Lo sceicco sulla forca

Si calcola che all’incirca ottantamila libici siano costretti a lasciare i loro villaggi per arrivare dopo una lunga peregrinazione, scortati dall’esercito, nei baraccamenti costruiti in pieno deserto, cinti di filo spinato e vigilati da postazioni armate. Le condizioni igieniche nei campi sono terribili, inoltre scarseggiano l’acqua e il cibo, tutto questo determina fra i deportati un altissimo tasso di mortalità. Alcune altre decine di migliaia di libici riescono a sottrarsi alla deportazione e si rifugiano in Egitto. La crudele strategia di Graziani funziona a meraviglia, alla fine della campagna “pacificatrice” la popolazione della Cirenaica si sarà ridotta di oltre un quarto.

Troncato con le reclusioni nei campi il nesso vitale fra i guerriglieri e la loro gente, Graziani può condurre la sua feroce offensiva. I reparti italiani e coloniali possono finalmente scorrazzare lungo le piste del deserto, sorvolate e sorvegliate, mitragliate e bombardate dall’aeronautica. Le oasi della resistenza vengono occupate l’una dopo l’altra. Eppure la resistenza rimane agguerrita e determinata. Di fronte allo spietato generale italiano si erge una figura destinata a entrare nella leggenda, quella di Omar al-Mukhtar, uno sceicco aderente alla confraternita senussita che comanda l’insurrezione armata in Cirenaica e si ritaglierà nella storia libica il ruolo di eroe nazionale.

Ma la sua determinazione non basta, le bande di al-Mukhtar possono ben poco contro un nemico che alla moderna organizzazione militare associa una brutalità medievale, un nemico che incendia i villaggi, avvelena i pozzi, sequestra i beni dei capi senussiti, bombarda l’oasi di Cufra, nido dei ribelli, ricorrendo addirittura a quegli stessi aggressivi chimici che pochi anni prima, sottoscrivendo un solenne patto internazionale, l’Italia si è impegnata a mettere al bando. Per impedire i contatti della guerriglia con il santuario egiziano, dove si rifugiano i ribelli e da dove arrivano aiuti e rifornimenti, viene costruita lungo la frontiera, nel deserto fra il mare e l’oasi di Giarabub, una barriera di filo spinato lunga 270 chilometri.

[Alfredo Venturi, Il casco di sughero, p. 80, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020]

 

Nel 1935, come al solito, i padroni di allora – Italia e Francia – giocarono una piccola partita a Monopoli con la terra degli altri. Con un trattato che prese nome dai suoi firmatari, Mussolini e Laval, la Francia cedette all’Italia un pezzo della terra dei Toubou come premio per la partecipazione di Roma alla Prima guerra mondiale e, ancora più importante, alla rinuncia italiana a rivendicare come propria la colonia francese della Tunisia abitata da molti italiani. Nel 1955 re Idriss I “restituì” il territorio (114.000 kmq) alla Francia. Nel 1973, la Libia di Gheddafi pensando ai giacimenti di uranio e altri minerali rari nella striscia invase quel territorio e citando laccordo Mussolini-Laval, lo annesse nel 1976. Curiosamente tutte le fazioni ciadiane, per contestare le pretese libico, citarono il più vecchio accordo (1899) tra Francia e Regno Unito.

Il Sahel è in ebollizione

Fazioni ciadiane in Guerra per l’uranio delle potenze occidentali (1975)

E qui dobbiamo ritornare, appunto, alle fazioni ciadiane, alla decolonizzazione, alle rivendicazioni tribali e regionali, alle alleanze interne ed esterne. E al bottino. Goukouni Ouaddei entrò nel mondo politico come militante del Fronte nazionale di liberazione del Ciad (Frolinat) che rappresentava le istanze delle popolazioni delle zone centrali e nordiche contro la dominazione dei sudisti rappresentati dal presidente Francois Tombalbaye, considerato uno strumento dellegemonia politica di Parigi nel paese. Il suo assassinio nel corso di un golpe militare nel 1975 aprì ufficialmente, si potrebbe dire, la guerra per le risorse – ingenti depositi di petrolio e uranio – che avrebbero dovuto trasformare radicalmente l’economia del paese e le condizioni della sua popolazione.

Il Sahel è in ebollizione

Eric Salerno, L’intervento libico in Ciad, “Il Messaggero”, 16 gennaio 1981

Da allora gli attori esterni hanno dominato la scena in una competizione che ha visto anni di guerra civile e gli interventi diretti della Libia di Gheddafi e della Francia spesso a sostegno alternato dei medesimi attori interni.

Teatrino di fantocci incrociati (primi anni Ottanta)

Così nell’aprile 1981 ritrovai Goukouni Ouaddei in una N’Djamena devastata dalla guerra civile dove era tornato a riprendere il potere grazie all’apparato militare libico che aveva invaso il paese. L’altalena delle alleanze incrociate e degli interventi armati per “stabilizzare il Ciad”, come spiegarono Parigi e i suoi alleati occidentali e non solo, non si è mai fermata da allora.

Il Sahel è in ebollizione

“Il Messaggero”, 16 aprile 1981

 

Nel giugno 1982 senza le truppe libiche a sostegno, Ouaddei fu costretto (da vecchi alleati come Hissene Habrè, l’uomo su cui per un certo periodo la Francia aveva puntato) a tornare al suo albergo tripolino e ripresero i giochi. Nel 1984, per 48 ore, ci fu una nuova sceneggiata nella capitale libica. Gheddafi e un inviato speciale di Mitterand si misero alla ricerca di un “terzo uomo” da sostituire ai due vecchi attori. La cronaca di quegli anni è solo storia di scontri armati, follie politiche e diplomatiche e di una popolazione divisa dalle radici tribali, religiose ed economiche (pastori contro agricoltori) a cui non viene consentito di trovare una via pacifica verso il futuro.

Il Sahel è in ebollizione

Un paese poverissimo, gendarme francese: la caserma Ciad

Il Ciad oggi è ancora uno dei paesi più poveri del mondo. Il 42 percento della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e secondo l’International Crisis Group, tra il 30 e il 40 per cento del bilancio annuale del paese viene destinato, guarda caso, alle spese militari. In questi giorni, dopo la morte di Idriss Déby Into, il cui ruolo di presidente è stato, per proclama dei militari, ereditato dal figlio, c’è un tentativo di mediazione da parte degli altri quattro paesi del Sahel (Mauritania, Burkina Faso, Mali e Niger) per trovare un punto d’incontro tra le tre correnti politico-militari su un possibile governo di unità nazionale. Un compito oggi probabilmente più difficile e complesso di ieri. Quella fascia del continente africano, come altre più a sud, è presa tra vari conflitti incrociati dove mai come prima l’Islam viene usato come arma di conquista e distruzione e nuovi attori, come la Cina e soprattutto la Turchia, guadagnano nuovi spazi e alleanze economiche e politiche.

 

L'articolo I francesi non se ne sono mai andati dal Sahel. Parte 1 – Il Ciad prima di Déby proviene da OGzero.

]]>
I francesi non se ne sono mai andati dal Sahel. Parte 2 – Il Ciad dopo Déby https://ogzero.org/l-immediato-futuro-del-ciad-i-francesi-non-se-ne-sono-mai-andati-dal-sahel-parte-2-il-ciad-dopo-deby/ Mon, 03 May 2021 08:55:10 +0000 https://ogzero.org/?p=3334 Proseguiamo dopo l’articolo di Eric Salerno con cui abbiamo inaugurato questa particolare attenzione sul passato, il presente e l’immediato futuro del Ciad, con questo punto sui dilemmi legati alla regione del Sahel redatto da Angelo Ferrari, con un podcast finale che raccoglie un’analisi di Luca Raineri.  Il Primo Maggio a Sarah, a 550 km dalla […]

L'articolo I francesi non se ne sono mai andati dal Sahel. Parte 2 – Il Ciad dopo Déby proviene da OGzero.

]]>
Proseguiamo dopo l’articolo di Eric Salerno con cui abbiamo inaugurato questa particolare attenzione sul passato, il presente e l’immediato futuro del Ciad, con questo punto sui dilemmi legati alla regione del Sahel redatto da Angelo Ferrari, con un podcast finale che raccoglie un’analisi di Luca Raineri. 

Il Primo Maggio a Sarah, a 550 km dalla capitale, le forze di sicurezza hanno sparato contro una folla di manifestanti che stava protestando contro il Consiglio militare di transizione (Cmt) al potere in Ciad dalla morte del presidente Idriss Deby, uccidendo almeno 4 persone. La repressione violenta delle manifestazioni è stata criticata da alcuni tra i maggiori sostenitori del Ciad: la Francia, gli Stati Uniti e l’Unione africana (AU). Come già era successo in Sudan dopo la fine di al-Bashir, i ciadiani, stufi dell’arroganza dinastica dei militari filofrancesi, si sono ribellati  e le loro parole sono state raccolte da “AfricaNews”: «Non vogliamo che il nostro Paese diventi una monarchia», ha dichiarato un manifestante di 34 anni, Mbaidiguim Marabel. «I militari devono tornare in caserma per far posto a una transizione civile», ha aggiunto. «La polizia è arrivata, ha sparato gas lacrimogeni, ma noi non abbiamo paura», ha affermato Timothy Betouge, 70 anni. Ma il ruolo dell’unica nazione stabilizzata dall’autocrazia di Déby, fondata sull’esercito, è quello di gendarme per conto della Francia; mentre il suo destino è da sempre legato a quello della Libia e un accordo nel paese maghrebino può provocare squilibrio in Ciad, travasando ribelli e milizie.


Le Carte costituzionali della Françafrique

La democrazia in Africa balbetta. Non è certo una novità e molte repubbliche assomigliano sempre di più a delle monarchie dove il potere lo si assume per successione dinastica. L’ultimo caso è quello del Ciad. Nel giorno della proclamazione dell’ennesima vittoria – la sesta – alle presidenziali del padre padrone del paese, Idriss Déby, segue immediatamente l’annuncio della sua morte sul campo di battaglia. Il presidente-guerriero era al fronte per combattere i ribelli provenienti dalla Libia, il Front pour l’alternance et la concorde au Tchad (Fact). Una versione poco credibile, ma è quella ufficiale. Immediatamente viene formato il Consiglio militare di transizione (Cmt) al cui vertice sale, guarda caso, il figlio di Déby, Mahamat Idriss Déby. Già militare di carriera a capo della guardia presidenziale con esperienza di guerra in Mali, dove ha svolto l’incarico di secondo in comando delle forze speciali impegnate nel conflitto in Azawad. La presa di potere del figlio di Déby – perché di questo si tratta – viene giustificata per «assicurare la difesa del paese in situazioni di guerra contro il terrorismo e le forze del male, e garantire la continuità dello stato». La Costituzione del Ciad, così, diventa carta straccia. La Carta fondamentale prevede, infatti, che sia il presidente dell’Assemblea nazionale a dover subentrare al capo dello stato defunto e non il figlio. Le costituzioni in Africa hanno un valore relativo: si cambiano, si modificano o si stracciano a seconda delle esigenze del momento di chi governa. L’alternanza al potere, come si vede in maniera plastica in Ciad, risponde più al mantenimento di delicati equilibri politici e, a volte, etnici, ma anche internazionali. Il Ciad è considerato un alleato fondamentale della Francia – e dell’intero occidente – nella lotta al terrorismo che sta infestando l’intero Sahel. Quello ciadiano è l’unico esercito dell’area degno di questo nome. Déby padre – dopo la scoperta del petrolio – ha investito tutto sulla sicurezza costruendo un esercito efficiente con lui comandante in capo. Per la Francia perdere un alleato così prezioso nell’ambito dei paesi del G5 Sahel, sarebbe una catastrofe.

L’esercito più addestrato del Sahel sotto scacco di un gruppo ribelle del Tibesti

La morte di Déby, tuttavia, avrà delle conseguenze concrete su tutta l’area. Un Ciad instabile non giova a nessuno. E quindi si spiega un’alternanza al potere così forzata da scatenare le proteste della popolazione, che vive in condizioni molto precarie, e il silenzio della Francia. Non a caso il Ciad è da sempre considerato il braccio armato dell’occidente in un contesto tremendamente instabile come quello saheliano. Secondo Giovanni Carbone, responsabile del Programma Africa dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), ancora una volta, «così come era avvenuto per lo stesso Déby quando arrivò al potere nel 1990, è stato un movimento ribelle proveniente dal nord a cambiare le carte del potere a N’Djamena. Il Ciad è attorniato da contesti di instabilità e benché non fosse il fulcro della regione era un partner ricercato in virtù di una tradizione di impegno militare e di efficienza del proprio esercito. Il paradosso è che mentre N’Djamena è stata chiamata come elemento capace di contrastare Boko Haram e di sostenere il G5 Sahel, non è stata in grado di fermare questo gruppo ribelle», il Fact.

L'immediato futuro del Ciad

L’11 aprile, infatti – giorno delle elezioni presidenziali – il gruppo armato Fact ha attraversato il confine libico, entrando nel Nord del paese con un obiettivo chiaro: liberare il paese dalla dittatura di Déby. Il governo di N’Djamena ha riferito di «un’incursione di diverse colonne di veicoli pesantemente armati», respinta dall’aviazione ciadiana. Governo che ha condannato l’ennesimo tentativo «di destabilizzare il Ciad dalla Libia». Cosa analoga era accaduta all’inizio del 2019, quando i ribelli dell’Unione delle forze della resistenza (Ufr) lasciarono il Fezzan e, avanzando da nord, hanno cercato di arrivare alle porte della capitale del Ciad. A circa mille chilometri di distanza da N’Djamena, vennero fermati dai caccia dell’aviazione francese nell’ambito dell’operazione Barkhane. Oggi, tuttavia, occorre constatare che la Francia non ha intenzione di intervenire direttamente, almeno per ora.

Dirette conseguenze della smobilitazione annunciata delle milizie libiche?

Rimane l’incognita libica. La tregua raggiunta in Libia e il previsto ritiro dal paese di tutti i combattenti stranieri, solleva interrogativi sul futuro dei mercenari africani impegnati da anni nel conflitto libico. Secondo Claudia Gazzini, analista dell’International Crisis Group, sentita da “InfoAfrica”, sono «quattro i gruppi armati dell’opposizione ciadiana in Libia», complessivamente duemila uomini, «di cui più della metà ha combattuto per il generale Khalifa Haftar». Il Fact è in Libia da tanti anni, spiega Gazzini, e «tra fine 2018 e inizio 2019, quando Haftar è entrato nel sud della Libia, è passato dalla sua parte. La sua base era nella zona di Jufra, nel Sudovest libico». L’analista del Crisis Group, spiega che il Fact «ha attraversato il confine libico, è entrato nel Nord del Ciad, è arrivato a Zouarké e li si è fermato. I miliziani non sono entrati nelle cittadine dove ci sono le basi militari, non sono entrati a Wour, e quindi la forza militare ciadiana non è intervenuta».

L'immediato futuro del Ciad

Haftar, Emirates, Wagner: la smobilitazione spinge il Fact in Ciad

Ci sono stati due raid aerei e i ribelli hanno detto di non aver subito perdite, ma qui è difficile distinguere tra realtà e propaganda. Di sicuro, secondo Gazzini, «nessuno sembra particolarmente allarmato da questa avanzata, a differenza del 2019, quando ci fu l’incursione francese». Quale sia lo scopo del Fact, non è ancora chiaro. Rimane un’incognita. Di certo i combattenti di questo gruppo sono ben armati e con molta probabilità le armi sono di provenienza russa ed emiratina, non è un mistero, infatti, che a fianco di Haftar si sono schierati gli Emirati e il gruppo di mercenari russi della Wagner.

Il tema del rimpatrio dei mercenari africani, che hanno combattuto in Libia, nei paesi di origine non è da trascurare. L’incursione del Fact potrebbe avere il significato di contare, in futuro, nel riassetto del Ciad così da poter comprendere anche le milizie ribelli. Ma è solo un’ipotesi. Il non intervento occidentale, poi, potrebbe far pensare che si voglia aprire un negoziato, appunto, per includere i gruppi armati nel futuro Ciad, favorendo la smobilitazione degli stessi dalla Libia. Quindi un’incursione, in un qualche modo, se non incoraggiata, ma tollerata dall’occidente. La morte di Déby apre scenari, per ora, ancora sconosciuti. In questo quadro la smobilitazione dei mercenari sudanesi, presenti in Libia, sembra essere più concreto, e già sta avvenendo, ma in Sudan è stato avviato un processo “democratico” che il Ciad non sta vivendo e, soprattutto, Déby ha sempre considerato i gruppi ciadiani in Libia e gli oppositori come dei veri e propri terroristi. Infatti, il Consiglio militare si è rifiutato di negoziare con il Fact. Insomma, un bel rompicapo.

L'immediato futuro del Ciad

In questa fase transitoria non potevano mancare le proteste per quello che in molti definiscono un colpo di stato, nonostante il figlio di Déby si affanni a parlare al paese e a nominare un primo ministro “laico”. Le proteste si sono concentrate, soprattutto, sul fatto che la Costituzione del paese sia stata completamente aggirata e poi, ovviamente, contro l’ingerenza della Francia negli affari del Ciad e contro la transizione. Mahamat Idriss Déby, intanto, ha nominato un primo ministro “civile”, Albert Pahimi Padacké, che è stato l’ultimo primo ministro del maresciallo Déby tra il 2016 e il 2018, poi si è dissociato dalla maggioranza e si è candidato come rivale, indipendente, del capo dello stato alle presidenziali dell’11 aprile. A Radio France International ha spiegato così questo cambio di rotta e l’accettazione dell’incarico: «Ci ho pensato – ha detto – ho esaminato le questioni che il nostro paese deve affrontare oggi. E mi sono detto che ci sono momenti della vita in cui devi accettare le sfide per il bene della tua gente». Di sicuro la nomina di Padacké, da parte del Cmt, dovrebbe servire a placare le proteste. Ma non è così. C’è da chiedersi se le manifestazioni – che hanno già provocato diversi morti, feriti e arresti arbitrari – si estenderanno anche in zone remote del paese e non solo nelle aree urbane.

A gettare scompiglio, poi, è arrivata la nomina, sempre da parte del Cmt, di un segretario personale di Mahamat. Si tratta di Idriss Youssouf Boy, un membro della stretta cerchia familiare. Militare, vicedirettore dell’Agenzia nazionale per la sicurezza e da poco nominato console in Camerun. Insomma, gli affari del Ciad si giocano tutti in famiglia.

Il giovane Déby, durante un messaggio rivolto alla nazione, ha giustificato la creazione dello stesso Cmt adducendo come principale motivazione le dimissioni del presidente dell’Assemblea nazionale che in base alla Costituzione avrebbe dovuto assumere le funzioni di capo dello stato.

Al di là della retorica contro i ribelli, definiti “forze del male”, Déby ha sostenuto che la preoccupazione principale del Cmt sarà quella di garantire la sicurezza e la coesione nazionale nella fase di transizione perché «la guerra non è finita e permane la minaccia di attacchi da parte di altri gruppi armati all’estero». Secondo Déby, il Consiglio militare di transizione non ha altro obiettivo «che garantire la continuità dello Stato, la sopravvivenza della nazione e impedire che sprofondi nel nulla, nella violenza e nell’anarchia». I membri della Cmt sono soldati «che non hanno altra ambizione che servire la loro patria lealmente e con onore».

Mahamat Deby ha poi ricordato la scelta di affidare il governo a una personalità civile, che guiderà un esecutivo di transizione che porterà avanti un’agenda imperniata su riconciliazione nazionale, pace, unità e solidarietà. «Questi valori così cari al nostro defunto presidente saranno testati e sanciti in un dialogo nazionale inclusivo che sarà organizzato durante questo periodo di transizione». Deby ha poi detto di aver assunto il ruolo di “garante” di questo dialogo, secondo «un preciso calendario che il governo sarà chiamato a elaborare». Nel suo discorso il nuovo leader del paese ha annunciato la creazione di un Consiglio nazionale di transizione, rappresentativo di tutte le province e di tutte le forze vive della nazione «per consentire il supporto legislativo dell’azione governativa e dare al paese le basi per una nuova Costituzione». L’obiettivo del processo «è consentire di organizzare quanto prima elezioni democratiche, libere e trasparenti. La democrazia e la libertà introdotte in Ciad nel 1990 sono e rimarranno valori irreversibili». Insomma, tutta retorica, per ora, e di certo la Costituzione non è più un riferimento per il rampollo di Déby padre.

Poi c’è il paese vero

L'immediato futuro del Ciad

Tessalit, 1969. Scatto di Eric Salerno

Poi c’è il paese vero. Quello che dagli equilibrismi internazionali non guadagna nulla, anzi. Il popolo, come spesso accade, è solo sullo sfondo. I dati non sono certo confortanti: l’indice di sviluppo umano è pari a 0,328, molto basso, e colloca il paese al 183esimo posto al mondo, il Pil pro capite è 709 dollari, il tasso di analfabetismo è del 65 per cento. La maggioranza di quasi 16 milioni di abitanti vive in condizione di povertà. Tutto ciò nonostante il paese viva, di fatto, sull’estrazione petrolifera. Un consorzio guidato dalla statunitense ExxonMobil ha investito 3,7 miliardi di dollari per sviluppare le riserve di petrolio a 1 miliardo di barili. Ma poi c’è Idjélé, una donna “robot”, con lo sguardo perso nel vuoto che per dodici ore al giorno, per miseri guadagni, colpisce con un pesante martello un pezzo di cemento per sminuzzarlo e poi rivenderlo. Questo avviene sotto il solo cocente con temperature che superano i 40 gradi.

Nel cuore di N’Djamena, lungo una strada senza ombra ai piedi dei moderni edifici della Cité internationale des affaires, decine di donne spaccano per 12 ore al giorno blocchi di cemento. Idjélé, 38 anni, ma ne dimostra 20-30 in più, ha il viso ricoperto da una polvere biancastra che arrossisce gli occhi, le labbra gonfie e screpolate per l’estrema stanchezza, le dita deformate e graffiate dalla sabbia che raschiano e setacciano per recuperare ogni sassolino ricavato dal blocco di cemento. Queste donne sono al centro di un circolo vizioso, se non tragico, dell’economia sommersa di questo Ciad classificato dall’Onu come il terzo paese meno sviluppato al mondo. Gli uomini comprano macerie nei cantieri demoliti e le rivendono a queste donne che si preoccupano di sbriciolarli per poi rivendere i sassolini ricavati a chi non può permettersi cemento puro o cemento armato, costoro li trasformano in mattoni e con un po’ di fango o cemento vi costruiscono i muri di una nuova casa. Idjélé, guadagna pochi centesimi di euro per ogni sacco di sassolini. Dare dignità a queste donne, tuttavia, non sembra essere nei piani del giovane Déby. Alla comunità internazionale interessa di più che il Ciad continui a svolgere il suo ruolo di stato forte nella regione del Sahel, il resto sono affari interni, compresa Idjélé.

L'immediato futuro del Ciad

N’Djamena, 2015

Proponiamo infine un intervento di Luca Raineri a Bastioni di Orione, trasmissione di Radio Blackout , del 24 aprile 2021, che analizza a sua volta la situazione geopolitica del Sahel, sottolineando le derivazioni economiche dei conflitti etnici e l’incremento della presenza militare europea nella regione – e italiana con il coinvolgimento in forze nella missione Takuba.

“Idriss Déby, un fils de pute, mais notre fils de pute”.

 

L'articolo I francesi non se ne sono mai andati dal Sahel. Parte 2 – Il Ciad dopo Déby proviene da OGzero.

]]>
Galassia jihadista in Sahel https://ogzero.org/galassia-jihadista-in-sahel/ Mon, 06 Jul 2020 07:30:44 +0000 http://ogzero.org/?p=383 La guerra contro la diversità intraislamica: spettacolarizzazione della violenza tra brand dall’outbidding fino all’uccisione di Droukdel La pandemia di Covid 19 ha colpito il continente africano in modo più contenuto rispetto a gran parte del mondo, anche se non si può certo dire che lo abbia risparmiato. Nel quadrante del Sahel, una fascia di territorio […]

L'articolo Galassia jihadista in Sahel proviene da OGzero.

]]>
La guerra contro la diversità intraislamica: spettacolarizzazione della violenza tra brand dall’outbidding fino all’uccisione di Droukdel

La pandemia di Covid 19 ha colpito il continente africano in modo più contenuto rispetto a gran parte del mondo, anche se non si può certo dire che lo abbia risparmiato. Nel quadrante del Sahel, una fascia di territorio dell’Africa subsahariana che comprende o lambisce una decina di paesi – Senegal, Mauritania, Ciad, Mali, Algeria, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Camerun, Eritrea e Sudan – sono stati finora (a metà giugno) registrati in aggregato circa 60mila casi di Coronavirus, con un numero di decessi superiore ai 2mila. I picchi sono stati registrati prevedibilmente nei paesi più densamente abitati, come la Nigeria (16mila casi) e il Camerun (quasi 10mila).

L’emergenza sanitaria globale ha avuto sul pubblico europeo l’effetto di cristallizzare la percezione degli avvenimenti non correlati al coronavirus, come se sul mondo ci fosse un’unica finestra, affacciata sull’epidemia. È però bene tener presente che la pandemia non ha arrestato alcuni processi in corso, anzi, in alcuni casi li ha rafforzati. È anzi possibile sostenere che se essa non si fosse verificata probabilmente oggi si parlerebbe proprio del Sahel come l’area più calda e instabile del pianeta. È in questa porzione di mondo che la galassia jihadista mostra le evoluzioni e prefigura le prospettive più preoccupanti.

Nel solo mese di marzo, in corrispondenza dell’innalzamento del picco dei contagi in gran parte dei paesi del Sahel, i gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda e all’Isis hanno compiuto attentati sanguinari in Camerun, Nigeria, Burkina Faso (dove alla fine di aprile si contano quasi 900mila sfollati interni, aumentati di quasi 300mila da febbraio), Mali e Ciad, uccidendo centinaia di persone. D’altronde proprio in quei giorni l’Isis aveva diffuso un comunicato in cui invitava i suoi affiliati a «non avere pietà e lanciare attacchi contro gli infedeli durante la pandemia», considerata di per sé dall’organizzazione terroristica come una «punizione divina per i non musulmani».

Il 24 marzo, la fazione di Boko Haram guidata da Abubakar Shekau ha ucciso 94 soldati ciadiani in un’imboscata nei pressi del Lago Ciad, mentre nelle stesse ore perdevano la vita 47 soldati nigeriani in un’altra azione condotta dall’Islamic State in West Africa Province (Iswap), ossia l’organismo affiliato a Daesh in cui è confluita una parte dell’organizzazione Boko Haram. Pochi giorni prima, il 19 marzo, in Mali altri 29 soldati venivano uccisi in un attacco condotto dai miliziani qaedisti di Jama’a Nusrat al Islam wa al Muslimin (Gsim).

Nel mese di febbraio sono stati almeno tre gli attentati terroristici coordinati tra i due gruppi, che nel Levante arabo si fanno la guerra l’uno contro l’altro mentre in Africa occidentale, da qualche mese, sembravano aver iniziato a unire gli sforzi per prendere il controllo del territorio di stati politicamente e militarmente deboli. «I combattenti dei due gruppi sembrano coordinarsi negli attacchi e sembrano dividersi aree di influenza nel Sahel, concludendo accordi», aveva detto a fine febbraio alla Associated Press il generale delle Forze speciali americane, Dagvin Anderson. L’evoluzione del protagonismo operativo e dei rapporti tra al-Qaeda e Isis in questo quadrante sono aspetti che richiedono alcune riflessioni, perché il pesante deterioramento delle condizioni di sicurezza nel Sahel occidentale è in corso almeno da cinque anni, e anche perché potrebbero generare alcuni paradossi. Secondo le stime dell’International Centre for Counter-terrorism, con base in Olanda, solo nel 2019 sono state 4mila le persone che in quest’area hanno perso la vita in attentati condotti da organizzazioni terroristiche locali e transnazionali, riconducibili a Isis o al-Qaeda.

Questo scenario ha incontrato un punto di possibile svolta lo scorso 3 giugno, quando le Forze speciali francesi coinvolte nell’operazione Barkhane (cominciata nel luglio 2014) hanno individuato e ucciso in Mali l’algerino Abdelmalek Droukdel, capo di al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi).

3 giugno 2020: annuncio dell’uccisione di Abdelmalek Droukdel, capo e fondatore di al-Qaeda nel Maghreb islamico, in Mali ad opera della missione Barkhane

Abdelmalek Droukdel, laureato in chimica, ex veterano del Gis algerino, esperto in particolare di esplosivi, non era solo il responsabile della “internazionalizzazione” del jihad nella stessa Algeria e nel Sahel, della saldatura di movimenti di guerriglia locali al più ampio e transnazionale jihadismo globalista di al-Qaeda; era anche l’ultimo leader di etnia araba di al-Qaeda nel Maghreb (Aqmi). La sua morte suggerisce innanzitutto che il jihadismo locale rappresentato ora soprattutto dal Gsim è ben avviato in un processo di “africanizzazione” che passerà per il contestuale sfaldamento di Aqmi, più riconducibile a una leadership militare e a ideologi arabi, spesso legati alle prime generazioni di qaedisti (quelli che hanno combattuto contro i sovietici in Afghanistan).

Come spiega in un report del 2018 Djallil Lounnas, il Gsim è oggi il più potente gruppo jihadista attivo nel Sahel. È stato creato nel marzo 2017, risultato della fusione di quattro formazioni: il ramo saheliano di Aqmi guidato da Yahya Abu Al-Hammam (all’anagrafe Djamel Okacha, anch’esso poi ucciso dai francesi nel febbraio 2019); Al-Mourabitoun, formazione qaedista capeggiata da Mokhtar Belmokhtar; Ansareddine, milizia di ispirazione salafita con a capo Iyad Ag Ghali (sul quale si tornerà più avanti); e la katiba (battaglione) Macina, già precedentemente legata alla stessa Ansareddine, alla cui testa c’è il jihadista maliano di etnia peul-fulani, Amadou Koufa.

La guida del Gsim è stata assunta proprio da Iyad Ag Ghali: di etnia tuareg, Ghali ha lunghi trascorsi tra le fila delle legioni internazionali di Gheddafi. Poi è diventato un contrabbandiere, nemico del governo di Bamako, con cui all’inizio del nuovo millennio si riappacifica fino a ottenere l’incarico di consigliere culturale a Jedda, in Arabia Saudita, da cui sarà però espulso nel 2010 proprio per aver provato ad allacciare contatti con al-Qaeda. Nel 2011 prova a intestarsi la guida del Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (Mnla), una formazione di ribelli laici di etnia tuareg che vorrebbero l’indipendenza della regione, tenendosi ben a distanza da al-Qaeda. Fallisce nel progetto di farsi eleggere alla guida del gruppo e decide di fondare Ansareddine, col sostegno finanziario di al-Qaeda. Nel 2012 una guerra civile si esaurirà con il sostanziale inglobamento dello stesso Mnla nel Consiglio di Transizione dello Stato islamico Azawad.

È proprio ad Abdelmalek Droukdel e al capo di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, che Iyad Ag Ghali, il giorno della dichiarazione ufficiale di istituzione del Gsim, giura fedeltà. Ma non solo. La saldatura del Gsim al network jihadista globale è evidente quando ai nomi dei due terroristi si aggiunge quello di Hibatullah Akhunzada, leader dei Talebani afghani, riconosciuto qualche tempo prima “comandante dei credenti” dai vertici del gruppo fondato da Osama Bin Laden. La decisione di includerlo, inoltre, conferma un altro aspetto importante: il Gsim rigetta l’idea della fedeltà allo Stato Islamico proclamato a Mosul (Iraq) nell’estate 2014 da Abu Bakr al-Baghdadi. Da un punto di vista geopolitico, invece, si tratta di una risposta alla creazione – avvenuta ufficialmente nel 2014 – del G5 Sahel, una piattaforma di coordinamento soprattutto sui temi di sicurezza da parte di Mauritania, Burkina Faso, Ciad, Mali e Niger, sotto la leadership francese.

Parallelamente, nell’Est e nel Sud del Mali, nei pressi dei confini con Burkina Faso e Niger, è nato nel maggio 2015 il meno numeroso (circa 450 combattenti) tra gli “Stati islamici” dichiarati in giro per il mondo dalla comparsa sulla scena di Abu Bakr al-Baghdadi. Lo Stato islamico del Sahara maggiore (Isgs) è il risultato di una scissione all’interno del citato movimento qaedista di al-Murabitoun, che a sua volta è nato nel 2013 come “joint venture” tra il Mujao (Movimento per l’unicità del Jihad in Africa occidentale) e la katiba Mulaththamin (“battaglione degli inturbantati”) di Belmokhtar, separatosi dall’Aqmi. La nascita formale dell’Isgs viene riconosciuta dall’Isis, che ne proclama l’affiliazione ufficiale, oltre un anno dopo, nell’ottobre 2016.

Il motivo risiede nella sua scarsa popolarità locale rapportata a quella del Gsim, ben più radicato, e nel maggiore riguardo che i vertici dello Stato islamico hanno verso un altro Stato islamico, quello delle province dell’Africa occidentale (Iswap), in particolare la Nigeria. Si tratta di Boko Haram, il gruppo attivo dal 2009 e balzato agli orrori delle cronache occidentali soprattutto dopo il rapimento delle 276 ragazze chibok. Nel 2015 si affilia all’Isis, assumendo la denominazione di Iswap e diventando la più numerosa formazione jihadista riconducibile all’Isis di tutta l’Africa (quasi 4mila uomini). La guida nell’estate 2016 è affidata direttamente da al-Baghdadi ad Abu Musab al-Barnawi, figlio del fondatore di Boko Haram, Mohammad Yusuf, mentre una costola dell’Iswap continuerà a operare come Boko Haram, sotto il comando dell’irrequieto Abubakar Shekau (per certi versi marginalizzato dai vertici dell’Isis, anche se formalmente ancora affiliato).

I rapporti tra al-Qaeda e l’Isis sono sempre stati difficili. Se però in Siria e Iraq le battaglie tra i due gruppi (soprattutto nelle espressioni dello Stato islamico del Levante e di Jabhat al Nusra, ramo siriano di al-Qaeda) sono state frequenti e diffuse, nel Sahel c’è stata un’unica battaglia nel giugno 2015 all’interno della regione Gao (Mali), tra Aqmi e Isgs, nella quale il capo di questi ultimi, Adnan Abu Walid al-Sahrawi, venne gravemente ferito. Per il resto, i due gruppi hanno sempre evitato scontri diretti.

Al-Qaeda e Isis differiscono soprattutto negli obiettivi strategici: se per al-Qaeda la creazione di un “Califfato mondiale” è un obiettivo ultimo, quasi filosofico, lontano, sviluppo naturale di una strategia con cui si intende “sfinire” l’Occidente attraverso la realizzazione di attentati, scatenando reazioni militari che poi dovrebbero indurre le popolazioni arabe a insorgere contro quest’ultimo, creando alla fine uno Stato islamico, per l’Isis la fondazione di uno Stato islamico in un dato territorio è un fine concreto, immediato.

Se per al-Qaeda i musulmani dovrebbero colpire gli infedeli ovunque per perseguire una strategia che porti all’istituzione futura di uno Stato islamico, per l’Isis le azioni militari vanno realizzate anche col fine di difendere il territorio già amministrato. Dal punto di vista operativo e strettamente militare, poi, l’Isis rispetto ad al-Qaeda rivendica anche l’uccisione di altri musulmani nelle sue azioni terroristiche, e soprattutto non si limita a esse: gli uomini fedeli al Califfato sono infatti addestrati al combattimento regolare, e partecipano a battaglie convenzionali proprio per conquistare via via porzioni di territorio.

L’Isis ha ancora un suo quartier generale e si finanzia in modo sistematico, anche con la vendita del petrolio, mentre al-Qaeda è ormai frammentata in una miriade di formazioni locali e reperisce risorse soprattutto attraverso i rapimenti. Il fatto che l’Isis abbia creato uno stato, che emetteva addirittura dei passaporti e per un certo periodo è arrivato a battere moneta, spiega anche la sua maggiore capacità di attrazione di “lupi solitari”, di radicalizzati che vengono facilmente coinvolti in una impresa in qualche modo “patriottica”, a difesa di uno stato vero e proprio, anziché di una semplice idea, o promessa.

Nel Sahel, nonostante l’inimicizia ideologica tra Gsim e Isgs, alla fine del 2019 le due formazioni sembravano alle prese con una fase di convergenza tattica, sancita anche dai comunicati stampa diffusi da alcuni loro teologi. Poi, però, è successo qualcosa: i miliziani dell’Isgs, in pieno “stile Isis”, hanno condotto alcune operazioni militari contro soldati nigeriani, ciadiani, maliani e burkinabé, rilasciando i soliti filmati spettacolari a uso propagandistico. Ciò, nell’immediato, ha provocato un’ondata di defezioni dal Gsim allo stesso Isgs. Così, la prospettiva che l’Isgs si saldasse con l’Iswap (che negli ultimi mesi ha marginalizzato i qaedisti di Ansaru), arrivando a controllare potenzialmente un territorio più grande di quello controllato dall’Isis tra Siria e Iraq, ha spinto il Gsim – che rimane il gruppo più potente nell’area – a prendere delle contromisure, sotto forma di un rinnovato protagonismo militare.

L’uccisione di Droukdel arriva in un momento che gli osservatori hanno ragione di ritenere delicatissimo: sembra infatti che l’algerino sia stato eliminato pochi giorni prima di prendere parte a un summit convocato proprio in Mali da Iyad Ag Ghali, capo del Gsim, forse per riorganizzare una strategia contro l’Isis in chiave marcatamente transnazionale, facendola discendere da un coordinamento con i leader arabi di al-Qaeda e cercando di indebolire i leader locali come Amadou Koufa (e come lo stesso Ghali, che ha però rapporti di lungo corso con jihadisti afghani, pakistani e arabi). Secondo altri, invece, Droukdel stava svolgendo un compito speculare: mediare una pace tra l’Isgs di al- Sahrawi (e Iswap) e il Gsim, anche per scongiurare l’ipotesi di un negoziato tra questi ultimi e il governo maliano di Ibrahim Boubakar Keita, alle prese con forti proteste popolari. Come hanno più volte ricordato alcuni report di Amnesty International, solo tra febbraio e aprile del 2020 tra Mali, Burkina Faso e Niger ci sono state circa 200 uccisioni extragiudiziali commesse sui civili dai diversi eserciti locali, con tutto quel che ne consegue in termini di possibilità di reclutamento per i gruppi jihadisti.

Secondo l’analista Colin Clarke sul “Washington post” il motivo principale per cui al-Qaeda e Isis – pur non scontrandosi apertamente e con eguale frequenza nel Sahel, rispetto a quanto fanno in Iraq e in Siria – evitano di sancire forme ufficiali di cooperazione risiede nel timore che rendere pubblico un tale sviluppo possa stimolare un rafforzamento dei dispositivi antiterrorismo e delle risposte militari dei paesi interessati e dell’Occidente.

Seguendo il ragionamento, è possibile sostenere che in Occidente la notizia di una tensione o di un conflitto tra al-Qaeda e l’Isis (nelle loro espressioni locali saheliane) venga accolta positivamente, poiché suggerisce l’idea che combattendosi tra loro i due gruppi finiscano per indebolirsi a vicenda, fino a distruggersi. C’è però un paradosso, spesso sottovalutato, che poggia anche su alcune basi empiriche: per molti versi la competizione locale tra due organizzazioni terroristiche è benefica per queste ultime, al di là degli effettivi sacrificati e delle risorse impiegate, perché rafforza e rende più diffuse le dinamiche di reclutamento, oltre a stimolare l’innovazione e la creatività, attraverso un processo che l’esperta di terrorismo Miriam Bloom ha definito di “outbidding”, teso ad attirare simpatizzanti e affiliati.

In sostanza, se due gruppi terroristici sono nemici tra loro, il protagonismo dell’uno sarà di volta in volta imitato o superato in sofisticazione e letalità dal protagonismo dell’altro, in un circolo vizioso di spettacolarizzazione della violenza finalizzata all’affermazione, del quale ovviamente fanno le spese i civili coinvolti in attentati. Un esempio lo si è avuto lo scorso marzo, quando gli uomini di Abubakar Shekau (Boko Haram) hanno realizzato il più sanguinoso attentato della storia del Ciad, “solo” per rispondere a una analoga azione dell’Iswap. Come ricorda Brian Phillips su “Foreign Policy”, la rivalità tra organizzazioni terroristiche può rafforzare la loro capacità di sopravvivenza, poiché può spingere i civili a prender parte per l’una o per l’altra, stimola l’innovazione (come un’azienda in crisi), fornisce nuovi incentivi e motivazioni agli affiliati, e non ultimo può far deragliare dei processi di pace (come quello che il governo del Mali vorrebbe portare avanti con il Gsim). Questo vale a maggior ragione per gruppi che hanno obiettivi politici diversi, anziché convergenti.

Per questo il caso del Sahel è particolarmente delicato: senza un negoziato di pace è inverosimile la sconfitta delle centinaia di gruppi jihadisti diffusi in un territorio perlopiù ostile, impervio, in cui è difficile condurre operazioni vincenti in modo convenzionale e in cui le rivendicazioni economiche, sociali e umanitarie rendono sempre fertile il terreno del reclutamento. Se la guerra tra Isis e al-Qaeda dovesse esplodere anche nel Sahel, come accaduto in Siria e Iraq, ciò potrebbe indurre l’Isis a giocare la carta del deragliamento programmatico delle prospettive di pace, arrivando a giocare un ruolo via via sempre più centrale, fino a replicare lo scenario del 2012, in cui in Mali venne imposto un regime simil-talebano, dal quale venivano lanciati altri attacchi nella regione. La morte di Droukdel paradossalmente può avere due effetti speculari: finire per rafforzare la prospettiva di un accordo di pace tra governo maliano e Gsim oppure scongiurarlo, favorendo una integrazione tra un Gsim oggi più “africanizzato” e l’universo jihadista dell’Isis.

L'articolo Galassia jihadista in Sahel proviene da OGzero.

]]>
Lo Spirito del tempo che percorre il territorio del Sahel https://ogzero.org/lo-spirito-del-tempo-che-percorre-il-territorio-del-sahel/ Mon, 06 Jul 2020 07:28:38 +0000 http://ogzero.org/?p=393 Nei due anni che vanno dal maggio 2018 al giugno 2020 nel territorio del Sahel si sono verificati cambiamenti che forse oltrepassano i rivolgimenti di una pandemia, poiché sta recedendo la graduale estensione del controllo di Aqmi (al-Qaeda del Maghreb islamico), ma con appoggi saharawi laicissimi, tuareg nomadi che combattevano peul stanziali, con cui han […]

L'articolo Lo Spirito del tempo che percorre il territorio del Sahel proviene da OGzero.

]]>
Nei due anni che vanno dal maggio 2018 al giugno 2020 nel territorio del Sahel si sono verificati cambiamenti che forse oltrepassano i rivolgimenti di una pandemia, poiché sta recedendo la graduale estensione del controllo di Aqmi (al-Qaeda del Maghreb islamico), ma con appoggi saharawi laicissimi, tuareg nomadi che combattevano peul stanziali, con cui han finito con il convergere nella lotta contro gli invasori coloniali occidentali, dando una patina di legittimazione religiosa a conflitti le cui motivazioni vanno ricercate tra entità locali divise tradizionalmente, che cercano di controllare le vie dei traffici illeciti (la droga sovvenziona Daesh) e dei migranti, che sostanzialmente coincidono… e dall’altro lato ci sono settori di collaborazionisti con le politiche antiterroriste di potenze europee, in primis la Francia.

Importante è sottolineare che il Sahel comprende un’area periferica tra le più povere al mondo, con scarso accesso all’acqua, soprattutto a seguito del progressivo prosciugamento del lago Ciad, e con nessuna tradizione nazionale, in quanto fino a pochi anni fa molti erano privi di documenti che attestassero l’appartenenza a uno stato.

Il 4 maggio 2018 avevamo registrato un intervento radiofonico lucidissimo e ancora molto illuminante di Luca Raineri che qui trovate inserito in tre parti per avviare un’analisi incentrata sul Sahel nel momento in cui si assiste a frenetiche manovre a più livelli per sostituire le influenze. Qui è descritto il quadro relativo al contesto, fatto di frontiere liquide e guerre a bassa intensità, al contrario della Siria, dove i brand jihadisti si sono combattuti apertamente:

Ascolta “Giochi di influenze nel Sahel” su Spreaker.

Oltre al passaggio di merci tra Africa subsahariana e Maghreb, quali risorse del territorio sono appetibili ora? Luca Raineri parla di Uranio – più che di petrolio i cui giacimenti maliani sono di scarso valore –, una manna per la voracità delle centrali nucleari francesi, ma meno per il Niger dopo il tracollo del prezzo dell’uranio a seguito del disastro di Fukushima, che ha imposto la ricerca di alternative. Per cui va studiata anche la trasformazione di quell’area dedita alla pastorizia e ora crogiolo e snodo degli interessi globali per quel che riguardano i traffici di armi (crocevia delle guerre in Mali e in Libia), droga e migranti (tra i principali affari dei tuareg, alternativamente impegnati nel contenimento dell’espansione dell’Isis e nella alleanza con lo stesso Daesh contro le forze antiterrorismo del Fc-G5s)

 

Ascolta “Quali interessi economici si intersecano nel crocevia di traffici del Sahel?” su Spreaker.

Forse assistiamo ora al ridimensionamento di quell’interventismo del Marocco a cui alludeva nel maggio 2018 Luca Raineri, che vedeva la monarchia alawide contrapporsi all’Iran, che da sempre cerca di fomentare disordini nell’area per destabilizzarla, eversione avversata dal Marocco. Peraltro più che i gruppetti eversivi stavano cominciando a diventare maggioritarie talune fazioni che mirano a imporre la shari’ia per via di una spinta democratica delle popolazioni.

Ascolta “Le frontiere liquide del Sahel” su Spreaker.

Interessante la ricostruzione della storia del jihad in Sahel e della situazione attuale dopo l’eliminazione a Talahandak dell’emiro algerino Abd al-Malik Droukdel (leader di Aqmi, basata sulla promozione di alleanze claniche) e il conseguente rafforzamento della componente saheliana del jihad qaidista e la definitiva africanizzazione del jihad in Sahel (e infatti si stanno ampliando gli attacchi etnici nel Mopti che contrappone dogon e fulani), che Lorenzo Forlani ha fornito a OGzero con questo Punctum.

 

 

L'articolo Lo Spirito del tempo che percorre il territorio del Sahel proviene da OGzero.

]]>