Brics Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/brics/ geopolitica etc Mon, 18 Sep 2023 20:48:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 G7 – G8 – G20 – G77+1… G8miliardi https://ogzero.org/g7-g8-g20-g771-g8miliardi/ Mon, 18 Sep 2023 20:48:14 +0000 https://ogzero.org/?p=11622 Le famose bande di ragazzini. C’è quello grande e grosso che si tira dietro i suoi e botte da orbi a chi li contrasta. In questa strada non ci dovete mettere piede! Una banda vicina invece l’attraversa, anche se di corsa. Il capo è meno corpulento, ma sa il fatto suo. Altri gruppetti sono incerti, […]

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Le famose bande di ragazzini. C’è quello grande e grosso che si tira dietro i suoi e botte da orbi a chi li contrasta. In questa strada non ci dovete mettere piede! Una banda vicina invece l’attraversa, anche se di corsa. Il capo è meno corpulento, ma sa il fatto suo. Altri gruppetti sono incerti, con chi stare? Un po’ con l’uno un po’ con l’altro. All’aria aperta la situazione è abbastanza caotica. Diversa da prima dove c’era la banda più forte e non ce n’era per nessuno. In più adesso succede che un giorno il sole è rovente e nessuno ha voglia di venir fuori dall’ombra. Un altro diluvia che appena ti affacci in strada quasi anneghi. Un disastro. Non si capisce più niente. Bisogna solo aspettare che i ragazzini, ragazzine incluse, crescano. Ma cresceranno?


Quando sarai grande…

Sì, diventeranno grandi. Anzi G(randi)20. Una specie di super banda che cerca di spartirsi le zone di influenza. Assenti XI Jinping e Putin. Presente! però Giorgia M. e questo ci rincuora.
Il padrone di casa, Modi si è indaffarato moltissimo, senza fare i pignoli su come per l’occasione ha ripulito le periferie di Nuova Delhi. Vuole che l’India sia chiamata Bharat, e su questo niente da dire. Sta già scritto nella Costituzione. Per noi di una certa età va anche meglio perché nel nostro immaginario gli indiani continuano a essere i nativi americani (stavo per scrivere i peller…).
Poi ha ufficialmente siglato la Global Biofuel Alliance a cui aderiscono Brasile, Stati Uniti, Bangladesh, Argentina, Sudafrica, Mauritius, Emirati Arabi e Italia, oltre a Bharat. Mi propongo a Giorgia come servitore della patria ai prossimi incontri nelle Mauritius. Ci tengo ai biocarburanti.

Non è passata inosservata la dichiarazione fatta da Stati Uniti e IBSA – India, Brasile, Sudafrica – sul potenziamento degli aiuti finanziari al Sud Globale.
La geografia sta slittando verso il meridione del mondo. Da un punto di vista delle aspirazioni geopolitiche, delle prese di parola, non può non piacere. Dirà l’avvenire se sarà un guadagno per la Terra e l’Umanità.

 

Nel quartiere c’è sempre qualcuno dei ben piantati che invece di farsi vivo in piazza con lo sguardo strafottente se ne sta non si sa dove. Perfino quelli della sua banda sono sconcertati. Cosa starà macchinando?


… saprai perché…

Xi Jinping perché non è venuto? Se ne fotte? Il suo ruolo se lo gioca nei Brics? Cioè Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica e prossimi Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Emirati arabi uniti e Arabia saudita. Augurandosi che non si trasformino in Bricsaeeieauas.  L’erede di Mao lascia intenzionalmente il G20 all’India? Sembrerebbe di sì.

Modi ha così organizzato gli accordi, fossero anche solo pacche sulle spalle, senza la Cina. Tutta questa sua agitazione sta in piedi? Amico di tutti e di nessuno? Putin ha fatto bene a starsene dov’è, deve salvare l’eterna anima russa con i carrarmati e questo disturba le calorose strette di mano.

Sta finalmente cambiando la faccia geopolitica del Mondo, detta anche multipolarismo, oppure sono solo geometrie variabili destinate ad essere ormai perennemente variabili? In altre parole, la novità è il movimento continuo e non la configurazione che assume?

… è un gioco strano: devi imparare…

L’IMEC è una prima risposta. Un baccanale di acronimi da imparare a memoria. India-Middle East-Europe Economic Corridor. Lo promuovono il principe saudita Mohammed bin Salman Al Saud, il presidente degli Emirati Arabi Uniti Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, la presidente dell’Unione Europea Ursula von der Leyen, la primo ministro italiana Giorgia Meloni, il capo della Banca Mondiale Ajay Banga e, ovviamente, Joe Biden e Narendra Modi. Treni, porti, fibre ottiche, pipeline, autostrade, ponti, hub.

Applausi a scena aperta.

Uno per tutti, quello di U.v.der Leyen: «È un ponte verde e digitale tra i continenti e le civiltà».

All’esterno del G20 un encomio altissimo.

Viene da Netanyahu: «Israele è al centro di un inedito progetto internazionale che unirà infrastrutture dall’Asia all’Europa, realizzerà una antica visione e cambierà il Medio Oriente, Israele, e influenzerà il mondo intero».

Coro stellare per un mondo a più facce? Risposta robusta, dieci anni dopo, alla Via della Seta cinese? Entusiasmo a buon mercato? Trionfalismo fuori posto?

… è un gioco strano: devi imparare…

Calma, dice la Cina: «Il tempo mostrerà la differenza tra un’iniziativa che abbraccia tutti con cuore aperto [la Belt and Road Initiative cinese] e una di idee ristrette che divide le nazioni. Noi speriamo che l’IMEC non diventi così».

Risposta secca e stizzita.

I giochi sono aperti e soprattutto il quadrante del mondo si è messo in moto. Una cosa è sicura, il Medio Oriente torna ad essere uno snodo delle politiche mondiali.

Se qualcuno poi, sprovveduto di finezze geopolitiche, osserva un po’ più da vicino i Grandi 20, presenti e assenti, il modo con cui governano i loro paesi e come fanno e disfanno le loro società, qualche brivido giù per la schiena gli corre. Allora il sempliciotto inesperto sceglie di chinarsi sulla minuteria storica e scopre, per esempio, che un treno merci con 36 vagoni container è partito dal sud della Russia, ha attraversato l’Iran, già nemico numero uno dell’Arabia Saudita, e poi dallo Stretto di Hormuz è stato travasato via mare a Gedda, in… Arabia Saudita. A fine agosto.

Oppure viene informato che a Ryad, capitale dell’Arabia Saudita, lo scorso 11 settembre grazie all’Unesco  era in visita ufficiale una delegazione del governo israeliano, anteprima di una possibile normalizzazione tra i due stati mediorientali. Il candido osservatore inoltre si stupirà vieppiù nel vedere che Erdoğan, il sultano turco, si sia subito scagliato contro il corridoio in questione proponendone uno di gamma superiore. Provvisoriamente definito – che strano! – corridoio turco.

… è tutto scritto, catalogato: ogni segreto, ogni peccato…

Non stanno mai fermi i Grandi, anche i Meno Grandi. Saltabeccano da un summit, da un vertice all’altro un po’ qua un po’ là. Finito uno, di corsa all’altro [Brics, 21/24 agosto, G20, 9/10 settembre, G77+Cina a Cuba, dal 15 settembre]. Gli farà bene tutto questo sbattimento? E se prendono aria? E se fanno indigestione? E se perdono l’orientamento? E il jet lag? Cos’è, fregola di contrasto alla depressione?
C’è un moto ondulatorio o sussultorio nella geopolitica? Preludio ad eventi tettonici più duri e consistenti?

Se scendo dai vertici e lo chiedo a una immigrata filippina a Ryad, a un palestinese di Nablus, a una giornalista kurdo-turca in carcere, mi guardano con un certo disincanto. Eppure.

… quando sarai grande, saprai perché

Qualcuno si perde, altri mettono su famiglia, qualcuno ricorda con nostalgia e parla male dei nuovi ragazzini di strada, certi fanno carriera.

Tutto il GMondo è paese.

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Ucraina. Chiavi di lettura dal Latinoamerica https://ogzero.org/ucraina-chiavi-di-lettura-dal-latinoamerica/ Sun, 04 Sep 2022 00:00:38 +0000 https://ogzero.org/?p=8732 Senza attrarre la doverosa attenzione internazionale i giganti del Latinoamerica sono stati teatro di alcuni episodi e appuntamenti inconsueti tra fine agosto e inizio settembre, inquietanti ma forse il continente stesso ci può dotare di chiavi geopolitiche di lettura per spiegare i rivolgimenti derivanti dalla lenta distribuzione degli schieramenti entro cui vanno configurandosi i due […]

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Senza attrarre la doverosa attenzione internazionale i giganti del Latinoamerica sono stati teatro di alcuni episodi e appuntamenti inconsueti tra fine agosto e inizio settembre, inquietanti ma forse il continente stesso ci può dotare di chiavi geopolitiche di lettura per spiegare i rivolgimenti derivanti dalla lenta distribuzione degli schieramenti entro cui vanno configurandosi i due fronti destinati a contrapporsi in ogni ambito del conflitto globale, che i traffici di armi dimostrano essere realmente tale, visto che il mondo partecipa alla corsa al riarmo… per poi andare a definire le sfere di influenza in punta di baionetta.

Avevamo chiesto a Diego Battistessa questo sguardo dall’altro lato dell’Atlantico sulle conseguenze del conflitto in Ucraina prima che venisse alla luce lo sventato golpe militare in Brasile – preventivo, orchestrato negli ambienti fascisti vicini al presidente in carica – volto a contrastare la probabile vittoria di Lula alle elezioni di ottobre; e non era ancora avvenuto il fallito attentato a Cristina Kirchner in Argentina; e nemmeno si era svolto il referendum sulla Costituzione cilena che doveva scardinare il lascito di Pinochet. Ma forse anche questi avvenimenti, dopo aver letto questa ricostruzione ragionata degli eventi collegabili al mondo latinoamericano, possono venire letti con lo scopo di schierare il Cono Sur – o sue parti –, da un lato o dall’altro.

OGzero


Sei mesi di guerra in Ucraina

Chiavi di lettura dell’approccio sudamericano

A sei mesi dall’invasione russa dell’Ucraina, oltre al tragico costo umano della guerra, molti degli equilibri geopolitici e geoeconomici sono stati scossi, ridisegnando una nuova normalità fatta di impennate dell’inflazione, costi esorbitanti dell’energia, nuove alleanze politiche e movimenti nello scacchiere mondiale. Cosa è successo in America Latina e nei Caraibi in questi sei mesi e come hanno reagito i leader politici del subcontinente latinoamericano di fronte all’attacco di Putin all’integrità dell’Ucraina? Ecco qui una dettagliata cronistoria che ci porta passo dopo passo a creare un mosaico fatto di molte sfumature e paesaggi ancora in definizione.

Febbraio – Marzo

Il movimento tellurico avvenuto dentro la comunità internazionale subito dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio 2022 ha portato decine di paesi e organismi multilaterali a condannare immediatamente e con veemenza quanto stava accadendo.

Prime scelte di campo

Un primo grande passo è stato quello preso dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu che in una risoluzione del 25 febbraio ha provato a fermare sul nascere l’invasione. Dobbiamo qui ricordare che il Consiglio di Sicurezza è uno degli organi principali dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ed è composto di 15 membri, di cui 5 permanenti (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti d’America) e 10 eletti ogni due anni dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. I 5 membri permanenti sono i vincitori della Seconda guerra mondiale e su ogni votazione hanno la possibilità di veto: veto che annulla di fatto le conseguenze della votazione. In questo caso era già previsto che la Russia avrebbe posto il veto alla mozione, impedendo all’Onu di poter prendere in considerazione misure militari di dissuasione contro l’esercito di Putin. Interessante però, per ciò che ci riguarda in questo articolo, è il comportamento degli altri 14 membri, in particolare di Messico e Brasile che siedono come membri “transitori” per questo periodo. Dei 15 aventi diritto al voto, 11 hanno votato a favore della risoluzione che imponeva alla Russia di fermare l’offensiva, ritirare completamente e incondizionatamente le sue truppe dai confini internazionalmente riconosciuti e astenersi da qualsiasi nuova minaccia e uso illegale della forza contro qualsiasi stato che faccia parte delle Nazioni Unite. Tra questi stati firmatari troviamo proprio Messico e Brasile. La Russia come detto ha posto il veto alla risoluzione, di fatto annullandola, mentre si sono astenute Cina, India e gli Emirati Arabi.

In questo caso dunque l’America Latina, rappresentata da Messico e Brasile ha fatto parte del coro di voci che condannavano l’invasione in Ucraina ma la questione era tutt’altro che priva di sfumature, perché solo poche ore dopo l’inizio delle ostilità, è arrivata la notizia ufficiale di un comunicato da parte della Oea (Organizzazione degli Stati Americani), che in una sessione straordinaria esprimeva una dura condanna verso un’invasione definita «illegale, ingiustificata e non provocata», chiedendo «l’immediato ritiro della presenza militare russa» dall’Ucraina. Se però andiamo a leggere i firmatari di tale documento scopriamo che hanno ratificato la “condanna” dell’Oea: Antigua e Barbuda, Bahamas, Barbados, Belize, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Giamaica, Granada, Guatemala, Guyana, Haiti, Honduras, Messico, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Domenicana, Suriname, Trinidad e Tobago, Usa e Venezuela (quest’ultimo rappresentato da un delegato del leader dell’opposizione Juan Guaidó dopo l’uscita dall’organismo multilaterale del governo di Nicolás Maduro nel 2019). Leggendo questi nomi scopriamo delle assenze di prim’ordine come Argentina, Brasile, Uruguay, Bolivia e Nicaragua. (Da ricordare che Cuba fu espulsa dalla Oea nel 1962).

2 marzo 2022

A sei giorni dall’inizio dell’invasione russa in territorio ucraino, l’Assemblea Generale dell’Onu emette una risoluzione che condanna le azioni dell’esercito di Putin. Si tratta di una risoluzione che non ha carattere vincolante e che viene appoggiata da 141 dei 193 Stati che siedono nell’Assemblea. Dei 52 restanti, ben 12 decidono di non partecipare alla votazione (tra questi il Venezuela di Maduro) e solo 5 votano contro: Bielorussia, Corea del Nord, Eritrea, Russia e Siria. Le astensioni sono 35 e tra queste si trovano Bolivia, Cuba, Nicaragua e il Salvador. Insomma, la settimana dopo l’inizio della guerra, l’America Latina mostra una netta divisione tra il gruppo dell’antimperialismo statunitense sorretto dall’asse La Avana – Caracas ed esteso a Managua e La Paz, con l’aggiunta del Salvador guidato da Nayib Bukele (sempre più solo per le sue politiche quantomeno discutibili in termini di libertà e democrazia) e il resto del subcontinente che condanna ufficialmente l’invasione. Una divisione comprensibile se vista dall’alto delle relazioni diplomatiche, economiche e di supporto militare che la Russia ha fornito negli ultimi anni in particolare a tre paesi latinoamericani sempre più isolati dalla comunità internazionale occidentale, quali sono Cuba, Nicaragua e Venezuela.

Figura 1 – Dettaglio voto del 2 marzo 2022

La risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu viene in soccorso a una tergiversazione che come abbiamo visto in precedenza aveva caratterizzato buona parte delle cancellerie latinoamericane tra il 24 e il 25 febbraio, a poche ora dalla notizia che le truppe russe erano entrate in territorio ucraino. Nel mio articolo del 25 febbraio comparso su “Il Fatto Quotidiano” davo appunto conto da San Paolo in Brasile, di come la regione latinoamericana stava reagendo alle ferali notizie che arrivavano dall’Est europeo. I portavoce di Bolivia, Messico e Perù non avevano condannato esplicitamente l’invasione, chiedendo piuttosto l’apertura immediata di un dialogo. Cuba, Nicaragua e Venezuela, paesi notoriamente vicini alle politiche di Mosca, si erano preoccupate fin da subito invece di difendere l’azione militare di Putin anche se con un tenore diverso a seconda dei casi.

Il più veemente era stato Nicolás Maduro, che in un messaggio del 24 febbraio aveva dichiarato: «Cosa si aspetta il mondo? Che il presidente Putin se ne stia con le braccia incrociate e non agisca in difesa del suo popolo?».

Nel discorso non sono poi mancate le accuse alla Nato e all’imperialismo statunitense, additati come principali responsabili di quanto sta succedendo. Daniel Ortega dal Nicaragua aveva difeso il riconoscimento della repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk condannando con forza l’applicazione di sanzioni economiche contro la Russia. Toni diversi da Cuba, dove proprio mentre Putin lanciava il suo attacco all’Ucraina (la sera di mercoledì 23 febbraio in America Latina) il presidente cubano Miguel Diaz-Canel era riunito con Viacheslav Volodin, il presidente della Duma russa (il parlamento russo). Diaz-Canel aveva espresso la sua solidarietà alla Federazione Russa di fronte all’imposizione di sanzioni e all’allargamento della Nato verso i suoi confini, evitando però di fare riferimento all’incursione militare russa in Ucraina. Dall’altro lato, forti invece erano giunte le condanne da parte di Cile, Ecuador, Uruguay, Paraguay, Colombia e del Caricom (la comunità caraibica, organizzazione internazionale che riunisce 15 membri con pieno diritto, oltre a 5 associati e 8 membri osservatori).

Camminavano “sulle uova” Argentina e Brasile, presi alla sprovvista da un’azione militare che li poneva in serie difficoltà di fronte alla comunità internazionale. Sì, perché da un lato, proprio all’inizio di febbraio, il presidente argentino Alberto Fernández aveva offerto il suo paese come “porta di accesso” della Russia all’America Latina durante un incontro molto discusso con Vladimir Putin al Cremlino. Solo di fronte a intense critiche e pressioni sia interne che esterne al suo governo, Fernández era stato costretto a rilasciare una dichiarazione in cui lamentava la situazione in Ucraina, rifiutando l’uso della forza e chiedendo alla Russia di «cessare l’azione militare in Ucraina», ribadendo però che «nessuna delle parti doveva usare la forza». Dall’altro lato il Brasile del presidente Jair Bolsonaro che, la settimana prima dell’inizio della guerra, si trovava in visita ufficiale proprio a Mosca. Un viaggio che, viste le ripetute avvisaglie di Washington sull’imminente invasione russa dell’Ucraina, aveva creato non poche polemiche e tensioni. Dopo il 24 febbraio sono arrivate da Brasilia delle dichiarazioni tiepide che esprimevano preoccupazione per le operazioni militari lanciate dalla Russia contro il territorio dell’Ucraina senza però condannare esplicitamente l’operato di Putin.

La lista dei paesi ostili a Mosca

La lista dei paesi ostili a Mosca fu creata per la prima volta nel maggio del 2021 e annoverava solo due nomi: Stati Uniti d’America e Repubblica Ceca. Si tratta di un documento pubblicato dal governo della Federazione Russa nel quale sono ascritti quegli stati, territori, regioni ed entità sovranazionali che sono coinvolti in attività che il Cremlino considera “ostili” o “aggressive” nei confronti della Russia. La lista è stata ampliata a inizio marzo 2022, pochi giorni dopo la risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu e dopo l’applicazione di forti sanzioni da parte dell’Unione Europea e degli Usa contro la Federazione Russa. Oggi il documento conta al suo interno 56 stati o dipendenze territoriali e l’essere menzionati in questa lista comporta l’applicazione di restrizioni rispetto alle relazioni commerciali, valutarie e diplomatiche con Mosca.

Anche questa lista però ci aiuta a capire che la Russia vuole mantenere aperta la porta all’America Latina visto che nessuno dei paesi di questo subcontinente è menzionato nel documento (fatto salvo per la Guyana francese e le Bahamas, quest’ultima aggiunta alla lista il 24 luglio). Le sanzioni infatti colpiscono la quasi totalità del continente europeo, ad eccezione di Bielorussia, Bosnia ed Erzegovina, Moldova e Serbia; in Asia troviamo Giappone, Corea del Sud, Micronesia, Taiwan, Australia e Nuova Zelanda e nella Americhe (a parte le già menzionate) solo Canada e Stati Uniti d’America. Non viene menzionato nessuno Stato africano o latinoamericano.

Aprile

Il 7 di aprile, sempre all’interno dell’Assemblea Generale dell’Onu, è andato in scena il voto per estromettere la Russia dal consiglio dei diritti umani (decisione straordinaria applicata in passata solo nel marzo 2011 alla Libia). Anche questa volta la comunità internazionale si è trovata divisa, ancora più divisa del voto del 2 marzo, chiaro segnale che la macchina diplomatica del Cremlino è riuscita a ampliare la sua sfera di influenza. Sebbene infatti la votazione abbia ufficialmente comportato la sospensione della Russia dal consiglio dei diritti umani dell’Onu, questa volta i voti a favore sono stati “solo” 93 (contro i 141 di marzo), 24 contrari e 58 astensioni: da notare che ben 18 stati non hanno votato tra cui ancora il Venezuela e in questa occasione anche Bolivia, Cuba, Nicaragua e Suriname, che si erano astenute il 2 marzo, hanno invece votato contro questa risoluzione mentre il Salvador ha confermato la sua astensione. Tra gli astenuti fano però il loro ingresso il Belize, Trinidad e Tobago ma soprattutto il Brasile di Bolsonaro e il Messico di Andrés Manuel Lopéz Obrador. Questione geopolitica non di poco conto se si considera che questi due giganti latinoamericani sono la prima (Brasile) e la seconda (Messico), economia del subcontinente.

Figura 2 – dettaglio del voto del 7 Aprile 2022

Maggio

Brasile di Lula

Il mese di maggio si apre con il clamore provocato dalle parole dell’ex presidente del Brasile, Lula Ignacio da Silva, favorito per le prossime elezioni presidenziali di ottobre nella quali affronterà Jair Bolsonaro (presidente uscente).

Lula, in una lunga intervista realizzata da Time e pubblicata mercoledì 4 maggio ha dichiarato:

«Vedo il presidente dell’Ucraina in televisione come se stesse festeggiando, applaudito in piedi da tutti i parlamenti (del mondo). Lui è responsabile quanto Putin. Perché in una guerra non c’è un solo colpevole», ha detto Lula aggiungendo poi che «Voleva la guerra (Zelenski). Se non avesse voluto la guerra, avrebbe negoziato un po’ di più».

Tra i passaggi salienti dell’intervista troviamo poi anche questo:

«Ho criticato Putin quando ero a Città del Messico, dicendo che è stato un errore invadere, ma penso che nessuno stia cercando di contribuire alla pace. Le persone stanno stimolando l’odio contro Putin. Questo non lo risolverà! Dobbiamo stimolare un accordo. Ma c’è un incoraggiamento (al confronto)!».

Infine, nella sua critica a tutto tondo, Lula non ha risparmiato attacchi agli Stati Uniti d’America e all’Onu, specificando

«gli Stati Uniti hanno un peso molto grande e lui (Biden) potrebbe evitarlo (il conflitto), invece di stimolarlo. Avrebbe potuto dialogare di più, partecipare di più, Biden avrebbe potuto prendere un aereo per Mosca per parlare con Putin. Quello è l’atteggiamento che ci si aspetta da un leader».

Rispetto all’Onu invece il 76enne politico brasiliano ha affermato che «è urgente e necessario creare una nuova governance mondiale. L’Onu di oggi non rappresenta più nulla, non è presa sul serio dai governanti. Ognuno prende decisioni senza rispettare l’Onu. Putin ha invaso l’Ucraina unilateralmente, senza consultare l’Onu».

Giugno

Le alleanze si cercano al Vertice

Il mese di giugno è stato il mese dei vertici internazionali: la Cumbre (in presenza) delle Americhe, celebrato a Los Angeles tra il 6 e il 10 giugno, la riunione dei Brics celebrata in forma virtuale a Beijing il 23 giugno e il vertice (presenziale) del G7 di Schloss Elmau in Germania tra il 26 e il 28 giugno. In tutti e tre i vertici si è parlato della guerra della Russia all’Ucraina ma il peso, la presenza e la visibilità dei paesi latinoamericani sono stati molto eterogenei in questi spazi di dialogo e di decisione. Da un lato, il vertice delle Americhe, ospitato quest’anno dagli Usa, ha mostrato la grande frattura esistente nel continente visto e considerato che su 35 stati possibili partecipanti alla fine sono intervenuti solo 26 paesi: con il Brasile arrivato in extremis per la soluzione all’ultimo minuto di un disaccordo tra Biden e Bolsonaro. Cuba, Nicaragua e Venezuela non sono stati invitati e per solidarietà con questi tre paesi non sono intervenuti neanche i presidenti di Bolivia, Honduras e Messico. Dall’altro lato Salvador e Guatemala sono in rapporti molto aridi con l’amministrazione Biden e hanno declinato l’invito, mentre il presidente dell’Uruguay non ha potuto partecipare perché positivo al Covid-19. Un vertice dunque “azzoppato” che ha mostrato l’isolamento Usa nel subcontinente latinoamericano riaffermando la distanza delle politiche e delle visioni di Washington da molte delle amministrazioni latinoamericane. Questo è sicuramente un elemento ad appannaggio di Mosca che, non ha partecipato “fisicamente” al successivo G7 in Germania ma che è stata il centro del dibattito dei 7 “big” presenti: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America (oltre a una rappresentanza politica della UE).

Da ricordare che quello che oggi è il G7 era in precedenza il G8 e includeva anche la Russia. La Federazione russa fu espulsa dal gruppo a seguito della crisi in Ucraina del 2014 che portò all’annessione della penisola di Crimea da parte del presidente russo Vladimir Putin.

Schloss Elmau, G7 del 26 giugno 2022

Al vertice tedesco ha partecipato come invitato il presidente argentino Alberto Fernández, in veste di rappresentante della Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi (Celac). Fernández in questa occasione ha condannato dalle Alpi bavaresi l’operato della Russia in Ucraina, dando un segnale importante di allineamento con le politiche di Washington e della UE.

Solo alcuni giorni prima del G7 però (il 23 giugno) la Russia era stata protagonista del vertice dei Brics, acronimo coniato per associare cinque grandi economie emergenti: Brasile, Cina, India, Russia e Sud Africa. Questo gruppo, che si riunisce dal giugno del 2009, ha rappresentato per anni il paradigma della cooperazione Sud-Sud ed è visto come un’alternativa alle politiche di influenza statunitensi o anche “occidentalocentriche” a livello globale. Tra questi 5 paesi spicca il Brasile, come detto la più grande economia latinoamericana che, per bocca di Jair Bolsonaro, ha detto di voler rafforzare e ampliare la collaborazione commerciale con Mosca. Anche qui troviamo però ancora una volta l’Argentina, paese candidato a un prossimo ingresso nel gruppo, come ricordato proprio nei giorni del suddetto vertice dal ministro degli esteri russo Sergéi Lavrov, in un annuncio nel quale sembrava dire che l’ingresso di Buenos Aires nei Brics potrebbe essere prossimo.

Luglio

Latenti manovre rendono ondivaga la posizione continentale

A inizio luglio si manifesta un segnale inequivocabile rispetto alle profonde divisioni generate dall’invasione russa in Ucraina in America Latina e alle correnti di pensiero a questo riguardo. Il presidente ucraino Volodímir Zelensky fa richiesta ufficiale al Paraguay di poter essere presente in videoconferenza nel prossimo vertice del Mercosur (Mercato Comune del Sud) che sarebbe stato celebrato appunto ad Asunción, capitale del paese sudamericano giovedì 21 luglio. Zelensky, forte dei precedenti discorsi realizzati in svariati forum e vertici internazionali come quello della Nato, del G7, alle Nazioni Unite e nel Forum Economico Mondiale vuole ripetere l’impresa, magari proponendo uno “speech” cucito ad hoc per l’occasione, così come ha fatto in diversi parlamenti in giro per il mondo. In quei giorni è lo stesso ministro degli esteri del Paraguay, Julio Cesar Arriola, a dare la notizia della richiesta che il presidente ucraino ha presentato direttamente a Mario Adbo Benítez (presidente del Paraguay), spiegando però che la domanda verrà sottoposta al vaglio di tutte le parti interessate. Sembrava un puro rito diplomatico e invece arriva il colpo di scena: dopo una votazione interna e segreta del blocco commerciale composto da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay arriva il diniego. Zelenski non parlerà al vertice Mercosur, e a dirlo in una conferenza stampa è questa volta il viceministro degli esteri paraguaiano, Raúl Cano Ricciardi, che però non svela quale paese o quali paesi abbiano votato contro la richiesta del presidente ucraino.

L’America Latina ci ha però abituato a continui colpi di scena e solo 4 giorni dopo il mancato appuntamento di Zelenski con il vertice del Mercosur di Asunción succede qualcosa che ancora una volta muove le carte in tavola. Si perché il 25 luglio arriva la prima visita di un presidente Latinoamericano a Kyiv: si tratta di Alejandro Giammattei, presidente del Guatemala dal 14 gennaio 2020. Questa visita è la prima di un presidente dell’America Latina dal 24 febbraio (data dell’inizio dell’invasione russa) ma è anche la prima in generale degli ultimi 12 anni. Giammattei che aveva ricevuto l’invito a recarsi in Ucraina nel giugno scorso proprio da Zelenski, ha visitato le oramai tristemente famose città di Bucha, Irpin e Borodianka, assicurando che il suo paese non lascerà solo il popolo ucraino nel momento della ricostruzione.

Agosto

Ad agosto, a sei mesi dall’inizio dell’invasione ci troviamo di fronte a un altro “coup de théâtre” questa volta organizzato dall’asse Caracas-Mosca. Infatti il Venezuela di Maduro è diventato il 13 agosto il primo paese latinoamericano a ospitare come anfitrione le “Army Games”, anche chiamate “Olimpiadi della Guerra”. Ovvero delle competizioni militari organizzate proprio dal ministero della Difesa della Russia dal 2015. Ai “giochi” hanno partecipato 270 squadre provenienti da 37 paesi e le gare hanno avuto luogo tra il 13 e il 27 agosto, in 36 modalità di competizione (in Venezuela hanno gareggiato i cecchini). Oltre a Venezuela e Russia, anche Algeria, Bielorussia, Cina, India, Iran, Kazakistan e Vietnam sono state le sedi secondarie dell’edizione di quest’anno. L’alto comando militare venezuelano ha mantenuto un certo riserbo sull’evento, che ovviamente ha risvegliato l’interesse e la preoccupazione degli Usa, visto che la competizione ha comportato l’arrivo di centinaia di militari stranieri in Venezuela. Soldati provenienti da Abcasia, Bielorussia, Cina, Iran, Myanmar, Russia e Uzbekistan: paesi che in molti casi sono colpiti dalle sanzioni degli Stati Uniti d’America.

Ad aumentare la tensione anche una “coincidenza”, se tale si vuole considerare. Infatti le “Olimpiadi della guerra” sono iniziate proprio mentre si concludevano le operazioni militari annuali organizzate dal comando sud degli Stati Uniti d’America: operazioni battezzate PanamaX 2022. A questa importante esercitazione, svoltasi tra il 1° e il 12 agosto, hanno partecipato le forze armate di Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Repubblica Domenicana, Giamaica, Guatemala, Honduras, Messico, Panama, Paraguay, Perù Salvador e Spagna.

Proprio mentre si svolgevano le “Olimpiadi della Guerra” in Venezuela con la benedizione del Cremlino, avviene però un altro colpo di scena. Zelenski riguadagna lo spazio che gli era stato negato al vertice del Mercosur e mercoledì 17 agosto, questa volta nelle aule della Pontificia Universidad Católica de Chile (Puc) riesce a parlare in videoconferenza mandando un messaggio ai presidenti della regione e a tutto il popolo latinoamericano, al quale ha chiesto di cessare il commercio con la Russia.

Ha poi aggiunto: «Per credere a quello che sta succedendo, è importante vederlo. Voglio che i vostri leader, i giovani, vengano in Ucraina. Per noi è importante che l’America Latina conosca la verità», apparendo per la prima volta su uno schermo latinoamericano a 175 giorni dall’inizio della guerra.

Un messaggio seminato in Cile, paese dove il giovane presidente Gabriel Boric aveva da subito dato il suo appoggio, in termini umanitari, verso il popolo ucraino.

Di fronte a tutto questo rimante difficile decifrare le vere intenzioni di Putin in America Latina, dove però sicuramente le sue alleanze con Cuba, Venezuela e Nicaragua e i suoi ammiccamenti ad Argentina e Brasile hanno complicato la risposta dell’Occidente alla sua invasione dell’Ucraina. Non sono da sottovalutare però le agende dei singoli paesi latinoamericani che dal canto loro potrebbero “usare” Putin come “spauracchio” da giocare nell’infinita partita a scacchi con Washington e Beijing, i due poli che continuano a oggi a esercitare comunque la maggiore influenza nella regione.

Conseguenza economiche della guerra nell’area Cono Sur

Chiavi di lettura delle alleanze globali

Per dare uno sguardo in chiave economica di come quanto sta succedendo in Ucraina abbia un riflesso diretto sulle società nazionali della regione latinoamericana, possiamo fare riferimento a un’analisi realizzata dal Real Instituto Elcano di Madrid, elaborata da Carlos Malamud e Rogelio Nuñez Castellano dal titolo L’America Latina e l’invasione dell’Ucraina: il suo impatto sull’economia, la geopolitica e la politica interna.

Spiegano Malamud e Nuñez Castellano che i paesi dell’America Latina, seppur in posizione periferica si vedono influenzati in modo importante dalla crisi in Ucraina. Economicamente, l’aumento dei ricavi per i paesi produttori di materie prime, in particolare idrocarburi, ha convissuto con il rimbalzo inflazionistico causato dall’aumento dei prezzi dell’energia e dalla scarsità di importazioni dalla Russia (fertilizzanti) e dall’Ucraina (cereali). Ci sono stati notevoli disaccordi all’interno di ciascun paese sulla posizione di fronte al conflitto, questione che rende ancora più difficile la politica interna in mezzo alla crescente incertezza sul futuro dell’economia mondiale e regionale, con un possibile aumento dei disordini sociali (vedi il caso delle recenti proteste a Panama). Inoltre la lotta geopolitica globale per il controllo e l’accesso alle risorse energetiche, ha rilanciato alcune potenze petrolifere regionali (come il Venezuela) e ha favorito alcuni spazi commerciali in termini di esportazioni (per esempio quelli argentini con l’esportazione di cereali).

Un’altalena di costi e benefici che però se vista nella foto regionale porta delle cifre tutt’altro che ottimistiche. Secondo i dati della Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (Cepal) resi noti a fine aprile scorso, il conflitto in Ucraina ha esacerbato i problemi di inflazione, aumentando la volatilità dei costi finanziari abbassando le stime di crescita regionale da 2,1% (gennaio 2022) a 1,8% (aprile 2022). Le economie del Sud America cresceranno dell’1,5%, quelle del Centro America e del Messico del 2,3%, mentre quelle dei Caraibi cresceranno del 4,7% (esclusa la Guyana).

Sempre la Cepal, nel volume Ripercussioni in America Latina e Caraibi della guerra in Ucraina: come affrontare questa nuova crisi? pubblicato a giugno, parla anche di un lento e incompleto recupero del mercato del lavoro dopo il Covid-19, prevedendo che la povertà e la povertà estrema supereranno i livelli stimati per il 2021.

«L’incidenza della povertà regionale raggiungerà il 33,7% – 1,6 punti percentuali in più rispetto alle proiezioni per il 2021- mentre la povertà estrema raggiungerà il 14,9% – 1,1 punti percentuali in più rispetto a nel 2021».

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La guerra non ha il congiuntivo, ma l’economia sì https://ogzero.org/la-guerra-non-ha-il-congiuntivo-ma-leconomia-si/ Wed, 06 Apr 2022 20:39:01 +0000 https://ogzero.org/?p=7001 Dichiarata la guerra il suo banale corredo è intriso di propaganda, retorica, ostentazioni scontate e risapute ipocrisie; strategie e dichiarazioni, video reali e manipolati su cui dibattere vanamente costellano la cronaca… Tutto questo orrore è consueto e si riassume nella parola “guerra”. Ormai è in corso e dovrà arrivare al fondo, che sia un Blitzkrieg, […]

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Dichiarata la guerra il suo banale corredo è intriso di propaganda, retorica, ostentazioni scontate e risapute ipocrisie; strategie e dichiarazioni, video reali e manipolati su cui dibattere vanamente costellano la cronaca… Tutto questo orrore è consueto e si riassume nella parola “guerra”. Ormai è in corso e dovrà arrivare al fondo, che sia un Blitzkrieg, una “operazione speciale”, o un impantanamento di un poderoso esercito; una resistenza determinata, motivata o preparata… seguirà il suo corso e avrà sul campo una delle due o tre potenziali soluzioni. Quella cronaca diventerà storia, come le stragi di civili, i massacri di comunità, le distruzioni di case e mezzi bellici; la frustrazione, le defezioni e gli arruolamenti di mercenari e l’esaltazione della truppa: sentimenti da gestire per evitare spiacevoli “effetti collaterali”.
I morti ne sono ovvio corollario.
La precognizione di quale potrà essere il coinvolgimento del mondo si avvicina maggiormente all’approfondimento a un livello più elevato di uno squallido salotto televisivo. Cinicamente la geopolitica considera nella sua contabilità questi dati comuni a tutte le guerre e li fa interagire: ciò che interessa all’analista geopolitico è la trasformazione socio-economica dopo una guerra che coinvolge potenze di questo livello. Come si svilupperà l’esistenza in tempo di guerra e quale sarà la ricaduta sull’economia mondiale? tariffe del grano e bollette energetiche, approvvigionamento e reti di distribuzione… fame e freddo. Le svolte imposte da una guerra di queste proporzioni all’economia neoliberista imperante da 30 anni potrebbero far deragliare il libero mercato e dunque lo scenario che si comincia ad aprire è quello dello statalismo: non incentrato sul welfare ma quello bellico, fatto di riarmo e interventismo monetarista, di autarchia e di stretto controllo da parte del potere di ogni aspetto macroeconomico: centralizzazione del controllo dell’energia e sua nazionalizzazione.

Fin qui la sintesi di OGzero dopo le sollecitazioni di questo nuovo articolo di Yurii Colombo che state per leggere


Sindromi propagandistiche e stalli reali

I sondaggi d’opinione in Russia (per quanto possano valere quelli in tempi di “operazioni speciali”) sostengono che la popolarità di Putin sia aumentata dall’inizio del conflitto. Non deve stupire. Il rublo si è in parte ripreso, le sanzioni inizieranno a farsi sentire tra qualche mese e il nazionalismo russo nelle “ore supreme” è storia nota. L’annuncio di Putin poi di voler chiedere in cambio del gas e del petrolio ai paesi “non amici” il pagamento in rubli ha inorgoglito i russi anche se poi continueranno a ricevere i soliti euro e dollari anche nel futuro. La dedollarizzazione di parte delle transazioni internazionali era già stata fatta baluginare dal presidente russo ai tempi dei Brics, ma continuerà ad avere un difficile decollo se non diventerà un’arma di Pechino.

Del resto le truculente interferenze di Joe Biden hanno aiutato il Cremlino a fornire un’immagine alla propria opinione pubblica da “cittadella assediata”, in cui l’aggressore tenta di dimostrare contro ogni evidenza di essere l’aggredito. Le stesse campagne di russofobia che qua e la sono emerse in tutto l’Occidente hanno dato la possibilità a Dmitry Peskov, il portavoce ufficiale di Putin, di sostenere di «essere di fronte a campagne simili a quelle dei nazisti quando bruciavano i libri negli anni Trenta». Anche misure come quelle assunte dalla società farmaceutica tedesca Miltenyi Biotec, un produttore di attrezzature e materiali per la terapia cellulare, che ha smesso di fornirle alla Russia a causa del conflitto, producendo un (giusto) sdegno tra la popolazione visto che non si tratta di sanzioni che colpiscono oligarchi, funzionari, personale militare o aziende, ma invece negano il diritto alla salute dei malati anche se si tratta, secondo gli esperti, di terapie a cui sono sottoposti pochissimi pazienti. Tuttavia, ci sono altre forme di assistenza medica in cui la Russia è criticamente dipendente dalle attrezzature importate. In Russia circa 50.000 persone sono sottoposte a emodialisi su base permanente e in totale circa 1 milione di persone hanno bisogno di una terapia sostitutiva in un modo o nell’altro. Sanzioni in questo o altri settori sanitari alla Russia potrebbe portare al collasso della catena di assistenza medica per coloro che hanno bisogno di tali cure e mettere decine di migliaia di persone a rischio della vita.

Risultati dell’insoddisfacente riuscita della “spezial operazy”

La sconfitta politica di Putin è però ormai nelle cose. A 40 giorni dall’inizio dell’ostilità l’esercito russo non ha conquistato alcuna grande città e i segnali di demoralizzazione e di frustrazione da parte delle truppe (che probabilmente sono all’origine del massacro di Bucha) che a parti invertite si erano colte nel conflitto nel Donbass del 2014. In queste ore si stanno moltiplicando tra le truppe russe i casi di diserzione individuale e di massa. Il più clamoroso è quello portato alla luce (e poi confermato il 5 aprile ufficialmente) dal blogger osseto Alik Pukhaev secondo il quale trecento militari dell’Ossetia del Sud hanno rifiutato volontariamente di combattere in Ucraina e sono tornati a casa:

«Circa 300 militari (per lo più di etnia osseta) della base militare russa sono tornati nell’Ossetia del Sud di loro spontanea volontà», ha scritto sulla sua pagina Twitter il giornalista perché erano stati chiamati ad un’azione kamikaze contro le truppe nemiche.

Il rifiuto di fare da carne da cannone è stato segnalato anche tra settori dell’esercito occupante a Melitopol’ e a Sumy.
Che ormai la voglia di combattere dei russi sia scarsa è confermato anche da altre segnalazioni. Già da giorni circolano video e foto in internet in cui si viene a sapere che nella zona di Irkutsk vengono richiamati i riservisti mentre a Norilsk per i maschi di 18-35 anni che decidono di arruolarsi nella “Campagna Z” l’esercito promette ai volontari oltre a uno stipendio di 60.000 rubli, un’abitazione, vacanze pagate, il pensionamento dopo 10 anni.

Escalation in Vietnam, эскалация se declinato in Ucraina

Il bluff dei “rublocarburi” (mossa per evitare la fuga di capitali non solo degli oligarchi) potrebbe aprire però la strada a uno scenario “Blitzkrieg2”: ovvero a un nuovo tentativo di dare l’assalto a Kiev e tentare lo sbarco a Odessa.

Secondo Boris Kagarlitsky (@B_Kagarlitsky) «il Cremlino ha bisogno di ottenere qualcosa in campo di battaglia prima che l’economia crolli per tornare a trattare da una posizione di forza».

Ma anche questa sarebbe poco più di un’illusione Nella vita è impossibile rigiocare all’infinito una partita ormai persa. Sarebbe la soluzione peggiore, perché l’Orso ferito potrebbe perfino tentare nuove avventure militare nei paesi limitrofi.
Il conflitto di per sé sembra giunto a un punto di stallo o perlomeno di reload. Le estenuanti trattative tra le due delegazioni proseguono stancamente e per ora hanno prodotto un solo anche se significativo risultato. L’Ucraina avrebbe accettato nel futuro di diventare uno “stato neutrale” (se in versione austriaca o finlandese è ancora tutto da vedere) e di rinunciare definitivamente all’ingresso nella Nato. Il gruppo dirigente di Zelensky, del resto, si è scottato con le troppe promesse degli alleati occidentali che hanno trasformato il paese slavo solo in una piazza d’armi rivolta contro la Russia e immagina un futuro di Kiev a cavallo tra Bruxelles, Ankara e chissà magari Mosca, se nel futuro ci saranno dei cambiamenti significativi – per ora non immaginabili – al Cremlino.

“спецоперация” suona più minacciosa di “война”

Per il resto le posizioni restano distantissime. Mosca non ha ottenuto la “demilitarizzazione e denazificazione” (ovvero il cambio di regime) e difficilmente può immaginare l’occupazione dell’intera Ucraina e punta probabilmente al pieno controllo del Donbass ed eventualmente ad alcune aree del sud. In altissimo mare resta invece la questione del riconoscimento della Crimea e del Donbass da parte dell’Ucraina dove Zelensky avrebbe enormi difficoltà a far digerire un’amputazione così importante del territorio a un popolo in armi e che appare ancora fortemente motivato a battersi sul campo.
La “pace armata” e un eventuale cessate il fuoco con l’invio di forze di interposizione potrebbero apparire all’orizzonte delle trattative nel prossimo futuro ma anche l’ipotesi di una guerra a bassa intensità di lunga durata potrebbe anch’esso diventare lo scenario del futuro dell’area. La Russia non può bloccare una parte del proprio esercito professionale a lungo nell’area o permettersi un’occupazione e l’Ucraina prima o poi dovrà far ripartire la propria economia: sono questi gli elementi che potrebbero imporre a entrambi i contendenti un ammorbidimento delle rispettive posizioni.

Sullo sfondo si colloca la “guerra fredda 2.0” tra Russia e Occidente che rischia di far impallidire quella del Novecento.

La Federazione dovrà ripensare per forza non solo il proprio orizzonte strategico che ne aveva fatto un paese “semi-periferico” votato all’esportazione di materie prime con massicce importazioni di prodotti finiti. Il ritorno a un’economia che ricordi vagamente l’autarchia sovietica è simbolicamente già iniziato con la sostituzione a Mosca dei McDonalds con la nuovissima (ma assai simile) catena russa “Дядя Ваня” [Zio Vania] e sta alimentando un dibattito a più ampio raggio.

Yurii Colombo sta girando la penisola per incontrare chi è curioso di sentire un punto di vista diverso da quello dei salotti televisivi sulla crisi ucraina; questa chiacchierata con alcuni redattori di Radio Blackout è stata registrata il 7 aprile dopo un incontro organizzato dal Centro di Documentazione Porfido di Torino presso l’Edera Squat.

Ascolta “Crisi ucraina tra etno-nazionalismi e ridimensionamento dell’eredità imperiale” su Spreaker.

 

Svolte antiliberiste: il volano statalista dell’economia bellica

«La crisi al vertice…»

Su “Kommersant” – il quotidiano della Confindustria russa – è apparso un lungo saggio di Dmitry Skrypnik studioso di economia e matematica dell’Accademia russa delle scienze di Mosca. Secondo Skrypnik la cosiddetta politica di stabilizzazione macroeconomica che ha segnato tutta l’era putiniana, che consisteva nell’accumulare riserve auree ingenti «avrebbe potuto essere giustificata solo in un caso: se il suo scopo fosse stato quello di sottovalutare il rublo come elemento di una politica industriale mirata alla sostituzione delle importazioni e alla conseguente crescita orientata alle esportazioni».

Invece «l’economia ha continuato a rimanere indietro in tutti questi decenni e a deteriorarsi in molte aree, e la crescita economica è stata inaccettabilmente bassa. La storia, come sapete, non ha il congiuntivo, ma l’economia sì. La scienza economica ha ricette per lo sviluppo in un ambiente di alta corruzione, clientelismo e un sistema giudiziario debole, quindi i tentativi da parte delle autorità economiche e di alcuni esperti di assolvere se stessi dalla responsabilità attribuendo tutti i problemi ai servizi di sicurezza e al sistema giudiziario non dovrebbero essere presi in considerazione. E il fatto che le sanzioni sembrano ora in grado di privare la Russia di questi beni e tecnologie è una conseguenza delle politiche economiche sbagliate degli ultimi 30 anni».

… a Est…

Una disamina impietosa dello stato della Russia in cui non ci sarebbero soluzioni semplicistiche e neppure grandi possibilità per un arroccamento ormai impossibile nel quadro delle dimensioni della globalizzazione. Per lo studioso ci si dovrebbe invece muovere «contemporaneamente lungo l’intera catena del valore, e non solo modificarne il singolo elemento dove lo stato dovrebbe mirare a coordinare i produttori nella fase di creazione della produzione, seguita dalla creazione della concorrenza e dall’entrata delle imprese nel libero mercato. Se questi obiettivi non vengono raggiunti entro un certo periodo di tempo limitato, i relativi progetti dovrebbero essere gradualmente abbandonati».

… e a Ovest

Si tratta di un dibattito che sta attraversando – per altri versi – anche l’occidente dove già a partire dalla crisi del Covid-19 ha rilanciato il ruolo dello stato e dei governi in chiave non solo regolatrice ma interventista anche con la ripresa in grande stile del deficit-spending militarista che mette in discussione sin dalle radici il modello neoliberale. Una svolta non per forza di sinistra, anzi, che si alimenterebbe di russofobia e di un ulteriore rafforzamento della Nato (la Georgia ha già annunciato di non voler deflettere dal suo intento di voler entrare a far parte dell’Alleanza Atlantica nei prossimi anni).
Sono volani che potrebbero produrre dei giganteschi profitti per tutte le aziende legate alla Difesa e al loro indotto che però lasciano dietro di sé le solite vittime predestinate.

Fame e stagflazione alimenteranno proteste?

La guerra, stima la Banca Mondiale, produrrà una riduzione del Prodotto interno lordo ucraino quest’anno di oltre il 20% riportando il paese ben sotto i livelli di vita sovietici. Fame, morte, migrazioni di massa sono già diventate la quotidianità di milioni di ucraini. In Russia le sanzioni comminate dall’Occidente hanno fatto esplodere l’inflazione che si attesterà sicuramente alle due cifre mentre milioni di russi inizieranno a conoscere l’indigesto cocktail della stagflazione (il Pil russo dovrebbe calare del 10%).
In questo quadro, tra qualche mese, con l’arrivo dell’autunno i “fronti interni” potrebbero riaprirsi improvvisamente. Non bisogna dimenticare che l’Ucraina è uno dei paesi più sindacalizzati tra quelli dell’ex Urss e anche recentemente – prima dell’inizio del conflitto – ha conosciuto forti movimenti di sciopero e di protesta. Lo stesso discorso, seppur con altre caratteristiche, potrebbe valere anche per la Federazione.

Come ha sostenuto ancora Kagarlitsky recentemente su “Forum.msk.ru”: «Il Cremlino non capisce non solo gli europei, che sono veramente immaginati come codardi coccolati, il che è totalmente falso. I nostri governanti non capiscono nemmeno il loro popolo, che immaginano come una massa di contadini analfabeti del Diciannovesimo secolo, credenti nello zar e in Dio, pronti a soffrire le privazioni senza domande, a combattere e a morire senza compiacenza sotto l’ordine. Lo stile di vita della popolazione della Russia moderna differisce poco da quello occidentale. La differenza non è che il nostro popolo è più fedele alle autorità, ma che è più diviso e più intimidito. Ma la crisi li costringerà a unirsi. E in nessun modo intorno allo zar».

мусор

Gettalo nella spazzatura. Guerra al fascismo e all’imperialismo

 

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