Brasile Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/brasile/ geopolitica etc Sun, 15 Sep 2024 22:17:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Annessione perpetua https://ogzero.org/studium/annessione-perpetua/ Wed, 28 Aug 2024 06:40:17 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=13120 L'articolo Annessione perpetua proviene da OGzero.

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Tutto inizia a Saint-Louis

Già all’inizio del 1600 i francesi arrivarono nel nord dell’attuale Senegal, colonizzando un’isola che venne chiamata Saint Louis. Sulla stessa isola venne costruita più tardi una base commerciale di rilievo (1659) e nel 1673, su ordine del Re Sole, venne costituita la Compagnie du Senegal. Una compagnia coloniale che doveva dedicarsi all’amministrazione del fiorente commercio di schiavi africani (traite négrière in francese) e che seguiva le orme dell’inglese Royal African Company, fondata nel 1660 (con licenza di monopolio per il traffico di schiavi a partire dal 1663). L’espansione francese portò all’occupazione dell’isola di Gorée nel 1677 e a un commercio che già all’epoca si differenziava tra oro, gomma arabica e tratta di persone. L’anno successivo, nel 1678, ebbe termine la guerra franco-olandese (iniziata nel 1672) con una vittoria della Francia che manifestò la sua supremazia militare sul continente europeo. Una supremazia che si vedeva riflessa anche in Africa occidentale, dove nel 1696 venne creata una nuova compagnia, questa volta chiamata Compagnie Royale de Senegal, Cap-Verd et côtes d’Affrique.

Carta ideale della Concessione ottenuta dalla Compagnie Royale du Sénégal consegnata il 31 dicembre 1719 al signor de St Robert dal signor Brüe. Va da Cap-blanc a Bissaux, sancendo fin da allora i confini di un territorio che ha condiviso il medesimo destino

 

Due secoli di scontro anglo-francese per l’affaire mercantilista della storia moderna

Eliminati dunque dalla competizione per il Senegal, sia il Portogallo, che la Spagna, che la Repubblica delle Sette Province Unite, per l’impero francese rimaneva un solo grande avversario, l’Inghilterra, che dal canto suo stava provando a consolidare la sua presenza in Africa. Già dalla metà del Seicento infatti gli inglesi penetrarono lungo la valle del fiume Gambia, iniziando un fiorente commercio che portò nel secolo successivo a uno scontro aperto e costante con la Francia. Il Diciottesimo secolo fu infatti segnato da continue guerre tra Francia e Inghilterra e precisamente alle fine di una di queste, la guerra dei sette anni (1756-1763), la Francia sconfitta dovette rinunciare a tutte le basi che possedeva in Senegal. Solo vent’anni dopo però la partecipazione delle truppe francesi a sostegno degli insorti durante la rivoluzione americana (1776) consentì al governo di Parigi di sedere al tavolo della pace. Con il trattato di Versailles (3 settembre 1783) l’impero inglese, sconfitto, riconosceva l’indipendenza degli Stati Uniti d’America e restituiva alla Francia i porti senegalesi occupati due decenni prima.

Senegambia in una mappa del 1707 intitolata Carte de la Barbarie de la Nigritie et de La Guinee. Il destino di quel territorio e dell’incremento della tratta schiavista è condizionato dallo scontro tra Francia e Inghilterra – e di nuovo diventa centrale la sponda atlantica dell’America – con la parentesi delle Rivoluzioni di fine Settecento

Sospensione rivoluzionaria e Restaurazione coloniale

Pochi anni dopo però arrivò la rivoluzione francese, iniziata con la presa della Bastiglia il 14 luglio 1789 e seguita dalle guerre napoleoniche. Eventi che frenarono (se non proprio interruppero) la politica coloniale della Francia, facendo passare di nuovo i possedimenti francesi in Senegal, sotto il controllo inglese. Per il ritorno della Francia in Senegal bisognerà aspettare il 1816, dopo il crollo dell’impero Napoleonico e la “restaurazione” figlia del Congresso di Vienna (1° novembre 1814 – 9 giugno 1815).

☞Porti e mari “britannici”

Gorée – St-Louis: basi schiavistiche del colonialismo della Françafrique

Pax coloniale francese

Con la Restaurazione postbonapartista la Francia rientrò in possesso delle sue basi coloniali, iniziando un’opera espansiva di sistematica conquista di tutto il territorio, creando un tessuto amministrativo e di “sviluppo” per la creazione di una vera e propria colonia. Nel 1816, Luigi XVIII, appena ritornato sul trono di Francia, nominò il colonnello Julien-Désiré Schmaltz come amministratore dei possedimenti francesi sulla costa senegalese, con il compito di dare il via alla conquista dell’interno del territorio. Tra il 1817 e il 1845 le truppe francesi occuparono la regione di Waalo (ex provincia del regno Djolof) annientando il fragile regime teocratico instaurato nel 1830 dal marabut Diile. Nel 1854, Napoleone III incaricò un intraprendente ufficiale francese, Louis Faidherbe (che all’epoca aveva solo 36 anni), di governare ed espandere il mercato coloniale e di modernizzare l’economia del Senegal. Faidherbe costruì una serie di forti lungo il fiume Senegal, formò alleanze con i leader dell’interno del paese e inviò spedizioni contro coloro che resistevano al dominio francese. Nel 1857 fondo la città di Dakar, costruendo un nuovo porto, installando linee telegrafiche, costruendo strade, e propiziando quella che successivamente sarebbe stata la linea ferroviaria tra la capitale Dakar con il primo insediamento francese nel Nord, Saint Louis. L’opera di Faidherbe, ingegnere militare che fu impegnato anche in Algeria, era impregnata di quella che lui considerava una missione civilizzatrice e per questo costruì scuole, ponti (il ponte principale di St-Louis porta oggi il suo nome) e sistemi per fornire acqua potabile alle città. A livello agricolo introdusse la coltivazione su larga scala di arachidi, espandendo i possedimenti francesi. fino alla Valle del Niger e facendo diventare il Senegal (e la sua nuova capitale Dakar) la principale base nell’Africa Occidentale Francese (Aof). Rimase in carica fino al 1865 (gli succedette come governatore l’ammiraglio Jauréguiberry) e nel 1889 (anno della sua morte) venne pubblicato il suo libro dal titolo Le Sénégal: la France dans l’Afrique occidental (Il Senegal, la Francia nell’Africa Occidentale).

Foto di Diego Battistessa

L’annessione

I governatori che succedettero a Faidherbe conquistarono i regni di Fouta Toro, del Baol, del Kaydor e del Saloum e nel 1889 si arrese ai francesi anche Ali Bouri, l’ultimo sovrano wolof. Mentre venne annessa solo nel 1896 la regione meridionale del Casamance che fino a quel momento era rimasta sotto il controllo del Portogallo. A quel punto la Francia considerò il Senegal come un territorio “pacificato” e nel 1904 venne nominato il primo governatore civile dell’Aof, una federazione fondata nel 1895 con capitale Dakar e che comprendeva Senegal, Niger, Costa d’Avorio, Ciad, Dahomey, Guinea, Alto Volta (attuale Burkina Faso) e Mauritania.

Egalité eurocentrica nella Françafrique

Come ci spiega Papa Saer Sako, nel suo libro Senegal (edizioni Pendragon): «La filosofia coloniale francese si ispirava agli ideali della rivoluzione del 1789, condizionati però da un radicale eurocentrismo, il cui presupposto poggiava sulla convinzione che i popoli colonizzati avrebbero potuto accedere a un superiore grado di civiltà solo adottando i fondamenti della cultura europea. Le autorità coloniali, dunque, si ritennero investite della missione di civilizzare popolazioni considerate ancora immerse nella barbarie, riconoscendo loro una potenziale eguaglianza di diritti in quanto esseri umani, ma rigettando e soffocando ogni aspetto della cultura africana».

Nonostante il forte controllo culturale ed economico francese, su una società complessa e multietnica (composta dalle etnie Wolof, Sérère, Lébou, Peul o Foulbé, Toucouleur, Diola, Mandingo, Sarakholé e Bassari) tra il 1910 e il 1912 nacquero le organizzazioni dell’Aurora di St-Louise quella dei Giovani Senegalesi, le prime organizzazioni finalizzate a dar voce alle aspirazioni dei nativi. Solo due anni dopo, per la prima volta nella storia, un deputato di origine africana, Blaise Diagne, sedette nell’Assemblea Nazionale di Parigi. Ci vorranno però ancora 15 anni di costruzione del tessuto politico senegalese perché nel 1929, prenda vita il Partito della Solidarietà Senegalese, tra i cui membri troviamo Lamine Gueye e soprattutto Sédar Senghor. Quest’ultimo verrà eletto nel 1945 come rappresentante del Senegal nel parlamento francese e tra il 1959 e il 1960 il Senegal e il Sudan francese si unirono nella Federazione del Mali, con Senghor come presidente della nuova Repubblica.

In questo 2024 si è assistito a molte rivolte di giovani africani colti e consapevoli del condizionamento coloniale ancora perdurante: in Kenya contro il presidente Ruto, in Sahel con la presa di potere di giovani militari che hanno espulso l’esercito francese “diversamente occupante”… il Senegal ha tradizioni saldamente democratiche e la comunità si è liberata del burattino francese Macky Sall, completando una presa di coscienza dell’intera comunità, costituita da una ventina di realtà culturali e linguistiche diverse, che attingono alle radici precoloniali; un percorso interno all’Africa che può essere paragonato alla riappropriazione parallela a quella che guarda alle componenti afrodiscendenti in America, come superamento del male coloniale che ha però trasferito in America una cultura, la cui componente si chiede venga riconosciuta nella costituzione delle inter comunità oltreatlantico.

☞Un ponte tra Bahia e Benin

Per i francesi però tutto ebbe inizio a Saint-Louis

«Immense barche (Cayucos), molte volte policromate dai toni accesi e sempre ricche di bandiere e simboli, preghiere e auguri: ciascuna affidata al rispettivo marabù (leader religioso) e/o a Mame Coumba Bang, lo spirito femminile che li protegge dall’ira dell’oceano e, quindi per estensione, protettore anche delle città evitando che vengano fatte scomparire dalle inondazioni. Barche realizzate artigianalmente partendo da un unico pezzo di albero, che trasportano ogni giorno centinaia di pescatori…

Foto di Diego Battistessa

Il fiume Senegal si butta in mare avidamente, dopo aver attraversato altri tre paesi e circa 1700 chilometri, in questo angolo peculiare del pianeta. L’Oceano Atlantico attacca con furia eterna questa lingua di sabbia e dune lunga una trentina di chilometri e larga appena 500 metri, e punisce tutto ciò che incontra sul suo cammino (oggi ancor più a causa dell’impatto dei cambiamenti climatici e della mano artificiale dell’uomo manifestatasi con l’apertura di una breccia nel 2003 nella zona, che ha diviso in due la lingua aumentando l’ansia dominatrice del mare) … Gli autoctoni dicono che nessuno è come i pescatori di queste acque, che lottano per emergere vittoriosi contro le mortali onde oceaniche che già tanti naufragi hanno causato. Nessuno. E attenzione, non solo l’uscita in mare è pericolosa, ma anche il ritorno, “perché sbarcare a St-Louisnon è una cosa qualunque”, sottolineano.
Il sociale, l’economico, il politico, il culturale, il gastronomico, il festivo, l’ambientale… Tutto ruota attorno alla pesca a St-Louis(circa 250.000 abitanti), un tempo capitale dell’Africa occidentale francese e del Senegal e della Mauritania; la seconda città del Paese da quando Dakar divenne capitale nel 1857. Basta guardare una mappa per apprezzare la sua peculiarità geografica, il suo valore strategico nel Nord del Paese. St-Louisè il confine con la Mauritania, per alcuni è il punto finale del deserto del Sahara, per altri ne è la porta d’ingresso…
Città creata dai francesi nel 1659 come primo insediamento europeo nell’Africa occidentale, ma prima di loro la storia qui già cresceva, proprio come crescono i baobab…»

Queste parole, che travolgono come fossero colori di un dipinto su tela, sono della giornalista Lola Huete Machado, che nel 2019 pubblicò sul “El Páis” un articolo che coglieva l’anima di Saint-Louis. E chiunque l’abbia visitata non può non sentire vibrare quelle parole, sovrapponendole alle immagini di una città i cui tratti coloniali sono ancora ben visibili, sia nell’architettura ma anche nell’economia che vede nel turismo (maggioritariamente europeo e specialmente francese) una fonte importante di ingresso.

Foto di Diego Battistessa

Una città dalle molte sfaccettature, con hotel di lusso a pochi metri da una linea di costa dove l’impoverimento e l’economia di sussistenza scandiscono il tempo marcato dall’andare e venire dalle onde. Sulla spiaggia, piena di rifiuti dove deambulano in cerca di cibo capre, pecore e cavalli (spesso di una magrezza non compatibile con la vita), ci sono decine di cayucos, descritti magistralmente da Lola Huete Machado. Accanto a loro un uomo anziano che ha voglia di parlare, lui li ripara i cayucos, mi spiega in francese. Oramai è troppo vecchio per salire su uno di quelli che vanno verso un futuro possibile, verso l’Europa.

Mi indica un’ombra nell’orizzonte, una lingua di terra nascosta dalla foschia che si crea per il troppo calore: «Quella è la Mauritania», mi dice. E poi, spostando il dito un po’ più in là, verso l’oceano, verso la vastità dell’azzurro orizzonte mi dice con fermezza. «Quella invece è l’Europa, tu non la vedi, ma in quella direzione ci sono le Canarie, c’è la Spagna, c’è la speranza».

Foto di Diego Battistessa

Ma se un da lato l’isola di Saint Louis, chiamata anche la “Venezia africana”, è parte di una rotta che da anni è percorsa da migliaia di persone che cercano un miglior futuro, dall’altra è anche (dal 2000) annoverata dall’Unesco come patrimonio dell’umanità.  Un riconoscimento che ha portato a un programma di rinnovamento e riqualificazione di vecchi edifici coloniali, trasformando molti di questi in ristoranti e hotel (gestiti spesso da europei).

Città del Mercantilismo Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù
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Fatale attrazione schiavista tra iberici e mauritani

Ancora adesso in Mauritania – paese che ha contribuito alla presenza di un’ultima colonia sul suolo africano: il Sahara occidentale – vige una legislazione che prevede lo schiavismo, una pratica – denunciata soprattutto dal movimento abolizionista fondato da Biram Dah Abeid, ex schiavo – perpetrata dalla minoranza “bianca” berbera, discendente da antichi nobili beydens, che vessano da secoli la maggioranza nera haratine, piantando in antichità semi panafricani per quello sfruttamento europeo della schiavitù su scala globale benedetto da bolle papali ancora precedenti l’impulso alla tratta derivante dalla spedizione di Cristobal Colon: Niccolò V prendeva semplicemente atto degli enormi interessi e ricchezze provenienti dalla deportazione e dal colonialismo, dunque lo benediva.
Come si legge in questo estratto dal volume di Diego Battistessa America Latina Afrodiscendente: una storia di (R)esistenza, esistono porte che mettono in comunicazione mondi diversi, in cui lo schiavismo si incista perfettamente sugli affari dei rispettivi gruppi dominanti su sistemi diversi tra loro ma complementari nello sfruttamento.

L’impero portoghese (l’ultimo impero a sciogliersi dopo la Rivoluzione dei Garofani, 1415 -1975) è stato indissolubilmente caratterizzato dalla tratta degli schiavi che divenne la colonna portante delle attività economiche d’oltremare. Il Portogallo in Africa si occupò di istituzionalizzare la pratica della schiavitù (già operata in diverse forme dai regni locali) e di darle un apparato legale e amministrativo. Non a caso la cittadina di Lagos, in Algarve, nel sud del Portogallo è conosciuta come la porta europea della tratta degli schiavi africani. Nel 1444, in un giorno infausto, arrivarono in quel porto 200 schiavi africani sequestrati in una retata partita da un porto commerciale che il Principe Enrique (conosciuto come El Navegante) aveva stabilito sulle coste dell’attuale Mauritania.

Cronologia e rotte dei principali movimenti della tratta degli schiavi. Mappa: NGM-P. Fonte: An Atlas of the Transatlantic Slave Trade, di David Eltis e David Richardson, riprodotto con il permesso della Yale University Press.

I profitti della vendita di quegli esseri umani spinsero molti altri a cercare fortuna con spedizioni verso le coste africane. Nei dieci anni successivi centinaia di africani arrivarono al porto di Lagos che si trasformò in breve tempo nel primo mercato europeo di vendita di schiavi provenienti dall’Africa. Questo è il punto di inizio dell’industrializzazione della tratta di esseri umani che portò più di 12 milioni di persone a essere “trafficate” verso le Americhe (oggi a Lagos esiste il Museo della Schiavitù, monito di quel passato di infamia e terrore diffuso ormai nei luoghi topici dello schiavismo: Gorée, Bahia, Liverpool, Amsterdam).

Foto di Diego Battistessa

Solo 8 anni dopo l’arrivo dei primi schiavi a Lagos, venne concessa la benedizione papale al re del Portogallo Alfonso V per legalizzare, agli occhi della comunità cristiana, quell’abominevole pratica. Il commercio di esseri umani fioriva, il centro delle operazioni si era spostato da Lagos alla capitale Lisbona e si cominciavano a stabilire regole e tariffe standard per normare la tratta e la vendita di esseri umani provenienti dall’Africa.

Dum diversas

Il papa Niccolò V (Tommaso Parentucelli) con la bolla Dum diversas del 16 giugno 1452 (quindi ben quarant’anni prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo nelle Americhe) legalizzava per volere di Dio la schiavitù e concedeva al re del Portogallo Alfonso V di «ridurre in perpetua schiavitù saraceni, pagani, infedeli e nemici di Cristo». Qui un estratto della bolla papale:

«Noi, rafforzati dall’amore divino, spinti dalla carità cristiana, e costretti dagli obblighi nel nostro ufficio pastorale, desideriamo, come si conviene, incoraggiare ciò che è pertinente all’integrità e alla crescita della Fede, per la quale Cristo, nostro Dio, ha versato il suo sangue, e sostenere in questa santissima impresa il vigore delle anime di coloro che sono fedeli a noi e alla vostra Maestà Reale. Quindi, in forza dell’autorità apostolica, col contenuto di questa lettera, noi vi concediamo la piena e libera facoltà di catturare e soggiogare Saraceni e pagani, come pure altri non credenti e nemici di Cristo, chiunque essi siano e dovunque abitino; di prendere ogni tipo di beni, mobili o immobili, che si trovino in possesso di questi stessi Saraceni, pagani, non credenti e nemici di Cristo; di invadere e conquistare regni, ducati, contee, principati; come pure altri domini, terre, luoghi, villaggi, campi, possedimenti e beni di questo genere a qualunque re o principe essi appartengano e di ridurre in sudditanza i loro abitanti; di appropriarvi per sempre, per voi e i vostri successori, i re del Portogallo, dei regni, ducati, contee, principati; come pure altri domini, terre, luoghi, villaggi, campi, possedimenti e beni di questo genere, destinandoli a vostro uso e vantaggio, e a quelli dei vostri successori…» (Niccolò V, Dum diversas)

Mexico, Distrito Federal, Palazzo Nazionale, murales di Diego Rivera dipinti sulla civiltà precolombiana

☞Conseguenze misericordiose del possesso di uomini

L’asse lusitano Gorée-Lagos diventa commercio transoceanico con Bahia

Nel 1536 dunque i portoghesi stabilirono una redditizia base commerciale sull’isola di Gorée ma le vicende del continente africano (e in questo caso la colonizzazione del Senegal) sono sempre state strettamente legate alle vicende interne del continente europeo. Nel 1580 infatti, con l’annessione del Portogallo alla corona di Spagna, la corte di Madrid prese possesso anche di tutti i territori che fino a quel momento erano stati sotto il dominio portoghese in Africa; e non solo…

L’unione iberica tra Spagna e Portogallo, tra il 1580 e il 1640, sotto l’egida della casa reale degli Asburgo dette origine a un conglomerato territoriale che comprendeva possedimenti in tutto il mondo: Messico, gli attuali Stati Uniti occidentali e meridionali, America centrale, Caraibi, Sud America, Filippine, Timor orientale, Paesi Bassi spagnoli (eccetto Paesi Bassi), nonché nuclei costieri e diverse enclave in Barberia (termine utilizzato per riferirsi alle zone costiere di Marocco, Algeria, Tunisia e Libia), Guinea, Angola, Mozambico e altre basi in Africa orientale, Golfo Persico, India, regni e ducati territoriali in Francia e in Italia e nel Sudest asiatico, (Macao, Molucche e Formosa).

Infatti il commercio portoghese non entrerà mai nello schema della Triangolazione: contando direttamente sui possedimenti intermedi di Capo Verde, San Paulo, Fernando de Nouronha tra Guinea, Angola, Mozambico e coste del “vicino Brasile (Salvador de Bahia)”, finché la tratta degli schiavi fu un affare iberico non transitò dall’Europa, ma andò direttamente dal Golfo di Guinea al Pernambuco.

Nonostante ciò però, la priorità che la Spagna dava allo sfruttamento delle enormi ricchezze delle colonie del “Nuovo Mondo” e la lunga e logorante guerra navale con l’Inghilterra (scoppiata proprio perché lo schiavismo industriale inglese andava a collidere su zone di influenza spagnole) fece passare in secondo piano il progetto di espansione nel continente africano, aprendo la porta all’arrivo di nuove potenze coloniali europee, come la Repubblica delle Sette Province Unite (1581-1795, territori calvinisti che oggi costituiscono i Paesi Bassi renani dalla Frisia a Rotterdam, in contrapposizione alle 8 province meridionali cattoliche, corrispondenti alle Fiandre, Artois, Brabante e Lussemburgo) che presto stabilì una base proprio sull’isola di Gorèe.

La piazza della borsa di Amsterdam come simbolo del nascente capitalismo, che si sviluppò soprattutto in Olanda e Inghilterra (alleate contro Luigi XIV). Capitale economica d’Europa nel Seicento, Amsterdam basò la sua fortuna soprattutto sull’attività commerciale e finanziaria; nella borsa venivano trattati i prezzi di tutte le merci e vi investivano anche i piccoli agricoltori e gli artigiani. Dipinto del 1659 (Rotterdam, Museum Boymans – Van Beuningen)

Arrivo in Senegal della Repubblica delle Sette Province Unite

Il settore tessile era alla base dell’economia olandese e inglese; il cotone ovviamente proveniva dal commercio della triangolazione schiavista. La tratta degli schiavi olandesi – avvenuta tra il XVII e il XIX secolo – è stata determinante per lo sviluppo economico e sociale del paese. Dipinto di Isaac Claesz van Swanenburgh in cui si vede il momento della filatura, che veniva eseguita prevalentemente dalle donne. (Leida, Stedelijk Museum de Lakenhal)


Stampa custodita nel National Museum of World Cultures in Amsterdam, Netherlands. Il Museo Nazionale della Schiavitù, un progetto a lungo atteso dai discendenti delle comunità africane delle ex colonie olandesi in Suriname (Sud America) e nelle Antille Olandesi (Caraibi), sta finalmente prendendo forma e l’apertura è prevista per il 2030

L’arrivo dei commercianti della Repubblica delle Sette Province Unite in quello che oggi è il Senegal (per gli olandesi Senegambia, o in dutch Bovenkust), ha coinciso con la progressiva perdita di controllo del territorio da parte del Portogallo. Le prime basi commerciali della Dutch West India Company furono stabilite sull’isola tra il 1588 e il 1617, periodo nel quale l’isola assunse il suo nome attuale partendo dal Goede Reede olandese e derivato poi nel francese Gorée. In quest’epoca vennero costruiti la maggior parte dei forti e dei magazzini che furono successivamente utilizzati per il massivo “stoccaggio” e commercio delle persone schiavizzate, mentre la prima base commerciale permanente fu installata solo nel 1621 (quando l’isola venne annessa alla Repubblica delle Sette Province Unite, comprandola dal Portogallo). Nel giugno di quell’anno infatti, venne fondata dai fiamminghi Willem Usselincx e Joannes de Laet, la Compagnia delle Indie Occidentali (Geoctroyeerde West-Indische Compagnie – WIC): una compagnia della marina mercantile olandese che rimase operativa fino al 1792. La sua sede si trovava ad Amsterdam e nel 1621, la Repubblica delle Sette Province Unite gli concesse una licenza per un monopolio commerciale nelle Antille olandesi, autorizzando la partecipazione olandese alla tratta degli schiavi atlantica, brasiliana, caraibica e del Nordamerica. L’area in cui la compagnia poteva operare era costituita dall’Africa occidentale (tra il Tropico del Cancro e il Capo di Buona Speranza) e dalle Americhe, inclusi l’Oceano Pacifico e la Nuova Guinea orientale. Lo scopo della licenza era eliminare la concorrenza, in particolare spagnola e portoghese, tra le varie stazioni commerciali.

☞La Casa degli schiavi inaugurata dagli olandesi

L’importanza dei porti atlantici nel Mercantilismo

La Repubblica delle Sette Province Unite non riuscì a mantenere però per molto tempo il controllo totale dell’isola anche perché proprio nella seconda metà del Diciassettesimo secolo si consumò una sfibrante lotta tra l’Olanda e la Francia di Luigi XIV (il Re Sole), confronto che portò a un progressivo tramonto del dominio olandese sui mari, a favore della già citata Francia (i porti atlantici di Nantes innanzi a tutti, e poi La Rochelle, Le Havre e Bordeaux in particolare) e dell’Inghilterra con i suoi porti (Liverpool soprattutto, e poi Londra, Bristol).

Una nota importante quando parliamo di commercio di persone e di Africa è data dalla comprensione del tipo di scambio che veniva proposto dalle potenze coloniali europee ai regni africani, che erano i principali “fornitori” di schiavi. I trafficanti europei intercambiavano diversi tipi di mercanzie nelle coste africane per l’acquisto di schiavi: tessuti, alcool, armi, diversi tipi di utensili e anche un particolare tipo di conchiglia molto ricercata e ambita dai nobili, sacerdoti e guerrieri locali, chiamata cauri. Il cauri è una piccola conchiglia che possiede una spiccata lucentezza, tanto da farla assomigliare alla porcellana e per questo in passato è stata utilizzata alla stregua di una pietra preziosa, assumendo un valore commerciale molto alto.

Una stampa del 1845 che mostra come le conchiglie cowry venissero usate come moneta corrente da un commerciante arabo. Il Ghana ha adottato l’immagine della conchiglia come moneta aggiungendo per antifrasi “Libertà e Giustizia”

Queste conchiglie sono “la casa” di un mollusco della famiglia Cypraeidae, che si ritiene essere originario delle Maldive, sebbene si trovi anche in diverse aree non solo nell’Oceano Indiano, ma anche nel Pacifico. I grandi imperi coloniali erano gli unici che potevano acquisire grosse quantità di cauri, che veniva poi scambiato con persone, sulle coste occidentali dell’Africa. In questo senso, un altro elemento da sottolineare (e molto spesso poco considerato), era la dinamica attraverso la quale gli schiavi venivano catturati e posteriormente venduti ai commercianti europei.

 

Le tratte dello schiavismo nell’interno africano

Questi ultimi infatti non si addentravano nel cuore del continente africano per ridurre in schiavitù le popolazioni native, ma promuovevano quest’attività tra i regni locali.

Così il compito di catturare e schiavizzare uomini e donne africane ricadeva sui sovrani delle tribù locali che dominavano le relazioni commerciali nel continente, lasciando agli europei la parte della navigazione e della distribuzione degli schiavi nei territori coloniali oltre oceano. Gli schiavizzati venivano catturati durante i conflitti tra le popolazioni locali, portati fino alla costa e poi venduti ai trafficanti europei. Non mancavano però casi di persone, appartenenti alle stesse comunità che commerciavano con gli europei che, o per aver commesso un crimine o semplicemente per essere caduti in disgrazia agli occhi del sovrano, venivano venduti come schiavi. Questo ci permette di poter affermare che in sostanza gli europei controllavano solo la parte costiera oceanica del traffico degli schiavi africano, che vedeva nello stesso continente un forte protagonismo dei sovrani locali, veri signori e padroni del commercio di esseri umani nel continente.

☞ La cattura degli africani sugli africani

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Nhara lusitana – signare francese: tenutarie amministrative

La più grande Casa degli Schiavi dell’isola di Gorée (e ultima) fu aperta dagli olandesi nel 1776. Questa “casa degli orrori” era amministrata da Anna Colas Pépin e oggi è stata convertita dall’Unesco in un museo della memoria e santuario per la riconciliazione.  La stessa Unesco che dichiarò nel 1978 patrimonio dell’umanità questa isola di soli 17 ettari che si trova a 15 minuti di traghetto dal porto di Dakar.

Edouard-Auguste Nousveaux, Il principe di Joinville assiste a un ballo sull’isola di Gorée, dicembre 1842 – Collezioni del castello di Versailles – (Tra le persone che lo ricevono si può vedere la figura di quella che potrebbe essere Anna Colas Pépin)

Anna Colas Pépin era una signare che gestì nel Diciannovesimo secolo quella che oggi è la casa museo sull’isola di Gorée. “Annacolas” Pépin (1787-1872), ostentò il prestigioso ruolo di signare, nome dato alle donne mulatte franco-africane dell’isola di Gorée e della città di Saint-Louis nel Senegal coloniale francese tra il Settecento e l’Ottocento, diventando una delle persone più rilevanti nel commercio dell’isola. Esisteva una parola anche in portoghese per definire lo stesso ruolo, nhara, che identificava le donne d’affari afro-portoghesi che hanno svolto un ruolo importante come agenti d’affari attraverso i loro legami con le popolazioni portoghesi e africane.

Belle vite tra mito e romanzo storico su sfondo schiavista

Il ruolo delle signare era importantissimo e spesso fungeva anche da vincolo sociale e culturale con le amministrazioni coloniali dei territori sotto il controllo delle potenze europee. Queste relazioni non si limitavano allo spazio commerciale e al traffico di influenze ma spesso includevano anche relazioni amorose più o meno ufficiali, con alti rappresentanti della colonia. Il loro mito e la loro influenza hanno attraversato varie generazioni e le troviamo anche in opere letterarie di enorme spessore, come nel romanzo storico Segu (1988), della recentemente scomparsa scrittrice e giornalista dell’arcipelago della Guadalupa (Caraibi), Marise Liliane Appoline Boucolon (Maryse Condé). In questa magnifica e già immortale opera, Maryse Condé, ci parla nella prima parte del capitolo 9, di Anna Pépin (zia di Anna Colas Pépin).

 

La memoria controversa in epoca contemporanea

Il diverso significato museale

Ciascuno dei vertici del triangolo mercantilista propone un suo approccio alla memoria, museificando gli aspetti con cui si trova a fare maggiormente i conti dal proprio punto di vista della tratta: a Bahia il museo della coscienza nera, a Liverpool quello delle scuse vergognose, in Algarve quello della memoria rimossa delle deportazioni portoghesi da Gorée, tanto poco riconosciuto da essere in madrepatria lusitana.

Il Museo della memoria e la Maison des Esclaves

«Sdraiata su una stuoia sul balcone della sua casa sull’isola di Gorée, Anne Pépin si annoiava. Si annoiava da dieci anni, da quando il suo amante, il gentiluomo di Boufflers, che era stato governatore dell’isola, era tornato in Francia. Aveva messo da parte abbastanza soldi per sposare la sua bella amica, la contessa di Sabran. Anne restava sveglia la notte pensando alla sua ingratitudine. Non aveva potuto dimenticare che per alcuni mesi aveva organizzato feste di alta classe e balli in maschera, intrattenimenti teatrali come quelli della corte del re di Francia. Ma ormai tutto era finito e lei era lì, abbandonata nel suo pezzo di basalto gettato in mare davanti a Capo Verde, unico insediamento francese in Africa, a parte Saint-Louis alla foce del fiume Senegal» (Maryse Condé, Segu).

Per un approfondimento sulla storia e creazione di questa casa museo, possiamo fare riferimento a un articolo della Ph.D Deborah L. Mack, pubblicato dall’American Alliance of Museums (AAM) – un’associazione senza scopo di lucro che si occupa di riunire i musei degli Stati Uniti sin dalla sua fondazione nel 1906.

Mack ci spiega come che nel Novecento i membri della famiglia di Boubacar Joseph Ndiaye (nativo di Gorée) acquisirono una residenza del Diciottesimo secolo che fu la casa di una ricca imprenditrice senegalese e signare di nome Anna Colas Pépin. Ndiaye passò diversi anni della sua infanzia in questa residenza e dopo l’indipendenza del Senegal dalla Francia, con l’incoraggiamento personale di Léopold Sédar Senghor (illustre poeta e primo presidente del Senegal indipendente dal 1960 al 1980), Ndiaye iniziò la sua ricerca storica sull’edificio. Investendo in proprio tempo e risorse economiche, Ndiaye “scavò” nel passato sociale e architettonico della residenza Pépin. scoprendo un infame passato che lo portò a ribattezzare la casa come Maison des Esclaves (la Casa degli Schiavi). Il lavoro di Ndiaye come curatore prima e fondatore del museo poi, è durato fino alla data della sua morte, avvenuta nel 2008.

Foto di Diego Battistessa

Dall’industria schiavistica a quella turistica

Con l’abolizione della schiavitù finì l’epoca di splendore di Gorée che doveva la sua fama e la sua ricchezza al commercio di quello che all’epoca veniva chiamato “avorio nero”, una forma mercantilista e disumanizzante di chiamare le persone vittime della tratta.

Di fronte alle sue coste nacque Dakar, la futura capitale del Senegal, e Gorée si svuotò progressivamente. Dei 5000 abitanti che contava alla fine dell’Ottocento, oggi se ne contano poco più di 1000. L’isola divenne un luogo di riposo e svago per le famiglie benestanti dei politici coloniali in cerca di tranquillità e oggi, anche grazie al lavoro svolto dall’Unesco, è un luogo che riceve un flusso importante di turisti internazionali.

L’orrore dello schiavismo in epoca moderna

Per le strade dell’isola, dove non circolano automobili e il tempo sembra essersi fermato, le costruzioni color pastello si alternano a edifici in rovina che ricordano antichi fasti del tempo che fu. Una ricchezza che nascondeva un orrore senza pari, perché mentre al secondo piano di queste mansioni si consumava la vita in stile “europeo” con cerimonie, balli e riunioni d’affari, al piano terra “vivevano” un vero e proprio inferno le persone “ammassate” in attesa di essere vendute: infatti mentre al piano superiore viveva il proprietario della Masion des Esclaves, al piano inferiore tutto era stato costruito nei minimi dettagli per il commercio umano. Un’architettura della tortura con celle anguste dove venivano divisi uomini, donne e bambini; ma esistevano anche prigioni (luoghi ancora più angusti e claustrofobici), dove annientare la resistenza psicologica dei più ribelli, oltre a una stanza utilizzata per l’alimentazione. In quest’ultimo spazio venivano “ingrassati” gli schiavi prima di essere venduti, secondo dei protocolli che prevedevano di raggiungere un certo peso prima delle trattative con i proprietari delle navi negriere.  Si creava volontariamente anche una separazione fisica tra i bambini (da 4 a 12 anni) e le loro madri, per impedire a queste ultime di udire il pianto dei figli, e preservare così la loro “salute” e quindi il prezzo di vendita della “merce”. La Casa Museo dell’isola di Gorée è il perfetto esempio di queste costruzioni del terrore. Il pianoterra di questo edificio poteva arrivare a contenere fino a 200 persone, divise in celle di poco più di 2 metri quadrati, dove erano costrette a rimanere in piedi ed espletare i loro bisogni nella stessa posizione. All’arrivo i prigionieri passavano la prima ispezione dove si controllava la dentatura, si cercavano segni di malattie, cicatrici, qualsiasi indizio che potesse diminuire il prezzo. Gli uomini, in forza, che pesavano almeno 60 kg erano destinati immediatamente alla vendita. Tra il primo e il secondo piano della mansione, due scale semicurve, venivano esposte le persone sequestrate e schiavizzate per essere mostrate e negoziarne il prezzo con i potenziali acquirenti.

Foto di Diego Battistessa

Una volta acquistati, non veniva dato il loro tempo di dire addio a nessuno, venivano fatti passare per un angusto corridoio nella cui parte finale si trovava una porta affacciata sul mare: il luogo tristemente noto come la porta del non ritorno. L’ultimo punto di contatto fisico con il proprio continente, la propria terra, il proprio universo: il primo passo nella tratta oceanica che li avrebbe portati vero il “Nuovo Mondo“.

Ile de Goré

Una simbolica porta sull’isola di Gorée, da dove le imbarcazioni schiaviste salpavano verso il continente americano, trasportando nelle stive gli schiavi catturati come manodopera nei campi oltreatlantico. Foto di Adriano Boano

Merce all’ingrasso

Chi però non pesava almeno 60 kg e non dimostrava di essere sufficientemente in forza, veniva obbligato a mangiare, secondo le stesse pratiche usate per ingrassare il bestiame. Catene, ceppi e pesanti palle di ferro logoravano polsi, collo e caviglie, impedendo ogni tentativo di fuga, rompendo la resistenza psicologica e facendo piombare queste persone nella più totale rassegnazione. L’incapacità di comunicare tra loro (spesso venivano da luoghi, etnie e culture diverse) aumentava il sentimento di solitudine, portando alcuni di loro a tentare il suicido. Morirono a migliaia, in queste e nelle altre case degli schiavi dell’isola. Morirono di malattie, morirono di botte, morirono di paura, violentati in ogni modo possibile e immaginabile, abusati in ogni aspetto della dignità umana: morirono anche quelli che restarono vivi.

☞e continuarono a morire in catene oltreatlantico

Edifici tra le rovine: la riconciliazione impossibile

Sull’isola sono presenti oggi altri luoghi simbolo che rendono testimonianza di un passato lontano dall’abbandono del presente. Arrivando dal mare, con La Chaloupe de Gorée (barca Gorée) che parte dal Porto di Dakar (Terminal dei Traghetti), la prima cosa che si vede è il Fort d’Estrées. Un forte con una importante batteria di cannoni, costruito dai francesi tra il 1852 e il 1856 per proteggere l’ingresso del porto della recentemente fondata Dakar. Oggi questo spazio ospita un museo, gestito dall’Institut fondamental d’Afrique noire (Ifan), dedicato alla memoria africana. Nella stessa zona trovavamo anche un simbolo che voleva essere di riconciliazione ma che ha acceso più di una controversia. Proprio di fronte al museo si trovava infatti la piazza Europa, per celebrare gli aiuti che l’Unione europea ha destinato per il ripristino dei valori storici dell’isola. Nel giugno 2020 però l’amministrazione locale ha deciso di ribattezzare il luogo come “Place de la Liberté et de la Dignité humaine”, così come spiegato in questo articolo di “Le Monde”.

Foto di Diego Battistessa

Lasciandosi alle spalle il forte-museo si può iniziare una passeggiata (tra le poche strade che intrecciano l’isola) circondati da baobab e rigogliose bouganville, antiche case coloniali, ristoranti, piccoli punti di vendita di prodotti artigianali, alcune pensioni per il pernottamento e alcuni edifici in rovina. Possiamo trovare anche una chiesa, una moschea, una scuola e una piccola spiaggia di sabbia dove spiccano i variopinti tipici cayucos senegalesi.

Foto di Adriano Boano

Una passeggiata obbligata è quella che porta dal Mercato dell’Artigianato attraverso il sentiero dei Baobab, poche centinaia di metri che aprono lo sguardo verso i resti del Fort Saint-Michel, costruito dagli olandesi dopo aver acquistato l’isola dai portoghesi. L’isola è inoltre oggi sede e musa ispiratrice di una grande comunità artistica, le cui opere sono ben visibili in ogni angolo di questo piccolo pezzo di terra circondato dal mare.

Approcci diversi tra afrorappresentanti di opposte provenienze

Foto di Diego Battistessa


Foto di Diego Battistessa

L’isola di Gorée è diventata con il tempo anche un luogo di pellegrinaggio e manifesto politico per grandi leader mondiali contemporanei, tra i quali spiccano sicuramente Nelson Mandela e Barack Obama. Il 25 novembre 1991 Mandela visitò Gorée e nello specifico il Museo della Casa degli Schiavi, entrando una delle anguste celle di punizione e rimanendoci per svariati minuti. Quando lasciò la cella si racconta che non poté trattenere l’emozione, spiegando come quel posto gli ricordava Robben Island, in Sudafrica, dove era stato prigioniero.

Ancora presenti sul web, sono invece le immagini del presidente degli Usa, Barack Obama, che nel giugno del 2013 visitò l’isola di Gorée: occasione sfruttata dai suoi detrattori per strumentalizzare revisionisticamente il dibattito sulla reale o presunta importanza dell’isola e sul suo reale impatto numerico nella tratta transatlantica di persone.

☞c’è toponomastica e toponomastica

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Prime contaminazioni europee

Tra il 1444 e il 1445 l’esploratore portoghese Dinis Dias fece rotta dal Portogallo verso sud, verso le coste occidentali dell’Africa. Nel suo viaggio non si applicò nella cattura di persone da schiavizzare e da poter rivendere nel nascente mercato di esseri umani di Lagos, bensì si concentrò nell’esplorazione di nuove terre e nuove rotte marittime. Dias giunse in quella che oggi è la penisola della regione di Dakar, battezzandola come penisola di Cabo Verde.

L’esploratore portoghese non sapeva di aver raggiunto la parte più occidentale del continente africano e di tutto il congiunto territoriale dell’Eurafrasia (Vecchio Mondo o Continente antico), quello che però vedeva era un eccellente porto naturale di fronte al quale si trovava un’isola che sarebbe diventata tristemente famosa in tutto il mondo: l’isola di Gorée (in francese, Île de Gorée; in portoghese, Ilha de Goreia) che fu per più di tre secoli uno dei mercati di persone che “rifornirono” le economie schiaviste di Stati Uniti d’America, Caraibi e Brasile. Dagli abitanti locali l’isola era chiamata Berzeguiche, però l’esploratore portoghese la battezzò come Ilha de Palma (l’isola delle Palme) e anche se non fu usata immediatamente come base permanente, il luogo venne utilizzato come punto di sbarco e commercio nella regione: cristianizzato nel 1481 con la costruzione di una cappella per i riti religiosi.

 

L’interesse delle potenze coloniali

Fu 84 anni dopo l’arrivo di Dinis Dias che i portoghesi costruirono sull’isola la prima Casa degli Schiavi, una data marcata a fuoco nella storia: il 1536 è l’anno che inaugurò uno dei processi più oscuri dell’umanità. L’isola passò di “mano in mano” più volte, giacché le potenze coloniali e marittime dell’epoca (Portogallo, Francia, Inghilterra e Paesi Bassi) a partire dal Sedicesimo secolo si dedicarono all’installazione di forti e insediamenti militari dal Senegambia (un’area geografica che corrisponde approssimativamente ai bacini dei fiumi Senegal e Gambia) fino al Golfo di Guinea. Fortezze che fungevano sia da scalo economico che come rifugio dalle aggressioni dalle potenze europee rivali e contro gli attacchi dei vicini stati africani.

Adolphe d’Hastrel, Casa della signara Anna Colas a Gorée, 1839

Dopo l’arrivo dei portoghesi giunsero sull’isola anche i naviganti della repubblica delle Sette Province Unite (attualmente Paesi Bassi) che nel 1588 ne iniziarono la colonizzazione, costruendo nel 1621 un insediamento per proteggere la loro attività di commercio di schiavi. Ed è proprio in riferimento al periodo di dominio dei Paesi Bassi che si fa risalire il nome dell’isola, giacché per la sua posizione strategica, questo piccolo pezzo di terra in mezzo al mare offriva un porto sicuro per l’ancoraggio delle navi, da qui perciò l’origine del suo nome: chiamata Goede Reede dagli olandesi (Baia buona). Nel 1677 arrivarono anche i francesi (dalla vicina e recentemente consolidata, nel 1659, base commerciale di Saint Louis), che assunsero il controllo e stabilirono una piccola base commerciale sull’isola. I francesi rimasero in possesso (in modo alterno) dell’isola fino al 4 aprile 1960 (data dell’indipendenza del Senegal) però a partire dall’abolizione della schiavitù in Francia e nelle colonie, avvenuta nel 1848, Gorée soffrì un enorme declino economico, che aumentò ancora di più con la fondazione della città di Dakar nel 1857 (attuale capitale del Senegal).

☞I francesi arrivano per rimanere

 

Destinazione d’uso schiavista

Fu così come questo piccolo lembo di terra si trasformò, secondo quanto riporta l’Unesco, in un quartier generale (prima legale e poi clandestino) della tratta di persone schiavizzate, dove arrivarono a operare contemporaneamente 28 Case di Schiavi, che “stipavano” in condizioni disumane (dentro veri e proprio ergastulum di romana memoria), persone rapite da varie parti dell’Africa occidentale. Persone schiavizzate (donne, uomini, bambini) che venivano imprigionati, incatenati e poi fatti salire su delle barche che li avrebbero portati (dopo orribili mesi di navigazione) a destinazione, in porti come quello di Salvador da Bahia, dove sarebbero stati marchiati a fuoco e venduti.

1. Le navi negriere

Vittime di una guerra etnica o del capriccio di un sovrano, catturati, fatti camminare incatenati per chilometri prima di raggiungere la costa africana dell’Oceano Atlantico. Lì, privati del loro nome, della loro identità, di tutti i diritti.

Vengono fatti salire su una nave: la prima che molte di quelle persone avessero mai visto. Di fronte a loro un viaggio di mesi attraversando l’Atlantico per raggiungere le piantagioni di canna da zucchero dove avrebbero lavorato fino a morire di stenti.

Una folla di neri di ogni tipo incatenati insieme, che a malapena hanno spazio per voltarsi, che viaggiano per mesi, storditi, circondati dalla sporcizia e da grandi contenitori pieni di vomito, in cui spesso cadono e muoiono soffocati i bambini. Le grida delle donne e il lamento dei morenti trasformano l’intera scena in un inconcepibile orrore. Morte e malattie sono ovunque e una persona su sei non sopravviverà a questo viaggio e al lavoro brutale ed estenuante che seguirà (Organizzazione delle Nazioni Unite – Onu)

Il “middle passage” (passaggio intermedio) era la parte del commercio triangolare che prevedeva un viaggio disumano (che durava dai due ai tre mesi) dai porti africani verso le coste del continente americano; questo commercio dalla rotta triangolare è il legame che tiene insieme il trittico proposto in questo dossier. Questa rotta stabilita nell’oceano Atlantico a partire dal Diciassettesimo secolo fino al Diciannovesimo secolo prevedeva l’acquisto di schiavi nei porti africani (specialmente nel Golfo di Guinea) per vendere le persone schiavizzate nei porti del “Nuovo Mondo”, dopo un lungo e penoso viaggio in mare di mesi (middle passage). Le barche quindi cariche di merci acquisite con la vendita degli schiavi, tornavano nei porti europei chiudendo il triangolo. Le barche destinate al trasporto di schiavi prendevano il nome di barche negriere. Le imbarcazioni venivano modificate dagli armatori in modo da poter contenere il maggior numero di persone possibile: il livello di sovraffollamento, mancanza di igiene e di qualsiasi minima considerazione umana, rendeva queste barche un vero inferno.

La storia infinita di abusi, sfruttamento, contenzione e scafisti

Il carico di persone schiavizzate (che in alcuni casi arrivò anche a 400 per una singola imbarcazione) veniva diviso tra uomini, adolescenti e donne insieme ai bambini. Le donne venivano costantemente stuprate dal capitano e dal resto dell’equipaggio, gli uomini venivano utilizzati per alcuni lavori minori e si cercava di tenerli in allenamento per mantenere la loro forza fisica. Alle donne venivano dati alcuni abiti per coprire i loro corpi mentre gli uomini spesso erano lasciati completamenti nudi. Le donne si occupavano anche di preparare il cibo per l’equipaggio e spesso agli schiavi veniva richiesto di intrattenere i marinai con balli e canti: negarsi voleva dire guadagnarsi una punizione fisica.

Domanda di merce abbondante e non avariata

Da un lato il capitano della barca negriera doveva assicurarsi di poter caricare quanti più schiavi possibile per massimizzare il suo guadagno, dall’altro però era necessario contenere le epidemie e le morti per denutrizione. Gli schiavi viaggiavano non solo in spazi angusti, senza luce, stipati come merce nella stiva o in sottocoperta ma anche incatenati. Durante la maggior parte delle infinte giornate di navigazione non potevano quasi muoversi. La dissenteria era la maggior causa di morte tra gli schiavizzati, che però molto spesso venivano colpiti anche dalla malaria, febbre gialla, scorbuto, problemi respiratori e infezioni. Non possiamo sapere per certo quali fossero le condizioni psicologiche delle persone che vivevano questa disumana situazione, né quanti casi di suicidio (o di tentato suicidio) ci siano stati: diventa però comprensibile immaginare che non fosse solo la dolenza fisica la causa di tante morti. La reale percentuale di morti, delle persone che dall’Africa venivano portate in schiavitù verso le Americhe è ancora fonte di dibattito, ma il punto di partenza comune degli storici è che si tratti di una cifra superiore al 15 per cento del totale.

I cimiteri nei mari

Quando una persona schiavizzata moriva sulla barca negriera non gli veniva concesso nessun rito funebre, veniva semplicemente gettata nell’oceano. Il compito dei marinai, spesso gente senza scrupoli e senza futuro (l’ultimo posto sul quale avrebbe voluto lavorare un marinaio bianco europeo dell’epoca, era una barca negriera), ero quello di prevenire le ribellioni, mantenere vivi gli schiavi e preparali (tagliare loro barba e capelli, curare le ferite superficiali, etc.…) per la vendita, prima di giungere a destinazione.

Una volta raggiunti i porti delle Americhe venivano fatti passare per un controllo sanitario e dopo il passaggio alla dogana venivano presi in carica dal commerciante locale autorizzato (che contava con una particolare licenza) che procedeva a marchiarli con un ferro incandescente per stabilirne la proprietà.

Estratto dal libro America Latina Afrodiscendente: una storia di (R)esistenza, di Diego Battistessa

Il Mercato e la Capoheira☜

 

Africa di David Diop

Difficile immaginare cosa abbia voluto dire, difficile provare a sentire quello che hanno sentito quelle persone, difficile se non impossibile immedesimarci in quel terrore, in quello spaesamento, in quella rabbia e in quell’angoscia. Lasciamo allora che siano le parole di David Mandessi Diop (9 luglio 1927 – 29 agosto 1960) un poeta senegalese (morto troppo giovane in un incidente aereo) che ha contribuito enormemente con il suo lavoro, che parte da un forte e convinta posizione anticoloniale, al movimento letterario della Négritude. In questa poesia Diop fa dialogare l’Africa con un discendente di quelle persone trafficate, che idealmente possiamo immaginare si trovi ora nel continente americano.

A mia madre

Africa, mia Africa

L’Africa e i fieri guerrieri negli antichi deserti

L’Africa cantata da mia nonna

Sul bordo del suo fiume lontano

Io non ti ho mai conosciuto

Ma il mio sguardo è pieno del tuo sangue

Il tuo buon sangue nero è stato versato sui campi

Il sangue del tuo sudore

Il sudore del tuo lavoro

L’opera della schiavitù

La schiavitù dei tuoi figli

Africa, dimmi Africa

Sei tu allora quella schiena che si curva

E che cade sotto il peso dell’umiliazione

Quella spada tremante, macchiata di rosso

Chi dice sì alla frusta nel lavoro di mezzogiorno

Ed ecco che gravemente, mi risponde una voce

Figlio impetuoso, quell’albero giovane e robusto

Quell’albero laggiù

Splendidamente solo tra i fiori appassiti

È l’Africa, la tua Africa che rinasce ancora

Che germoglia di nuovo con paziente ostinazione

I cui frutti acquisiscono a poco a poco

Il sapore amaro della libertà.

☞e una voce risponde oltreatlantico

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Capital Afro

Salvador de Bahía è una città costiera situata nel Nordest del Brasile, e il suo nome originario era Salvador de la Bahía de Todos los Santos. Quando pensiamo a questa città dobbiamo subito menzionare che siamo di fronte non solo alla prima capitale coloniale del Brasile (fondata dai portoghesi) ma anche a uno dei centri urbani di matrice europea, più antichi del continente Americano. Oggi Salvador conta una popolazione di quasi 2,5 milioni di abitanti e con una estensione municipale di 312 chilometri quadrati. È la capitale dello stato di Bahia e si trova 1446 chilometri lontano dalla capitale federale del Brasile, ovvero Brasilia. Il suo centro storico è conosciuto come il “Pelourinho” (o Pelo per i locali) che nel 1985 è stato dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’Unesco.

Foto di Diego Bsattistessa

Prima capitale del Brasile (1549-1763), San Salvador de Bahía è stata un punto di confluenza di culture europee, africane e amerindiane. Nel 1588 fu creato il primo mercato di schiavi del Nuovo Mondo, destinati al lavoro nelle piantagioni di canna da zucchero. La città ha saputo conservare numerosi edifici rinascimentali di eccezionale qualità, spesso magnificamente stuccati, che caratterizzano in modo unico la città vecchia». Un dato curioso rispetto alla città, è che si dice che ospiti 365 chiese, uno per ogni giorno dell’anno.

Il futuro è ancestrale

Visitare oggi Salvador de Bahia de Todos los Santos significa fare un viaggio nelle radici africane dell’America Latina, toccando con mano l’eredità ancora viva di un passato fortemente legato all’altro lato dell’oceano: nello specifico l’eredità dei popoli a sud del deserto del Sahara, con un’enfasi sull’area occidentale bagnata dall’Atlantico (dal Senegal fino all’Angola). Farlo poi con un occhio attento alle celebrazioni religiose risulta ancora più interessante se si vogliono esplorare iniziative culturali e alcune tradizioni sincretiche di questa città brasiliana conosciuta come la Roma nera, perché è la città più nera fuori dall’Africa. Novembre 2023 è stato per esempio il mese del lancio ufficiale del progetto Salvador Capital Afro, evento internazionale multilivello che ha occupato tutti i 30 giorni del mese, mettendo al centro l’essenza dell’afrobrasialianità.

Salvador Capital Afro è un movimento nato nel 2022 e lanciato ufficialmente il 31 agosto 2023 (Giornata internazionale delle persone di discendenza africana) dalla prefettura di Salvador de Bahia: un ambizioso progetto culturale che vuole riconnettere la città e la sua gente con il loro patrimonio ancestrale, attraverso il rafforzamento e la valorizzazione delle espressioni artistiche, religiose e del patrimonio culturale della città, la cui origine risiede nel popolo afrodiscendente.

l’altra faccia della medaglia: Liverpool tenta il riscatto dalla vergogna

Il mese della coscienza nera

Dal 2011 il 20 novembre viene celebrato in Brasile come il giorno della coscienza nera, ma mentre per il resto del paese si tratta di un unico giorno di celebrazione e di riflessione, l’idea è che a Salvador de Bahia l’intero mese di novembre sia dedicato alla radice nera della città. È così che nel 2023 si è dato il via a un calendario di attività di portata internazionale per promuovere questa nuova idea di afroturismo e di riappropriazione dell’identità nera.

«Il protagonismo nero è un antidoto alla disuguaglianza e al razzismo strutturale», ha sottolineato Ivete Sacramento, attuale segretaria municipale delle riparazioni per le comunità afro della città brasiliana, per la rivista creata per l’occasione, il cui nome evidenzia quello del progetto: “Salvador Capital Afro”.

Il Festival Afropunk, il Festival Libertatum, il Festival Internazionale dell’Audiovisivo Nero del Brasile sono state tra le attività più importanti di un programma ambizioso che ha visto anche la riapertura del Museo Nazionale della Cultura AfroBrasiliana (Muncab). Tra le personalità nazionali e internazionali africane o afrodiscendenti si segnala la presenza di Wole Soyinka (primo africano a ricevere il Premio Nobel per la Letteratura nel 1986), delle cantanti Victoria Monét e Alcione, degli artisti Taís Araújo, Viola Davis, Angela Bassett, tra gli altri. Si tratta insomma di trasformare Salvador nella nuova capitale afro del continente, partendo da ciò che questa città è sempre stata, riconnettendosi con le identità africane e promuovendo la cultura afrodiscendente.

Contemporaneamente non va dimenticata ‘influenza britannica che ha saccheggiato anche il Brasile, commerciando i prodotti degli schiavi e rifornendo di materie prime le fabbriche di “Cottonopolis”. In Gran Bretagna si registrano simili iniziative di memoria di quelle che furono le connessioni con lo slancio della Rivoluzione industriale a Manchester:

Il riscatto della memoria

L’idea alla base del “nuovo” Muncab, che oggi si trova dentro l’antico Palazzo del Tesoro di Bahia, è quella di essere il cuore della cultura afrobrasiliana di Salvador de Bahia, che dal canto suo si fregia di essere la città più nera fuori dall’Africa. Un museo che possa concentrare da un lato artisti tradizionali e dall’altro le nuove generazioni di artisti neri, sia a livello nazionale che internazionale. Il Muncab vuole rappresentare il riscatto di una memoria che deve essere seme di cultura viva, per la produzione e diffusione di una identità afrobrasiliana da sventolare con orgoglio come bandiera della nuova Salvador, fiera del suo passato e proiettata verso un futuro fatto di ancestralità.

Foto di Diego Bsattistessa

All’interno del museo si entra in contatto con l’identità nera in molte delle sue sfaccettature, partendo dall’Africa per espandersi poi fuori dal continente per riflettere sull’orrore del traffico inumano di persone, passando per le varie forme di resistenza e resilienza, permettendo anche di comprendere e scoprire i contributi culinari, religiosi, musicali che le comunità africane hanno lasciato in eredità.

Foto di Diego Bsattistessa

Una eredità che si fa presente e che si manifesta in una collezione permanente di più di 400 opere (pitture, sculture, mobili, documenti, tra gli altri oggetti) che si intreccia ad altre attività come iniziative cinematografiche, spazi educativi e di rafforzamento identitario, includendo progetti di scambio internazionale con paesi africani fortemente legati alla città, come Angola, Mozambico e Guinea. Per la riapertura del museo nel 2023 è stata scelta l’esposizione Un Defeito de Cor (Un difetto di colore) che aveva già attirato quasi 100.000 visitanti nel Museo d’Arte di Rio de Janeiro.

 

Diversità e sincretismo

Il Muncab è sicuramente uno dei pilastri di Salvador Capital Afro, progetto che mira a promuovere la diversità artistica, culturale e gastronomica afrobrasiliana, e che vuole rendere protagonista anche tutto ciò che riguarda il sincretismo religioso e le pratiche rituali africane che con i secoli si sono fuse con il cristianesimo imposto dalla corona portoghese ai tempi della colonia.

Foto di Diego Bsattistessa

Sì, perché l’antica città di Bahia è stata per lungo tempo la capitale cristiana di tutto il Sud Atlantico oltre a essere la prima capitale del Brasile, luogo nel quale tra il Sedicesimo e il Diciannovesimo secolo arrivarono dal Golfo del Benin milioni di persone schiavizzate e trafficate (si stima tra 1,5 e 2 milioni di persone). Una migrazione forzata che ha obbligato a una stretta convivenza di aspetti culturali africani, europei e indigeni, producendo con il passare degli anni una cultura popolare che si esprime fortemente attraverso le sue celebrazioni, in modo particolare quelle religiose e artistiche.

Foto di Diego Bsattistessa

Il centro pulsante e identitario di questo mondo afrobrasiliano è come detto il nucleo antico della città, nello specifico la zona di Pelourinho, dove troviamo a ogni angolo elementi che ci ricordano dove siamo.

Liverpool ha dovuto confrontarsi con i nomi lordi di schiavismo

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Mercato concentrazionario

Ai piedi dell’Elevador Lacerda troviamo il Mercato Modelo, che fin dal periodo coloniale fu il centro della tratta degli schiavi in Brasile, e quindi nel Nuovo Mondo. Una visita obbligata dentro una struttura che oggi è adibita a commercio di souvenir turistici ma che mantiene, soprattutto nei sotterranei, quell’aura di terrore e di morte. Nei sotterranei di questa struttura venivano infatti rinchiusi coloro che si ribellavano o che tentavano di fuggire a un destino di schiavitù, soffrendo terribili agonie e spesso condannati a morire per annegamento quando la marea si alzava.

Un ricordo vivo e doloroso della crudeltà umana, traccia di un passato legato a doppio filo con l’identità della città e della sua gente. Il mercato si può vedere in tutta la sua grandezza e apprezzandone la posizione strategica dalla Praça Tomé de Sousa, dove troviamo anche un altro monumento simbolo del periodo della tratta degli schiavi. Si tratta del Monumento della Croce Caduta, una imponente croce inclinata che domina una piazza che funge da belvedere, accanto all’edificio che prende il nome di Casa de las Bahianas. Una croce che ricorda l’oscura storia di questa città, il sangue versato e la connivenza della Chiesa nell’orribile mercantilizzazione della vita che tanta ricchezza portò agli imperi coloniali.

libera chiesa in libero schiavo ☞

Il contraltare carnascialesco di Liberazione

Gli elementi architettonici di Pelourinho sono accompagnati costantemente da suoni, odori e colori, in un crogiolo di sensazioni che fanno vivere una costante vibrazione carnevalesca. Il Carnevale è per Salvador de Bahia (come per tutto il Brasile) un appuntamento cruciale ogni anno ma nel Pelourinho e specialmente nella Praça Terreiro de Jesus, questa sensazione è sperimentabile praticamente ogni giorno. Qui non è difficile trovare gruppi di persone che si cimentano (a volte per i turisti, a volte per piacere personale) nella capoheira, manifestazione culturale afrobrasiliana (creata in Angola dagli schiavi bantu che poi hanno portato in Brasile la “Danza della zebra”) basata su una espressione corporea che ingloba elementi di combattimento, danza, musica e acrobazia, che alludono a autodifesa e lotta mascherata mimica, con cui fuggire a costituire Quilombos nelle foreste, prive di zebre.

Un rituale che al ritmo di strumenti tipici come il berimbau, i pandero, gli agogó, i reco-reco e soprattutto gli atabaque (gli alti e tipici tamburi) riempiono di ritmo e di vita il centro storico di Salvador. Una carica musicale che i locali accompagnano con una bevanda particolare, che non può mancare nelle celebrazioni di Salvador de Bahia, il Cravinho. Si tratta di una bevanda tipica delle feste dove la forte presenza della cannella, serve a mascherare con il suo aroma, l’alta gradazione alcolica. E se si parla di bevande e gastronomia, non si può non fare un accenno al Acaraje. Un piatto tipico da consumare per strada (nei piccoli punti vendita ambulanti gestiti da «mamis» di Pelourihno), oppure nei ristoranti, a base di pasta di fagioli, ripieno di gamberi e accompagnato da una salsa piccante molto intensa.

 

L’ascensore a vite

Elevador do Parafuso: “Sollevatore a vite”, in realtà era idraulico e azionato da un motore a vapore. Era soprannominato “a vite” per il grande pezzo a spirale che spingeva le due cabine dell’ascensore, mantenendo un collegamento ideale con l’enorme forza fisica che si produceva a Salvador de Bahia con l’apporto dei lavoratori schiavizzati.

Elevator Lacerda visto al livello della Città bassa

Un altro luogo simbolo di Pelo è sicuramente O Elevador Lacerda, un enorme ascensore che unisce la parte bassa della città con la parte alta, quella che vide la nascita del primo centro urbano fortificato da parte dei portoghesi. L’opera architettonica è di quelle che tolgono il fiato e che rendono caratteristico e immediatamente riconoscibile il panorama urbano di Salvador de Bahia. L’ascensore Lacerda è una vera e proprio opera maestra dell’ingegneria, soprattutto se si pensa che fu il primo ascensore urbano del mondo, inaugurato l’8 dicembre del 1873 con un’altezza all’epoca di 63 metri (nel 1930 fu riformato e ora misura 72 metri). L’obiettivo è quello di poter trasportare in modo facile e veloce, le persone che da Praça Cairu, nella città bassa (di fronte all’oceano Atlantico) vogliono raggiungere la Praça Tomé de Sousa, nella città alta, nel cuore di Pelourinho, proprio di fronte allo storico Palácio Río Branco (l’edificio che fu sede del governo del Brasile durante il periodo coloniale).

Si tratta oggi di un punto turistico importante per la città ma anche di uno snodo di trasporto pubblico fondamentale, che arriva a “muovere” decine di migliaia di passeggeri al mese, persone che con pochi spiccioli (15 centesimi di reais) possono evitare di dover risalire le famose e faticose ladeiras (ripide salite) della città. Il nome dell’ascensore deriva dai suoi ideatori, Augusto Federico de Lacerda (ingegnere) e Antônio Francisco de Lacerda (imprenditore) che ne iniziarono la costruzione nel 1869. Nel 1873 la struttura fu inaugurata con il nome di Ascensore idraulico da Conceição da Praia, anche se popolarmente fu subito battezzato Elevador do Parafuso: solo nel 1896 acquisirà l’attuale nome di Elevador Lacerda.

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]]> Mescolanza sincretica https://ogzero.org/studium/mescolanza-sincretica/ Thu, 08 Aug 2024 08:27:49 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12876 L'articolo Mescolanza sincretica proviene da OGzero.

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Sincretismo non solo Pelourinho

Per provare a introdurre l’identità storica e il presente di Salvador de Bahia è necessario però uscire da Pelourinho ed esplorare altri elementi urbani, architettonici e naturali che ne conformano l’anima e il carattere.

Il concetto di sincretismo religioso apre un ventaglio di esiti mutevoli di concezioni e pratiche religiose (create, ricreate, adattate, ricontestualizzate) in uno spazio-tempo diverso da quello di origine. Un processo ben descritto nel fascicolo 20 del 2004 El Pelourinho de Bahia, cuatro décadas después della rivista “Iconos. Revista de Ciencias Sociales”.

La parola sincretismo deriva dal greco synkrasis, ovvero mescolare insieme, ed è tutt’altro che anomalo che le religioni passino per questo tipo di processo. Il sincretismo religioso nel mondo latinoamericano ha vissuto numerose tappe che hanno visto, in modo alterno, il protagonismo di popolazioni indigene, coloni europei, criollos e afrodiscendenti. La base di questo processo è stato un credo, quello cattolico, che ha svolto un ruolo principale nello sviluppo di nuove forme religiose in America Latina, giacché durante il periodo coloniale la Chiesa Romana Cattolica e Apostolica, dominava il campo spirituale di tutti i paesi della regione compresi tra il Messico e la Terra del Fuoco. Mappando le religioni afrolatinoamericane, possiamo subito identificare il Brasile come un centro focale di studio e di analisi, visto che siamo di fronte a un paese nel quale si ha la sublimazione di questo processo di resistenza delle tradizioni ancestrali africane da un lato, e di krasis (mescolanza) dall’altro, verso le molteplici spiritualità, originarie e importate, presenti nel territorio.

Siamo di fronte a una grande complessità di rituali, simbologia e ancestralità che oggi si manifesta in Brasile in una vasta pluralità di religioni afrobrasiliane, come per esempio: Babaçuê (Pará), Batuque (Río Grande del Sur), Cabula (Espírito Santo, Minas Gerais, Río de Janeiro y Santa Catarina), Candomblé (presente in tutto il Paese), Culto a los Egúngún (Bahia, Río de Janeiro, São Paulo), Culto de Ifá (Bahia, Río de Janeiro, São Paulo), Quimbanda (Río de Janeiro, São Paulo), Macumba (Río de Janeiro), Omoloko (Río de Janeiro, Minas Gerais, São Paulo), Tambor de Mina (Maranhão, Pará), Umbanda (presente in tutto il Paese), Xangô do Nordeste (Pernambuco) e Xambá (Alagoas, Pernambuco).

Come specificato bene in un articolo di “MiraCuBì” è sempre Jorge Amado a offrire una dettagliata panoramica dell’Olimpo afrobrasiliano di Bahia nel capitolo Gli orixá di Carybé – noto artista, amico dell’autore brasiliano che illustrò il libro Bahia, le strade, le piazze.

Fuori dalla zona del “Pelo” a Salvador de Bahia ci sono almeno altri due punti di interesse sincretico: la Chiesa di Nosso Senhor do Bonfim e il Dique di Tororó rappresentano i due punti in cui il meticciato religioso trova la sua amalgama a partire da luoghi originariamente sacralizzati da culti diametralmente opposti.

Chiesa di Nosso Senhor do Bonfim

Un altro luogo di culto, diventato simbolo nazionale e internazionale, è la Chiesa di Nostro Signore di Bonfim (nel quartiere di Bonfim), una delle chiese cattoliche più tradizionali della città, dedicata al Senhor do Bonfim, santo patrono dei bahiani e simbolo del sincretismo religioso di Salvador de Bahia.

Foto di Diego Battistessa

Costruito sulla cima della Collina Sacra, questo edificio di culto è lo scenario del famoso Lavagem do Bonfim, evento nel quale le donne bahiane di Candomblé lavano in modo rituale i gradini della chiesa con abbondante acqua. Si tratta di uno dei rituali religiosi più importanti del Salvador, rispettato e celebrato sia dai fedeli cattolici che dai membri del Candomblé.

Non di minore importanza il fatto che proprio da questa chiesa provenga il famoso braccialetto colorato che potete vedere in tutta Salvador de Bahia. Il nastro originale fu creato nel 1809 e misurava esattamente 47 centimetri di lunghezza, la misura del braccio destro della statua di Gesù Cristo, Signore di Bonfim, situata sull’altare di questa chiesa, sicuramente tra le più famose di Bahia. Venduto o regalato in diversi colori in tutta la città, il nastro Senhor do Bonfim rappresenta, a seconda del colore, un orixá diverso. In questo modo, gli orixá, divinità centrali del Candomblé, si uniscono al messaggio rappresentato da Gesù di Nazaret, creando un nuovo spazio di comunione e devozione inclusiva che trascende i confini della religione e si estende alla cultura e all’identità afrobrasiliana.

Foto di Diego Battistessa

 

Dique di Tororó

E se parliamo di orixá non si può non visitare a Salvador de Bahia il Dique di Tororó, unica sorgente d’acqua dolce della città e luogo utilizzato anticamente come linea di difesa naturale che delimitava la zona della città alta di quella che era la capitale del Brasile. Il nome Tororó deriva dalla parola della lingua indigena tupi, tororoma, che significa “getto” e che in questo caso si riferisce alla sorgente d’acqua. Oggi questa laguna rappresenta un luogo religioso e turistico, visto che nel 1998 vennero istallate al suo interno otto sculture dell’artista plastico figlio di Salvador de Bahia, Octavio de Castro Moreno Filho, conosciuto come Tatti Moreno. Le sculture che fluttuano nell’acqua e che sono illuminate di notte, rappresentano gli orixá Oxum, Ogum, Oxóssi, Xangô, Oxalá, Iemanjá, Nanã e Iansã.

Foto di Diego Battistessa

le prime contaminazioni datano a metà del Quattrocento

E poi c’è la Praia da Barra

Probabilmente la spiaggia più conosciuta e frequentata di Salvador de Bahia, la spiaggia di Barra (nome del quartiere) che si trova esattamente sulla punta della penisola dove si trova la città, tra la Bahía de Todos los Santos e l’Oceano Atlantico. Un luogo unico dal quale si può vedere sia l’alba che il tramonto sul mare e che custodisce anche l’antico forte di Santo Antonio (vicino al Farol da Barra). Questa spiaggia rappresenta il circuito più famoso del Carnevale di Salvador de Bahia e la sua lunga estensione e pluralità l’ha fatto diventare un luogo multiattività dove convivono il turismo e la vita quotidiana degli abitanti della città.

Foto di Diego Battistessa

e poi ci sono le spiagge di Saint-Louis, dove iniziò tutto ☞

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]]> Pelourinho https://ogzero.org/studium/pelourinho/ Wed, 07 Aug 2024 16:47:59 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12839 L'articolo Pelourinho proviene da OGzero.

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Sfarzi coloniali e riappropriazione afro

Pelourinho e sullo sfondo Nossa Senhora do Rosario Foto di Diego Battistessa

Il centro della terribile pratica di mercificazione umana a Salvador de Bahia era proprio il quartiere di Pelourinho, nome che in portoghese richiama la gogna dove venivano legate e frustate le persone schiavizzate. Si tratta di un enorme complesso monumentale, arroccato su una collina di fronte al mare: un luogo scelto strategicamente dai portoghesi perché facile da fortificare e con la possibilità di vedere con largo anticipo possibili navi nemiche che si avvicinavano. Il quartiere raccoglie l’insieme più importante dell’architettura coloniale del Seicento e Settecento nella regione e tra le innumerevoli chiese che ne fanno un luogo unico nel mondo (come la famosa Chiesa di San Francesco), ospita anche la chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos (Nostra Signora del Rosario dei Neri): edificio di culto la cui costruzione durò quasi 100 anni e che è uno dei simboli della “rivalsa afro” nella città. L’elemento curioso e storico di questo edificio religioso, risiede nel fatto che durante gli anni della colonia portoghese, questa era l’unica chiesa della città che permetteva l’ingresso alle persone afrodiscendenti.

Chiesa di San Francesco. Foto di Diego Battistessa

 

Progressiva commistione di culture 

Proprio dal quartiere di Pelourinho e dalla chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos parte il 4 dicembre la celebrazione di Santa Barbara e dell’orixá Iansã. Un rituale sincretico, considerato patrimonio immateriale dal Governo dello Stato di Bahia dal 2008, che riunisce cattolici e religiosi di origine africana. Un atto di fede che da un lato omaggia una delle grandi Sante cristiane e dall’altro professa devozione a una delle entità divine che furono associate al cristianesimo in epoca coloniale da parte della popolazione nera africana schiavizzata, in un esercizio di resistenza e di preservazione delle proprie radici religiose e culturali: Iansã.

Statuetta yoruba della Sierra Leone: il sincretismo della santeria

Originaria delle popolazioni che occupavano il territorio subsahariano oggi corrispondente a Nigeria, Togo e Sierra Leone, Iansã fa parte del pantheon yoruba, una ricca tradizione religiosa che comprende diverse divinità legate agli aspetti naturali come vento e acqua. Conosciuta anche come Oiá o Oyá, è una delle principali orixá femminili, ampiamente venerata e celebrata in varie tradizioni religiose in Brasile, Africa occidentale e nei Caraibi.

Festa di Santa Barbara, appuntamento fisso del 4 dicembre Foto di Diego Battistessa

 

O Pagador de Promessas

Il film O Pagador de Promessas del 1962, diretto da Anselmo Duarte, che vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes dello stesso anno, diventando il primo film sudamericano nel conseguire tale distinzione è emblematico di questa convivenza di culture forzata dalla deportazione coloniale e che gradualmente attraverso scontri e rifiuti ha prodotto un sincretismo religioso e culturale. L’anno successivo divenne anche il primo film brasiliano e sudamericano nominato all’Oscar come miglior film straniero. Il film segue le vicende di Zé, un umile contadino che fa una promessa a Santa Barbara in un terreiro (luogo di culto del Candomblé e dell’Umbanda): se il suo asino si riprenderà dalla malattia, porterà una croce da casa sua alla chiesa di Santa Barbara, che si trova proprio nella città di Salvador, nel quartiere di Santo Antônio Além do Carmo. Ma quando il prete locale scopre che ha pregato secondo il rito delle religioni afrobrasiliane, rifiuta di lasciarlo entrare in chiesa, non permettendogli di mantenere così la sua promessa. Anche se contro la sua volontà, Zé diventa un martire religioso e un attivista politico per coloro che interpretano in modo ambiguo il suo messaggio, portando la storia a un epilogo fatale. Oggi però, rispetto all’epoca ritrattata nel film, la città è cambiata così come è cambiato il sentire di una Chiesa cattolica locale che sempre di più si è aperta alle professioni di fede sincretiche.

Per rimanere in tema cinema merita una menzione il Cinema Glauber Rocha, uno delle ultime sale di strada rimasti a Salvador de Bahia (i cinema di Rua di Salvador vertevano sull’idea che l’esperienza culturale cinematografica poteva andare ben oltre la visione di un film). Un cinema popolare, che è anche punto di ritrovo per il quartiere e che si trova a pochi passi dal Muncab e dal centro di Pelourinho. Un cinema che prende il nome da Glauber Pedro de Andrade Rocha (14 marzo 1938 – 22 agosto 1981), regista, attore e sceneggiatore brasiliano considerato come il principale rappresentante del Cinema Novo. Questo spazio fu inaugurato nel 1919 con il nome di Cine Guarany e fu per quasi 70 anni la principale sala cinematografica di Salvador de Bahia, essendo caratterizzato da elementi che lo rendevano modernissimo per la sua epoca. Nel 1955 fu rinnovato con le “nuove” attualizzazioni tecnologiche dell’epoca e dopo un periodo di “alti e bassi” con diverse opere di riqualificazione, fu riaperto nel 1982 con l’attuale nome di Glauber Rocha, diventando uno spazio di incontro, di cinema d’autore e di esposizioni artistiche (ospita oggi infatti anche dei pannelli dell’artista plastico Carybé, opera dal titolo Indios Guaranys).

Jorge Amado: l’impegno politico nel Novecento di Bahia

Tornando però al cuore di Pelourinho e alla sua architettura che rappresenta una viva testimonianza di un passato che si intreccia con forza al presente, in pieno Largo do Pelourinho troviamo l’edificio della Fundaçao – Casa di Jorge Amado, inaugurata nel 1987 dallo stesso famoso politico e scrittore brasiliano (pluripremiato però senza mai essere riuscito a ottenere il premio Nobel per la letteratura). Un luogo di “culto” per chi onora ancora oggi la memoria di questo illustre brasiliano e che ospita e conserva la sua collezione, promovendo tra l’altro, attraverso la fondazione, lo sviluppo delle attività culturali nello stato di Bahia. Lo scrittore brasiliano Jorge Amado (nato il 10 agosto 1912 a Itabuna) fu sicuramente uno dei grandi ambasciatori di Bahia e morì, solo quattro giorni prima di compiere 89 anni, proprio nella città di Salvador, il 6 agosto 2001.

Fundaçao – Casa di Jorge Amado, Largo Terreiro de Jesús. Foto di Diego Battistessa

Siamo di fronte a uno degli autori più letti al mondo, la cui vita però fu marcata dall’isolamento a causa della sua adesione al comunismo. Amado si dedicò infatti alla militanza politica (che gli costò anche il carcere) e nel 1945 fu deputato del Partito comunista brasiliano, lo stesso partito che solo cinque anni dopo fu messo al bando e considerato un partito illegale. L’esilio insieme alla famiglia, una vita rocambolesca in latitanza, l’abbandono della carriera politica e infine il ritorno nel suo Brasile solo nel 1955. Una vita di lotta, che si riflette nelle sue opere che spesso hanno trattato di temi sociali, scritti per la cui descrizione non basterebbe un libro. Pubblicò il suo primo romanzo all’età di 18 anni e già nel 1944 dette vita uno dei suoi capolavori Terras do Sem Fim (La terra senza fine), un libro che descrive con crudezza la dura vita dei lavoratori nelle piantagioni di cacao. Famoso tra i molti altri anche Gabriella, garofano e cannella, opera scritta in età più adulta (nel 1958) ma non può mancare un riferimento a un’opera che lo lega in modo particolare alla città di Salvador de Bahia. Un libro che si chiama appunto Bahia de Todos-os-Santos pubblicato nel 1945. Una specie di guida di una città che Amado ci aiuta a conoscere attraverso la sua gente e i suoi miracoli, i suoi angeli e i suoi demoni, la sua musica e gli amori incorniciati dal blu intenso dell’oceano. Tutto questo oggi è trasmesso e custodito dentro la Fundaçao – Casa di Jorge Amado, dove si trovano anche le quasi 100.000 pagine di lettere che lo scrittore ha ricevuto durante la sua vita, da persone di tutto il mondo.

Candomblé. Foto di Luciano Paiva, Flickr. CC BY-NC-ND 2.0

Adiacente alla casa di Jorge Amado si trova il Museu da Cidade, che oltre a un’ampia collezione di costumi candomblé – la tradizionale danza bahiana –, custodisce oggetti personali del poeta Castro Alves, l’autore di La nave degli schiavi annoverato tra i primi personaggi pubblici a schierarsi contro la schiavitù nell’Ottocento.

 

Flussi e riflussi tra Bahia e Benin

L’edificio della fondazione si trova a pochi metri dalla chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos e poco più in basso, troviamo un altro dei tesori storico-culturali di questo quartiere: la casa do Benin. Dal sito della prefettura di Bahia possiamo trovare più informazioni su questo centro culturale già diventato iconico, ideato dall’etnografo Pierre Verger e nato come risultato di un accordo bilaterale per unire i legami tra Salvador de Bahia e la Repubblica del Benin, luogo di origine della maggior parte delle persone schiavizzate arrivate a Salvador de Bahia.

Foto di Diego Battistessa

Inaugurato nel 1988, lo spazio si trova in un palazzo in Rua Padre Agostinho Gomes, vicino a Taboão, nel Pelourinho. Nel cuore del Centro Storico Casa do Benin rappresenta un pezzo di Africa, un luogo generatore di uno scambio culturale da e verso il continente africano. Questo spazio culturale possiede un importante patrimonio artistico e culturale afrobrasiliano ed è mantenuto dalla Fondazione Gregório de Mattos per migliorare le relazioni culturali tra le due sponde dell’Atlantico: all’interno è visibile una collezione composta da 200 pezzi provenienti dal Golfo del Benin, raccolti dal fotografo francese Pierre Verger, durante i suoi viaggi in Africa, per studiare i flussi e riflussi tra l’Africa e Bahia. Contiene anche pezzi legati alla cultura afrodiasporica, donati da artisti e istituzioni di tutto il mondo.

A donare un’atmosfera unica, il modo particolare nel quale vengono appesi dei tessuti colorati dell’artista plastico e designer Goya Lopes, che danno ancora più vita e movimento a un luogo che vuole anche promuovere la creatività artistica della moda afrobrasiliana.

Texture di Goya Lopez

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]]> G7 – G8 – G20 – G77+1… G8miliardi https://ogzero.org/g7-g8-g20-g771-g8miliardi/ Mon, 18 Sep 2023 20:48:14 +0000 https://ogzero.org/?p=11622 Le famose bande di ragazzini. C’è quello grande e grosso che si tira dietro i suoi e botte da orbi a chi li contrasta. In questa strada non ci dovete mettere piede! Una banda vicina invece l’attraversa, anche se di corsa. Il capo è meno corpulento, ma sa il fatto suo. Altri gruppetti sono incerti, […]

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Le famose bande di ragazzini. C’è quello grande e grosso che si tira dietro i suoi e botte da orbi a chi li contrasta. In questa strada non ci dovete mettere piede! Una banda vicina invece l’attraversa, anche se di corsa. Il capo è meno corpulento, ma sa il fatto suo. Altri gruppetti sono incerti, con chi stare? Un po’ con l’uno un po’ con l’altro. All’aria aperta la situazione è abbastanza caotica. Diversa da prima dove c’era la banda più forte e non ce n’era per nessuno. In più adesso succede che un giorno il sole è rovente e nessuno ha voglia di venir fuori dall’ombra. Un altro diluvia che appena ti affacci in strada quasi anneghi. Un disastro. Non si capisce più niente. Bisogna solo aspettare che i ragazzini, ragazzine incluse, crescano. Ma cresceranno?


Quando sarai grande…

Sì, diventeranno grandi. Anzi G(randi)20. Una specie di super banda che cerca di spartirsi le zone di influenza. Assenti XI Jinping e Putin. Presente! però Giorgia M. e questo ci rincuora.
Il padrone di casa, Modi si è indaffarato moltissimo, senza fare i pignoli su come per l’occasione ha ripulito le periferie di Nuova Delhi. Vuole che l’India sia chiamata Bharat, e su questo niente da dire. Sta già scritto nella Costituzione. Per noi di una certa età va anche meglio perché nel nostro immaginario gli indiani continuano a essere i nativi americani (stavo per scrivere i peller…).
Poi ha ufficialmente siglato la Global Biofuel Alliance a cui aderiscono Brasile, Stati Uniti, Bangladesh, Argentina, Sudafrica, Mauritius, Emirati Arabi e Italia, oltre a Bharat. Mi propongo a Giorgia come servitore della patria ai prossimi incontri nelle Mauritius. Ci tengo ai biocarburanti.

Non è passata inosservata la dichiarazione fatta da Stati Uniti e IBSA – India, Brasile, Sudafrica – sul potenziamento degli aiuti finanziari al Sud Globale.
La geografia sta slittando verso il meridione del mondo. Da un punto di vista delle aspirazioni geopolitiche, delle prese di parola, non può non piacere. Dirà l’avvenire se sarà un guadagno per la Terra e l’Umanità.

 

Nel quartiere c’è sempre qualcuno dei ben piantati che invece di farsi vivo in piazza con lo sguardo strafottente se ne sta non si sa dove. Perfino quelli della sua banda sono sconcertati. Cosa starà macchinando?


… saprai perché…

Xi Jinping perché non è venuto? Se ne fotte? Il suo ruolo se lo gioca nei Brics? Cioè Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica e prossimi Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Emirati arabi uniti e Arabia saudita. Augurandosi che non si trasformino in Bricsaeeieauas.  L’erede di Mao lascia intenzionalmente il G20 all’India? Sembrerebbe di sì.

Modi ha così organizzato gli accordi, fossero anche solo pacche sulle spalle, senza la Cina. Tutta questa sua agitazione sta in piedi? Amico di tutti e di nessuno? Putin ha fatto bene a starsene dov’è, deve salvare l’eterna anima russa con i carrarmati e questo disturba le calorose strette di mano.

Sta finalmente cambiando la faccia geopolitica del Mondo, detta anche multipolarismo, oppure sono solo geometrie variabili destinate ad essere ormai perennemente variabili? In altre parole, la novità è il movimento continuo e non la configurazione che assume?

… è un gioco strano: devi imparare…

L’IMEC è una prima risposta. Un baccanale di acronimi da imparare a memoria. India-Middle East-Europe Economic Corridor. Lo promuovono il principe saudita Mohammed bin Salman Al Saud, il presidente degli Emirati Arabi Uniti Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, la presidente dell’Unione Europea Ursula von der Leyen, la primo ministro italiana Giorgia Meloni, il capo della Banca Mondiale Ajay Banga e, ovviamente, Joe Biden e Narendra Modi. Treni, porti, fibre ottiche, pipeline, autostrade, ponti, hub.

Applausi a scena aperta.

Uno per tutti, quello di U.v.der Leyen: «È un ponte verde e digitale tra i continenti e le civiltà».

All’esterno del G20 un encomio altissimo.

Viene da Netanyahu: «Israele è al centro di un inedito progetto internazionale che unirà infrastrutture dall’Asia all’Europa, realizzerà una antica visione e cambierà il Medio Oriente, Israele, e influenzerà il mondo intero».

Coro stellare per un mondo a più facce? Risposta robusta, dieci anni dopo, alla Via della Seta cinese? Entusiasmo a buon mercato? Trionfalismo fuori posto?

… è un gioco strano: devi imparare…

Calma, dice la Cina: «Il tempo mostrerà la differenza tra un’iniziativa che abbraccia tutti con cuore aperto [la Belt and Road Initiative cinese] e una di idee ristrette che divide le nazioni. Noi speriamo che l’IMEC non diventi così».

Risposta secca e stizzita.

I giochi sono aperti e soprattutto il quadrante del mondo si è messo in moto. Una cosa è sicura, il Medio Oriente torna ad essere uno snodo delle politiche mondiali.

Se qualcuno poi, sprovveduto di finezze geopolitiche, osserva un po’ più da vicino i Grandi 20, presenti e assenti, il modo con cui governano i loro paesi e come fanno e disfanno le loro società, qualche brivido giù per la schiena gli corre. Allora il sempliciotto inesperto sceglie di chinarsi sulla minuteria storica e scopre, per esempio, che un treno merci con 36 vagoni container è partito dal sud della Russia, ha attraversato l’Iran, già nemico numero uno dell’Arabia Saudita, e poi dallo Stretto di Hormuz è stato travasato via mare a Gedda, in… Arabia Saudita. A fine agosto.

Oppure viene informato che a Ryad, capitale dell’Arabia Saudita, lo scorso 11 settembre grazie all’Unesco  era in visita ufficiale una delegazione del governo israeliano, anteprima di una possibile normalizzazione tra i due stati mediorientali. Il candido osservatore inoltre si stupirà vieppiù nel vedere che Erdoğan, il sultano turco, si sia subito scagliato contro il corridoio in questione proponendone uno di gamma superiore. Provvisoriamente definito – che strano! – corridoio turco.

… è tutto scritto, catalogato: ogni segreto, ogni peccato…

Non stanno mai fermi i Grandi, anche i Meno Grandi. Saltabeccano da un summit, da un vertice all’altro un po’ qua un po’ là. Finito uno, di corsa all’altro [Brics, 21/24 agosto, G20, 9/10 settembre, G77+Cina a Cuba, dal 15 settembre]. Gli farà bene tutto questo sbattimento? E se prendono aria? E se fanno indigestione? E se perdono l’orientamento? E il jet lag? Cos’è, fregola di contrasto alla depressione?
C’è un moto ondulatorio o sussultorio nella geopolitica? Preludio ad eventi tettonici più duri e consistenti?

Se scendo dai vertici e lo chiedo a una immigrata filippina a Ryad, a un palestinese di Nablus, a una giornalista kurdo-turca in carcere, mi guardano con un certo disincanto. Eppure.

… quando sarai grande, saprai perché

Qualcuno si perde, altri mettono su famiglia, qualcuno ricorda con nostalgia e parla male dei nuovi ragazzini di strada, certi fanno carriera.

Tutto il GMondo è paese.

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L’equilibrismo di tre pesi diversi in Nordamerica https://ogzero.org/lequilibrismo-di-tre-pesi-diversi-in-nordamerica/ Sat, 14 Jan 2023 00:52:49 +0000 https://ogzero.org/?p=10062 Dietro alla relativa eco ottenuta dall’ennesimo incontro tra i tre paesi del Nordamerica si nascondono invece tematiche annose difficilmente risolvibili: i cartelli dei narcos che sull’altra riva del Rio Bravo chiamano War on drugs e che sviluppano  business sempre diversi con l’obiettivo dei mercati anglosassoni del continente; mentre visti dalla frontiera settentrionale i flussi migratori […]

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Dietro alla relativa eco ottenuta dall’ennesimo incontro tra i tre paesi del Nordamerica si nascondono invece tematiche annose difficilmente risolvibili: i cartelli dei narcos che sull’altra riva del Rio Bravo chiamano War on drugs e che sviluppano  business sempre diversi con l’obiettivo dei mercati anglosassoni del continente; mentre visti dalla frontiera settentrionale i flussi migratori si ammassano sulla riva opposta del Rio Grande, come in un grande hub, dove comunque si riescono a spuntare salari maggiori, dove in qualche modo si può “aspettare”. Però sia gli uni – i flussi di droga – che gli altri – i flussi migratori – risalgono lungo tutto il territorio messicano a partire dalla frontiera meridionale. Infatti non manca nemmeno nell’incontro del Distrito Federal di Ciudad de México il confronto tra comunità native e afrodiscendenti – vessate e umiliate dai colonialisti e dai loro discendenti – e bianchi che diventano ancora più feroci nella difesa di privilegi anacronistici. Ma non sono rappresentate da nessuno dei partecipanti, sono pura merce di scambio: per creare difficoltà ai paesi antagonisti (non ammessi alla Cumbre di L.A.) si accettano migranti da quelle frontiere… e si sbattono le porte in faccia agli altri.
Amlo è riuscito nell’intento di apparire all’altezza dei due “amici” anglosassoni? Diego Battistessa ha analizzato la tre giorni de los tres amigos anche mantenendo accesa la luce proveniente dal continente che si apre a Sud di quel confine meridionale messicano che non trova spazio nell’economia autosufficiente del vertice.

fin qui OGzero


Dal 9 all’11 gennaio si sono riuniti a Città del Messico “I tre amici”, in spagnolo Los tres amigos. Non stiamo parlando di Alfonso Cuarón, Alejandro González Iñárritu e Guillermo del Toro, direttori di cinema messicani, conosciuti appunto come “Los tres amigos” – e nemmeno Steve Martin, Chevy Chase e Martin Short (protagonisti della omonima pellicola di John Landis del 1986 all’origine dell’espressione) –, ma bensì dei capi di stato di Canada (nella veste del primo ministro), Usa e Messico (presidenti delle reciproche Federazioni di stati). Trudeau, Biden e Lopez Obrador hanno dato vita al vertice dei leader nordamericani per stabilire delle politiche comuni su temi chiave per “i tre paesi”: in special modo migrazione, sicurezza (leggi narcotraffico) e commercio. Questo incontro trilaterale è il decimo della sua storia, iniziata il 23 marzo 2005 sotto il nome di Alliance for North American Security and Prosperity, con la riunione a Waco (Texas) di George W. Bush (USA) , Paul Martin (Canada) e Vicente Fox (Messico).

Un evento che segna questo inizio 2023 ma che affonda le radici nel 2022. Prima di addentrarci infatti dentro l’analisi di quanto discusso dai tre leader nordamericani nell’evento di Città del Messico è necessario volgere lo sguardo all’anno appena trascorso per capire con quale stato d’animo Trudeau, Biden e Lopez Obrador, si sono seduti al tavolo delle trattative.

 

Mexico – United States of America

Tensione diplomatica

In primo luogo non si può non sottolineare che questo vertice risana una frattura che si era palesata durante un altro importante summit, quello delle Americhe, celebratosi a Los Angeles dal 6 al 10 giugno 2022. Un incontro del quale vi abbiamo parlato in queste pagine  (dove ho potuto partecipare di persona) e dove, tra le altre, pesava proprio l’assenza di Andrés Manuel Lopez Obrador (Amlo). La presa di posizione del presidente messicano rispetto alla sua non partecipazione a questo importante incontro, che si celebra ogni 4 anni, riguardava l’esclusione a priori di Cuba, Nicaragua e Venezuela, paesi ritenuti antidemocratici dagli Usa. Tra il 9 e l’11 gennaio dunque, Lopez Obrador e Biden hanno potuto tornare a negoziare “face to face” in un contesto internazionale, dove strette di mano e foto di rito hanno allentato (almeno a favore di telecamera) una tensione che ancora era nell’aria.

War on drugs di Nixon: mezzo secolo fa

Non è da sottovalutare neanche quanto sono riusciti a realizzare Messico e Usa – nello specifico le autorità messicane –, lavorando insieme alla Drug Enforcement Agency (Dea) degli Stati Uniti rispetto alla lotta ai cartelli che controllano le rotte del narcotraffico. La cattura a luglio 2022 in Messico del narcotrafficante Rafael Caro Quintero (uno dei fondatori del Cartello di Guadalajara insieme a Miguel Ángel Félix Gallardo ed Ernesto Fonseca Carrillo) considerato uno dei latitanti più ricercati del mondo e reso famoso al grande pubblico per la serie Narcos, è stato un gran risultato.

Amlo antidroga

Operazione che ha fatto vedere in modo chiaro la volontà dell’amministrazione di Amlo di lottare contro questa piaga (il Messico ha dichiarato guerra al narcotraffico nel 2007) e di appoggiare le autorità Usa nella persecuzione di questi criminali. Persecuzione, cattura ed estradizione, quest’ultima proprio la più temuta dai leader dei cartelli che sanno di poter vivere una vita “alla grande” nelle carceri messicane ma di tutt’altra storia si tratta se invece la pena è da scontare in una prigione “gringa”.

La catena delle estradizioni

In questo senso il Messico nel 2022 ha estradato più di 50 criminali legati al narcotraffico, principalmente verso gli Stati Uniti, assestando duri colpi ai cartelli di Sinaloa, del Golfo, di Arellano Félix e del gruppo criminale Guerreros Unidos (quest’ultimo collegato al caso dei 43 studenti di Ayotzinapa nel 2014, episodio della politica avversa alle realtà indigene del Mexico). Oltre a Rafael Caro Quintero, altri “narcos” di spicco catturati o estradati nel 2022 sono Mario Cárdenas Guillén, uno dei capi del Cartello del Golfo (conosciuto come “M-1” o “El Gordo), Adán Casarrubias Salgado, conosciuto come El tomate, che si suppone essere il leader del gruppo Guerreros Unidos e Carlos Arturo Quintana, alias “El 80”, uno dei capi del gruppo criminale La Línea, nell’ orbita del Cartello di Juárez. E ancora Juan Francisco Sillas Rocha, uomo di fiducia degli Arellano Felix e Jaime González Durán, alias El Hummer, parte del gruppo di comando degli Zetas.

Welcome, Mr President

Insomma una collaborazione che ha portato buoni frutti e che proprio pochi giorni prima dell’inizio di questo nuovo vertice dei leader nordamericani ha avuto la sua ciliegina sulla torta. Si perché non è certo passato inosservato il tempismo con il quale, proprio 4 giorni prima dell’inizio dell’incontro trilaterale, le autorità messicane hanno realizzato un imponente operazione che ha portato alla cattura di Ovidio Guzmán, uno dei figli (“los chapitos”) dello storico capo del Cartello di Sinaloa, Joaquín El Chapo” Guzmán.

Alle 5 del mattino di giovedì 5 gennaio, diversi elicotteri, uno dei quali armato di mitragliatrice, hanno aperto il fuoco contro bersagli a terra nella città di Culiacán, stato di Sinaloa. Così è iniziato il blitz delle forze federali messicane che hanno catturato Ovidio, conosciuto anche come El Ratón” o “El Gato Negro, sul quale pendeva una taglia di 5 milioni di dollari. Il Cartello ha però reagito in modo rapido e violento, Culiacán è rimasta ostaggio di più di 50 blocchi stradali realizzati da uomini armati appartenenti all’esercito di Guzmán, criminali che hanno anche assaltato l’aeroporto per evitare che Ovidio venisse portato via dalla città.

Il governo messicano ha notificato all’amministrazione di Joe Biden l’azione portata a termine con successo, una sorta di gesto di buona volontà che Amlo ha presentato al presidente degli Stati Uniti d’America prima del suo arrivo a Città del Messico.

Lunga vita all’infame Titolo 42

Sul tema migratorio bisognerebbe scrivere un articolo a parte. È comunque chiaro che questo aspetto è stato centrale nella strategia dell’amministrazione Biden fin dall’inizio della presidenza nel 2021: basti considerare che il primo viaggio fatto dalla vicepresidente Kamala Harris (giugno 2021) riguardava proprio la questione migratoria, ed è stato realizzato tra Messico e Guatemala. Amlo è stato un buon alleato per le politiche migratorie dei democratici statunitensi che durante questi ultimi due anni hanno dovuti fare i conti con l’aumento dei flussi e della pressione verso la frontiera nord, nella misura in cui si minimizzavano (o eliminavano) le barriere per prevenire la diffusione del Covid-19.

L’esternalizzazione delle frontiere in salsa guacamole

Frontera norte

Biden nel 2022 ha cercato per ben due volte di far eliminare il famoso Titolo 42 (a maggio e a dicembre) ma in entrambe le occasioni la maggioranza repubblicana dei giudici ha fermato l’azione della Casa Bianca. Nel frattempo nell’ottobre del 2022 il governo del Messico dava per concluso il programma chiamato Quédate en Mexico (rimani in Messico): programma creato nella legislatura dell’ex presidente Donald Trump (2017-2021) che stabiliva che i migranti che volevano entrare negli Stati Uniti d’America legalmente, dovevano attendere la risoluzione delle procedure burocratiche in territorio messicano. Una misura che il Messico ha subito suo malgrado e che oltre a creare un enorme caos alla frontiera, ha generato multiple violazione dei diritti fondamentali delle persone migranti.

Nonostante ciò, il 2022 si è concluso con dei record storici di transiti migratori irregolari verso gli Usa, situazione che ha esposto il fianco di Joe Biden agli attacchi dei repubblicani che parlano di vera e propria “invasione”, minacciando di processare il segretario alla sicurezza nazionale, Alejandro Mayorkas. Da qui l’ultimo “asso nella manica” giocato dall’attuale presidente a stelle e strisce proprio pochi giorni prima del vertice dei Tre amigos: ancora una volta un piano di bastone e carota.

«Do not come!»

Proprio mentre a Culiacán l’esercito messicano battagliava con il Cartello di Sinaloa per arrestare Ovidio Guzmán, Joe Biden annunciava nuove misure per rafforzare il controllo del confine con il Messico e in cambio prometteva l’apertura di nuovi canali di immigrazione legale, soprattutto alle persone provenienti da Venezuela e Cuba (che vivono la più grande crisi migratoria della loro storia) oltre a Nicaragua e Haiti. Gli Usa, ha detto Biden, accetteranno 30.000 migranti al mese provenienti dai sopracitati paesi, a patto che queste persone in movimento possano dimostrare legami familiari con emigrati già presenti nel territorio statunitense. Allo stesso modo verrà rafforzato il controllo nella frontiera sud e non ci sarà “nessuna pietà” per chi cerca di passare il confine in modo illegale. «Do not come!» (Non venite), continua a recitare Biden, il mantra gringo che sentiamo ripetere ai democratici da giugno 2021, quando proprio in Messico lo disse Kamala Harris per la prima volta in questa amministrazione – e ribadito durante la Cumbre di Los Angeles.

Dossier top secret

Per concludere, a Biden in questi giorni non sono mancati neanche problemi interni. Infatti proprio lunedì 9 gennaio, mentre stavano iniziando i lavori del vertice si è saputo di una importante indagine che lo vede implicato direttamente. Sarebbero infatti stati trovati circa una dozzina di documenti riservati su Iran, Ucraina e Gran Bretagna nell’armadio di un ufficio che l’attuale presidente ha utilizzato mentre collaborava con l’Università della Pennsylvania (2017- 2021), periodo nel quale non ricopriva nessun incarico politico. Una volta trovati i documenti è stato informato il Dipartimento di Giustizia, che ha nominato un pubblico ministero, John Lausch (uomo scelto a suo tempo da Donald Trump), per portare avanti le indagini. Il problema (un altro) è che mentre erano in corso le indagini preliminari per determinare se sussistono gli indizi di reato, sono venuti alla luce nuovi documenti “top secret”, stipati nel garage della residenza di Biden nel Delaware, suo feudo elettorale. Ora bisogna capire se ci sono gli estremi per istruire un processo e in quel caso si staglierebbero nubi molto oscure nell’orizzonte dei democratici, visto che tra poco l’ottantenne presidente Usa dovrà far sapere se correrà per un secondo mandato nel 2024 o se lascerà il testimone del partito a qualcun altro.

Canada

Sappiamo che il Canada è un paese dal basso profilo, nel senso che non riempie di scandali i “rotocalchi” internazionali. Nonostante ciò, questa vetrina internazionale offerta da Amlo è però servita al primo ministro Justin Trudeau per sottolineare il rispetto dovuto alle comunità indigene e alla protezione dell’ambiente.

Pellegrinaggi penitenziali

Parole che riportano subito all’immagine simbolo del 24 luglio 2022, quando Jorge Bergoglio atterrava dopo un volo di 10 ore all’aeroporto canadese di Edmonton per iniziare un viaggio di 6 giorni nel quale avrebbe chiesto perdono ai rappresentanti di vari popoli indigeni (Inuit e Métis tra gli altri) per la complicità della Chiesa cattolica negli abusi perpetrati nei collegi dove venivano internati i bambini indigeni.

Più di 150.000 di loro vennero allontanati dalle loro case dal 1800 fino agli anni Settanta del secolo scorso e internati con la forza nelle scuole nel tentativo di isolarli dall’influenza delle loro famiglie e della loro cultura. Queste scuole/collegi erano finanziati dalla Chiesa cattolica e dal governo e il loro compito era quello di integrare alla forza le nuove generazioni di indigeni alla società canadese di religione cristiana. Dopo la visita di papa Francesco, il governo canadese ha effettuato una dichiarazione nella quale riteneva insufficienti le scuse del Pontefice, che non aveva fatto menzione nei suoi discorsi agli abusi fisici e sessuali perpetrati contro i bambini indigeni. Lo stesso Justin Trudeau aveva chiesto perdono alle popolazioni indigene native il 25 giugno 2021 dopo che la Federation of Sovereign Indigenous Nations (FSIN, che rappresenta nazioni indigene native a Saskatchewan) aveva riferito del ritrovamento di circa 750 tombe anonime in una fossa comune in un collegio in Canada: nel luogo dove prima si ergeva la  Marieval Indian Residential School nella provincia di Saskatchewan. Un tema ancora scottante in Canada e che ha segnato il governo di Trudeau.

I temi del vertice

«Condividiamo una visione comune per il futuro, basata su valori comuni», le parole di Biden a corollario di un incontro che si è centrato principalmente su sicurezza, economia, clima e migrazione.

Autosufficienza economica

Una delle azioni concrete è stata la creazione di un comitato di 12 membri (4 per ogni paese) per la pianificazione e la sostituzione delle importazioni in Nordamerica. L’idea è che i tre paesi possano raggiungere insieme l’autosufficienza, creando un‘unione economica forte ed efficace.

In questo senso Trudeau ha sottolineato che insieme i tre amici superano il pil dell’Unione Europea e che possono essere il volano di una «economia continentale, solida e resiliente».

Respingimenti limitati

Il tema migratorio è stato centrale e se da un lato Amlo ha chiesto a Biden di promuovere riforme per agevolare la legalizzazione di milioni di messicani che vivono e lavorano in Usa, dall’altro lo ha ringraziato per non aver costruito nemmeno “un metro” di muro (il famoso muro promesso da Trump). Il Canada, che riceve una minore migrazione di cittadini messicani, dal canto suo ha posto in marcia il programma di concessione di visti di lavoro a giornalieri messicani, un piano di mobilità regolare che già include 25.000 persone. Il focus però è stata la frontiera del Rio Bravo o Rio Grande, a seconda della riva da cui si guarda, e della pressione migratoria che viene esercitata in questo punto. Come detto in precedenza il nuovo piano di Biden è stato annunciato pochi giorni prima del vertice, spazio nel quale è stato reiterato e confermato da Amlo.

Il mercato di Fentanyl

Lopez Obrador ha poi posto sul tavolo un’altra questione, quella che riguarda il fentanyl, e la sua sempre maggiore diffusione in Usa e Canada. Si tratta di una droga molto potente, che viene confezionata in modo illegale in Messico e che viene poi esportata nel Nord del continente. Dal sito del Centers for Disease Control and Prevention:

«Il fentanyl è un oppioide sintetico che è fino a 50 volte più forte dell’eroina e 100 volte più forte della morfina. È un importante fattore che contribuisce alle overdose fatali e non fatali negli Stati Uniti. Esistono due tipi di fentanyl: fentanyl farmaceutico e fentanyl prodotto illegalmente. Entrambi sono considerati oppioidi sintetici. Il fentanyl farmaceutico è prescritto dai medici per trattare il dolore intenso, specialmente dopo un intervento chirurgico e negli stadi avanzati del cancro.
Tuttavia, i casi più recenti di overdose correlate al fentanyl sono collegati a quello prodotto illegalmente, che viene distribuito nei mercati di stupefacenti per il suo effetto simile all’eroina. Viene spesso aggiunto ad altri farmaci a causa della sua estrema potenza, rendendo i farmaci più economici, più potenti, più stimolanti e più pericolosi».

In questo senso, il presidente del Messico si è impegnato con Stati Uniti e Canada a lottare contro il traffico di fentanyl, confermando che questa attività è stata messa tra le priorità delle Forze Armate del paese latinoamericano.
Il vertice si è chiuso in un clima di cordialità e mutuo intendimento, un gioco politico di do ut des , nel quale ognuno dei tre attori ha “giocato” pensando al cortile di casa sua.

Lo scenario latinoamericano visto dal vertice dei tre amici

Durante il vertice Amlo ha chiesto a Biden e Trudeau di «porre fine a questo oblio, abbandono e disprezzo verso l’America Latina». Parole lapidarie che però rendono bene l’idea di come le forti economie nordamericane facciano “orecchie da mercante” rispetto alla situazione attuale del resto del continente, in preda a forti convulsioni sociali e attacchi profondi alle fondamenta democratiche, così faticosamente costruite negli anni passati.

Tre casi su tutti ci portano a una riflessione sullo stato della regione: Brasile, Perù e Bolivia.

In Brasile abbiamo visto l’8 gennaio migliaia di sostenitori di Bolsonaro assaltare la piazza dei tre poteri a Brasilia. Un atto di superbia morale, terrorismo interno e sdegno verso le istituzioni che ha connotato uno dei giorni più tristi per il Brasile.

In Perù, dove i fatti di dicembre che hanno portato all’arresto dell’ex presidente Pedro Castillo e la nomina della sua vice, Dina Boluarte come prima donna a dirigere il paese sudamericano, le repressioni delle proteste hanno causato decine di morti e centinaia di feriti. Il popolo che si rispecchia in Castillo, contadini e indigeni delle zone rurali, grida que se vayan todos (che se ne vadano tutti) chiedendo elezioni anticipate e la cacciata della corruzione dalle istituzioni: le forze dell’ordine rispondono con proiettili ad altezza d’uomo. Per capire il livello dello scontro basti pensare che a Lima la procura ha chiesto di indagare Boluarte per «presuntos delitos de genocidio, homicidio calificado y lesiones graves».

In Bolivia nel periodo natalizio è stato arrestato il governatore del dipartimento di Santa Cruz, (zona che fa parte della chiamata mezzaluna bianca) dove la destra conservatrice si oppone da anni a Evo Morales prima e ad Arce ora. Luis Fernando Camacho (il governatore) è stato detenuto per i fatti legati alla crisi politica che ha seguito le elezioni del 2019, la cacciata di Evo dal paese e l’insediamento di Jeanine Áñez come presidente del paese (oggi anche lei in carcere): dopo la sua cattura sono iniziate manifestazioni per chiederne la liberazione.


Proprio di questi eventi distribuiti tra Brasilia, Cuzco, Ayacucho, Arequipa, Puno e di considerazioni sui fatti boliviani di questi giorni si è parlato su Radio Blackout il 12 gennaio 2023 con Diego, concludendo ad anello il discorso, ritornando all’inizio di questo articolo:
“Sacudidas en la marea rosa”.


Insomma, uno scenario di instabilità che vede proprio nell’occhio del ciclone tre dei paesi della nuova “ondata” della Marea Rosa fare i conti con la polarizzazione sociale e politica. Se a questo aggiungiamo gli appuntamenti elettorali importanti di questo 2023, specialmente in Argentina, dove il kirchnerismo sembra partire in svantaggio per l’elezione del prossimo presidente e l’attentato sventato contro Francia Marquéz (vicepresidente) in Colombia, possiamo capire quanto il bandolo della matassa sia difficile da districare.

Un aiuto può venire da Moleskine Sur, un ottimo compagno di viaggio nei meandri delle realtà latinoamericane proiettate verso un 2023 dai risvolti molto incerti.

L'articolo L’equilibrismo di tre pesi diversi in Nordamerica proviene da OGzero.

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Il colore stinto della nuova Marea Rosa https://ogzero.org/studium/il-colore-stinto-della-nuova-marea-rosa/ Tue, 20 Dec 2022 20:20:54 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=9837 L'articolo Il colore stinto della nuova Marea Rosa proviene da OGzero.

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Le Moleskine non finiscono al mundo del fín del mundo

Vi chiederete come mai è impostato al 90% l’avanzamento del lavoro pur avendo già la possibilità di proporvi il volume completo e acquistabile. Ebbene, è perché stavolta siamo un po’ andati a ritroso rispetto al solito: è vero che il libro discende dagli articoli e gli spreaker che hanno accompagnato la Marea Rosa lungo gli ultimi due anni, ma la sua collazione non è passata attraverso un’analisi dialettica interna al dossier, che ora ne rivela la pubblicazione. Infatti si tratta di un lavoro in fieri che trae spunto da questo volume per fotografare una condizione che si trova ora a uno snodo importante: quasi l’intera area latinoamericana ha fatto argine alle destre che spesso sono le più retrive, costituite da latifondisti terratenientes, apparati militari, finanzieri neoliberisti di matrice coloniale; ma ciascuna di queste forze progressiste al potere è diversa e si muovono tutte in ordine sparso. Diego Battistessa propone di non perdere di vista alcuni dei protagonisti piuttosto che altri per sperare di resistere al ritorno della risacca destrorsa…

«Sono settimane intense quelle che ci stanno portando verso la fine del 2022 in America Latina e nei Caraibi. – ha scritto Diego nel suo canale Linkedin proprio il giorno in cui usciva questa sua fatica editoriale – La regione è scossa da profondi cambiamenti, colpi di scena e dall’aggravarsi di crisi sistemiche che ciclicamente (purtroppo) si affacciano nei vari contesti nazionali». Ma è impossibile comprendere completamente l’America latina e quindi non potrà venire meno da qui in avanti l’apporto di analisi e considerazioni sul continente sudamericano (e Caribe) di un appassionato come Diego Battistessa – ma anche da parte del suo amico e mentore Alfredo Somoza, o lo stimato Davide Matrone, con la prefattrice Paola Ramello e, suo tramite, il monitoraggio di Amnesty – e questa loro pulsione a capire ci consentirà di continuare a proporre in questo Studium materiali per proiettare una luce il più autentica e adatta possibile sugli angoli più oscuri del Latinoamerica.
Per questo stavolta il libro è un punto di partenza per raccogliere sulla sua scia lavori e idee che lungo i prossimi mesi acquisiranno dati per interpretarli alla luce della conoscenza di quella vivace terra che è da qualche parte al di là dell’Atlantico: “Un continente da favola” a Sud.




Dal golpe alla Moneda al nuovo ordine mondiale

Un anno dopo il libro di Diego riprendiamo in altro modo, con Alfredo, la domanda relativa al luogo da cui si arriva e dove si continua ad andare: stavolta il libro che ci guida nell’eterno ritorno ciclico che tiene congelato il Sudamerica all’altalena tra vagiti di speranze di emancipazione e reazione populista che difende i privilegi imposti dalle dittature, che hanno (avuto) a modello il regime di Pinochet.

Manuela Donghi nella sua trasmissione “Next Economy” su GiornaleRadio ha chiesto il 28 dicembre ad Alfredo Somoza di commentare l’accelerazione delle riforme di Javier Milei, che stanno portando in piazza migliaia di persone a cui la vita è già stata resa impossibile, costringendo persino la Cgt a dichiarare un paro general per il 24 gennaio 2024, sfidando i decreti che impedirebbero scioperi e manifestazioni:

Alfredo era stato intervistato da Rete Capodistria il 17 novembre 2023 e il suo intervento si può sentire dal minuto 1:25:15

https://www.facebook.com/100000358016312/posts/7144550768900119/?mibextid=rS40aB7S9Ucbxw6v

L’interesse per il Sudamerica in questo periodo è catalizzato in particolare dalle elezioni presidenziali argentine, che vedono al ballottaggio due contendenti pessimi, risultato di populismo e turbocapitalismo che hanno nuovamente innescato il solito ciclo perverso di emancipazione e speranza vs ferocia e liberalismo. L’amico Alberto Da Rin ha coinvolto Alfredo Somoza nella composizione della pagina che “Il Sole24Ore” dedica alle elezioni di domani:


Dove si arriva e da dove si parte

Questo podcast sintetizza la situazione in sospeso a fine 2022, dopo l’autogolpe di Castillo in Perù, e delimita le speranze di emancipazione dei paesi iberoamericani all’aurora del nuovo anno, la nueva alborada è quanto mai imponderabile e qui continueremo a cercare di dargli uno spessore per renderla più comprensibile anche al di qua dell’Atlantico. Le vittorie elettorali della componente progressista in alcuni paesi dell’America Latina hanno rimarcato i limiti della governabilità: Castillo per primo.

“Guado pericoloso per la Marea Rosa”.

Poi si sono registrati veri tracolli e nuove baldanze della reazione, ultimo episodio quello che ha portato una controfigura pazza come Milei a realizzare i peggiori incubi di sfondamento delle lobbies peggiori. Alfredo ha illustrato con lucidità in una puntata di Bastioni di Orione su Radio Blackout gli sviluppi della politica sudamericana

“Milei, capolavoro distopico di Kissinger a 50 anni dalla Moneda”.

90%

Avanzamento



Diego Battistessa

@DiegoBattistessa (Ig)

Latinoamericanista: docente e ricercatore presso l’Università Carlos III a Madrid; collabora con enti di cooperazione internazionale; reporter, scrive in Spagna per “El País”, è analista per Voz de America negli Usa, e in Italia cura un blog per “Il Fatto Quotidiano”. Si occupa di violazioni dei diritti umani per Osservatorio Diritti.


Libreria Voci dal Latinoamerica Voci dal Caribe

Seguire le analisi e le evoluzioni della lenta spinta all’emancipazione dal neoliberismo finanziario e latifondista, sostenuto da militari e potenze straniere è un percorso che ci siamo imposto non solo per verificare che siano corrette le scommesse contenute nel volume pubblicato da OGzero con Diego Battistessa, ma anche perché è questo il passaggio epocale, l’unica possibilità, verso un nuovo Sudamerica emendato dall’orrore del “Plan Condor” di 50 anni fa. Il 26 gennaio su “il Fatto Quotidiano” Diego ha documentato un altro passaggio.

Si è concluso l’incontro di Celac, la Comunità degli Stati latinoamericani:
sancito il ritorno del Brasile

«È con molto orgoglio che io ritorno a Celac. Alberto io voglio dirti che puoi contare su di me nella lotta per l’integrazione dell’America Latina e dell’America del Sud». Parole dette da Luiz Inácio Lula da Silva e captate da un video mentre stringe le mani di Alberto Fernández, presidente della Repubblica Argentina e anche presidente pro tempore per il 2022 della Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici (composta da 33 stati e chiamata appunto Celac). Parole importanti, che non hanno solo un significato circostanziale trai i presidenti delle due più grandi economie dell’America del Sud, ma che sanciscono che il Brasile è tornato.

Anche perché tra i due presidenti sono intercorsi progetti di una moneta comune, o meglio di un sistema che faciliti lo scambio tra i due paesi: il Sur non è propriamente nemmeno una moneta, ma Ispi spiega:

i due governi vorrebbero trovare un modo per commerciare tra di loro senza dover utilizzare il dollaro americano come valuta di fatturazione. La “moneta comune”, quindi, non sarebbe una nuova valuta in sostituzione delle valute nazionali. I governi vorrebbero creare un sistema per sganciare gli scambi commerciali bilaterali dalla disponibilità di dollari. Infatti, negli ultimi anni il commercio bilaterale si è ridotto per la cronica carenza di dollari in Argentina. Il commercio tra i due Paesi sudamericani è importante: il Brasile rappresenta il primo partner commerciale dell’Argentina, che è il partner più importante in America Latina del Brasile, anche se solo terzo per importanza dopo Cina e Stati Uniti (Ispi). 

, perché il Brasile a guida Jair Bolsonaro aveva abbandonato nel 2020 questo meccanismo intergovernativo creato il 23 febbraio 2010 per promuovere il dialogo nella regione. “Il Brasile ha deciso di sospendere la sua partecipazione alla Celac. La Celac non ha avuto risultati nella difesa della democrazia né in alcun ambito. Al contrario ha dato risalto a regimi non democratici come quelli di Venezuela, Cuba, Nicaragua”, dichiarava l’allora ministro brasiliano degli Esteri, Ernesto Araújo, sancendo così l’autosospensione del Brasile dall’organismo. Un segnale forte dunque quello di Lula a Buenos Aires, in questo incontro del VII vertice del Celac del 24 gennaio, che ha visto il passaggio di consegne alla presidenza protempore tra Fernández e Ralph Gonsalves, presidente quest’ultimo dello stato caraibico di Saint Vincent e Grenadine.

Un vertice caratterizzato dalla crisi istituzionale del Perù e dalla sanguinaria repressione messa in atto dalle autorità, ma anche dalla polemica assenza del presidente del Venezuela, Nicolas Maduro e dalle sfide commerciali che il blocco dei paesi latinoamericani dovrà decidere come affrontare nei prossimi anni. La spinta di Lula si è fatta sentire e proprio il nuovo presidente brasiliano ha voluto sottolineare nel suo discorso che saranno promossi tanto gli accordi bilaterali con i vicini così come il forte impulso di Mercosur, Unasur e Celac, attraverso “un fortissimo senso di solidarietà e vicinanza”.

Tra le assenze, come anticipato, quella di Maduro è stata la più notoria. Ci si aspettava l’arrivo in pompa magna del primo cittadino venezuelano, che avrebbe potuto così tornare a calcare uno scenario sudamericano di livello internazionale e riabilitare la sua immagine al fianco di Lula, pronto quest’ultimo a riallacciare le relazioni diplomatiche con Caracas. All’ultimo minuto Maduro però ha desistito. Le preoccupazioni per la sua sicurezza, le annunciate con manifestazioni contro la sua presenza e la ricompensa di 15 milioni di dollari (ancora vigente) della autorità statunitensi per la sua cattura vengono additate tra le cause di questa défaillance. Nonostante i suoi proclami, dunque, Maduro deve cedere alla realtà dei fatti e cioè che non può andare dove vuole, ma solo dove è protetto (Cuba, Russia e Algeria, per esempio).

Oltre a quella del presidente venezuelano, si sono registrate le assenze del suo alleato Daniel Ortega (presidente de Nicaragua), di Andrés Manuel López Obrador (presidente del Messico) e di Guillermo Lasso (presidente dell’Ecuador): tutti e tre hanno inviato i loro ministri degli Esteri. Neanche la presidente del Perù è stata presente, vista la crisi nella quale è sommersa Dina Boluarte in queste ore. E non sono arrivati nella capitale argentina neanche Xi Jinping e Joe Biden invitati da Alberto Fernández. I presidenti di Cina e Usa non hanno però perso l’occasione di essere presenti almeno indirettamente: così, mentre Xi Jinping ha inviato un video, Biden ha inviato il suo assessore speciale per la regione, ovvero Christopher Dodd. Nelle foto di famiglia spiccavano invece tra gli altri Gabriel Boric (Cile) e Gustavo Petro (Colombia), così come Miguel Díaz-Canel (Cuba), Luis Arce (Bolivia), Mario Abdo Benitez (Paraguay), Xiomara Castro (Honduras) e Mia Mottley (Barbados).

Dal vertice è uscito un documento di 111 punti, già noto come la dichiarazione di Buenos Aires. Tra gli impegni che vengono presi dai 33 Stati membri si trova l’aggiornamento del Piano per la sicurezza alimentare, la nutrizione e lo sradicamento della fame, la continuità del Piano di autosufficienza sanitaria e il rafforzamento della produzione capacità e distribuzione locale e regionale di vaccini, medicinali e forniture essenziali. Oltre al documento principale sono state approvate nel vertice altre 11 dichiarazioni speciali, che includono temi delicati come la difesa della sovranità argentina sulle Isole Malvinas e la fine del blocco economico, commerciale e finanziario degli Stati Uniti contro Cuba. Sono state approvate anche una dichiarazione sulla lotta al traffico internazionale di armi e un’altra sulla promozione e conservazione delle lingue indigene.
Importante anche l’approvazione di due cruciali incontri in agenda: il vertice Celac-Unione europea nel 2023 e il vertice del forum Celac-Cina nel 2024. Riguardo quest’ultimo punto, ancora Lula si è reso protagonista in un incontro con Louis Lacalle Pou (presidente dell’Uruguay) proprio per discutere sull’urgenza che il Mercosur chiuda un accordo con l’Unione europea prima di negoziare con la Cina (cosa che l’Uruguay sta facendo in modo bilaterale senza i suoi soci commerciali). Per finire in Uruguay non poteva mancare uno storico rincontro, quello tra Mujica e Lula, avvenuto nella casa del primo a Rincón del Cerro a Montevideo: una della immagini forti e cariche di simbolismo di questi giorni
Insomma, ci sarà molto da vedere, analizzare e capire in questo 2023 in America Latina. Per fare ciò è però necessario avere un contesto, dei punti di riferimento e delle coordinate regionali, sia a livello storico, politico, economico e sociale. In questo senso, insieme ad OGzero, abbiamo appena pubblicato il volume Moleskine Sur. Taccuini dal Latinoamerica, che raccoglie le mie analisi di geopolitica degli ultimi due anni, passati in larga parte dall’altro lato dell’Atlantico tra Colombia, Panama, Brasile, Messico, Ecuador, Perù e Usa. Un libro di facile lettura (130 pagine) non esclusivo per gli addetti ai lavori, che offre chiavi di lettura attuali a chi si vuole affacciare all’America Latina di oggi. A completare l’opera la prefazione di Paola Ramello, del coordinamento italiano per l’America Latina di Amnesty International Italia e la postfazione del giornalista (grande esperto di America Latina) Alfredo Luis Somoza.In una regione di corsi e ricorsi storici, per capire gli scenari possibili del 2023 è davvero fondamentale riuscire ad ampliare il contesto di analisi. Buona lettura.

Lucia Capuzzi ha colto gli spunti essenziali del libro di Diego Battistessa in questo pezzo apparso su “Avvenire” il 5 aprile 2023



Davide Matrone è un collega e amico di Diego Battistessa, docente e analista della società ecuadoriana dall’osservatorio privilegiato dell’università di Quito. In Ecuador maggiormente morde il neoliberismo latinoamericano e ancora controlla direttamente il potere con Guillermo Lasso, che per distrarre da scandali e disastri economici, da massacri e povertà propone 8 preguntas referendarie, populismo che mira a distruggere la Costituzione e il territorio, la rappresentanza e la partecipazione. Con Davide abbiamo cercato di capire meglio qual è il tentativo dell’oligarchia di resistere all’Onda Rosa a Quito:

Riportiamo qui nel nostro studium, per approfondimento, un articolo di Diego Battistessa uscito il 2 gennaio su “il Fatto Quotidiano”..


AMERICA LATINA, QUESTO SARÀ UN ANNO IMPREVEDIBILE MA CON ALCUNI PUNTI FERMI

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Cosa ci aspetta nel 2023 in America Latina? Una domanda difficile, vista la storica imprevedibilità della regione e la grande volatilità che stiamo vivendo su scala planetaria con la scia del Covid-19 e le conseguenze a più livelli dellinvasione dell’Ucraina da parte della Russia. Un futuro che già sappiamo, però, sarà segnato da alcuni appuntamenti elettorali prefissati e i cui contorni possiamo cercare di definire attraverso l’analisi di quanto accaduto negli ultimi anni, soprattutto nel 2021 e nel 2022.L’anno si è aperto con l’insediamento di Lula in Brasile, un passaggio storico, carico di simbolismo e aspettative. Un’eredità del 2022, che è stato un anno pieno di soprese e colpi di scena per la regione latinoamericana.

Parlando di votazioni, le prime si celebreranno in Ecuador il 5 febbraio. In questa data la popolazione sarà chiamata a votare per un referendum composto da 8 domande riguardanti il tema della sicurezza, l’occupazione, alcune modifiche istituzionali e la sempre più pressante tematica ambientale. Guillermo Lasso, il presidente banchiere eletto in Ecuador nel 2021 (che non gode della maggioranza politica in parlamento), si gioca molto con questo appuntamento elettorale, visto che il suo consenso a livello nazionale è molto calato, mentre il paese è attraversato dalla guerra alle bande criminali, foriere della chiamata “narcoviolenza”.

Ad aprile sarà la volta del Paraguay, dove il 30 si deciderà il nome del prossimo presidente, che si insedierà il successivo 15 agosto. Le principali candidature appartengono a due poli di potere, la Coalizione per un Nuovo Paraguay e l’Associazione Nazionale Repubblicana (conosciuta come Partito Colorado). Nelle primarie del 18 dicembre 2022 per le file della Coalizione per un Nuovo Paraguay il candidato presidenziale indicato è stato Efraín Alegre che si dovrà scontrare contro il candidato del Partito Colorato, Santiago Peña (il Partito Colorado è il partito dell’attuale presidente Mario Abdo Benítez). Le votazioni paraguaiane di aprile 2023 riguarderanno anche l’elezione di 45 senatori titolari e 30 senatori supplenti, 80 deputati effettivi e ottanta 80 sostituti, 17 governatori, 257 membri titolari e 257 membri supplenti per i consigli dipartimentali.

Il primo semestre del prossimo anno si concluderà con le elezioni presidenziali in Guatemala. Un paese tra i più corrotti del mondo, dove lo stesso sito web della vicepresidenza della repubblica dice che “Uno dei problemi fondamentali della società guatemalteca è la povertà, condizione la cui soluzione è stata assente nelle strategie di sviluppo del Paese”. Oltre a presidente e vicepresidente verranno eletti i 160 nuovi membri del Congresso, 330 sindaci municipali e si voterà anche per 20 seggi corrispondenti al Parlamento centroamericano per il periodo 2024-2028. Nel caso in cui si arrivi al ballottaggio, il secondo turno è previsto per il 27 agosto.

I candidati alla presidenza del Guatemala già annunciati (la data finale per candidarsi è il 20 gennaio) sono per ora 6: Ricardo Sagastume (Todos), Isaac Farchi (Partido Azul), Rudio Lecsan Mérida (Patido Humanista de Guatemala – PHG), Edmond Mulet (Cabal), Roberto Arzú (Podemos) e Zury Mayté Ríos Sosa (Valor e Unionista). Da tenere sotto stretta osservazione proprio la candidatura della conservatrice Zury Ríosche porta su di sé un nome e un passato pesanti per il Guatemala. Si tratta infatti nientemeno che della figlia di Efraín Ríos Montt, militare e dittatore dello stato centroamericano che fu Capo di Stato dopo tra il 23 marzo 1982 e l’8 agosto del 1983, dopo aver realizzato un golpe.

Montt, che ha continuato successivamente la sua carriera politica fondando nel 1989 il Fronte repubblicano guatemalteco – Frg (poi ribattezzato Partito repubblicano istituzionale – Pri), è una della figure più sanguinarie delle dittature centroamericane, condannato per genocidio per essere stato riconosciuto colpevole del massacro di 1.771 indigeni maya della comunità Ixil in 15 diverse operazioni compiute dai militari nel dipartimento nord occidentale di Quiche. Il dittatore, accusato anche da Rigoberta Menchú nel 1999, è morto l’1 aprile 2018 senza però aver scontato la sentenza (50 anni per genocidio e altri 30 per crimini contro l’umanità) visto che il processo venne annullato per errori di procedimento e ne venne richiesta la ripetizione.

L’anno si concluderà con due importanti appuntamenti elettorali in Argentina e Colombia. Nel paese di Messi, che ha da poco alzato la Coppa del Mondo di calcio in Qatar, il terremoto politico è in atto da tempo. L’attentato contro la vicepresidente Cristina Fernández de Kirchner (1 settembre 2022), la sua successiva condanna per corruzione (6 dicembre) e le due denunce penali presentate contro Alberto Fernández (il presidente) da rappresentanti di Coalición Cívica e Republicanos Unidos il 23 dicembre danno la misura del caos che regna in Argentina. Per il 13 agosto 2023 sono fissate le primarie aperte, simultanee e obbligatorie (Paso), nelle quali l’elettorato dovrà scegliere i propri i candidati; successivamente le elezioni presidenziali si terranno il 22 ottobre: il 19 novembre si svolgerà il secondo turno. Simultaneamente si voterà anche per metà dei seggi alla Camera dei Deputati e un terzo al Senato.

In Colombia, dove nel 2022 si sono svolte le elezioni presidenziali che hanno dato la vittoria a Gustavo Petro, si terranno il 29 ottobre le elezioni regionali per i 32 dipartimenti del paese, i deputati delle Assemblee dipartimentali, i sindaci e i consiglieri comunali.

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]]> “Alta Marea” in America Latina https://ogzero.org/alta-marea-in-america-latina/ Tue, 08 Nov 2022 20:30:20 +0000 https://ogzero.org/?p=9403 Il Brasile svolta con fatica. I governanti sovranisti usano ogni trucco pur di non lasciare il potere: fake news, calunnie, alleanze con il peggio della società retriva e delle sette religiose; Bolsonaro ne è un modello, come Trump. Ma il Brasile ha indubbiamente svoltato non rieleggendo per la prima volta il proprio presidente al secondo […]

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Il Brasile svolta con fatica. I governanti sovranisti usano ogni trucco pur di non lasciare il potere: fake news, calunnie, alleanze con il peggio della società retriva e delle sette religiose; Bolsonaro ne è un modello, come Trump. Ma il Brasile ha indubbiamente svoltato non rieleggendo per la prima volta il proprio presidente al secondo mandato. Questo però apre a uno scenario apparentemente positivo per un Latinoamerica che vede la stragrande maggioranza dei paesi governati da esponenti di variegate sinistre, ciascuna con peculiarità diverse ed elementi che gettano ombre da un lato sull’effettiva attenzione ai diritti civili (la dinastia nicaraguense, il partito unico cubano), dall’altro sulla reale volontà di eliminare diseguaglianze, sganciarsi dal giogo neoliberista (in particolare in Cile) o dal paternalismo (il Perù di Castillo). Tutto questo produce incertezza: sarà possibile per questi governi progressisti contenere il consueto ritorno del populismo fascistoide? quale unità della nuova “Marea Rosa” si potrà ottenere con queste radici tra loro diversissime e senza un collante che vent’anni fa proveniva dal carisma di alcuni leader e dal laboratorio sociale in fermento?
Da questa situazione prende spunto Diego Battistessa, che già in altri snodi si era peritato di cogliere possibili sviluppi per le comunità latinoamericane, per riassumere le puntate immediatamente precedenti – schieramenti, accordi, patti, strategie degli ultimi 30 anni, dal crollo del muro… – e tentare di immaginare i temi che rappresentano la sfida per i progressisti sudamericani: o riusciranno a cambiare le condizioni di vita, le strutture economiche, le disparità imposte dal neoliberismo, le storture puramente mediatiche; oppure tornerà la ferocia bolsonarista, che sopravvive al fantoccio Bolsonaro.

Fin qui OGzero…   


Il Giro di Giostra

Con la vittoria di Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile il 30 ottobre scorso, sono quasi 570 milioni le persone che a oggi in America Latina sono governate dalla sinistra: quasi il 90% di un subcontinente la cui popolazione si aggira intorno ai 640 milioni di abitanti. Tra questi paesi figurano le 5 più grandi economie della regione: Brasile, Messico, Argentina, Colombia e Cile.
Uno scenario storico che ci riporta a una nuova manifestazione espansiva della cosiddetta “Marea Rosa”, apparsa all’inizio del terzo millennio con un giro, una svolta a sinistra di molti paesi della regione latinoamericana. Oggi questa marea è ancora più estesa (da capire se anche più forte) visto che include Messico e Colombia (anche se ha perso Uruguay ed Ecuador).
Vediamo però da dove viene questa ondata di “governi di sinistra”, in quale contesto storico si è generata e soprattutto di che sinistra (sinistre) stiamo parlando quando osserviamo con maggiore dettaglio cosa succede nel contesto latinoamericano.

Doveroso a questo punto premettere la definizione di “gringo”, perché la diffidenza nei suoi confronti è uno dei collanti, forse il più viscerale per gli abitanti del Cono Sur, e allora eccolo:

Esistono varie versioni sull’origine della parola “gringo”, qui vediamo le due più diffuse. La prima versione, accreditata dalla Reale Accademia Spagnola dice che “Gringo” equivale a «straniero, soprattutto di lingua inglese o persona che generalmente parla una lingua diversa dallo spagnolo». Gringo è un’antica parola spagnola che si è evoluta dalla parola “greco”, perché quando si ascoltava parlare qualcuno una lingua sconosciuta, si diceva che ti stavano “parlando in greco”, spiega il linguista messicano Luis Fernando Lara alla BBC Mundo. La seconda versione ci riporta alla guerra tra Messico e Stati Uniti d’America nella quale i soldati messicani solevano gridare “Green go home!” riferendosi al colore dell’uniforme degli statunitensi. Sulla stessa linea un’altra versione dice che i battaglioni statunitensi erano identificati con dei colori e che quando il battaglione verde si lanciava all’attacco, nell’aria risuonava il grido: “Green go!” Ad ogni modo il termine oggi è usato in America Latina per definire in modo specifico gli statunitensi e in modo generico uno straniero: il primo uso in un testo scritto in inglese rimonta al 1849.

Il Foro de São Paulo come risposta al criminale imperialismo “Gringo”

Tutto nasce nel Foro de São Paulo, che è stato senza ombra di dubbio l’embrione di quanto oggi vediamo nella regione. Dal sito della stessa organizzazione possiamo leggere l’incipit della presentazione:

«Il Forum trae origine nel luglio 1990 dall’appello rivolto a partiti, movimenti e organizzazioni di sinistra da parte di Lula e Fidel Castro, affinché si riflettesse al di là delle risposte tradizionali sugli eventi successivi alla caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989) e sui possibili percorsi alternativi e autonomi per la sinistra dell’America Latina e dei Caraibi».

In quel primo storico incontro parteciparono in 48, tra partiti e organizzazioni, plurali e diverse ma tutte appartenenti all’arco politico della sinistra, che firmarono la Dichiarazione di San Paolo, manifestando obiettivi precisi e una comunione d’intenti in chiave antineoliberista. In quel documento possiamo sottolineare l’intenzione di continuare a elaborare proposte di unità consensuale di azione nella lotta antimperialista e popolare, di produrre sforzi mirati alla promozione di scambi specializzati su problemi economici, politici, sociali e culturali e di definire, in contrasto con la proposta di integrazione sotto il dominio imperialista, le basi di un nuovo concetto di unità e integrazione continentale.

Un manifesto per una nuova visione latinoamericana, lontana dalla “Dottrina Monroe” (Monroe Doctrine, 1823), dall’“Operazione Condor” (Operación Cóndor, 1975-1989) e dal “Accordo di Washington” (Washington Consensus, le riforme neoliberali raccomandate nel 1989). Il preludio di quanto sarebbe successo solo 10 anni dopo…

Monroe Doctrine

Il concetto di Dottrina Monroe fa riferimento al principio della politica estera degli Stati Uniti d’America di non consentire l’intervento delle potenze europee negli affari interni dei paesi dell’emisfero americano. Questa dottrina deriva da un messaggio al Congresso del presidente James Monroe  inviato il 2 dicembre 1823 (paragrafi 7, 48 e 49). Si riassume nella famosa frase «America agli americani» dove per americani si fa ovviamente riferimento agli uomini bianchi del Nordamerica, ma soprattutto “non alle potenze coloniali”.

Operación Cóndor

«L’Operazione Condor invade il mio nido: io perdono, però non dimenticherò mai», canta il famoso gruppo portoricano Calle 13 in uno degli inni moderni della regione: la canzone lanciata nel 2011:

Quando parliamo di questa operazione, anche conosciuta come Plan Condor facciamo riferimento a una strategia di ingerenza criminale degli Usa, messa in atto per frenare l’espansione dei governi di sinistra nella regione latinoamericana. Dopo il trionfo della rivoluzione cubana (1° gennaio 1959) e i successivi falliti tentativi statunitensi di diroccare Fidel Castro, la Casa Bianca dette il via libera a una nuova strategia che “raffinava” quanto già la Cia (Agenzia Centrale di Intelligence) stava realizzando nella regione. Per contrastare l’insediamento di governi di sinistra in America Latina nei primi anni della Guerra Fredda gli Usa promossero e finanziarono diversi colpi di stato (golpe) come parte del loro interesse geostrategico nella regione. Tra questi ricordiamo il colpo di stato guatemalteco del 1954, il colpo di stato brasiliano del 1964, il colpo di stato cileno del 1973 e il colpo di stato argentino del 1976. Paesi nei quali vennero poi installate feroci dittature militari di destra, che commisero massive violazioni dei diritti umani, tra le quali detenzioni illegali di sospetti oppositori politici e/o dei loro parenti, torture, stupri, sparizioni forzate e traffico di bambini. Tutto questo sotto lo sguardo compiacente e complice degli Stati Uniti d’America che appoggiarono questi regimi fino a quando la pressione internazionale e la pressione dell’opinione pubblica interna non obbligò Washington a fare marcia indietro. Le dittature nelle quali l’intervenzionismo “gringo” ha lasciato il segno (e una lunga scia di sangue) prima e durante il “Plan Condor” sono quelle di Fulgencio Batista a Cuba, Rafael Trujillo nella Repubblica Dominicana, la famiglia Somoza in Nicaragua, Tiburcio Carias Andino in Honduras, Carlos Castillo Armas in Guatemala, Hugo Banzer in Bolivia, Juan María Bordaberry in Uruguay, Jorge Rafael Videla in Argentina, Augusto Pinochet in Cile, Alfredo Stroessner in Paraguay, François Duvalier in Haiti, Artur da Costa e Silva e il suo successore Emílio Garrastazu Medici in Brasile e Marcos Pérez Jiménez in Venezuela. I nuovi processi democratici nella regione iniziarono solo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, mentre si estendeva e rafforzava tra i popoli dell’America Latina un forte sentimento antistatunitense e antimperialista.

Washington Consensus

Per Accordo di Washington si intende un insieme di “ricette” economiche neoliberiste promosse da varie organizzazioni finanziarie internazionali negli anni Ottanta e Novanta. Proposte che formavano un nuovo decalogo del neoliberismo volto ad affrontare la crisi economica del 1989 in America Latina, regione che stava vivendo una lunga e drammatica recessione, passata alla storia come il decennio perduto. Fu l’economista britannico John Williamson a coniare il termine in un suo articolo del 1989 che esaminava le dieci misure economiche professate dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), dalla Banca Mondiale, dalla Banca Interamericana di Sviluppo e dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America: tutte istituzioni con sede a Washington DC.


Anche per introdurre gli eventi del nuovo millennio con le fughe in avanti progressiste e i bruschi ritorni all’ordine reazionari va spiegato il concetto di “Socialismo del XXI secolo”:

l’espressione fa riferimento al concetto originariamente formulato nel 1996 dal sociologo tedesco Heinz Dieterich Steffan e si riferisce alla combinazione di socialismo con democrazia partecipativa e diretta. È una tendenza che cerca di dare risposte al grave problema del sottosviluppo in cui l’America Latina vive sommersa a causa delle devastazioni del capitalismo. Il socialismo del XXI secolo è una manifestazione attuale del socialismo; cioè del periodo di transizione relativamente lungo dal capitalismo al comunismo. Pertanto, questo “nuovo socialismo” prende spunto dalle precomprensioni socialiste che si trovano nei fondatori del marxismo. Il socialismo del XXI secolo presuppone uno sfondo democratico: è necessario costruire una democrazia partecipativa o diretta nella regione e in ciascuno dei suoi paesi che lasci alle spalle la tradizionale democrazia rappresentativa. Il punto di partenza deve essere la dignità inviolabile di ogni essere umano, che richiede la considerazione dell’uomo come un essere eminentemente sociale, di tendere al pieno sviluppo umano, di istituire una democrazia partecipativa, di creare un nuovo modello economico e di raggiungere un alto grado di decentramento

La prima apparizione ufficiale del termine in America Latina si deve a un discorso dell’allora presidente del Venezuela, Hugo Chávez, il 30 gennaio 2005 dal V World Social Forum.

La “Marea Rosa”: il socialismo del XXI secolo

Come detto, nel Foro de São Paulo si comincia a dare vita a un nuovo sogno latinoamericano che verrà poi plasmato da eventi storici come il primo forum sociale mondiale di Porto Alegre (Brasile) nel 2001 nel quale si forgia la consegna “Un altro mondo è possibile”. In quegli anni la regione è attraversata da enormi livelli di disuguaglianza e da una frustrazione nell’accessibilità di grandi fasce della popolazione ai diritti fondamentali: basti pensare che nel 2002 vivevano in povertà 221 milioni di latinoamericani, ovvero all’epoca il 44% della popolazione della regione. Per rispondere a questa situazione e frenare le politiche neoliberali proposte (imposte) da Washington, sorgono nuovi leader che, anche grazie alla legalizzazione della concorrenza elettorale (con la transizione alla democrazia in America Latina i partiti di sinistra hanno potuto competere per il potere), guidano i popoli oppressi della regione a una rivincita storica.

L’inizio di quella che verrà chiamata in seguito “Marea Rosa” (termine di Larry Rohter, inviato del “NY times” per seguire le elezioni in Uruguay) si ha con l’elezione di Hugo Rafael Chávez Frías in Venezuela, che assume il potere il 2 febbraio 1999. Un momento cruciale nel quale si consolida il primo governo di un partito membro del Foro de São Paulo e che segna l’inizio di un’onda socialista e progressista seguita dalle vittoriose elezioni di Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile (2003), Néstor Kirchner in Argentina (2003), Tabaré Vázquez in Uruguay (2005), Evo Morales in Bolivia (2006), Michelle Bachelet in Cile (2006), Rafael Correa in Ecuador (2007), Daniel Ortega in Nicaragua (2007) e José “Pepe” Alberto Mujica in Uruguay (2010). Si configura quindi un nuovo assetto latinoamericano che ruota intorno a innovativi progetti di integrazione economica e politica come l’Alba e l’Unasur e che riporta Cuba e la sua rivoluzione al centro del panorama politico.

Questa prima ondata della “Pink Tide”, il termine inglese per “Mare Rosa”, subisce però una brusca frenata dopo la fine del primo decennio del 2000, situazione aggravata poi dalla forte recessione del 2012. La morte di Chavéz prima (2013) e di Fidel Castro poi (2016), gli scandali di corruzione (soprattutto Argentina e Brasile) e uno spinto “caudillismo” presidenziale che in molti casi ha spinto i leader a mettere in dubbio le basi del sistema democratico (così per come si concepisce in Europa), ha portato un risorgimento delle forze conservatrici. Partiti di destra che hanno ripreso il controllo delle principali economie della regione partendo dall’Argentina nel 2015, passando poi per il Brasile nel 2016 e per il Cile nel 2017.

Il gruppo di Lima

Nel 2017, in quel contesto e sospinto dal crollo economico Venezuelano che ha provocato un esodo di milioni di persone dal paese sudamericano (a oggi più di 7 milioni secondo l’Onu), prende forma un nuovo gruppo di lavoro con un baricentro palesemente spostato verso destra. Questo consorzio di Stati latinoamericani (e non) , prende il nome di Gruppo di Lima e si configura come un organismo multilaterale basato sulla Dichiarazione di Lima dell’8 agosto 2017. Quel giorno rappresentanti di dodici paesi ufficializzano il loro appoggio all’opposizione venezuelana contro il chavismo-madurismo, per accompagnare un processo negoziato e pacifico che possa portare al superamento della crisi multilivello del Venezuela. Vengono stabilite delle condizioni di base per la negoziazione come la liberazione dei prigionieri politici, lo svolgimento di libere elezioni con supervisione esterna, la possibilità di far entrare aiuti umanitari e la necessità di riportare una separazione di poteri nel Paese. I paesi firmatari della dichiarazione furono: Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Honduras, Messico, Panama, Paraguay e Perù. A questi si sono aggiunti in seconda battuta Guyana, Haiti e Santa Lucia, mentre la Bolivia si è unita con la gestione di Jeanine Áñez (oggi in carcere) dopo la crisi politica del 2019 che ha portato all’uscita di Evo Morales dal paese. Il documento ha ricevuto l’appoggio anche dell’Unione Europea, dell’Oea (Organizzazione degli Stati Americani) oltre che degli Stati Uniti d’America, Barbados, Granada e Giamaica. Con il Lima Group si configura dunque una antitesi del Foro de São Paulo che rende chiara la lotta ideologica e politica che attraversa l’America Latina. Il Gruppo di Lima ha lavorato per ottenere l’isolamento politico venezuelano, con sorti alterne e varie vicissitudini. Nicolás Maduro ha sempre potuto contare, oltre che sull’appoggio dell’alleato storico Cuba, anche sula vicinanza del Nicaragua e fuori dalla regione sul sostegno di Russia e Iran. Inoltre i circa due anni di attività del Gruppo, che formalmente non è ancora sciolto, hanno dovuto fare i conti con l’inizio di una nuova ondata socialista che ci porta alla situazione odierna e che ha visto l’Argentina (da paese fondatore e firmatario) lasciare l’organismo nel 2019, Messico e Bolivia ritirare l’appoggio all’opposizione venezuelana e disconoscere la dichiarazione, oltre allo stesso Perù che ha riallacciato relazioni diplomatiche con il Venezuela di Maduro. A questo si aggiunge la visita del 1° novembre 2022 del presidente colombiano Gustavo Petro al palazzo di Miraflores a Caracas, in un incontro storico con Nicolás Maduro che segna un nuovo riavvicinamento diplomatico tra le sue nazioni sorelle. È da immaginare che anche Lula in Brasile, da gennaio 2023 farà lo stesso.

Una nuova “Alta Marea”

La nuova ondata socialista che ha visto il suo apogeo con il voto del 30 ottobre in Brasile inizia nel 2018 con la storica vittoria di Andrés Manuel Lopez Obrador “Amlo” in Messico, continuando nel 2019 in Argentina con l’elezione di Alberto Fernández, passando poi nel 2020 in Bolivia con l’elezione di Arce, nel 2021 in Perù con Pedro Castillo, in Honduras con Xiomara Castro e in Cile con Gabriel Boric, per arrivare a questo 2022 in Colombia con Gustavo Petro e ora in Brasile con il terzo mandato di Lula.

L’analisi di questo nuovo zenit dei partiti di sinistra può estendersi a molti ambiti ma sicuramente va riconosciuto che la prima “Marea Rosa” aveva raggiunto importanti traguardi legati all’inclusione, all’equità, ai diritti e alla dignità dei popoli indigeni e alla democratizzazione delle risorse. Le donne hanno avuto accesso a posizioni di potere effettivo in politica e nell’esercito e l’agenda dei diritti umani aveva compiuto un notevole salto in avanti soprattutto riguardo a minoranze storicamente perseguitate ed escluse come il collettivo Lgbtqi+.

Ora si apre uno scenario nuovo nel quale la sinistra (le sinistre) latinoamericane si trovano a dover convivere con un contesto globale più che mai volatile e frammentato. Da un lato la guerra in Ucraina, dall’altro gli interessi economici e geostrategici di Stati Uniti d’America, Russia e Cina che per motivi diversi continuano a guardare all’America Latina come un bacino di risorse, commerciale e di influenza, per arrivare agli effetti della pandemia da Covid-19, che ha riportato le lancette dell’orologio indietro di 10-15 anni rispetto ai livelli di povertà e disuguaglianze.

Che sinistra(e) e che democrazia?

El pueblo unido, jamás será vencido” cantava la banda cilena Quilapayún in un manifesto di protesta politica e di futuro possibile che per decenni ha scaldato i cuori “rossi” dell’America Latina e non solo. Un passaggio di questa storica canzone scritta da Sergio Ortega Alvarado e lanciata nel 1973 intona: «De pie, cantar que vamos a triunfar. Avanzan ya banderas de unidad…».

Repressione del dissenso / Condivisione di linee guida socialiste

Cantiamo, in piedi, andiamo a trionfare. Stanno già avanzando le bandiere dell’unità, uno degli attacchi più famosi del mondo nei cori imponenti dei concerti degli Inti Illimani. Ma è proprio sulle bandiere dell’unità che si gioca oggi la partita nella regione. Si perché se un da un lato e in modo generico, vengono definite tutte sinistre quelle che governano oggi in America Latina, tra le stesse esistono fratture e differenze che riguardano la percezione dello stato di diritto, il rispetto dei diritti umani e il contenuto della parola democrazia. È possibile definire Cuba, Nicaragua e Venezuela degli Stati di Diritto? Secondo la definizione canonica, che ci parla degli elementi di base dello stesso (impero della legge, separazione dei poteri, rispetto dei diritti fondamentali) si direbbe proprio di no. Non solo non esiste separazione dei poteri (partito unico a Cuba, controllo totale dello stato da parte del partito di governo in Venezuela, vera e propria istituzionalizzazione della dinastia Ortega-Murillo in Nicaragua) ma assistiamo a una persecuzione totale del dissenso, una privazione del diritto di libertà di espressione e una massiva e strutturale violazione di una lunga lista di diritti umani. Attenzione perché queste critiche non vengono da governi conservatori della regione quali, per esempio quello di Guillermo Lasso in Ecuador, ma bensì da governi di una nuova (e a volte giovane) sinistra come quella di Gabriel Boric in Cile o quella di Petro in Colombia.

Le dichiarazioni del presidente cileno a inizio 2022 in un suo viaggio negli Stati Uniti d’America dove ha parlato alla Columbia University hanno marcato un chiaro punto di inflessione: «Mi dà davvero fastidio quando sei di sinistra e condanni la violazione dei diritti umani in Yemen o El Salvador, ma non puoi parlare delle violazioni degli stessi in Venezuela, Nicaragua o Cile». Aggiungendo poi che non è possibile avere un doppio standard di valutazione perché si tratta di temi di civiltà e non di ideologia. Sempre Boric nel giugno 2022, nel contesto della sua partecipazione al Summit delle Americhe a Los Angeles ha fortemente criticato la repressione del governo cubano contro i manifestanti: «Oggi ci sono delle persone incarcerate a Cuba solo per pensare diversamente (rispetto al partito di governo) e questo per noi è inaccettabile».

Insomma una prima frattura cavalcata poi anche da Gustavo Petro, che già con la fascia presidenziale non ha risparmiato critiche contro Chávez e Ortega (Venezuela e Nicaragua): «Per noi i diritti umani sono fondamentali. La prima discussione che ho avuto con Hugo Chávez mentre era in vita, e forse l’ultima prima della sua morte, riguardava proprio il rispetto del sistema interamericano dei diritti umani. Molti di noi devono la vita, incluso io, a questo sistema dal quale Chávez ha deciso di far uscire il Venezuela», ha affermato Petro in una intervista internazionale a fine giugno 2022. Parlando di Nicaragua ha poi aggiunto: «Coloro che sono imprigionati oggi in Nicaragua sono quelli che hanno fatto la rivoluzione contro la dittatura di Anastasio Somoza», sottolineando che «erano nostri amici e ora sono in prigione. E perché? Ebbene, perché ci sono delle derive che non sono più propriamente democratiche e che vanno evitate».

Le difficoltà e il rischio di risacca

Insomma una chiara e netta frattura sul rispetto dei diritti umani e sul concetto di democrazia, che non può essere sminuito solo all’esercizio del voto (soprattutto quando questo si esercita nella più totale repressione e vulnerabilità). A questo si aggiunge una instabilità interna ai vari paesi del “blocco” di sinistra che potrebbe cambiare la scacchiera con nuovi possibili ritorni di fiamma dei governi conservatori. Pedro Castillo in Perù è in crisi di governo fin dal primo giorno di presidenza e ha già affrontato due mozioni di censura e ora un processo costituzionale. Alberto e Cristina (Fernández e Kirchner) Presidente e Vicepresidente in Argentina sono in rotta da tempo e le prossime elezioni presidenziali saranno tutte in salita per la sinistra argentina. Boric è in caduta libera di consensi e la sconfitta nel referendum per la nuova costituzione cilena a settembre 2022 ha fatto capire che il suo governo cammina “sulle uova”. In Bolivia il presidente Arce ha sostituito tutta la cupola militare a inizio novembre di fronte a quella che lui stesso ha qualificato come «una minaccia di un nuovo colpo di stato». In Messico, Andrés Manuel Lopéz Obrador deve provare a spegnere un incendio dopo l’altro (a livello interno) e la sua leadership regionale è molto debole. Cuba e Venezuela affrontano due crisi migratorie (ed economiche) senza precedenti e il Nicaragua è immerso in una guerra interna contro la Chiesa cattolica, tacciata come terrorista e dissidente da Daniel Ortega. Xiomara Castro non è ancora riuscita a dare un impulso forte al cambiamento in Honduras, sommerso da narcotraffico, impunità e violenza generalizzata. Petro ha dato il primo passo diplomatico con il Venezuela ma ora dovrà concentrarsi su questioni interne come le riforme promesse in campagna elettorale, il processo di Pace con l’Eln (Esercito di Liberazione Nazionale) e la questione del narcotraffico nel paese. Rimane da vedere che impronta darà Lula a questa nuova “Alta Marea”, giacché è l’unico grande leader carismatico sopravvissuto alla prima onda della “Marea Rosa” e veterano della prima riunione del Foro di San Paolo.

Anche su questo si sono confrontati Diego Battistessa e Alfredo Somoza

“Lula riprenderà per mano il Latinoamerica?”: un dialogo a caldo sulla vittoria di Lula tra Diego Battistessa e Alfredo Somoza su Radio Blackout.

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Ucraina. Chiavi di lettura dal Latinoamerica https://ogzero.org/ucraina-chiavi-di-lettura-dal-latinoamerica/ Sun, 04 Sep 2022 00:00:38 +0000 https://ogzero.org/?p=8732 Senza attrarre la doverosa attenzione internazionale i giganti del Latinoamerica sono stati teatro di alcuni episodi e appuntamenti inconsueti tra fine agosto e inizio settembre, inquietanti ma forse il continente stesso ci può dotare di chiavi geopolitiche di lettura per spiegare i rivolgimenti derivanti dalla lenta distribuzione degli schieramenti entro cui vanno configurandosi i due […]

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Senza attrarre la doverosa attenzione internazionale i giganti del Latinoamerica sono stati teatro di alcuni episodi e appuntamenti inconsueti tra fine agosto e inizio settembre, inquietanti ma forse il continente stesso ci può dotare di chiavi geopolitiche di lettura per spiegare i rivolgimenti derivanti dalla lenta distribuzione degli schieramenti entro cui vanno configurandosi i due fronti destinati a contrapporsi in ogni ambito del conflitto globale, che i traffici di armi dimostrano essere realmente tale, visto che il mondo partecipa alla corsa al riarmo… per poi andare a definire le sfere di influenza in punta di baionetta.

Avevamo chiesto a Diego Battistessa questo sguardo dall’altro lato dell’Atlantico sulle conseguenze del conflitto in Ucraina prima che venisse alla luce lo sventato golpe militare in Brasile – preventivo, orchestrato negli ambienti fascisti vicini al presidente in carica – volto a contrastare la probabile vittoria di Lula alle elezioni di ottobre; e non era ancora avvenuto il fallito attentato a Cristina Kirchner in Argentina; e nemmeno si era svolto il referendum sulla Costituzione cilena che doveva scardinare il lascito di Pinochet. Ma forse anche questi avvenimenti, dopo aver letto questa ricostruzione ragionata degli eventi collegabili al mondo latinoamericano, possono venire letti con lo scopo di schierare il Cono Sur – o sue parti –, da un lato o dall’altro.

OGzero


Sei mesi di guerra in Ucraina

Chiavi di lettura dell’approccio sudamericano

A sei mesi dall’invasione russa dell’Ucraina, oltre al tragico costo umano della guerra, molti degli equilibri geopolitici e geoeconomici sono stati scossi, ridisegnando una nuova normalità fatta di impennate dell’inflazione, costi esorbitanti dell’energia, nuove alleanze politiche e movimenti nello scacchiere mondiale. Cosa è successo in America Latina e nei Caraibi in questi sei mesi e come hanno reagito i leader politici del subcontinente latinoamericano di fronte all’attacco di Putin all’integrità dell’Ucraina? Ecco qui una dettagliata cronistoria che ci porta passo dopo passo a creare un mosaico fatto di molte sfumature e paesaggi ancora in definizione.

Febbraio – Marzo

Il movimento tellurico avvenuto dentro la comunità internazionale subito dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio 2022 ha portato decine di paesi e organismi multilaterali a condannare immediatamente e con veemenza quanto stava accadendo.

Prime scelte di campo

Un primo grande passo è stato quello preso dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu che in una risoluzione del 25 febbraio ha provato a fermare sul nascere l’invasione. Dobbiamo qui ricordare che il Consiglio di Sicurezza è uno degli organi principali dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ed è composto di 15 membri, di cui 5 permanenti (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti d’America) e 10 eletti ogni due anni dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. I 5 membri permanenti sono i vincitori della Seconda guerra mondiale e su ogni votazione hanno la possibilità di veto: veto che annulla di fatto le conseguenze della votazione. In questo caso era già previsto che la Russia avrebbe posto il veto alla mozione, impedendo all’Onu di poter prendere in considerazione misure militari di dissuasione contro l’esercito di Putin. Interessante però, per ciò che ci riguarda in questo articolo, è il comportamento degli altri 14 membri, in particolare di Messico e Brasile che siedono come membri “transitori” per questo periodo. Dei 15 aventi diritto al voto, 11 hanno votato a favore della risoluzione che imponeva alla Russia di fermare l’offensiva, ritirare completamente e incondizionatamente le sue truppe dai confini internazionalmente riconosciuti e astenersi da qualsiasi nuova minaccia e uso illegale della forza contro qualsiasi stato che faccia parte delle Nazioni Unite. Tra questi stati firmatari troviamo proprio Messico e Brasile. La Russia come detto ha posto il veto alla risoluzione, di fatto annullandola, mentre si sono astenute Cina, India e gli Emirati Arabi.

In questo caso dunque l’America Latina, rappresentata da Messico e Brasile ha fatto parte del coro di voci che condannavano l’invasione in Ucraina ma la questione era tutt’altro che priva di sfumature, perché solo poche ore dopo l’inizio delle ostilità, è arrivata la notizia ufficiale di un comunicato da parte della Oea (Organizzazione degli Stati Americani), che in una sessione straordinaria esprimeva una dura condanna verso un’invasione definita «illegale, ingiustificata e non provocata», chiedendo «l’immediato ritiro della presenza militare russa» dall’Ucraina. Se però andiamo a leggere i firmatari di tale documento scopriamo che hanno ratificato la “condanna” dell’Oea: Antigua e Barbuda, Bahamas, Barbados, Belize, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Giamaica, Granada, Guatemala, Guyana, Haiti, Honduras, Messico, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Domenicana, Suriname, Trinidad e Tobago, Usa e Venezuela (quest’ultimo rappresentato da un delegato del leader dell’opposizione Juan Guaidó dopo l’uscita dall’organismo multilaterale del governo di Nicolás Maduro nel 2019). Leggendo questi nomi scopriamo delle assenze di prim’ordine come Argentina, Brasile, Uruguay, Bolivia e Nicaragua. (Da ricordare che Cuba fu espulsa dalla Oea nel 1962).

2 marzo 2022

A sei giorni dall’inizio dell’invasione russa in territorio ucraino, l’Assemblea Generale dell’Onu emette una risoluzione che condanna le azioni dell’esercito di Putin. Si tratta di una risoluzione che non ha carattere vincolante e che viene appoggiata da 141 dei 193 Stati che siedono nell’Assemblea. Dei 52 restanti, ben 12 decidono di non partecipare alla votazione (tra questi il Venezuela di Maduro) e solo 5 votano contro: Bielorussia, Corea del Nord, Eritrea, Russia e Siria. Le astensioni sono 35 e tra queste si trovano Bolivia, Cuba, Nicaragua e il Salvador. Insomma, la settimana dopo l’inizio della guerra, l’America Latina mostra una netta divisione tra il gruppo dell’antimperialismo statunitense sorretto dall’asse La Avana – Caracas ed esteso a Managua e La Paz, con l’aggiunta del Salvador guidato da Nayib Bukele (sempre più solo per le sue politiche quantomeno discutibili in termini di libertà e democrazia) e il resto del subcontinente che condanna ufficialmente l’invasione. Una divisione comprensibile se vista dall’alto delle relazioni diplomatiche, economiche e di supporto militare che la Russia ha fornito negli ultimi anni in particolare a tre paesi latinoamericani sempre più isolati dalla comunità internazionale occidentale, quali sono Cuba, Nicaragua e Venezuela.

Figura 1 – Dettaglio voto del 2 marzo 2022

La risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu viene in soccorso a una tergiversazione che come abbiamo visto in precedenza aveva caratterizzato buona parte delle cancellerie latinoamericane tra il 24 e il 25 febbraio, a poche ora dalla notizia che le truppe russe erano entrate in territorio ucraino. Nel mio articolo del 25 febbraio comparso su “Il Fatto Quotidiano” davo appunto conto da San Paolo in Brasile, di come la regione latinoamericana stava reagendo alle ferali notizie che arrivavano dall’Est europeo. I portavoce di Bolivia, Messico e Perù non avevano condannato esplicitamente l’invasione, chiedendo piuttosto l’apertura immediata di un dialogo. Cuba, Nicaragua e Venezuela, paesi notoriamente vicini alle politiche di Mosca, si erano preoccupate fin da subito invece di difendere l’azione militare di Putin anche se con un tenore diverso a seconda dei casi.

Il più veemente era stato Nicolás Maduro, che in un messaggio del 24 febbraio aveva dichiarato: «Cosa si aspetta il mondo? Che il presidente Putin se ne stia con le braccia incrociate e non agisca in difesa del suo popolo?».

Nel discorso non sono poi mancate le accuse alla Nato e all’imperialismo statunitense, additati come principali responsabili di quanto sta succedendo. Daniel Ortega dal Nicaragua aveva difeso il riconoscimento della repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk condannando con forza l’applicazione di sanzioni economiche contro la Russia. Toni diversi da Cuba, dove proprio mentre Putin lanciava il suo attacco all’Ucraina (la sera di mercoledì 23 febbraio in America Latina) il presidente cubano Miguel Diaz-Canel era riunito con Viacheslav Volodin, il presidente della Duma russa (il parlamento russo). Diaz-Canel aveva espresso la sua solidarietà alla Federazione Russa di fronte all’imposizione di sanzioni e all’allargamento della Nato verso i suoi confini, evitando però di fare riferimento all’incursione militare russa in Ucraina. Dall’altro lato, forti invece erano giunte le condanne da parte di Cile, Ecuador, Uruguay, Paraguay, Colombia e del Caricom (la comunità caraibica, organizzazione internazionale che riunisce 15 membri con pieno diritto, oltre a 5 associati e 8 membri osservatori).

Camminavano “sulle uova” Argentina e Brasile, presi alla sprovvista da un’azione militare che li poneva in serie difficoltà di fronte alla comunità internazionale. Sì, perché da un lato, proprio all’inizio di febbraio, il presidente argentino Alberto Fernández aveva offerto il suo paese come “porta di accesso” della Russia all’America Latina durante un incontro molto discusso con Vladimir Putin al Cremlino. Solo di fronte a intense critiche e pressioni sia interne che esterne al suo governo, Fernández era stato costretto a rilasciare una dichiarazione in cui lamentava la situazione in Ucraina, rifiutando l’uso della forza e chiedendo alla Russia di «cessare l’azione militare in Ucraina», ribadendo però che «nessuna delle parti doveva usare la forza». Dall’altro lato il Brasile del presidente Jair Bolsonaro che, la settimana prima dell’inizio della guerra, si trovava in visita ufficiale proprio a Mosca. Un viaggio che, viste le ripetute avvisaglie di Washington sull’imminente invasione russa dell’Ucraina, aveva creato non poche polemiche e tensioni. Dopo il 24 febbraio sono arrivate da Brasilia delle dichiarazioni tiepide che esprimevano preoccupazione per le operazioni militari lanciate dalla Russia contro il territorio dell’Ucraina senza però condannare esplicitamente l’operato di Putin.

La lista dei paesi ostili a Mosca

La lista dei paesi ostili a Mosca fu creata per la prima volta nel maggio del 2021 e annoverava solo due nomi: Stati Uniti d’America e Repubblica Ceca. Si tratta di un documento pubblicato dal governo della Federazione Russa nel quale sono ascritti quegli stati, territori, regioni ed entità sovranazionali che sono coinvolti in attività che il Cremlino considera “ostili” o “aggressive” nei confronti della Russia. La lista è stata ampliata a inizio marzo 2022, pochi giorni dopo la risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu e dopo l’applicazione di forti sanzioni da parte dell’Unione Europea e degli Usa contro la Federazione Russa. Oggi il documento conta al suo interno 56 stati o dipendenze territoriali e l’essere menzionati in questa lista comporta l’applicazione di restrizioni rispetto alle relazioni commerciali, valutarie e diplomatiche con Mosca.

Anche questa lista però ci aiuta a capire che la Russia vuole mantenere aperta la porta all’America Latina visto che nessuno dei paesi di questo subcontinente è menzionato nel documento (fatto salvo per la Guyana francese e le Bahamas, quest’ultima aggiunta alla lista il 24 luglio). Le sanzioni infatti colpiscono la quasi totalità del continente europeo, ad eccezione di Bielorussia, Bosnia ed Erzegovina, Moldova e Serbia; in Asia troviamo Giappone, Corea del Sud, Micronesia, Taiwan, Australia e Nuova Zelanda e nella Americhe (a parte le già menzionate) solo Canada e Stati Uniti d’America. Non viene menzionato nessuno Stato africano o latinoamericano.

Aprile

Il 7 di aprile, sempre all’interno dell’Assemblea Generale dell’Onu, è andato in scena il voto per estromettere la Russia dal consiglio dei diritti umani (decisione straordinaria applicata in passata solo nel marzo 2011 alla Libia). Anche questa volta la comunità internazionale si è trovata divisa, ancora più divisa del voto del 2 marzo, chiaro segnale che la macchina diplomatica del Cremlino è riuscita a ampliare la sua sfera di influenza. Sebbene infatti la votazione abbia ufficialmente comportato la sospensione della Russia dal consiglio dei diritti umani dell’Onu, questa volta i voti a favore sono stati “solo” 93 (contro i 141 di marzo), 24 contrari e 58 astensioni: da notare che ben 18 stati non hanno votato tra cui ancora il Venezuela e in questa occasione anche Bolivia, Cuba, Nicaragua e Suriname, che si erano astenute il 2 marzo, hanno invece votato contro questa risoluzione mentre il Salvador ha confermato la sua astensione. Tra gli astenuti fano però il loro ingresso il Belize, Trinidad e Tobago ma soprattutto il Brasile di Bolsonaro e il Messico di Andrés Manuel Lopéz Obrador. Questione geopolitica non di poco conto se si considera che questi due giganti latinoamericani sono la prima (Brasile) e la seconda (Messico), economia del subcontinente.

Figura 2 – dettaglio del voto del 7 Aprile 2022

Maggio

Brasile di Lula

Il mese di maggio si apre con il clamore provocato dalle parole dell’ex presidente del Brasile, Lula Ignacio da Silva, favorito per le prossime elezioni presidenziali di ottobre nella quali affronterà Jair Bolsonaro (presidente uscente).

Lula, in una lunga intervista realizzata da Time e pubblicata mercoledì 4 maggio ha dichiarato:

«Vedo il presidente dell’Ucraina in televisione come se stesse festeggiando, applaudito in piedi da tutti i parlamenti (del mondo). Lui è responsabile quanto Putin. Perché in una guerra non c’è un solo colpevole», ha detto Lula aggiungendo poi che «Voleva la guerra (Zelenski). Se non avesse voluto la guerra, avrebbe negoziato un po’ di più».

Tra i passaggi salienti dell’intervista troviamo poi anche questo:

«Ho criticato Putin quando ero a Città del Messico, dicendo che è stato un errore invadere, ma penso che nessuno stia cercando di contribuire alla pace. Le persone stanno stimolando l’odio contro Putin. Questo non lo risolverà! Dobbiamo stimolare un accordo. Ma c’è un incoraggiamento (al confronto)!».

Infine, nella sua critica a tutto tondo, Lula non ha risparmiato attacchi agli Stati Uniti d’America e all’Onu, specificando

«gli Stati Uniti hanno un peso molto grande e lui (Biden) potrebbe evitarlo (il conflitto), invece di stimolarlo. Avrebbe potuto dialogare di più, partecipare di più, Biden avrebbe potuto prendere un aereo per Mosca per parlare con Putin. Quello è l’atteggiamento che ci si aspetta da un leader».

Rispetto all’Onu invece il 76enne politico brasiliano ha affermato che «è urgente e necessario creare una nuova governance mondiale. L’Onu di oggi non rappresenta più nulla, non è presa sul serio dai governanti. Ognuno prende decisioni senza rispettare l’Onu. Putin ha invaso l’Ucraina unilateralmente, senza consultare l’Onu».

Giugno

Le alleanze si cercano al Vertice

Il mese di giugno è stato il mese dei vertici internazionali: la Cumbre (in presenza) delle Americhe, celebrato a Los Angeles tra il 6 e il 10 giugno, la riunione dei Brics celebrata in forma virtuale a Beijing il 23 giugno e il vertice (presenziale) del G7 di Schloss Elmau in Germania tra il 26 e il 28 giugno. In tutti e tre i vertici si è parlato della guerra della Russia all’Ucraina ma il peso, la presenza e la visibilità dei paesi latinoamericani sono stati molto eterogenei in questi spazi di dialogo e di decisione. Da un lato, il vertice delle Americhe, ospitato quest’anno dagli Usa, ha mostrato la grande frattura esistente nel continente visto e considerato che su 35 stati possibili partecipanti alla fine sono intervenuti solo 26 paesi: con il Brasile arrivato in extremis per la soluzione all’ultimo minuto di un disaccordo tra Biden e Bolsonaro. Cuba, Nicaragua e Venezuela non sono stati invitati e per solidarietà con questi tre paesi non sono intervenuti neanche i presidenti di Bolivia, Honduras e Messico. Dall’altro lato Salvador e Guatemala sono in rapporti molto aridi con l’amministrazione Biden e hanno declinato l’invito, mentre il presidente dell’Uruguay non ha potuto partecipare perché positivo al Covid-19. Un vertice dunque “azzoppato” che ha mostrato l’isolamento Usa nel subcontinente latinoamericano riaffermando la distanza delle politiche e delle visioni di Washington da molte delle amministrazioni latinoamericane. Questo è sicuramente un elemento ad appannaggio di Mosca che, non ha partecipato “fisicamente” al successivo G7 in Germania ma che è stata il centro del dibattito dei 7 “big” presenti: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America (oltre a una rappresentanza politica della UE).

Da ricordare che quello che oggi è il G7 era in precedenza il G8 e includeva anche la Russia. La Federazione russa fu espulsa dal gruppo a seguito della crisi in Ucraina del 2014 che portò all’annessione della penisola di Crimea da parte del presidente russo Vladimir Putin.

Schloss Elmau, G7 del 26 giugno 2022

Al vertice tedesco ha partecipato come invitato il presidente argentino Alberto Fernández, in veste di rappresentante della Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi (Celac). Fernández in questa occasione ha condannato dalle Alpi bavaresi l’operato della Russia in Ucraina, dando un segnale importante di allineamento con le politiche di Washington e della UE.

Solo alcuni giorni prima del G7 però (il 23 giugno) la Russia era stata protagonista del vertice dei Brics, acronimo coniato per associare cinque grandi economie emergenti: Brasile, Cina, India, Russia e Sud Africa. Questo gruppo, che si riunisce dal giugno del 2009, ha rappresentato per anni il paradigma della cooperazione Sud-Sud ed è visto come un’alternativa alle politiche di influenza statunitensi o anche “occidentalocentriche” a livello globale. Tra questi 5 paesi spicca il Brasile, come detto la più grande economia latinoamericana che, per bocca di Jair Bolsonaro, ha detto di voler rafforzare e ampliare la collaborazione commerciale con Mosca. Anche qui troviamo però ancora una volta l’Argentina, paese candidato a un prossimo ingresso nel gruppo, come ricordato proprio nei giorni del suddetto vertice dal ministro degli esteri russo Sergéi Lavrov, in un annuncio nel quale sembrava dire che l’ingresso di Buenos Aires nei Brics potrebbe essere prossimo.

Luglio

Latenti manovre rendono ondivaga la posizione continentale

A inizio luglio si manifesta un segnale inequivocabile rispetto alle profonde divisioni generate dall’invasione russa in Ucraina in America Latina e alle correnti di pensiero a questo riguardo. Il presidente ucraino Volodímir Zelensky fa richiesta ufficiale al Paraguay di poter essere presente in videoconferenza nel prossimo vertice del Mercosur (Mercato Comune del Sud) che sarebbe stato celebrato appunto ad Asunción, capitale del paese sudamericano giovedì 21 luglio. Zelensky, forte dei precedenti discorsi realizzati in svariati forum e vertici internazionali come quello della Nato, del G7, alle Nazioni Unite e nel Forum Economico Mondiale vuole ripetere l’impresa, magari proponendo uno “speech” cucito ad hoc per l’occasione, così come ha fatto in diversi parlamenti in giro per il mondo. In quei giorni è lo stesso ministro degli esteri del Paraguay, Julio Cesar Arriola, a dare la notizia della richiesta che il presidente ucraino ha presentato direttamente a Mario Adbo Benítez (presidente del Paraguay), spiegando però che la domanda verrà sottoposta al vaglio di tutte le parti interessate. Sembrava un puro rito diplomatico e invece arriva il colpo di scena: dopo una votazione interna e segreta del blocco commerciale composto da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay arriva il diniego. Zelenski non parlerà al vertice Mercosur, e a dirlo in una conferenza stampa è questa volta il viceministro degli esteri paraguaiano, Raúl Cano Ricciardi, che però non svela quale paese o quali paesi abbiano votato contro la richiesta del presidente ucraino.

L’America Latina ci ha però abituato a continui colpi di scena e solo 4 giorni dopo il mancato appuntamento di Zelenski con il vertice del Mercosur di Asunción succede qualcosa che ancora una volta muove le carte in tavola. Si perché il 25 luglio arriva la prima visita di un presidente Latinoamericano a Kyiv: si tratta di Alejandro Giammattei, presidente del Guatemala dal 14 gennaio 2020. Questa visita è la prima di un presidente dell’America Latina dal 24 febbraio (data dell’inizio dell’invasione russa) ma è anche la prima in generale degli ultimi 12 anni. Giammattei che aveva ricevuto l’invito a recarsi in Ucraina nel giugno scorso proprio da Zelenski, ha visitato le oramai tristemente famose città di Bucha, Irpin e Borodianka, assicurando che il suo paese non lascerà solo il popolo ucraino nel momento della ricostruzione.

Agosto

Ad agosto, a sei mesi dall’inizio dell’invasione ci troviamo di fronte a un altro “coup de théâtre” questa volta organizzato dall’asse Caracas-Mosca. Infatti il Venezuela di Maduro è diventato il 13 agosto il primo paese latinoamericano a ospitare come anfitrione le “Army Games”, anche chiamate “Olimpiadi della Guerra”. Ovvero delle competizioni militari organizzate proprio dal ministero della Difesa della Russia dal 2015. Ai “giochi” hanno partecipato 270 squadre provenienti da 37 paesi e le gare hanno avuto luogo tra il 13 e il 27 agosto, in 36 modalità di competizione (in Venezuela hanno gareggiato i cecchini). Oltre a Venezuela e Russia, anche Algeria, Bielorussia, Cina, India, Iran, Kazakistan e Vietnam sono state le sedi secondarie dell’edizione di quest’anno. L’alto comando militare venezuelano ha mantenuto un certo riserbo sull’evento, che ovviamente ha risvegliato l’interesse e la preoccupazione degli Usa, visto che la competizione ha comportato l’arrivo di centinaia di militari stranieri in Venezuela. Soldati provenienti da Abcasia, Bielorussia, Cina, Iran, Myanmar, Russia e Uzbekistan: paesi che in molti casi sono colpiti dalle sanzioni degli Stati Uniti d’America.

Ad aumentare la tensione anche una “coincidenza”, se tale si vuole considerare. Infatti le “Olimpiadi della guerra” sono iniziate proprio mentre si concludevano le operazioni militari annuali organizzate dal comando sud degli Stati Uniti d’America: operazioni battezzate PanamaX 2022. A questa importante esercitazione, svoltasi tra il 1° e il 12 agosto, hanno partecipato le forze armate di Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Repubblica Domenicana, Giamaica, Guatemala, Honduras, Messico, Panama, Paraguay, Perù Salvador e Spagna.

Proprio mentre si svolgevano le “Olimpiadi della Guerra” in Venezuela con la benedizione del Cremlino, avviene però un altro colpo di scena. Zelenski riguadagna lo spazio che gli era stato negato al vertice del Mercosur e mercoledì 17 agosto, questa volta nelle aule della Pontificia Universidad Católica de Chile (Puc) riesce a parlare in videoconferenza mandando un messaggio ai presidenti della regione e a tutto il popolo latinoamericano, al quale ha chiesto di cessare il commercio con la Russia.

Ha poi aggiunto: «Per credere a quello che sta succedendo, è importante vederlo. Voglio che i vostri leader, i giovani, vengano in Ucraina. Per noi è importante che l’America Latina conosca la verità», apparendo per la prima volta su uno schermo latinoamericano a 175 giorni dall’inizio della guerra.

Un messaggio seminato in Cile, paese dove il giovane presidente Gabriel Boric aveva da subito dato il suo appoggio, in termini umanitari, verso il popolo ucraino.

Di fronte a tutto questo rimante difficile decifrare le vere intenzioni di Putin in America Latina, dove però sicuramente le sue alleanze con Cuba, Venezuela e Nicaragua e i suoi ammiccamenti ad Argentina e Brasile hanno complicato la risposta dell’Occidente alla sua invasione dell’Ucraina. Non sono da sottovalutare però le agende dei singoli paesi latinoamericani che dal canto loro potrebbero “usare” Putin come “spauracchio” da giocare nell’infinita partita a scacchi con Washington e Beijing, i due poli che continuano a oggi a esercitare comunque la maggiore influenza nella regione.

Conseguenza economiche della guerra nell’area Cono Sur

Chiavi di lettura delle alleanze globali

Per dare uno sguardo in chiave economica di come quanto sta succedendo in Ucraina abbia un riflesso diretto sulle società nazionali della regione latinoamericana, possiamo fare riferimento a un’analisi realizzata dal Real Instituto Elcano di Madrid, elaborata da Carlos Malamud e Rogelio Nuñez Castellano dal titolo L’America Latina e l’invasione dell’Ucraina: il suo impatto sull’economia, la geopolitica e la politica interna.

Spiegano Malamud e Nuñez Castellano che i paesi dell’America Latina, seppur in posizione periferica si vedono influenzati in modo importante dalla crisi in Ucraina. Economicamente, l’aumento dei ricavi per i paesi produttori di materie prime, in particolare idrocarburi, ha convissuto con il rimbalzo inflazionistico causato dall’aumento dei prezzi dell’energia e dalla scarsità di importazioni dalla Russia (fertilizzanti) e dall’Ucraina (cereali). Ci sono stati notevoli disaccordi all’interno di ciascun paese sulla posizione di fronte al conflitto, questione che rende ancora più difficile la politica interna in mezzo alla crescente incertezza sul futuro dell’economia mondiale e regionale, con un possibile aumento dei disordini sociali (vedi il caso delle recenti proteste a Panama). Inoltre la lotta geopolitica globale per il controllo e l’accesso alle risorse energetiche, ha rilanciato alcune potenze petrolifere regionali (come il Venezuela) e ha favorito alcuni spazi commerciali in termini di esportazioni (per esempio quelli argentini con l’esportazione di cereali).

Un’altalena di costi e benefici che però se vista nella foto regionale porta delle cifre tutt’altro che ottimistiche. Secondo i dati della Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (Cepal) resi noti a fine aprile scorso, il conflitto in Ucraina ha esacerbato i problemi di inflazione, aumentando la volatilità dei costi finanziari abbassando le stime di crescita regionale da 2,1% (gennaio 2022) a 1,8% (aprile 2022). Le economie del Sud America cresceranno dell’1,5%, quelle del Centro America e del Messico del 2,3%, mentre quelle dei Caraibi cresceranno del 4,7% (esclusa la Guyana).

Sempre la Cepal, nel volume Ripercussioni in America Latina e Caraibi della guerra in Ucraina: come affrontare questa nuova crisi? pubblicato a giugno, parla anche di un lento e incompleto recupero del mercato del lavoro dopo il Covid-19, prevedendo che la povertà e la povertà estrema supereranno i livelli stimati per il 2021.

«L’incidenza della povertà regionale raggiungerà il 33,7% – 1,6 punti percentuali in più rispetto alle proiezioni per il 2021- mentre la povertà estrema raggiungerà il 14,9% – 1,1 punti percentuali in più rispetto a nel 2021».

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Stop the Wall

Di fronte a tutto questo però abbiamo visto un fiorire di geografie della (R)esistenza che passano per arte, politica, cultura e mobilitazione sociale. Passano per il riscatto attravesro la ribellione a un progetto urbano istituzionale che emargina interi universi culturali e di pensiero alternativo, relegandoli alla periferia fisica e intellettuale: quando non attaccandone direttamente l’integrità fisica.

Marielle come Carolina Maria de Jesús, voce afrobrasiliana delle favelas di São Paulo che negli anni Sessanta prese letteralmente “a pugni” il Brasile e il mondo squarciando il velo che copriva le reali condizioni di vita dei favelados. Dal cuore della favela Canindé, sulla riva del Tietê nella città di São Paulo, la voce di Carolina emerse in modo prepotente raccontando senza filtri il dolore e la fame. Una donna nata il 14 marzo del 1914 a Sacramento, nello stato di Minas Gerais e successivamente emigrata a São Paulo dove lavorò come domestica e raccoglitrice di carta e ferro per la strada. Il suo diario, pubblicato per articoli inizialmente su il giornale O cruzeiro a partire dal 10 giugno 1959 e in forma di libro nel 1960, fu un terremoto letterario. Quarto de Despejo, il nome della sua opera (che ha venduto più di 100.000 copie ed è stato tradotto in più di dieci lingue) parla all’altro Brasile (quello che non vive nella favela) raccontando la sua vita, la sua quotidianità, la fame. Fame, una parola che ritorna in modo costante, quotidiano, quasi una litania dentro le pagine che raccontano la favela tra gli anni 1955 e 1959. Riflessioni asciutte, a volte semplici ma taglienti e penetranti, come quella del 3 giugno 1958:

«Quando sono a corto di soldi, cerco di non pensare ai miei bambini che chiederanno pane, ancora pane e caffè. Devio i miei pensieri al paradiso. Penso: ci sono persone lassù? Sono migliori di noi? Il loro dominio supererà il nostro? Ci sono nazioni così varie come qui sulla terra? O è un’unica nazione? Esiste una favela? E se c’è una favela lì, io vivrò nella favela anche quando morirò?”» (Carolina Maria de Jesús, Quarto de Despejo: diario de uma favelada, con illustrazioni di Vinicius Rossignol Felipe, Sao Paulo, Ática editrice, 2014, p. 50).

São Paulo e il Brasile riconoscono oggi il valore storico, culturale, antropologico e simbolico di quelle parole arrivate dalla Stanza della discarica (traduzione di Quarto de despejo). Parole che mostravano una razzializzazione delle povertà, che per la prima volta parlavano della favela da dentro la favela: aggirando le fredde analisi urbanistiche, statistiche e sanitarie di giornalisti, politici e specialisti vari. Almeno due i grandi omaggi riservati a Carolina Maria de Jesús nel 2022. Il primo è stata una mostra gratuita ospitata dal prestigioso Instituto Moreira Salles, che si trova nell’Avenida Paulista: luogo simbolo del potere economico brasiliano: Carolina Maria de Jesus: un Brasile per brasiliani è il titolo del progetto che è stato inagurato il 25 settembre 2021 e che è rimasto aperto al pubblico fino al 3 aprile 2022. Il secondo è avvenuto il 23 aprile, durante il primo carnevale postpandemia di São Paulo, nel quale la sua figura è stata onorata dalla scuola Colorado do Brás con il tema: Carolina, a Cenerentola Negra do Canindé.. La scuola ha raccontato, in un corteo emozionante, la storia della scrittrice di Sacramento, passando per Franca (dove ha iniziato a vivere con un gruppo circense) e arrivando poi a São Paulo nella favela di Canindé. Svelando un volto doloroso del Brasile, la vita di Carolina è stata raccontata con serietà e rispetto dalla Scuola, cosa che non ha impedito al corteo di essere colmo all’inverosimile di bellezza e colori.

Luiz Gama e Carolina Maria de Jesús, Murales celebrativo dell’afrodiscendenza – Casa das Rosas (SP) – (foto di Diego Battistessa)

La storia di Carolina e di Marielle ci parla di favelas e popolazione afrodiscendente, un binomio non scontato, non ovvio, ma figlio di politiche decennali di marginazione e di Branqueamento forzato dei centri delle città, che hanno stereotipato la popolazione afrobrasiliana spingendola ai margini (figurativamente e letteralmente) della società.

L’eredità di Marielle e di Carolina

Lo spazio delle donne afrodiscendenti in Brasile è andato dunque crescendo, dentro e fuori dalla favela. Nello stesso anno (il 2018) in cui fu uccisa Marielle Franco per esempio veniva eletta nello stato di São Paulo la prima donna transgender nell’Assemblea legislativa statale. Si tratta di Erica Malunginho da Silva, afrobrasiliana nata a Recife il 20 novembre 1981, affiliata al Partito Socialismo e Libertà (Psol) e considerata una della 100 persone di origine africana più influenti al mondo dal Mipad (Most Influential People of African Descent),ente che fa parte dell’Agenda globale delle Nazioni Unite (Onu). Sulla scia di Malunghiño anche Erika Hilton, donna transgender afrobrasiliana, è stata eletta consigliera della città di São Paulo nel 2020 sempre tra le file del Psol (nominata anche lei dal Mipad). Erika è stata la donna più votata nel 2020 in tutto il Brasile con oltre 50.000 voti ed è la prima trans afrobrasiliana eletta al Consiglio comunale di São Paulo. Donne afrobrasiliane che fanno storia e che evidenziano l’intersezionalità della discriminazione capitalista, razziale e patriarcale. Che dire poi di Sueli Carneiro, filosofa, scrittrice e prominente attivista contro il razzismo nel movimento sociale nero brasiliano. Carneiro è la fondatrice e l’attuale direttrice del Geledés – Instituto da Mulher Negra, ed è considerata una delle principali autrici del femminismo nero in Brasile: nel marzo 2022 è diventata la prima donna afrodiscendente a ricevere un dottorato honoris causa dall’Università di Brasilia.

Malunginho celebrava così questo importante avvenimento storico sul suo profilo instragram ufficiale:

«Il titolo di dottore onorario (in filosofia) assegnato a Sueli Carneiro riflette l’importanza della sua eredità, che è collettiva. Scrivendo, teorizzando e mostrandoci possibili percorsi di emancipazione del nostro popolo, Sueli dimostra che altre destinazioni sono possibili. Un’intellettuale nera che scrive di femminismo nero e tanti altri argomenti e che fa parte della nostra saggezza ancestrale. La conoscenza è una tecnologia che le donne nere ci hanno insegnato a padroneggiare…
… Congratulazioni a Sueli Carneiro e a tutte le donne nere che costruiscono la conoscenza in questo paese molto diseguale chiamato Brasile. Viva la vita e il lavoro di Sueli!»

Pochi giorni prima invece, Erika Hilton, chiudeva un cerchio che ci ha portato da Carolina a Marielle per poi arrivare all’attivismo delle trans afrobrasiliane. La Hilton annunciava sul suo profilo instagram diverse attività per ricordare e onorare l’autrice di Quarto de Despejo:

«Nonostante oggi sia stato segnato dal triste ricordo dell’omicidio di Marielle Franco, molti anni prima, nel 1914, un altro evento segnò la stessa data, ma con gioia: la nascita della scrittrice e multiartista Carolina Maria de Jesus.
Nata nella città di Sacramento, nello stato di Minas Gerais, fu nella città di São Paulo che Carolina scrisse la sua opera e incise il suo nome nella Storia. L’autrice di Quarto de despejo: diario di una favelada, Casa de Alvenaria, tra gli altri titoli, poesie e canzoni, ha affrontato la fame, ha lavorato come raccoglitrice di materiali riciclabili e ha lasciato un’eredità di arte e lotta di cui siamo orgogliosi e orgogliose e che ci ispira».

Erika Hilton continua poi spiegando nel testo della pubblicazione che in memoria di Carolina Maria de Jesus, tra le varie iniziative, è stato creato il Fondo municipale per combattere la fame, è stato instituito (proprio da Hilton) il Premio Carolina Maria de Jesus che sarà assegnato ogni anno per riconoscere pubblicamente il lavoro delle donne nere nell’arte e per i diritti umani e infine, è stata presentata una proposta di legge per l’installazione di un’opera d’arte in onore di Carolina Maria de Jesus nei dintorni della Biblioteca Mário de Andrade.

Chiudo questo testo (che potrebbe durare ancora molte pagine) con un consiglio di lettura, che arriva da un’altra attivista e giornalista brasiliana che definisce se stessa latino-amefricana. Sto parlando di Michele Carlos, che parlando di A Radical Imaginação Política das Mulheres Negras Brasileiras scrive quanto segue:

«Il libro porta una raccolta di testi di donne nere, in tempi diversi, che, nelle loro azioni come agenti di trasformazione in politica, hanno portato discussioni e soluzioni ai problemi della società. Da qui il “RADICAL”, dalla radice, cercare il cambiamento alla base, guardare all’origine del problema. “Immaginazione” non significa il luogo della “non azione”. Piuttosto il contrario. Qui l’immaginazione è vedere, sapendo che ci sono altri percorsi e possibilità per/nella costruzione di una democrazia che rappresenti il popolo. Chiunque riesca a immaginare oltre ciò che è prefissato, può agire promuovendo cambiamenti reali».

E le “donne nere brasiliane” – perché questo è il gruppo di popolazione più numeroso del Brasile. Le donne nere costituiscono il 25 per cento della popolazione, ma devono anche affrontare una maggiore sottorappresentanza negli spazi di potere e decisionali, pubblici o privati».

Il libro è una realizzazione dell’Instituto Marielle Franco e la piattaforma “Donne nere decidono” con la Fondazione Rosa Luxemburgo  e riunisce testi di Regina Souza, Marielle Franco, Erica Malunguinho, Benedita da Silva, Leci Brandão, Luiza Barros, Vilma Reis e tante altre. È disponibile anche gratuitamente in pdf.

fine

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Razzializzazione nell’urbanistica della povertà

Mãe preta ou a fúria de Iansã di Sidney Amaral, fotografata alla Pinacoteca Nazionale di Sao Paulo da Diego Battistessa

Mãe preta ou a fúria de Iansã di Sidney Amaral, fotografata alla Pinacoteca Nazionale di Sao Paulo da Diego Battistessa

Uno scontro da due mondi diversi

Tornando a Rio de Janeiro e alle analisi proposte da Juan Peréz Ventura, possiamo vedere che la tensione tra le due dimensioni abitative della città, quella delle favelas e quella “ordinata” del Brasile proiettato nel futuro, rimane alta. Un esempio di questo è il Parco Nazionale di Tijuca, situato nella zona Sud di Rio de Janeiro, considerato la più grande “foresta urbana” del mondo e dichiarata Riserva della Biosfera dall’Unesco nel 1991. L’integrità di quest’area è stata minacciata dall’avanzare degli insediamenti informali, che sono cresciuti esponenzialmente sulle pendici delle montagne e delle colline che formano il Parco Nazionale.

La favela Rocinha, una delle più grandi della città, si trova per esempio in una valle all’interno del Parco Nazionale di Tijuca. Di fronte a questa situazione, nel 2009 il governo dello stato di Rio de Janeiro ha preso una decisione controversa: costruire un muro di cemento che circondasse le favelas, per impedire che continuassero a crescere attraverso aree protette e aree di interesse turistico. Di fronte a questo, Ventura spiega che:

«Sebbene il discorso politico abbia ripetuto più volte che l’obiettivo era quello di proteggere la ricchezza naturale che circonda Rio, per l’opinione pubblica la costruzione di questo muro avrebbe accentuato la segregazione sociale.
Il sindaco di Rio assicurò che l’unico scopo del muro era quello di fermare il disboscamento delle foreste atlantiche che un tempo ricoprivano le colline di Rio de Janeiro e che con la crescita delle favelas rischiano di scomparire. Quello che nessuno ha ancora spiegato è perché finora la costruzione di mura è stata pianificata solo nelle favelas situate nei quartieri di São Conrado, Gávea, Leblon, Ipanema, Copacabana, Leme, Urca e Botafogo. Ovvero i quartieri di Rio classificati come “nobili” dalle agenzie immobiliari».

Sempre nello stesso periodo (il 19 novembre 2008) nella città di Rio de Janeiro venne installata la prima UPP – Unità di Polizia di Pacificazione, il germe di un nuovo paradigma di presenza militare del governo in aeree fino a quel momento completamente dimenticate.

Ma proprio delle UPP ci parla Marielle Franco, afrobrasiliana filha da Maré (figlia della favela Maré) e oggi simbolo di quel Brasile dei “Nadie” parafrasando Galeano, che non vuole più abbassere la testa. Franco è stata uccisa insieme al suo autista Anderson Gomes il 14 marzo 2018 e a oggi sul caso non è stata ancora fatta chiarezza e neanche giustizia. La sua storia è oggi sinomino di speranza, lotta e resistenza giacché Marielle è diventata simbolo universale del femminismo, della lotta per i diritti civili, per la giustizia sociale e per le rivendicazioni della popolazione afrodiscendente e del collettivo LGBTIQ+. Ho raccontato la sua vita e la sua lotta nel libro “Tracce indelebili: storie di dieci attivisti che hanno cambiato il mondo” pubblicato nell’ottobre 2021 da Osservatorio Diritti, spiegando come Marielle si fosse sempre opposta a questa segregazione e securitizzazione militare delle favelas.

Il 29 settembre 2014 infatti Franco, difese la sua tesi di specializzazione sulle Unità di Polizia di Pacificazione – UPP, un documento/denuncia dal titolo UPP: la riduzione della favela a tre lettere. Un’analisi della politica di sicurezza pubblica nello stato di Rio de Janeiro

Presentando le conclusioni della sua tesi nel Congresso dell’Associazione Latinoamericana di Sociologia nel 2017, la stessa Mariella Franco affermò che:

«…il fallimento delle UPP si vive brutalmente nella routine degli abitanti delle favelas. La logica del confronto, giustificata dalla narrazione storica della “guerra alla droga”, non trova alcuna differenza tra favelas apparentemente pacificate e non pacificate. È una politica genocida che viola sistematicamente i diritti dei residenti delle favelas e causa vittime, soprattutto tra i giovani neri. La persistenza di questo tipo di politica è legata ad aspetti più profondi della semplice “cultura della polizia”, così spesso citata come nuova nel progetto UPPs. Finché l’approccio alla sicurezza pubblica sarà strutturalmente legato al lucroso mercato illegale di armi e droga e alla corruzione di agenti statali, ogni presunta “pacificazione” non significherà altro che un “caveirão” vestito di bianco».

E probabilmente era proprio un’auto blindata in uso alla Polizia militare dello stato di Rio (Pmer) quella usata dai sicari che hanno ucciso Marielle, il frutto migliore della favela.

Marielle si oppose con forza anche alla strategia che soggiaceva alla Coppa del Mondo di Calcio nel 2014 e i Giochi Olimpici del 2016, che si sarebbe svolti proprio a Rio de Janeiro. L’amministrazione pubblica della città volle cogliere l’occasione per presentare al mondo una Rio de Janeiro carnevalesca, senza poveri, senza afrodiscendenti, senza criminalità. La narrazione che si voleva offrire prevedeva una “pulizia sociale” senza precedenti e una militarizzazione delle favelas. Marielle fu sempre in prima fila nel denunciare gli abusi e i crimini commessi sull’altare della “presentabilità internazionale” arrivando ad accusare pubblicamente la polizia per i crimini commessi nella favela, esponendosi contro le operazioni belliche delle forze speciali nei quartieri più emarginati della città. La narrativa di Franco si opponeva alla trasformazione di Rio de Janeiro in un laboratorio del paradigma bellico per la “gestione” della questione criminale. Un paradigma che criminalizzava la povertà, fomentando l’aporofobia (il muro di paura dei poveri che il capitalismo erige per rifiutarli), assimilando il traffico di droga ai quartieri poveri e proponendo delle vere e proprie politiche di sterminio all’interno delle favelas. Da un lato i ricchi (bianchi) che denunciavano l’insicurezza di una città nella quale non potevano “fare la vita da ricchi” e dall’altro una maggioranza delle popolazioni, vittima di discriminazioni intersezionali che vedeva limitate le libertà di movimento, di espressione, di assembramento e manifestazione. Insomma, un progetto di annichilamento di quella parte delle città che Marielle Franco rappresentava ma che non si addiceva al biglietto da visita che l’oligarchia cittadina voleva offrire al mondo.

Murales che ritrae Marielle Franco nella favela Tavares Bastos di Rio de Janeiro – foto di Diego Battistessa

Forte delle sue idee e di una maturità politica data da più di 15 anni di militanza, Marielle decise di lanciarsi “nell’arena” e candidarsi al ruolo di consigliera nell’Assemblea Legislativa di Rio de Janeiro nella coalizione “Cambiar es posible” (Cambiare è possibile) formata dal Psol e dal Partito Comunista Brasiliano (Pcb). La campagna elettorale si svolse tra il 5 e il 21 agosto 2016, simultaneamente ai Giochi Olimpici e Marielle non risparmiò energie nel presentare e raccontare il suo programma, anche al sud, nella zona conosciuta per essere la più ricca della città. Fu un plebiscito. Il 30 di ottobre 2016 Marielle Franco ottenne 46.502 voti, risultando il quinto candidato più votato.

A Marielle è dedicato oggi un progetto che non può essere dimenticato ne marginalizzato quando si parla di favelas: mi riferisco al portale Wikifavela, un dizionario virtuale che combatte la discriminazione in Brasile. Proprio dal sito, disponibile in portoghese, inglese e spagnolo, possiamo leggere che:

«Il Dizionario della Favela è una piattaforma virtuale ad accesso pubblico per la produzione e la diffusione della conoscenza delle favelas e delle loro periferie. Mira a stimolare e consentire la raccolta e la costruzione delle conoscenze esistenti sulle favelas, collegando una rete di partner nelle università e nelle istituzioni e collettivi esistenti in questi territori. Il Dizionario Favela continua la lotta della consigliera comunale di Rio de Janeiro Marielle Franco e di molti altri leader della comunità contro il pregiudizio e l’esclusione, costruendo una società più giusta ed egualitaria».

Il fiorire delle (R)esistenze: Stop the Wall

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La favela e le persone afrodiscendenti

Un Brasile che viaggiava dunque a due velocità e che negli anni Settanta, con la dittatura militare, inaugurò un progetto politico di sradicamento della favela: furono cacciati fisicamente dalle loro case centinaia di migliaia di residenti. Durante l’amministrazione di Carlos Lacerda, molti furono trasferiti in progetti di edilizia popolare come Cidade de Deus [Città di Dio], luogo reso famoso internazionalmente dal capolavoro letterario di Paulo Lins. Lo scrittore abitava nella favela Ciudade de Deus a Rio de Janeiro e nel 1995 pubblicò il libro omonimo: un romanzo sociologico che racconta la vita di bambini e giovani trafficanti, assassini e tossicodipendenti nella favela che lui conosceva molto bene. Nel 2002, il regista Fernando Meirelles decise di portare il racconto di Lins sul grande schermo, realizzando un film che ha ricevuto quattro nomination all’Oscar e una nomination al Golden Globe.

Negli anni Ottanta si assistette invece allo scoppio della violenza associata al fiorente commercio di droga, che aveva fatto diventare città come Rio de Janeiro, degli snodi logistici molto importanti per i carichi di cocaina destinati all’Europa. Le favelas, luoghi nei quali lo stato non esisteva, si riempirono di armi e lo spazio lasciato vuoto dalle istituzioni venne presto riempito da gruppi criminali. Da quel momento in poi gli scontri tra le forze dell’ordine e le bande criminali che controllano le favelas (a Rio de Janeiro esistono per esempio circa 800 favelas che ospitano circa 1,5 milioni di persone) sono diventati una routine quotidiana; una routine che vede i favelados, a maggioranza afrodiscendenti, stretti in una morsa di violenza senza facile uscita. Anche qui il cinema ci viene in aiuto fornendoci attraverso l’acclamato Truppa d’Elite del 2007 (del regista José Padilha) gli elementi per comprendere il contesto dello scontro, la corruzione, la violenza e l’ingiustizia vissuta nelle favelas. Quanto narrato da Truppa d’Elite però non è figlio della fantasia del regista ma risponde a un razzismo istituzionale e strutturale di un paese dove le persone afrodiscendenti costituiscono poco più del 50% della popolazione ma rappresentano oltre il 75% delle vittime della polizia. Afrodiscendente, tra i 18 e i 30 anni e residente in una favela: questo è il profilo che ha una probabilità tre volte maggiore di morire in un’operazione di polizia in Brasile. Dati lapidari offerti dall’ong Forum Brasiliana di Sicurezza Pubblica che tracciano una chiara sovrarappresentazione delle persone afrodiscendenti nelle operazioni letali della polizia. Parlando di giovani poi, il report “Atlas della Violencia 2021” redatto dalla stessa organizzazione, dettaglia che tra il 2016 e il 2020 sono state registrate 34.918 morti violente di minori di 19 anni. Di quel totale, più di 31.000 erano adolescenti di età compresa tra 15 e 19 anni, inclusi 25.592 (80%) giovani afrodiscendenti (10% del totale durante un intervento della polizia). Per capire questi dati è importante ricordare che la popolazione afrodiscendente in Brasile rappresenta il 53% dei 212 milioni di abitanti. Nell’ultimo paese del continente Americano ad abolire la schiavitù, la comunità afrodiscendente rappresenta dunque più della metà della popolazione, ma è anche quella che muore di più, guadagna di meno e soffre maggiormente la precarietà economica e abitativa. Ben 134 anni dopo la Lei Áurea, la strada per la costruzione di uno spazio identitario scevro di sottomissione e di una cittadinanza piena, reale, fatta di uguaglianza e dignità è ancora un traguardo lontano per la popolazione afrodiscendente del Brasile.

Favela non vuol dire Rio de Janeiro

Uno dei luoghi comuni dai quali è necessario uscire è quello che vede il binomio Favela – Rio de Janeiro. In tutto il Brasile, circa 11,4 milioni di abitanti vivono in quartieri a basso reddito che l’istituto nazionale di statistica classifica come agglomerati subnormali e di cui, secondo l’ultimo censimento, il 40 per cento si trova negli stati di São Paulo e Rio de Janeiro. In questo senso il dettagliato studio realizzato da Juan Peréz Ventura nel 2013, dal titolo Los problemas socioeconómicos de las ciudades globales del Sur. Estudio de caso: Río de Janeiro ci offre molti spunti di riflessione. Nonostante si tratti di un documento che sta per compiere 10 anni, le tendenze indicate nello stesso, così come gli elementi di proporzionalità, offrono chiavi di lettura attuali ed esplicative.

Alcuni numeri

Dalla tabella 1 possiamo trarre delle considerazioni importanti. Vediamo per esempio che più del 14% della popolazione di Rio de Janeiro viveva nelle favelas ma che è São Paulo la città che concentrava più popolazione favelada. Le percentuali di São Paulo e Rio de Janeiro sono drammatiche ma sono molto basse rispetto ai dati di altre città brasiliane: eclatante era la situazione di Belém (stato di Pará) una città di 2,1 milioni di abitanti in cui il 54% della popolazione viveva nelle favelas.

Mapa de Caracterização do Complexo Fazenda Coqueiro

Mapa de Caracterização do Complexo Fazenda Coqueiro

Le favelas in Brasile, possono essere caratterizzate con ordini di grandezza diversi a seconda per esempio della densità demografica o dello sviluppo urbano delle stesse: in estensione verticale sulle colline (come quella di Vidigal a Rio de Janeiro) o in estensione orizzontale (come Cidade de Deus a Rio de Janeiro o Paraisópolis a São Paulo, in modo paradossale perché a ridosso di un’estensione verticale di un grattacielo di lusso al di là del muro).
Parlando di Rio de Janeiro scopriamo (Tabella 2) che esistono favelas che addirittura superano il chilometro quadrato di estensione, come quella chiamata Fazenda Coqueiro.

Il punto demografico è invece molto difficile da dirimere. La particolare situazione di vulnerabilità e precarietà ha un effetto al rialzo sul tasso di natalità nelle favelas ma non tutti i nuovi nati vengono registrati e censiti. A questo si aggiungono anche i processi di migrazione interna costante e di mancanza o perdita di documenti di residenza. Questi elementi creano una dissonanza tra i dati statistici disponibili e le cifre che vengono stimate. In questo senso vediamo come Heliópolis (città del sole) risulti essere la favela più grande di São Paulo per popolazione stimata, circa 125.000 persone, ma la seconda per estensione, dietro a Paraisópolis (città paradiso) che si estende per quasi 800.000 metri quadrati. Heliópolis, fondata nel 1970 e composta da 14 agglomerati, è stata considerata per molto tempo come la favela più grande del Brasile ma nel 2006 ha acqusito la denominazione amminstrativa di quartiere, cambiando nome in Cidade Nova Heliópolis e iniziando un veloce processo di urbanizzazione.

Oggi dunque la piú grande favela di São Paulo per estensione è Paraisópolis, zona Sud della città, distretto di Vila Andrade. In questa comunità, secondo il censimento del 2010, gli abitanti erano circa 43.000 ma le stime di oggi parlano di almeno 100.000 persone. Paraisópolis nacque nel 1921 dalla divisione della Fazenda do Morumbi en 2200 lotti di 10×50 metri ciascuno (la comunità ha celebrato a settembre dell’anno scorso il centenario), lontana dalla città e da quel fiorire della modernità urbana che avvolgeva la dinamica São Paulo. La sua popolazione iniziò ad aumentare nel pieno della Seconda guerra mondiale e aumentò ulteriormente con l’arrivo dei lavoratori per la costruzione del vicino Stadio Morumbi. Oggi quest’area di quasi 1 chilometro quadrato, popolata da case in mattoni a vista e attraversata da vicoli stretti e disordinati, si trova nel cuore di São Paulo, inghiottita dall’espansione urbana della città. Nell’area i servizi continuano però a essere pochi e scostanti: se da un lato la maggior parte delle strade è ora asfaltata e c’è una decente connessione a Internet, dall’altro alcuni settori non hanno fognature o codici postali. Sempre a Paraisópolis è da segnalare un’importante iniziativa sociale ideate nel 2016 e concretizzatasi nel 2018: la Banca Comunitaria di Paraisópolis. Si tratta di un progetto pensato e creato dall’associazione degli abitanti e dei commercianti della favela (ci sono nella favela circa 8000 piccoli commerci) che conta con una propria valuta chiamata Nova Paraisópolis e che è gestita dalle persone della comunità. Un istituto finanziario con sede nella favela e che vuole offrire un servizio integrale e accessibile alle persone in situazione di vulnerabilità: conti correnti, carte di debito, microcredito e prestiti, nonché assicurazioni sulla vita e sulla salute.

Quello della Banca Comunitaria di Paraisópolis non è però un caso isolato. Joana Oliveria, in un articolo del 2018 per l’agenzia di stampa turca “Anadolu”, intervistando Joaquim de Melo Neto (uno dei fondatori della Banca Palmas) raccontava che:

«Secondo la Rete brasiliana delle Banche Comunitarie, sono 103 gli istituti di questo tipo nel paese, che tra il 2016 e il 2017 hanno movimentato 40 milioni di reais (circa 12 milioni di dollari). La storia di queste istituzioni inizia nel 1998, con la creazione del Banco Palmas nella favela Palmeiras, a Fortaleza, capitale della regione nordorientale del Brasile.
“Abbiamo iniziato a chiederci perché eravamo poveri e ci siamo resi conto che le persone spendevano i loro soldi fuori dalla comunità, senza generare reddito o occupazione per noi stessi. Ecco perché, con 2000 Brl prestati da una ong, abbiamo costituito la banca per aiutare i commercianti di Palmeiras”, ricorda Joaquim de Melo Neto, uno dei fondatori del Banco Palmas.
Quando l’istituto ha creato la propria valuta, stampata su carta comune e che ancora circola nella comunità, la Banca Centrale del Brasile ha intentato una causa contro i residenti, accusandoli di contraffazione di denaro. L’entità ha inviato loro una lettera per mettere in dubbio la legittimità della banca…
… Il Banco Palmas ha vinto il processo nel 2005 e la Banca Centrale è stata costretta a riconoscere che le istituzioni finanziarie comunitarie possono esistere. Grazie a questa decisione, le entità finanziarie di natura sociale sono sotto l’egida del Segretariato dell’Economia Solidale, del Ministero del Lavoro brasiliano».

Razzializzazione nell’urbanistica della povertà

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]]> 3. Favelas nelle città: Brasilia https://ogzero.org/studium/3-favelas-nelle-citta-brasilia/ Sun, 15 May 2022 14:42:25 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7511 L'articolo 3. Favelas nelle città: Brasilia proviene da OGzero.

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La nuova capitale: Brasilia

São Paulo nella prima metà del Ventesimo secolo era dunque in crescita, trasformandosi in un polo industriale e commericiale, mentre Rio de Janeiro (nella quale nel frattempo era stata inaugurata nel 1931 la statua del Cristo Redentore simbolo della città) stentava a decollare. Come abbiamo visto in precedenza, le opportunità di lavoro offerte dalla capitale e il sogno di una vita “urbana”, avevano svuotato le campagne segnando un esodo verso Rio de Janeiro che si consumò principalmente negli anni Quaranta e Cinquanta. Su questi migranti stava però per abbattersi una nuova grande “disgrazia” economica, manifestatasi sotto il nome di Brasilia. Progettata infatti come una metropoli futuristica nel mezzo della pianura dello stato del Goiás, Brasilia fu inaugurata il 21 aprile 1960 dall’allora presidente Juscelino Kubitschek, il cui governo si dedicò dal 1956 al progetto di spostare la capitale da Rio de Janeiro al sito in cui si trova ancora oggi. Il trasferimento della capitale del Brasile da Rio de Janeiro a Brasilia segnò un lento ma costante declino per la prima, poiché l’industria e le opportunità di lavoro iniziarono a prosciugarsi. Questo condannò alla povertà decine di famiglie di migranti che incapaci di trovare lavoro, e di conseguenza di pagare un alloggio dentro i confini della città, furono costretti ad andare a vivere nelle favelas.

Brasilia e la sua architettura non possono essere comprese senza conoscere Oscar Niemeyer (1907-2012), il geniale architetto che progettò la nuova capitale del Brasile. Niemeyer è stato anche il principale responsabile di molti edifici pubblici iconici di quella città, come il Congresso Nazionale del Brasile, la Cattedrale di Brasilia, il Palazzo di Planalto e il Palazzo di Alvorada. È stato anche uno dei principali responsabili del team che ha progettato il quartier generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite a New York e tornando a São Paulo, suo anche il Memoriale dell’America Latina soprattutto impossibile non citare l’edificio simbolo della città, anch’esso figlio del suo estro visionario: l’edificio Copan.

Oscar Niemeyer, che ha collaborato per anni con Le Corbusier, ha “giocato” con il cemento armato, esplorando le sue possibilità costruttive ed espressive, ricercando curve sensuali e lottando continuamente con la linea retta. Uno “scultore di edifici” che in questo senso ricorda un altro poliedrico artista latinoamericano: l’uruguaiano Carlos Páez Vilaró e la sua Casapueblo, ubicada en Punta Ballena, a 13 km da Punta del Este.

Elementi “scomodi” nel nuovo e moderno Brasile…

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]]> 2. Favelas nelle città: São Paulo https://ogzero.org/studium/2-favelas-nelle-citta-sao-paulo/ Sun, 15 May 2022 14:40:14 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7497 L'articolo 2. Favelas nelle città: São Paulo proviene da OGzero.

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Nel frattempo a São Paulo…

Facciamo però un piccolo passo indietro e spostiamoci da Rio de Janeiro a São Paulo. Abbiamo già detto che il 13 maggio 1888 la Lei Áurea pose fine alla schiavitù ma quello che non abbiamo detto è che il novembre dell’anno successivo, il 1889, sancì la fine dell’impero brasiliano. Il 15 novembre 1889 infatti un colpo di stato militare guidato dal maresciallo Manuel Deodoro da Fonseca poneva la parola fine all’impero creato nel 1822 e, dopo l’abdicazione dell’imperatore Pedro II e la sua partenza per l’esilio, proclamava la repubblica federale. Si inaugura in quel momento un periodo storico che prende oggi il nome di República Velha (Vecchia Repubblica) e che durerà fino alla rivoluzione brasiliana del 1930.

Questo contesto storico è molto importante per capire come São Paulo assunse di fatto le redini economiche del paese. Con la promulgazione della Repubblica il Brasile infatti cambiò la forma di governo, ma ben pochi furono i cambiamenti concreti per la grande massa della popolazione: il potere continuò a essere nelle mani dei proprietari di latifondi, l’economia era ancora basata sull’esportazione di materie prime (come il caffè) e la corruzione tra la dirigenza politica divenne comune. Lo stato di São Paulo emerse come il vero centro di potere del paese, così come la sua omonima capitale, e le elite del caffè imposero la loro agenda politica a tutto il Brasile. Fino al 1930 infatti il potere politico brasiliano venne enormemente influenzato dall’oligarchia finanziaria e commerciale dello stato di São Paulo e dello stato di Minas Gerais. São Paulo era una regione specializzata nella produzione massiccia di caffè per il mercato mondiale dell’esportazione: regione sviluppata fin dalla seconda metà del Diciannovesimo secolo grazie alle linee ferroviarie che collegavano l’interno dello stato (terra di fazendas e latifondisti) con il porto di Santos. Dall’altro lato il prodotto che sosteneva la ricchezza del Minas Gerais era il bestiame, per la produzione del latte e dei suoi derivati. Non a caso quel periodo storico prende il nome di Café com leite.

In poco più di 40 anni dunque São Paulo riuscì a trarre enorme benificio dalla nuova situazione politico-economica, realizzando una crescita economica e demografica senza precedenti che cambiò completamente il volto alla città e i suoi equilibri. La nuova Estação da Luz (Stazione della Luce, oggi centro nevralgico della prostituzione) del 1901, rimordenata sullo scheletro di quella già costruita nel 1867, rappresenta il simbolo di questo “cambio di pelle” che separa definitivamente il centro finanziario della città (spostandolo verso Ovest) dal suo centro storico, denominato anche regione del “Triangolo Storico”. È un periodo di grande fermento urbanistico che vede tra i grandi protagonisti gli amministratori João Teodoro e Antônio Prado. I cambiamenti della città sono così sostanziali e radicali che alcuni studiosi ritengono che praticamente l’intera São Paulo sia stata demolita e ricostruita.

La rivoluzione del 1930 e l’arrivo al potere di Getulio Vargas cambieranno gli equilibri politici del Brasile e porrano fine alle ampie autonomie che godevano regioni come quella paulista. Lo stato di São Paulo sarà poi anche protagonista di una guerra civile tra il luglio e ottobre 1932, passata alla storia come Revolución Constitucionalista, Guerra Paulista o Guerra Civil Brasileña. L’obiettivo degli insorti era rovesciare il governo provvisorio di Vargas e porre fine alla rivoluzione: rivoluzione che aveva spodestato il presidente uscente orginario di São Paulo, Washington Luís, e impedito a Júlio Prestes de Albuquerqu (anche lui paulista) di assumere la nuova presidenza.

La sconfitta delle elite pauliste a livello nazionale non portò però a uno stop di quell’impulso che trasformò completamente il volto urbano di São Paulo, coprendo i terreni delle vecchie fazendas con nuovi e moderni quartieri e proiettandosi verso un grande salto industriale che si sarebbe pienamente compiuto durante la Seconda guerra mondiale. São Paulo aveva già iniziato dunque quel cammino che l’ha portata oggi a essere la città più popolosa del Brasile e suo vero centro economico e finanziario.

Come esempio di ciò, da un articolo pubblicato dalla sezione El Pais in portoghese, possiamo leggere di come negli stessi anni in cui a Rio de Janeiro, l’amministrazione pubblica istituzionalizzava le favelas, a São Paulo entrava in scena il futuro, sotto forma di un edificio oggi iconico e nel quale ho avuto il privilegio di vivere per qualche mese: sto parlando dell’edificio Esther, progettato da Álvaro Vital Brazil e Adhemar Marinho.

«Inaugurato nel 1938, l’Esther fu il primo edificio modernista costruito a São Paulo, presagio dei nuovi edifici che sarebbero apparsi nel centro della città, come il Copan e l’Eiffel, entrambi progettati da Oscar Niemeyer. Installato in Avenida Ipiranga, di fronte a Praça da República, l’idea, fin dall’inizio, era che fosse autosufficiente, con negozi e appartamenti che abitassero lo stesso spazio, ma allo stesso tempo abbracciando la strada, offrendo libertà di movimento a qualsiasi passante. A quell’epoca deve essere stato visto come il futuro inevitabile della città in più rapida crescita dell’America Latina…»

L’edificio Esther però sarebbe stato solo uno dei numerosi prodigi dell’architettura che già arricchivano la città o di che di lì a poco ne avrebbero plasmato lo Skyline. Tra questi meritano una menzione speciale l’Edificio Sampaio Moreira, disegnato in stile Beaux-Arts dagli architetti Christiano Stockler e Samuel das Neves (inaugurato nel 1924, 12 paini e 50 metri d’altezza); l’Edificio Martinelli, il primo grattacielo brasiliano, situato nel centro storico della città (Rua São Bento 405, Avenida São João 35 e Rua Libero Badaró 504) e costruito dall’architetto italiano Giuseppe Martinelli a partire dal 1922, e terminato nel 1928 (28 piani ed è alto 105,7 metri d’altezza); l’Edificio Altino Arantes (inagurato nel 1947 e ispirato all’Empire State Building, 37 piani e 167 metri d’altezza); il Mirante do Vale (inaugurato nel 1960, 51 piani e 170 metri d’altezza); l’Edificio Italia (inaugurato nel 1965, 46 piani e 170 metri d’altezza); l’Edificio Copan, che ospita 1160 appartamenti e più di 70 locali commerciali, considerata la più grande struttura in cemento armato del Brasile e il più grande edificio residenziale dell’America Latina (inaugurato nel 1966, 38 piani e 118 metri d’altezza).

São Paulo è la terza città del mondo per numero di edifici con più di 35 metri di altezza (o 12 piani): 5180. Davanti a lei solo i 5633 eretti a Hong Kong e New York con i suoi 7687 (fonte Emporis Skyline Ranking).

La nuova capitale: Brasilia

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]]> 1. Favelas nelle città: Rio de Janeiro https://ogzero.org/studium/1-favelas-nelle-citta-rio-de-janeiro/ Sun, 15 May 2022 14:38:23 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7473 L'articolo 1. Favelas nelle città: Rio de Janeiro proviene da OGzero.

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La nascita della Favela a Rio de Janeiro

Favela: una parola brasiliana che oramai è entrata nel nostro lessico e nell’immaginario collettivo. Sei lettere che descrivono un luogo che abita una dimensione marginale, periferica e volontariamente dimenticata dallo stato. Favelado/a colui o colei che è costretto a una (non) vita nella favela.
Pochi sanno che favela è il nome dato in Brasile a una pianta endemica del Brasile (cnidoscolus quercifolius) e che la diffusione di questo termine in ambito urbano si relaziona con la Guerra de Canudos (1896-1897) che ebbe luogo nel sertão di Bahia. La città di Canudos, scenario dello scontro politico-religioso, raccontato da Eculides da Cunha nel libro Os Sertões, si trovava in mezzo ad alcune colline. Tra queste vi era il Morro da Favela (Collina della Favela), così battezzato perché ricoperto dall’omonima pianta.

Dopo la guerra, una parte dei soldati reduci dal conflitto, fecero ritorno a Rio de Janeiro ma trovatisi senza stipendio decisero di stabilirsi dentro alloggi precari da loro costruiti nel Morro da Providência (Collina della Provvidenza). Data una certa similitudine tra lo scenario di questa nuova sistemazione e la Collina della Favela vista a Canudos, i soldati battezzarono il nuovo insediamento come Morro da Favela. È da quel momento che gli agglomerati di alloggi e case di fortuna, dove risiedono persone con un basso (o quasi nullo) potere d’acquisto, passarono a essere chiamati Favelas.

Questi agglomerati però già esistevano ed erano cominciati a sorgere, sempre più numerosi dopo la Lei Áurea, ufficialmente Legge n. 3353 del 13 maggio 1888: la legge che estinse la schiavitù in Brasile. In quegli anni, molte persone sollevate dal peso della schiavitù ma non da quello della miseria, lasciarono le piantagioni cercando fortuna a Rio de Janeiro ma, non potendosi permettere un alloggio urbano, vennero allontanati dal centro della città e costretti a vivere nei sobborghi più lontani: zone che a volte prendevano il nome di bairros africanos (quartieri africani). Legalmente però è solo nel 1937 con la promulgazione del Código de Obras (Codice dell’Edilizia) quando per la prima volta lo stato brasiliano riconosce l’esistenza di questi agglomerati e decide di regolamentare al riguardo.

In questo senso, Licia Valladares ci spiega che:

«Sia la scoperta della favela così come la sua trasformazione in problema, risalgono all’inizio del secolo. Agli scritti dei giornalisti si unisce la voce di medici e ingegneri, preoccupati per il futuro della città e della sua popolazione. Sorge così un dibattito su cosa fare con la favela, e già negli anni Venti si assiste alla prima grande campagna contro questa “lebbra dell’estetica”. Nel 1930 il piano urbanistico del francese Alfred Agache, rivolto alla rimodellazione e imbellimento di Rio de Janeiro, denuncia il pericolo rappresentato dalla permanenza della favela. Nel 1937 il Codice dell’Edilizia vieta la creazione di nuove favelas, ma per la prima volta riconosce la loro esistenza, preparando un piano per gestire quelle già esistenti e controllarne la loro crescita» (Licia Valladares, A gênese da favela carioca: a produção anterior às ciências sociais, “Revista Brasileira de Ciências Sociais”, São Paulo, v. 15, n. 44, p. 5-34, out. 2000, grifos da autora, p.12).

Sempre Valladares racconta che nonostante il riconoscimento dell’esistenza della favela e delle pessime condizioni di vita dei suoi abitanti, ben poco venne fatto al riguardo. In generale la favela venne vista e percepita come un problema e come tale venne gestita, partendo appunto dalla svolta amministrativa del 1937. Il primo grande cambiamento avvenne solo nel 1942, quando l’allora sindaco Henrique Dodsworth lanciò il suo Programa de Parques Proletários (Programma dei parchi proletari).

Per scoprire il concetto e l’implementazione del Programma di Dodsworth (con elementi che rimandano al piano urbanistico di Agache), possiamo rifarci a quanto scritto da Rute Imanishi Rodrigues.

«Il programma dei Parchi Proletari Provvisori, elaborato all’inizio degli anni Quaranta, è stato presentato come lo schema di un piano d’azione del governo per le favelas di Rio de Janeiro. Il programma proponeva il trasferimento dei residenti della favela in alloggi temporanei nelle aree circostanti, mentre sarebbero stati costruiti alloggi permanenti, preferibilmente nelle periferie della città, utilizzando terreni demaniali. Il programma aveva anche una forte componente di controllo sociale, analizzata da alcuni autori nel contesto populista e autoritario dell’Estado Novo […]. Secondo Parisse […], per tutti gli anni Quaranta e Cinquanta, tutte le amministrazioni locali suggerirono proposte già delineate nel Programma dei Parchi Proletari provvisori per affrontare il “problema delle favelas”» (Rute Imanishi Rodrigues, Os Parques Proletários e os subúrbios do Rio de Janeiro: aspectos da política governamental para as favelas entre as décadas de 1930 e 1960. Brasília; Rio de Janeiro: IPEA, 2016, grifo da autora, pp.8-9).

Sempre Imanishi Rodrigues specifica che con quest’azione il governo locale, mirava a rimuovere le favelas da terreni “di alto valore”, o aree che sarebbero state oggetto di riforme urbane (come per esempio lavori stradali), riallocando le persone su terreni demaniali dove sarebbero stati costruiti alloggi provvisori. Seguendo questo schema, i primi insediamenti creati sotto il nome di Parchi Proletari Provvisori risalgono all’inizio degli anni Quaranta nelle località di Gávea, Leblon (Praia do Pinto) e Caju. Il “provvisorio” però è scomparso con gli anni e queste nuove “riallocazioni” sono diventate permanenti.

«Nel 1941, l’allora sindaco Henrique Dodsworth ufficializzò il piano d’azione per le favelas creando una Commissione Favelas, che avrebbe avviato la costruzione di Parchi Proletari Provvisori. La prima azione del programma fu la rimozione di alcune favelas sulle rive della Lagoa Rodrigo de Freitas, dove, secondo Moura […], “la proliferazione di tuguri è sempre più accentuata, creando un contrasto scioccante con i quartieri più nuovi ed eleganti della citta”. Il sindaco della città ha anche partecipato all’inizio della distruzione della favela di Largo da Memória e i suoi residenti sono stati trasferiti al Parco Proletario Provvisorio numero 1» (Imanishi Rodrigues, 2017, p.18).

E ancora:

«Oltre al Parco Proletario Provvisorio numero 1, a Gávea, la città costruì altri due parchi: il Parco numero 2, a Caju, e il Parco numero 3, a Leblon (vicino alla favela Praia do Pinto), tra il 1941 e il 1943…» (Imanishi Rodrigues, 2017, pag.18).

Proprio in quegli anni però la spinta all’industrializzazione data dalla dittatura (1937-1946: la Terza Repubblica fu detta Estado Novo) del nazionalista anticomunista Getúlio Vargas trascinò centinaia di migliaia di migranti nell’ex Distretto Federale all’interno del disegno del Estado Novo, creando un’esplosione delle baraccopoli, il cui nome instituzionale era ormai diventato favelas. L’espansione delle favelas continuò anche negli anni Cinquanta, quando si registrarono flussi migratori massivi dalle campagne alle città in tutto il Brasile da parte di coloro che speravano di sfruttare le opportunità economiche fornite dalla vita urbana. A Rio de Janeiro, allora ancora capitale del Brasile, questa espansione portò a una crescita esponenziale delle favelas, in quantità e dimensione, e presto le baraccopoli si espansero oltre l’area urbana della città fino nella periferia metropolitana. Nonostante la loro vicinanza alla città di Rio de Janeiro, la città non estese servizi igienici, elettricità o altri servizi alle favelas e presto questi luoghi divennero dei “non luoghi” dimenticati dallo stato.

Nel frattempo a São Paulo…

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]]> Le città visibili https://ogzero.org/studium/le-citta-visibili/ Fri, 29 Apr 2022 16:47:51 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7172 L'articolo Le città visibili proviene da OGzero.

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OGzero nelle città

È possibile individuare un genius loci che rappresenti una costante nel tempo e negli spazi urbani utilizzati? Nella collana “Le città visibili”, sì.

Città rese visibili attraverso la narrazione dell’esperienza personale degli autori, coadiuvati dalle voci dei testimoni e degli abitanti che forniranno un’interpretazione del territorio, della sua trasformazione e degli elementi alieni che proliferano tramite flussi di merci e di persone a provocare le contrazioni di spazi, come le loro estensioni, urbane e demografiche. Autori che esamineranno le strategie di conservazione monumentale e di “reinterpretazione delle rovine” viaggiando tra smart cities, improntate alla sicurezza digitale, che accentuano – costituendosi come ascensori e discensori sociali – la differenza nella struttura e nella mobilità urbana tra periferie e downtown. Esploreranno i luoghi di aggregazione attorno allo scambio di merci, come i mercati popolari e i centri della grande distribuzione, cercheranno di illustrare il cambio di destinazioni d’uso che prelude ai grandi progetti di infrastrutture e di conseguenza l’impatto sul tessuto urbano. Impossibile non collegare a tutto ciò i flussi migratori, con l’inclusione di nuovi arrivi e l’evoluzione della loro tipologia e l’eventuale marginalizzazione dei migranti – interni o esterni che siano; a cui si correlano anche l’esclusione di massa e lo svuotamento di aree, le ghost-town e i quartieri già progettati e costruiti come ghetti, o la gentrificazione causata da interessi immobiliari.
Gli autori di questa serie ci porteranno per mano nei loro luoghi del cuore, come guide capaci di farci sentire l’atmosfera delle città, permettendoci di intuirne realmente le attuali peculiarità senza dimenticare la Storia passata per quelle strade.

Clicca qui sotto sul nome della città per approfondire



Già Visibili in libreria


GERUSALEMME NAIROBI FREETOWN LUSAKA BANGKOK BRAZZAVILLE BOBO-DIOULASSO

In questa sezione venite indirizzati a materiali e indicazioni inerenti ai volumi già pubblicati nella collana dedicata alle città rese visibili attraverso la penna e gli occhi di autori che conoscono bene il genius loci di ciascuno di quei territori che han dato luogo a quella realtà urbana identificata dal nome della città in copertina.



Visibilità ancora in preparazione


ISTANBUL BEIRUT BUENOS AIRES BAMAKO PECHINO KIGALI PANAMÁ y COLÓN

La produzione di un libro proviene da un lungo percorso di individuazione della città che può suscitare interesse all’interno della collana, del suo potenziale autore e poi lo sviluppo del testo a seguito della raccolta degli argomenti e delle testimonianze, delle immagini e delle mappe da integrare. Ma anche del confronto e della elaborazione della sostanza che sta costituendo la base del futuro volume in via di realizzazione. Queste sono per ora le città su cui abbiamo cominciato a focalizzare la nostra attenzione e che sono già state affidate alla penna di esperti conoscitori di quelle comunità urbane.

Intanto traspaiono potenziali visibilità altrove…


Esistono poi situazioni urbanistiche e di agglomerazione umana particolarmente interessanti e che non riusciamo ancora a ricondurre a un formato editoriale di pubblicazione da proporre in libreria. Però assumono già una forma tale che… racchiudono già in embrione una… svolgono una narrazione riconducibile a… colgono una particolare situazione metropolitana che… riteniamo abbiano diritto a venire divulgate in questa sezione delle nostre proposte. Insomma finiscono con l’essere tutte collegate dal filo rosso della abitabilità di un territorio, dallo sviluppo della forma “città” e potrebbero contenere in sé un’idea che informa l’intera superficie metropolitana a cui ricondurre magari una nuova impresa libraria.

Per ora aggiungiamo queste suggestioni al dossier dedicato alle comunità urbane, come proposte di lettura collaterali ai volumi:

_ L’ultimo racconto di Diego Battistessa si dipana tra Savador de Bahia, Liverpool/Mancheser e prende spunto da Gorée/Saint-Louis. Il Triangolo del Mercantilismo

_ Avevamo cominciato con le favelas brasiliane. Il racconto di Diego Battistessa si dipana tra Rio de Janeiro, São Paulo e Brasilia

_ E proseguito con il 40ennale della costituzione di Yamoussoukro, la capitale della Costa d’Avorio, descritta da Angelo Ferrari e fortemente voluta da Boigny

400 anni di modello geopolitico schiavista

_ Per fondare un Capitalismo duraturo bisogna “scoprire” territori da “colonizzare” esterni al mondo regolato da diritti, i cui abitanti vanno deumanizzati per motivare la loro schiavizzazione.
E questo è stato perpetuato dal sistema negli ultimi secoli con poche varianti, dettate soprattutto dalle esigenze della tecnologia e dalle richieste di beni da depredare e di genti da sfruttare.

_ La terra dei caporali: dovunque lo schiavismo perpetua il suo orrore c’è un Eichmann che obbedisce?
Quando Diego ci ha proposto di analizzare questa triangolazione di porti nel colonialismo storico abbiamo pensato che poteva essere utile individuare in quali meccanismi il capitalismo si è andato perpetuando fin dalle sue basi date dall’allargamento dei potenziali mercati di merci e braccia con le scoperte geografiche della modernità (che non a caso viene datata da quel periodo di nuove tecnologie come la polvere da sparo, e le nuove rotte marittime più convenienti), adattandoli via-via alla “tecnologia” più attuale che sostiene la logistica da un lato – tracciando le rotte –, e quali organizzazioni possono sovrintendere all’approvvigionamento di manodopera schiavizzata nell’interno, che si avvale di percorsi paralleli o subalterni alle stesse vie battute da armi, droga, merci grezze dall’altro. Questi sono i meccanismi innaturali che tengono in piedi il capitalismo, senza i quali quel sistema energivoro e oligarchico non potrebbe reggersi. E l’operazione di Diego funge molto bene da memoria di quel che è stata la culla dell’attuale sfruttamento globale della migrazione, ma anche a rievocare quegli stessi meccanismi inventati con il mercantilismo e che regolano tutt’ora economia, politica e morale.
Ovviamente maggiore è l’investimento e la conseguente copertura degli stati-nazione, più ampi sono gli interessi e più si allarga il coinvolgimento finanziario, incontrastabile anche se nocivo quando la soglia del capitale profuso supera il livello di rischio di rientro qualora l’operazione fallisse: sia essa incentrata su estrazione, sfruttamento, riduzione in schiavitù, saccheggio e occupazione di territorio, ammantato da regole di controllo commerciale adattate agli stati più potenti. E tuttora diversamente – ma non meno ferocemente – coloniali, a cominciare dall’apartheid israeliano.

_ Saccheggio e debito infrastrutturale: le triangolazioni imperialiste descritte dal presidente del Burkina Faso Ibrahim Traoré sembrano – nel tentativo di collegarsi all’insegnamento anticoloniale di Sankara – ricalcare le stesse impronte triangolari su cui si fonda il capitalismo dal mercantilismo Secentesco in poi, che è l’argomento di questa serie di articoli di Diego Battistessa attorno a tre città: Salvador de Bahia, Gorée/Saint-Louis, Liverpool/Manchester.
La triangolazione si ripete identica con i medesimi meccanismi del mercantilismo emerso con la nascita dell’epoca industriale, perché il depauperamento dei territori di provenienza è prodotto dal saccheggio delle risorse da parte del capitalismo globale che attinge ai beni africani attraverso l’estrattivismo e impone infrastrutture che creano debito per paesi che sono così schiacciati dalla finanza mondiale; attraverso l’ipocrisia della Comunità europea che stanzia fondi contro la fame e poi sottrae ai pescatori proprio di Saint-Louis i prodotti dell’Oceano per farne mangimi per salmoni destinati a tavole non esattamente affamate (film di Francesco De Agustinis, Until the end of the world); lasciando “sgocciolare” soltanto la gestione della manodopera ai livelli inferiori di mera manovalanza mantenuta nella miseria e marginalità – e in alcuni casi nemmeno quella –, in modo da essere spinta a emigrare nella terra dei caporali dove il marchio “clandestino” cancella i diritti, riproponendo il modello dell’apartheid; e dovunque abbassa i livelli di contrattazione delle classi lavoratrici. Una migrazione gestita attraverso le organizzazioni di intermediazione che usano gommoni quando va bene, se non scafi assemblati con saldature di pezzi di acciaio, imbarcazioni assimilabili alle galere dello schiavismo seicentesco. Ma più pericolose.

_ Meglio le stive delle galere di quelle dei barconi? Una tratta gestita da scafisti africani, ma organizzata grazie alle leggi degli europei che realizzano le condizioni perché i padroni possano usufruire di manodopera schiava a basso o nullo costo, facendo finta di chiudere le frontiere per lasciar passare solo i sopravvissuti tra i disperati pronti a tutto e privi di diritti, senza documenti e quindi inesistenti come umani: non pesano in nessun bilancio di spesa e nella stessa condizione degli africani deportati in America sulle galere.

_ Capitali europei, merci esotiche… schiavi africani. Forse per seguire il bandolo storico della matassa ordita da Diego Battistessa si può partire da Liverpool, dove si sono stanziati i denari per armare i vascelli, usando i proventi derivanti dal commercio di schiavi – e, se ci si chiede ancora come sia stato possibile che una cultura come quella inglese (in grado di pensare di ripulirsi la coscienza riconoscendo in un museo le sue colpe, esibendole e così annientando nuovamente la cultura africana, collocata in bacheca e resa innocua) abbia potuto ordire una tratta così razzista, bastano le immagini di agosto 2024 che ritraggono i fanatici sovranisti britannici impegnati nel loro sport preferito, la caccia all’emigrato.


Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

Anche se, mettendo al centro la manovalanza, salpare da Gorée (o meglio Saint-Louis) è probabilmente il moto più immediato, perché viene umanamente spontaneo seguire il destino dei deportati africani.


Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

O piuttosto considerare centrale Bahia, dove si assorbiva la manodopera schiavizzata e si caricavano preziose merci per i porti occidentali… Liverpool/Manchester in testa, a chiudere il cerchio di The Birth of a Capitalism (per parafrasare il film di Griffith, forse il più nazionalista, e razzista, della storia del cinema).


Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda

Sta di fatto che l’importanza dei porti lievita con l’apertura di rotte commerciali globali che spostano sugli oceani gran parte del commercio dell’interno, che si configura come percorso per raggiungere il porto attrezzato più vicino e competitivo. Infatti questa triangolazione documentata da Diego Battistessa si inserisce in un sistema che creò molte altre triangolazioni e tutte si vanno conglobando all’interno di un unico sistema che sullo Schiavismo costituì (e continua a costituire) l’embrione dello sfruttamento globale chiamato Capitalismo.


Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda

Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

Le grandi capitali senza storia 

Capitali: sono le città che ospitano le sedi del governo di uno stato. Spesso sono rappresentative anche dello spirito del paese che le ospita, quando non capita è perché sono frutto di una operazione artificiale. Abbiamo già considerato l’atto di erigere capitali dal nulla, in particolare dando un quadro del sistema di potere militare birmano con la capitale Naypyidaw; oppure con la altrettanto spettacolare Brasilia –  comunque in questi 60 anni di “vita” maggiormente percorsa dalla Storia, non foss’altro perché il visionario che le ha insufflato lo spirito si chiamava Niemeyer.

Tutti esempi accomunati dalla pretesa di imporre una agglomerazione dove manca la comunità, tenuta insieme da cultura, storia, riconoscimento nazionale, riferimento amministrativo e commerciale, vie e snodo di traffici… tutte prerogative mancanti a Yamoussoukro

Tutto questo è sviluppato da Angelo Ferrari che coglie l’occasione del quarantesimo anniversario della hybris di Boigny, che volle far assurgere il suo villayet avito al rango di grande capitale. Ma ciò che non può vantare una grande tradizione, non è stata attraversata dalla storia o non può vantare grandi produzioni culturali è destinato a trasmettere un senso di vacuità, di artificioso e una freddezza che deriva dalla mancanza di sostrato culturale e di storie. Oltre che di Storia. Questa la descrizione di una capitale – Yamoussoukro – voluta dal dispotico padre della patria ivoriana.  


Yamoussoukro

Favelas nelle città

Favela: una parola brasiliana che oramai è entrata nel nostro lessico e nell’immaginario collettivo. Sei lettere che descrivono un luogo che abita una dimensione marginale, periferica e volontariamente dimenticata dallo stato. Favelado/a colui o colei che è costretto a una (non) vita nella favela.
La spinta all’industrializzazione dell’Estado Novo di Getúlio Vargas trascinò centinaia di migliaia di migranti nell’ex Distretto Federale all’interno del disegno del Estado Novo, creando un’esplosione delle baraccopoli, il cui nome istituzionale era ormai diventato favelas.

La sconfitta delle elite pauliste a livello nazionale con la dittatura di Getulio Vargas non portò però a uno stop di quell’impulso che trasformò completamente il volto urbano di São Paulo, coprendo i terreni delle vecchie fazendas con nuovi e moderni quartieri e proiettandosi verso un grande salto industriale che si sarebbe pienamente compiuto durante la Seconda guerra mondiale. São Paulo aveva già iniziato dunque quel cammino che l’ha portata oggi a essere la città più popolosa del Brasile e suo vero centro economico e finanziario. Negli stessi anni in cui a Rio de Janeiro, l’amministrazione pubblica istituzionalizzava le favelas, a São Paulo entrava in scena il futuro, sotto forma di un edificio oggi iconico, Esther…

Negli anni Quaranta su Rio si riversò un potente flusso migratorio. Su questi migranti stava però per abbattersi una nuova grande “disgrazia” economica, manifestatasi sotto il nome di Brasilia. Progettata infatti come una metropoli futuristica nel mezzo della pianura dello stato del Goiás, Brasilia fu inaugurata il 21 aprile 1960 dall’allora presidente Juscelino Kubitschek.

Un Brasile che viaggiava dunque a due velocità e che negli anni Settanta, con la dittatura militare, inaugurò un progetto politico di sradicamento della favela: furono cacciati fisicamente dalle loro case centinaia di migliaia di residenti. Durante l’amministrazione di Carlos Lacerda, molti furono trasferiti in progetti di edilizia popolare come Cidade de Deus.

Negli anni Ottanta si assistette invece allo scoppio della violenza associata al fiorente commercio di droga, che aveva fatto diventare le metropoli snodi logistici molto importanti per i carichi di cocaina destinati all’Europa. Le favelas, luoghi nei quali lo stato non esisteva, si riempirono di armi e lo spazio lasciato vuoto dalle istituzioni venne presto riempito da gruppi criminali.

Le favelas in Brasile, possono essere caratterizzate con ordini di grandezza diversi a seconda per esempio della densità demografica o dello sviluppo urbano delle stesse: in estensione verticale sulle colline (come quella di Vidigal a Rio de Janeiro) o in estensione orizzontale (come Cidade de Deus a Rio de Janeiro o Paraisópolis a São Paulo, in modo paradossale perché a ridosso di un’estensione verticale di un grattacielo di lusso al di là del muro – apparentando questo dossier con quello che OGzero va sviluppando sulle Barriere).

La tensione tra le due dimensioni abitative della città, quella delle favelas e quella “ordinata” del Brasile proiettato nel futuro, rimane alta. Un esempio di questo è il Parco Nazionale di Tijuca, situato nella zona Sud di Rio de Janeiro, considerato la più grande “foresta urbana” del mondo e dichiarata Riserva della Biosfera dall’Unesco nel 1991. L’integrità di quest’area è stata minacciata dall’avanzare degli insediamenti informali, che sono cresciuti esponenzialmente sulle pendici delle montagne e delle colline che formano il Parco Nazionale.

Il 19 novembre 2008 nella città di Rio de Janeiro venne installata la prima UPP – Unità di Polizia di Pacificazione, il germe di un nuovo paradigma di presenza militare del governo in aeree fino a quel momento completamente dimenticate. Da quella cultura repressiva sono usciti quelli che hanno ucciso Marielle Franco, filha da Maré (figlia carioca della favela Maré). Marielle come Carolina Maria de Jesús, voce afrobrasiliana delle favelas paulista che negli anni Sessanta prese letteralmente “a pugni” il Brasile e il mondo squarciando il velo che copriva le reali condizioni di vita dei favelados.

Tutto questo è sviluppato da Diego Battistessa in un flusso analitico e narrativo che abbiamo cadenzato nelle 6 pagine accessibili attraverso i pulsanti che trovate qui


RIO DE JANEIRO SÃO PAULO BRASILIA CIUDADE DE DEUS PARAISÓPOLIS ROCINHA MARÉ GÁVEA CANINDÉ RECIFE

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]]> Podcast Rebelde https://ogzero.org/podcast-rebelde-proiettili-fatti-di-parole/ Tue, 29 Mar 2022 20:34:57 +0000 https://ogzero.org/?p=6921 Complesse e uniche frequenze (r)esistenti Il podcast è diventato un nuovo linguaggio per raccontare l’America latina dall’America latina: un mercato comunicativo in costante crescita, che è stato favorito anche dal confinamento prodotto dalla pandemia. Una specie di nuovo adattamento delle radio comunitarie e dei tessuti di (r)esistenza che hanno giocato un ruolo chiave nel seminare […]

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Complesse e uniche frequenze (r)esistenti

Il podcast è diventato un nuovo linguaggio per raccontare l’America latina dall’America latina: un mercato comunicativo in costante crescita, che è stato favorito anche dal confinamento prodotto dalla pandemia. Una specie di nuovo adattamento delle radio comunitarie e dei tessuti di (r)esistenza che hanno giocato un ruolo chiave nel seminare coscienza, “rebeldia” e rivendicazione sociale tra i “nadie” di Eduardo Galeano.

L’originalità e la varietà di questi podcast riflette l’eterogeneità di una regione uguale e diversa, nella quale si vivono drammi comuni e trasversali ma anche lotte particolari e non riproducibili in altre latitudini. Una chiave di lettura per comprendere questa disarmonica e affascinante complessità regionale è stata offerta dallo scrittore e attivista uruguaiano Raúl Zibechi, in Movimientos sociales en América Latina. El “mundo otro” en movimiento (2017):

«… i movimenti sociali in Europa e Nord America si muovono in società relativamente omogenee in cui il controllo e lo sfruttamento del lavoro avviene essenzialmente attraverso il salario, e dove le relazioni sociali sono relativamente omogenee e quindi, la logica che governa l’insieme, governa anche le parti. Nel frattempo, in America Latina abbiamo cinque tipi di relazioni o modalità di controllo del lavoro: schiavitù, servitù personale, reciprocità, piccola produzione commerciale e salario. Siamo di fronte a quella che Anibal Quijano definisce “eterogeneità storico-strutturale” delle nostre società, in cui si mettono in moto relazioni sociali diverse. Quindi è più conveniente chiamare i nostri movimenti collettivi come “società in movimento” o, come essi stessi si autoidentificano: “popoli” o “nazioni” che lottano per la loro sovranità e autodeterminazione».

proiettili fatti di parole

I movimenti collettivi come “società in movimento” o, come essi stessi si autoidentificano: “popoli” o “nazioni” che lottano per la loro sovranità e autodeterminazione.

La controstoria diversamente “trasmessa”

Sono dunque, nella maggior parte dei casi, queste società in movimento, o chi ne rappresenta le lotte o rivendicazioni, a creare o protagonizzare questi podcast che dipingono una geografia della resistenza, della controstoria e della narrazione altra. Visto in questo modo, il podcast diventa un nuovo strumento di lotta che pervade le maglie di una società plurale che prova a resistere, secondo le parole di Zibechi a una «ricolonizzazione dei nostri territori e dei nostri popoli». L’uruguaiano infatti nel dipingere la situazione vissuta dalla regione nel periodo prepandemia scriveva:

«È importante evidenziare la nascita di nuovi movimenti, in quasi tutti i paesi che incarnano le oppressioni più pressanti, derivate dalla crescita esponenziale dell’estrattivismo predatorio, dei femminicidi e della violenza strutturale contro i poveri. L’attuale fase del capitalismo nel mondo (e nella nostra regione) è la più grande sfida affrontata dai settori popolari organizzati, poiché il sistema scommette sulla loro scomparsa come popoli, classi, etnie, razze, generi e generazioni. Non è un’esagerazione affermare che i poveri dell’America Latina stanno subendo un genocidio di tale intensità e portata come non si conosceva dai tempi del colonialismo. In questo senso, sia economicamente che politicamente, stiamo vivendo una sorta di ricolonizzazione dei nostri territori e dei nostri popoli».

Tutti i mondi nuovi compresi nel nuovo mondo web

In questa lotta per la sopravvivenza di quella speranza così ben plasmata dalle parole del sub-comandante Marcos «È necessario costruire un mondo nuovo. Un mondo nel quale possano convivere molti mondi, dove ci sia spazio per tutti i mondi», i podcast si trasformano in proiettili fatti di parole, in pillole di sensibilizzazione e risveglio che attraversano, grazie a internet, tutta la regione.

Il fatto poi che lo spagnolo sia una lingua veicolare per la maggior parte degli abitanti dell’America Latina, aumenta la capacità di diffusione dei contenuti in questa lingua, espandendo l’onda d’urto dei messaggi e delle storie in essi contenute. A questo contesto si aggiunge poi il Brasile, paese-continente nel quale si parla il portoghese e dove i podcast hanno trovato, anche qui, terreno fertile.

Historias que merecen ser escuchadas

In un contesto così dinamico e impermanente risulta estremamente difficile offrire una mappa completa dei podcast (ribelli, divulgativi o informativi) che nascono quotidianamente nella regione. Nonostante ciò, di seguito una breve lista di podcast (sia nazionali che regionali) che toccano tematiche legate ai diritti umani, all’emancipazione della donna, alle discriminazioni razziali, alle disuguaglianze economiche, ai diritti dei popoli indigeni, alle migrazioni, al collettivo lgbtiq+, alle persone con disabilità, al cambio climatico, all’impunità, alla violenza dello stato, alla difesa dell’ambiente e alla vita comune dei latinoamericani e delle latinoamericane.

Las historias de Radio Ambulante

Una delle piattaforme più famose e premiate è sicuramente Radio Ambulante, un progetto comunicativo che da quasi un decennio racconta storie di tutta l’America Latina: storie commoventi, divertenti e sorprendenti, che rivelano la diversità della regione in tutta la sua complessità. Radio Ambulante è distribuito da NPR, la radio pubblica statunitense e a oggi ha prodotto oltre 200 episodi in più di 20 paesi, dimostrandosi il progetto di giornalismo narrativo più ambizioso dell’America Latina. Racconta la vita latinoamericana con storie di amore e migrazioni, giovani e politica, ambiente e famiglie in circostanze straordinarie, offrendo un vero e proprio ritratto sonoro della regione. Nel 2020 Radio Ambulante si è evoluta in una società di produzione di podcast, lanciando El Hilo, un podcast di notizie settimanali presentato da Silvia Viñas e Eliezer Budasoff, con la direzione editoriale di Daniel Alarcón. El hilo approfondisce le notizie più importanti della settimana in America Latina, offrendo contesto e permettendo di andare oltre i titoli dei giornali.

El Collectivo La Brega

Da Portorico arriva invece La Brega, un progetto di WNYC Studios e Futuro Studios che hanno creato una serie di podcast per raccontare la peculiarità della vita portoricana. Disponibile in inglese e spagnolo e presentato da Alana Casanova-Burgess, La Brega è il risultato del lavoro di un collettivo di giornalisti, produttori, musicisti e artisti portoricani.

La Brega

Bregar: trabajar con entrega y luchar contra las dificultades.

Suena así en Mexico

Dal Messico arriva un esperimento molto interessante, che riunisce una dozzina di podcast con contenuti diversi tra loro: si tratta di Así como suena. Questa piattaforma si presenta così al pubblico: «storie di amore e odio, criminalità, politica, corruzione e quotidianità. Parliamo di persone e di personaggi. Il nostro team di giornalisti non rimane in superficie, scava in profondità. “Así Como Suena” offre brani sonori straordinari. Si tratta anche di discutere del paese e delle sue circostanze. Si tratta di ridere e scoprire musica che nemmeno immaginavamo esistesse. Si tratta di sapere cosa offre ogni notte la nostra città preferita. Chi di noi fa “Así Como Suena” scommette sul suono, sull’intimità che solo l’audio è in grado di creare. E ci piace quello che facciamo: lavoriamo per offrirti storie che meritano di essere ascoltate».

proiettili fatti di parole

En Así como suena contamos historias: historias de amor y de odio, de crimen, de política, de corrupción, de vida cotidiana. Nuestro extraordinario equipo de reporteros no se queda en la superficie, en la nota.

La narrativa indomable

In America centrale troviamo Indomables, una creazione delle giornaliste indipendenti Leila Nilipour y Melissa Pinel, che a ottobre 2018 hanno dato vita al primo podcast narrativo di saggistica a Panama. Il progetto è di grande qualità e fin dall’inizio ha avuto un enorme impatto sia a Panama che in America centrale: basti pensare che il primo episodio Si desaparezco, no me busquen ha ricevuto il Premio Nazionale per il Giornalismo Radiofonico.

Intervistate proprio all’inizio del 2022 dal giornale spagnolo “El Pais”, Nilipour e Pinel hanno confermato che stanno lavorando alla stagione 2022 del podcast e che l’idea è anche quella di raccontare almeno una storia da El Salvador e un’altra dal Costa Rica, dal momento che sono paesi centroamericani che non sono stati raccontati nelle stagioni anteriori.

Nessuna vergogna in Nicaragua

Dal Nicaragua, che in generale non sta certo affrontando il suo miglior momento riguardo alle libertà civili, troviamo il podcast Cuerpos sinvergüenzas (Corpi senza vergogna). Uno spazio radiofonico per condividere preoccupazioni, idee ed esperienze di coloro che sfidano coscientemente il bodyshaming e anche di coloro che lo soffrono e cercano aiuto. Uno spazio dove si parla di sessualità, delle identità maschili e femminili, delle lotte per l’uguaglianza, del desiderio di continuare a rendere il Nicaragua un paese migliore. Un obiettivo ambizioso che nasce dentro lo spazio del programma femminista La Corriente e che è gestito dagli stessi membri dell’organizzazione.

Cuerpos sinvergüenzas

Conversamos sobre los problemas que enfrentan niñas, niños y adolescencia en Nicaragua, particularmente en el actual escenario de crisis.

Il bisogno di informazione in Colombia

Passando all’America del Sud e parlando di Colombia, troviamo che uno dei podcast più famosi e ascoltati del paese è A Fondo Con María Jimena Duzán. Si tratta di uno spazio comunicativo giornalistico protagonizzato da María Jimena Duzán, una giornalista e politologa colombiana con una lunghissima traiettoria professionale e che è diventata una dei riferimenti dell’informazione in Colombia.

“Francia Márquez, attivista afrocolombiana epocale”.

Il movimento cileno diffonde la sua maturità in podcast

Spostandoci in Cile, scopriamo Las Raras Podcast. Uno spazio nel quale vengono raccontate storie di persone che infrangono le regole e combattono per il cambiamento sociale: storie di libertà. L’idea è quella di amplificare voci che non si trovano nei media tradizionali, unendo il personale al politico. Nel manifesto del podcat si legge: «Siamo in sintonia con i movimenti sociali. Siamo femministe. Trattiamo argomenti come l’ambiente, l’arte, la scienza, l’istruzione, il genere, l’amore, la famiglia, la maternità, la migrazione, i diritti umani e altro ancora».

… y el feminismo argentino tambien

In Argentina uno dei podcast più ascoltati nel paese è ConchaPodcast (Feminismo esplicito), con le voci di Laura Passalacqua, Dalia F. Walker e Jimena Outeiro che condividono con il pubblico discorsi femministi tra amiche.

Lusofonia

Dal Brasile e spostandoci quindi sul portoghese, possiamo trovare una vasta gamma di podcast. Qui segnalo per esempio il podcast PAMITÊ , una realizzazione dell’Istituto Maria da Penha che porta riflessioni su questioni di genere e diritti umani. Oppure Mulheres na Comunicação un podcast che mira a diffondere e promuovere la comunicazione popolare, fatta dalle donne e basata sui diritti umani e sulle questioni di genere.

Altro podcast di voci (in spagnolo) dall’America Latina è ProComuNicando Ciberfeminismo, un podcast di Marta García Terán che nasce con l’obiettivo di essere un megafono per le voci e le riflessioni di donne che, in America Latina e Caraibi, promuovono azioni, spazi o iniziative cyberfemministe, o che mettono in relazione le tecnologie dell’informazione (Ict) e la comunicazione di genere .

Ma se non parlate spagnolo, portoghese o inglese non disperate. Dall’Italia e in italiano, meritano sicuramente una menzione Macondo, Café Frio e LatinoAmericando.

Il primo è un progetto che Federico Larsenn e Federico Nastasi, due giornalisti latinoamericani (per nascita o per scelta) hanno proposto nel 2021 sulla piattaforma di Treccani. Un percorso in dieci tappe che ha raccontato l’America Latina, smarcandosi da pregiudizi e stereotipi, e avvicinandosi, con serietà e precisione, a questo complessa regione. I due sono già pronti per la stagione 2022 per aiutarci di nuovo a mettere a fuoco un ritratto trasversale di questo subcontinente, alternando voci e protagonisti italiani e latinoamericani.

Il secondo è un progetto portato avanti da Ivanilde Carvalho e Francesco Guerra, nato dalla collaborazione del comitato Italiano Lula Livre e il blog “LatinoAmericando”. Un podcast che vuole offrire uno sguardo sulle principali notizie settimanali dall’America Latina con una speciale lente d’ingrandimento sul Brasile.

Il terzo è un progetto comunicativo all’insegna della cultura, informazione e musica latinoamericana condotto da Gustavo Claros. Uno spazio che nasce nel seno di Radio Cooperativa e che in formato podcast può essere ascoltato sulla principali piattaforme on demand.

proiettili fatti di parole

I podcast stanno cambiando il volto della regione latinoamericana, democratizzando la produzione di contenuti audio e facilitando l’accesso all’informazione anche da parte di chi non gode di una permanente connessione internet. Il fatto poi che possano essere ascoltati in differita e non in un orario specifico li rende più fruibili e la loro diffusione su diverse piattaforme ne aumenta anche l’impatto. Si tratta dunque di un fenomeno che continuerà a crescere, promosso anche da enti statali che sono interessati a intercettare questa nuova frontiera della comunicazione.

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Gli spartiacque delle comunità latinoamericane – 1 https://ogzero.org/gli-spartiacque-delle-comunita-latinoamericane-1/ Thu, 30 Dec 2021 17:22:22 +0000 https://ogzero.org/?p=5695 L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano. L’idea di usare i molti appuntamenti elettorali del 2021, in prosecuzione nel 2022, per incardinare in un unico flusso i rivolgimenti elettorali a consuntivo dell’anno che sta finendo e in continuità nella prospettiva […]

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L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano.

L’idea di usare i molti appuntamenti elettorali del 2021, in prosecuzione nel 2022, per incardinare in un unico flusso i rivolgimenti elettorali a consuntivo dell’anno che sta finendo e in continuità nella prospettiva dell’anno che verrà, è sorta dalla consueta attenta osservazione di Diego Battistessa sui fenomeni che avvengono nel continente. Abbiamo punteggiato questo rapido excursus individuando le tappe più significative con podcast sugli aspetti che lungo l’anno ci avevano incuriositi e che confermano le scelte di Diego per proporre un’analisi posta anche in dialettica con una parallela esposizione del punto di vista di Alfredo Somoza, focalizzata sull’individuazione delle due sinistre latinoamericane: quella populista-autoritaria e quella trasparente, popolare perché nata dalle pulsioni all’emancipazione dei popoli – anche e soprattutto latinos – e dai Movimenti di rivolta al neoliberismo, che sono al centro della critica all’involuzione del Capitalismo compresa in Siamo già oltre?


Il 2021 elettorale in America Latina e nei Caraibi:
un ritorno della regione a quale sinistra?

Con la vittoria di Gabriel Boric Font le elezioni presidenziali in Cile, la cui seconda tornata elettorale si è svolta il 19 dicembre scorso, chiudono un anno elettorale turbolento nella regione. Cerchiamo di fare il punto di quanto successo e di ciò che ci aspetta per il 2022 prossimo venturo.

L’anno che si sta per concludere è iniziato con un primo importante appuntamento con le elezioni presidenziali in Ecuador, celebratesi il 7 febbraio. L’uscente Lenin Moreno godeva del più basso consenso regionale e i suoi anni di governo si erano caratterizzati per un duro scontro con colui che fu il suo padrino politico: Rafael Correa (ex presidente ecuadoregno 2007-2017). A disputarsi la presidenza del paese andino sono stati il banchiere e imprenditore Guillermo Lasso, il leader indigeno Yaku Pérez e l’economista Andrés Arauz, nuovo delfino di Correa, la cui condanna per corruzione gli ha impedito di candidarsi alla vicepresidenza. La prima tornata elettorale, nella quale si votava anche per il parlamento, ha visto la vittoria schiacciante di Arauz che però non ha superato il 50 per cento dei consensi e ha dovuto quindi affrontare il ballottaggio con Guillermo Lasso: arrivato secondo dopo un polemico testa a testa con Yaku Pérez. L’11 aprile la votazione finale ha ribaltato i pronostici e ha dato la vittoria al banchiere conservatore Lasso, in un voto che si è concentrato principalmente sul correismo o anticorreismo, polarizzando il contesto politico e sociale.

Nel Salvador le elezioni legislative e municipali del 28 febbraio hanno visto la schiacciante vittoria del partito Nuevas Ideas, facente capo al presidente in carica, Nayib Bukele.

Alfredo Somoza ce ne fece un ritratto, mentre i salvadoregni si ribellavano al presidente populista

Ottenendo 56 seggi su 84 in gioco nel Congresso e 152 consigli municipali su 262, Bukele si è assicurato il totale potere politico nel paese centroamericano. Le azioni che hanno seguito a questo nuevo accentramento dei poteri dello stato hanno provocato però duri scontri interni e la critica della comunità internazionale nei confronti del “presidente millenial” del Salvador.

Alfredo Somoza evidenzia le radici comuni di Bukele e Ortega in quell’altra sinistra latinoamericana, riprendendo i fili della insurrezione della popolazione salvadoregna impoverita dal populismo
“Corsi e ricorsi nella storia del Mesoamerica”.

 


La sinistra paternalista delle Ande

Il 7 marzo nella Bolivia del presidente Luis Alberto Arce Catacora, si è votato per le elezioni subnazionali nelle quali la popolazione veniva chiamata a votare per i 9 dipartimenti che compongono lo stato plurinazionale della Bolivia e 336 comuni. Il Mas (Movimiento al Socialismo), partito dell’attuale presidente – e dell’ex presidente Evo Morales –, ha ottenuto la vittoria solo in 3 dipartimenti (Cochabamba, Oruro e Potosí) ma si è affermato in più di due terzi dei comuni: ben 240.

In aprile la scena politica regionale viene accaparrata dal Perù dove, dopo anni di terremoto sociale e politico, si cerca di ritornare a una normalità democratica. Tra i numerosi candidati che si presentano alla sfida presidenziale, sono due persone che rappresentano poli opposti che arrivano al ballottaggio. Si tratta di Keiko Fujimori (figlia dell’ex presidente Alberto Fujimori) del partito di destra Fuerza Popular e del candidato Pedro Castillo, un “signor nessuno” membro del partito di sinistra Perú Libre. Poi il 6 giugno nonostante la dura campagna mediatica contro Castillo, maestro elementare delle zone rurali, portata avanti da Keiko e dai settori conservatori del paese, la sinistra vince. Il Perù rimane con il fiato sospeso perché il risultato ufficiale tarda ad arrivare. Giorni di tensione, ricorsi, frustrazione fino al 19 di luglio, quando finalmente anche Keiko Fujimori si deve arrendere e riconoscere Pedro Castillo come nuovo presidente eletto del Perù.

Del tema dell’estrattivismo peruviano avevamo parlato con Matteo Tortone

 

 

Sempre nel mese di aprile (il 19) il Partito Comunista di Cuba – Pcc conferma il presidente Miguel Díaz-Canel come primo segretario, segnano la fine di un’epoca. Il 16 dello stesso mese infatti, Raúl Castro (89 anni) si era dimesso dalla carica del partito per dare spazio a una nuova generazione di rivoluzionari che potessero portare avanti lo spirito del castrismo. L’isola, ancora sotto embargo, è però oggi scossa dalle proteste di numerosi Artivisti che lottano per ottenere libertà di espressione e contro la repressione politica e sociale del partito unico.


La sinistra costituente spinta dai Movimenti popolari

Aprile avrebbe dovuto essere inoltre il mese storico per le votazioni che in Cile dovevano portare il popolo a scegliere i membri dell’Assemblea costituente ma per l’emergenza Covid-19 il processo elettorale è stato spostato al 15 e 16 maggio. Nella stessa data si sono svolte inoltre le elezioni municipali e quelle dei governatori regionali, previste inizialmente per il 20 ottobre 2020 e rimandate per ben 4 volte. Il risultato è stato un plebiscito per le eterogenee forze politiche della sinistra che hanno ottenuto più di due terzi dei seggi dell’Assemblea e risultati storici come la vittoria della giovane comunista Irací Hassler: eletta sindaco della capitale Santiago.

 Anche in questo caso possiamo affidare al commento di Alfredo Somoza il compiacimento per la svolta cilena:
“Chile despertó y entierra Pinochet”.

Giugno ci porta alle elezioni federali e statali in Messico dove Morena, il partito dell’attuale presidente Andrés Manuel Lopez Obrador (Amlo) ha mantenuto il controllo del Congresso (grazie alle alleanze), perdendo però la maggioranza assoluta. L’obiettivo di Amlo di ottenere una maggioranza qualificata insieme al Pt e al Partito dei Verdi si è vista dunque frustrata chiudendo le porte alle riforme costituzionali che erano l’obiettivo di Morena per i prossimi tre anni di presidenza.

A luglio si è tornato a votare in Cile per le primarie presidenziali e per la prima volta è apparso il nome di Boric, ma soprattutto la regione è stata sconvolta da ciò che succede a Haiti. Nella notte tra 6 e 7 luglio, un commando di 28 persone prende d’assalto la residenza del presidente Jovenel Moïse nel quartiere Pelerin, a Pourt-au-Prince, la capitale del paese. Sette uomini armati entrano nella casa sparando 16 colpi al presidente e ferendo anche sua moglie (che si è finta morta per sopravvivere all’attacco). Il magnicidio fa piombare il paese ancora più nel caos e scopre trame e interessi internazionali che intrecciano Colombia, Ecuador, Usa e il piccolo paese caraibico. Le elezioni presidenziali previste per novembre sono state spostate a data da destinarsi e nel frattempo Ariel Henry, membro del partito Inite (centro sinistra) funge da presidente provvisorio.

Diego Battistessa proprio a luglio commentava così la deriva haitiana:

 


La sinistra populista, dinastica e totalitaria

Il 12 di settembre in Argentina più di 34 milioni di persone sono state chiamate a votare alle primarie aperte simultanee e obbligatorie (Paso) per definire le liste dei candidati che si sarebbero sfidati a novembre per rinnovare metà della Camera dei deputati (127 dei 257 seggi) e più di un terzo del Senato (24 dei 54 seggi). In questo contesto l’opposizione è riuscita ad assestare un duro colpo al partito del presidente Alberto Fernández, vincendo nella provincia di Buenos Aires, principale roccaforte della coalizione di governo, Frente de Todos. La tendenza delle Paso è stata poi confermata nelle elezioni del 14 novembre dove la coalizione dell’opposizione Juntos por el Cambio ha vinto in 13 province, includendo i cinque distretti più popolosi del paese: la provincia di Buenos Aires, la Città Autonoma di Buenos Aires, Córdoba, Santa Fe e Mendoza. In generale, al livello nazionale l’opposizione è riuscita a staccare di ben 9 punti percentuali la colazione di governo, ottenendo quasi il 42% dei voti contro il 33% del Kirchnerismo.

Nel frattempo però, a ottobre si sono tenute le elezioni municipali nei 261 distretti territoriali del Paraguay: elezioni che erano previste per il 2020 ma che causa coronavirus furono rimandate. Il risultato più importante (e anche il più discusso) è stata la rielezione di Óscar Rodríguez, membro del partito di governo (Partido colorado) nella capitale Asunción, nonostante gli scandali di corruzione che lo hanno visto protagonista.

 

Il  7 novembre ci sono state inoltre le elezioni “farsa” in Nicaragua che hanno dato ancora una volta una vittoria “schiacciante” a Daniel Ortega e alla vicepresidente (sua moglie) Rosario Murillo. Dietro questo apparente plebiscito (con dati di astensionismo che si aggirano intorno all’80%) ci sono infatti molteplici violazioni dei diritti umani: una repressione senza precedenti, l’incarcerazione arbitraria (iniziata a maggio 2021) di 39 persone identificate dal regime come opposizione, tra queste sette aspiranti alla presidenza.

Diego Battistessa ci aveva già fatto a luglio un parallelo tra due situazioni di quell’altra sinistra simile a quello descritto da Alfredo Somoza tra Bukele e Ortega, questa volta la incredibile dinastia nicaraguense era posta a confronto con l’eredità castrista

“Las revoluciones desencantadas y socavadas”.

Il 21 dello stesso mese si è tornato a votare in Venezuela, in una votazione dove l’opposizione, anche se ancora frammentata, ha deciso di partecipare (prima volta dal 2018). Il Partito Socialista Unito del Venezuela – Psuv (partito di governo) ha vinto 20 dei 23 governi locali in ballo. All’opposizione invece la vittoria negli stati di Cojedes, Nueva Esparta e Zulia. Ancora una volta queste votazioni hanno suscitato non poche polemiche, anche per le irregolarità registrate dalla delegazione degli osservatori elettorali dell’UE presente sul territorio fin dal 14 ottobre e tornata in Venezuela dopo 15 anni di assenza. I delegati dell’UE sono stati chiamati spie e nemici del popolo venezuelano dallo stesso Maduro, che come se non bastasse, ha invalidato la vittoria del candidato dell’opposizione Freddy Superlano nello stato di Barinas. Qui infatti Superlano, della Mud (Mesa de la Unidad Democrática) ha affrontato sconfiggendolo, il fratello del defunto Hugo Chávez, ovvero Agernis Chávez. Barinas però è anche lo stato che ha dato i natali a Chávez ed è dunque un simbolo trascendentale per la rivoluzione bolivariana. In questo senso, accogliendo il diktat di Maduro, il Tribunal Supremo de Justicia (Tsj) ha informato a fine novembre che le elezioni a Barinas sono state invalidate e che si ripeteranno il 9 gennaio 2022: Superlano non potrà partecipare visto che su di lui esiste un processo amministrativo che gli impedisce di ricoprire cariche pubbliche.


Novembre ha visto poi la prima tornata elettorale delle presidenziali cilene che ha determinato la definizione del ballottaggio tra Boric e Kast, con il quale abbiamo iniziato questo veloce excursus, ma anche le storiche elezioni in Honduras: elezioni che hanno portato alla vittoria della leader di centrosinistra Xiomara Castro. Con una partecipazione del 70% degli aventi diritto, il paese centroamericano ha messo fine a 12 anni di neoliberismo (iniziato dopo il colpo di stato del 2009), dando la presidenza a una donna e sancendo la vittoria dei movimenti sociali e delle organizzazioni che si battono per la difesa dei territori e dei beni comuni.

Su queste due elezioni avevamo fatto il punto con Davide Matrone:

“Cile e Honduras: motivi sociali per confrontare responsi elettorali”.

Il mese si è concluso con un altro avvenimento epocale, ovvero la cerimonia attraverso la quale una giurista, Sandra Mason, è diventata la prima presidente della recente nata Repubblica delle Barbados. La cerimonia attraverso la quale l’isola caraibica ha cambiato il suo status da Monarchia Costituzionale (sotto il Regno di Elisabetta II) a Repubblica è avvenuta il 30 novembre. Un passaggio di consegne che ha coinciso con il 55esimo anniversario dell’indipendenza dell’isola caraibica, avvenuta nel 1966 ma che fino a fine novembre aveva continuato a essere legata alla Corona inglese.

Cosa ci aspetta nel 2022?

Se il 2021 è stato “senza tregua”, anche il 2022 ha davvero molto da offrire in termini di elezioni e processi elettorali.

Come già detto il calendario elettorale vedrà nuovamente a gennaio le elezioni nello stato di Barinas in Venezuela dove, senza troppa immaginazione, verrà dichiarato governatore Agernis Chávez. Il 6 febbraio si sposterà in Costa Rica per le elezioni legislative e presidenziali con una eventuale seconda tornata elettorale prevista per il 3 aprile. Ancora da definire poi le date delle elezioni “comarcali” a Panama ma soprattutto quelle del plebiscito nazionale in Cile per l’approvazione della nuova Costituzione. Inoltre il 2 ottobre si tornerà ancora una volta a votare in Perù per le elezioni regionali e municipali, sempre e quando le azioni di “spodestamento” di Pedro Castillo da parte dell’opposizioni non vadano a buon fine e non aprano la strada a nuovi e incerti scenari politici.

I due appuntamenti salienti però riguardano Colombia e Brasile dove due visioni diverse di società e di mondo si daranno battaglia per la presidenza.

In Colombia quest’anno siamo andati molte volte dapprima, a febbraio, con Ana Cristina Vargas, che poi è intervenuta in voce descrivendo l’insurrezione antiuribista di maggio:

e poi ci ha accompagnato anche Tullio Togni nei suoi vari interventi dal territorio, a giugno e dicembre
“Differenti protagonisti della rivolta colombiana. La necropolitica uribista”.

In Colombia, paese segnato da un processo di Pace che non decolla, da una disuguaglianza sociale in aumento e da interminabili casi di corruzione, violenza e impunità; l’Uribismo (movimento ideologico conservatore che segue la linea del’ex presidente Alvaro Uribe Vélez) dovrà cercare di frenare la sinistra in aumento di consenso. Il presidente uscente, l’uribista Ivan Duque, è stato indicato come il principale colpevole del fallimento degli accordi di Pace siglati da Juan Manuel Santos con le Farc e le proteste iniziate il 28 aprile 2021 hanno sancito la frattura definitiva con il popolo. La credibilità di Duque e la sua popolarità hanno subito dei duri colpi, anche a livello internazionale per i report delle ong e anche dell’Onu, sulle violazioni dei diritti umani perpetrate dagli squadroni antisommossa (Esmad) durante le proteste. In questo senso neanche i successi militari come la cattura del narcotrafficante Otoniel sono serviti a ridare smalto alla figura di Duque che milita nel partito Centro democratico, fondato da Uribe nel 2013.  Dall’altro lato la lista dei precandidati presidenziali continua ad ampliarsi favorendo una frammentazione del voto: a sinistra spicca il senatore Gustavo Petro che proverà per la terza volta a diventare presidente. Le elezioni si svolgeranno il 29 di maggio (prima tornata) con il ballottaggio previsto per il 19 giugno. Prima di quella data ci sarà un altro appuntamento elettorale che servirà per avere il polso della situazione, ovvero le elezioni legislative del 13 marzo.


In Brasile la situazione non solo è complessa ma è anche molto tesa. L’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, una volta superati i “problemi giudiziari” non ha nascosto la volontà di candidarsi per le presidenziali che si svolgeranno in prima istanza il 2 ottobre, con il ballottaggio previsto per il 30 ottobre. Da un lato la sua popolarità è in crescita e dall’altro Jair Bolsonaro, l’attuale presidente cerca di correre ai ripari dopo anni di politiche aggressive, escludenti e negazioniste nei confronti del Covid-19 e dei relativi vaccini. La popolarità di Bolsonaro non gode di buona salute ma nel frattempo il 30 novembre scorso lo stesso Bolsonaro si è affiliato al Partido liberal (destra), pensando a una ricandidatura per il periodo 2022- 2026.

Altre figure di rilievo nel paese hanno annunciato la loro volontà di candidarsi e tra queste spicca sicuramente il nome di Sergio Moro. Moro infatti a novembre scorso si è affiliato al partito di centro Podemos, in vista della partecipazione alle elezioni del 2022, presentandosi come una terza via per il Brasile. La possibile candidatura a presidente di questo ex giudice di 49 anni ha sollevato però non poche polemiche visto che proprio lui aveva diretto in modo non imparziale la mega operazione anticorruzione conosciuta come “Lava Jato” che aveva portato alla carcerazione di Lula. La non imparzialità di Moro, sostenuta a più riprese da molte voci della sinistra brasiliana, è stata sancita in modo definitivo dalla Seconda sezione della Corte suprema del Brasile, che ha dichiarato martedì 23 marzo 2021 che l’ex giudice non ha agito con “imparzialità” in uno dei processi contro l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, le cui sentenze erano già state annullate in precedenza.

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