Birmania Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/birmania/ geopolitica etc Sat, 13 Jul 2024 12:58:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Muay 1. Vietnam surgelato https://ogzero.org/studium/muay-1-vietnam-surgelato/ Fri, 29 Mar 2024 14:24:14 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12426 L'articolo Muay 1. Vietnam surgelato proviene da OGzero.

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1. Vietnam cristallizzato in universi paralleli

Non nominare il nome del Vietnam invano 

Il Vietnam è divenuto una figura retorica. Una metafora. Un’allegoria, Un’evocazione. Una sineddoche generalizzante o particolarizzante, del tutto per la parte e viceversa. Pur con tante declinazioni è usata quasi sempre a sproposito, conferendole il valore che ha assunto in Occidente. Molto spesso, per esempio, indica una battaglia disperata conclusasi con la sconfitta. Che non sarebbe di certo l’interpretazione che un vietnamita darebbe della guerra combattuta e vinta contro gli americani, “la guerra americana”.

Nell’inconscio collettivo il Vietnam si è trasformato da toponimo a topos. Una mutazione che comincia sul finire degli anni Sessanta quando si intensifica il coinvolgimento statunitense e con questo il movimento di contestazione che diviene un fenomeno politico e culturale globale. La Storia diventa narrazione tre anni dopo la fine della guerra. Nel 1978 escono i film Tornando a Casa di Hal Ashby e Il cacciatore di Michael Cimino. Apocalypse Now di Francis Ford Coppola è presentato l’anno seguente. E così il Vietnam si trasforma in scenario di metafore esistenziali, denuncia politica, tragedie individuali e psicodramma nazionale americano. C’è poi un intermezzo politicamente scorretto con Rambo e Rambo 2 la vendetta (dell’82 e dell’85, entrambi interpretati da Sylvester Stallone). Il tema della “sporca guerra” torna sugli schermi in tutta la sua reale violenza nel 1986 con Platoon di Oliver Stone, seguito nel 1987 dallo straordinario Full Metal Jacket di Stanley Kubrick e nel 1989 da un altro film di Stone, Nato il Quattro Luglio, interpretato da Tom Cruise. C’è poco da stupirsi dell’affermazione di un operatore italiano in Vietnam: «La guerra? È stata un immenso spot pubblicitario».

In questa prospettiva il Vietnam si è cristallizzato in un periodo storico che non comprende né le cause né le conseguenze della guerra. È come se la riflessione, l’analisi fossero un elemento di disturbo, una complicazione inutile. Quanti sanno che l’ultima guerra in Vietnam fu combattuta contro i cinesi in seguito all’invasione vietnamita della Cambogia? Ragionare poi su queste diramazioni geopolitiche ci fa davvero entrare in una dimensione quantica, come se si parlasse di universi paralleli. Il Laos, la Cambogia, la Birmania, la Malaysia, l’Indonesia, la Thailandia, tutte le tessere del domino che componeva lo scenario delle guerre d’Indocina nel quadro della Guerra Fredda sembrano pianeti minori di un’altra galassia, storie di confine. A parte la Cambogia, forse, evocatrice dell’orrore dei Killing Fields. Quelli del film più che dei khmer rossi. I khmer rouges come alcuni, con vezzo sofisticato, ancora li chiamano, quasi fossero alla corte di Sihanouk.

Tutto questo m’è venuto in mente tra un round e l’altro di un allenamento alla Kru Pathee Muay Thai Gym, nome tanto lungo quanto è piccola la palestra appena aperta del maestro, Kru, Pathee. Guardavo le mail sul telefonino e vedevo una sequenza di Vietnam tra i Google alert. Riguardavano “Cirino Pomicino e il suo Vietnam in terapia intensiva”. Qualche giorno dopo, quando già avevo cominciato a riflettere su questa breve storia, sempre tra un round e l’altro di un allenamento, ecco altri Google alert vietnamiti: I Parioli hanno qualcosa di sinistro. Il film può sembrare un Apocalypse Now ai Parioli. Un Apocalypse After!. Intervista a Pietro Castellitto, Benedetta Porcaroli e Giorgio Quarzo Guarascio su Enea, film che racconta una Roma Nord da film di guerra”.

Non conosco il cuore di tenebra dei Parioli, ma in quel momento mi sono apparsi Conrad, Coppola, Marlon Brando, il colonnello Kurtz, Tim Page, il fotografo pazzo del Vietnam che nel film è interpretato da Dennis Hopper, i reporter scomparsi in quella guerra. Requiem.

Papa

Vietnam, il topos a sproposito

Vietnam, vecchio modello generazionale

I periodi di guerra si somigliano tutti 

È il periodare del loro racconto che risulta più o meno edulcorato, più o meno artificiale… più o meno orripilato, a seconda di quanto le industrie belliche e i poteri militari condizionano lo spirito del tempo.

Sono tante le figure – retoriche o meno – che affiorano dal lemma “Vietnam”, non tanto territorio geografico, quanto deposito di memoria generazionale a cui corre qualsiasi situazione bellica, come fosse la Ur-guerra – dopo quelle europee novecentesche – che, segnando la battuta d’arresto (ahimè, temporanea) dell’imperialismo coloniale, nasconde sempre la speranza che faccia da modello per l’ultimo conflitto scatenato in corso e di conseguenza iteri la débâcle dell’imperialismo americano. In questo senso non pare cristallizzato in quegli anni – “formidabili” nel ricordo di Minà, un genio a costruire miti: piuttosto è un paradigma negativo anche per la potenza bellicosa che attualmente bombarda e massacra, partendo dal campo occidentale.

Il primo scatto che evoca il Vietnam è Kim Phuc, la napalm girl fotografata l’8 giugno 1972 da Nick Ut – ho due anni in più di lei e un ricordo nitido di empatia che ha segnato la mia sensibilità per il reportage fotografico (visto due anni dopo da ginnasiale già “politicizzato); non poteva essere diversamente e senza dubbio quel Munch vietnamita ha contribuito a preparare la disfatta Usa innanzitutto nelle coscienze immacolate dei sinceri pacifisti, che poi trovarono conferme nei film di Coppola e Cimino. È la follia conradiana di Kurtz/Brando mescolata alla giustizia sommaria immortalata da Eddie Adams il 1° febbraio 1968 nello sparo del generale Nguyễn Ngọc Loan sul Viet Cong. Una brutalità che Idf ha moltiplicato in modo esponenziale su Gaza, ma evitando che si possa ricondurre il massacro al perpetratore, cautelandosi: Tzahal applica la stessa giustizia sommaria del colpo fissato da Adams nel Vietnam (quello originario – e forse Biden si riferiva a quel loro errore originale e non tanto all’Afghanistan, quando metteva sull’avviso Bibi) e schiaccia il grilletto prima che il giornalista possa divulgarlo… perché il Viet Cong giustiziato si è scambiato di ruolo con il reporter, anzi sono diventati 118 i giornalisti “vietcong” uccisi preventivamente senza nemmeno il particolare di un braccio con la pistola fumante a registrare il gesto tragico da tramandare. Anche Tim Page e Dennis Hopper sono morti, ma da vecchi e non per mano di un drone. La spersonalizzazione del testimone.

Nel decennio successivo il concetto di Guerra Sucia – per eccellenza di marca argentina – trovava il suo compimento a Las Malvinas, restituendo alla retorica coloniale per eccellenza, quella britannica per un po’ il suo ruolo, che poi continua a mettere a disposizione del proprio clone americano. E forse proprio lì comincia a imporsi il pennivendolo embedded, che racconta le guerre dalla parte degli eserciti; nascondendo l’eccidio non si crea horror vacui, ma semplice elencazione di numeri dei sacrificati. La spersonalizzazione della vittima.

Elucubro a seguito del mugugno di Papa puntellato a uno spigolo di uno stanzone in attesa di accedere agli sportelli di un’anagrafe torinese, tra un round e l’altro della burocrazia che sovrintende al conseguimento di un Atto notorio, un corpo a corpo con gli altri individuati da numerini della coda e con il moloch dei documenti, che solo può attestare l’esistenza in vita o in morte. Ben più di un bombardiere che cancella “solo” l’esistenza, lasciando unicamente agente orange, quel napalm – di nuovo un lemma mitico – ancora attivo nella sua missione di sterminio nella regione del Sudest asiatico.

el Gaviero

I Dialoghi della Muay Thai 2. Il sesso altrui 3. Riflessi di Orientalismo 4. La parete in comune

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]]> I dialoghi della Muay Thai https://ogzero.org/studium/i-dialoghi-della-muay-thai/ Wed, 17 Jan 2024 00:03:04 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12307 L'articolo I dialoghi della Muay Thai proviene da OGzero.

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I Dialoghi della Muay Thai

I dialoghi della Muay Thai affiorano dal fastidio per i topoi diffusi dalla sacralizzazione della superficialità; affondano nella convergenza da percorsi diversi al tentativo di incatenare il blob dell’ignoranza che sta debordando dagli schermi della rete, come nel 1958 Il Fluido mortale dalla sala cinematografica e per decenni dalla omonima trasmissione televisiva di Ghezzi.
Un’idea che nasce dagli allenamenti di Max Morello nella palestra di Bangkok, anzi nelle pause, rispecchiate dai corsivi dei dialoghi; il Gabbiere di OGzero ha aderito con entusiasmo a questa forma di confronto che consente di affrontare gli snodi epocali da punti di vista diversi tra loro ma originali rispetto alle banalità diffuse in un periodo di cambiamento, in cui questo non si palesa ancora e il vecchio è soverchiato dal nulla del pensiero.
In queste “botta e risposta” di una lotta verbale può trasparire talvolta il superamento di quei riferimenti asfittici di cui si sente bisogno per liberarsi delle sovrastrutture attraverso le quali ciascuno continua da 70 anni a leggere una realtà che è cambiata nel frattempo, collocandosi in un campo o nell’altro. L’intento è quello di cominciare sommessamente a proporre un’ermeneutica in costante adattamento e costruzione per lasciare alle spalle mondi asfittici e le loro narrazioni, riconducibili a categorie… scontate. Soprattutto le contrapposizioni fondate sul nulla tra Orientalismo e Occidentalismo.
Il criterio ricercato dai Dialoghi del Muay Thai è invece la stramberia.

1. Vietnam cristallizzato 2. Il sesso altrui 3. Riflessi di Orientalismo 4. La parete in comune

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]]> La guerra birmana esplode al Casinò e uccide a Sagaing https://ogzero.org/la-guerra-birmana-esplode-al-casino-e-uccide-a-sagaing/ Wed, 03 May 2023 21:01:19 +0000 https://ogzero.org/?p=10898 Con il Myanmar OGzero ha un legame particolare fin dallo Studium collegato a Burma Blue, il libro dedicato da Max Morello al paese. Claudio Canal ha scritto un articolo interessante pubblicato su “Volere la Luna“, da dove lo recuperiamo corredato di un’integrazione: un podcast registrato da Radio Blackout con Emanuele Giordana, appena tornato dal confine […]

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Con il Myanmar OGzero ha un legame particolare fin dallo Studium collegato a Burma Blue, il libro dedicato da Max Morello al paese. Claudio Canal ha scritto un articolo interessante pubblicato su “Volere la Luna“, da dove lo recuperiamo corredato di un’integrazione: un podcast registrato da Radio Blackout con Emanuele Giordana, appena tornato dal confine birmano-thailandese. Le due testimonianze si compenetrano perfettamente nella descrizione informata degli eventi e nella analisi socio-culturale delle comunità coinvolte e degli interessi stranieri sul territorio, le esigenze del riciclaggio e dei traffici, che si combinano con la militarizzazione della società a cominciare dal controllo economico da parte degli eserciti.
Il ministro degli esteri cinese Qin Gang è giunto il 3 maggio in Myanmar, avvicinandosi alla riunione dei ministri della Shanghai cooperation organization, chiedendo anche lì di «mantenere confini chiari e stabili», le stesse parole usate da Xi entrando in medias res belliche; in questo caso mettendo in guardia da una “ricaduta” dell’escalation di violenza nel paese del Sudest asiatico e «reprimere la criminalità transfrontaliera» (Scmp, 3 maggio 2023). Il fatto che abbia
 sottolineato l’importanza di mantenere la stabilità nella regione e di promuovere una “cooperazione amichevole” tra i paesi confinanti risulta comprensibile dalla lettura e dall’ascolto di questi due contributi che vi proponiamo.


I can(n)oni di guerra sembrano lontani se tuonano in Myanmar

C’è una guerra in Europa, ci fa paura e ci divide in opposte tifoserie. Ci sono altre guerre nel mondo, non incutono timore perché ci sono ignote o perché ci abbiamo fatto il callo. Siccome l’arte della guerra gode di uno straordinario successo tra gli esseri umani, pensiamo di riconoscerla ovunque. C’è un paese in Asia, tra i più ricchi di risorse e dotato di una crudele bellezza, la Birmania-Myanmar, in cui è in corso una guerra che interpreta fedelmente i canoni dei manuali novecenteschi: eserciti schierati, bombardamenti aerei, artiglieria, guerriglia.

«Ma è così da più di settant’anni!» afferma chi conosce un po’ la storia di questo paese. Infatti, dal momento dell’indipendenza dal colonialismo britannico nel 1947, quando ci si prepara a inventare la nazione, una parte consistente degli abitanti delle Aree di Frontiera, escogitate e così marchiate dagli inglesi, si oppone senza tentennamenti. Le Aree sono refrattarie al progetto politico che la cultura maggioritaria – i Bamar/Bramar/Birmani, principalmente buddhisti  intende realizzare costituendosi come centro egemone di una nazione mai esistita prima, birmanizzando e, in qualche modo, buddhizzando tutto il resto.

Tradizionali guerre per i soliti traffici “etnici” vs. l’“esercito” del potere

Prendono così avvio le interminabili guerre e subguerre che hanno straziato fino a oggi la Birmania e reso l’esercito birmano, il Tatmadaw, un apparato estremamente distruttivo e la più importante potenza economica del paese, senza che sia mai riuscito a vincere una delle guerre che le forze armate locali gli hanno mosso e che mai si sia confrontato con un nemico esterno. Una forma molto originale di esercizio del potere: la guerra come istituzione costituente, la guerra per la guerra, la “guerra civile permanente”, diremmo noi in Europa. Alcune delle formazioni politiche e militari che combattono il potere centrale lo fanno per salvaguardare la loro diversità culturale, linguistica, religiosa; altre per non perdere gli incassi dalla produzione e coltivazione di metanfetamine, oppio, giada, legno pregiato; altre ancora per entrambe le ragioni. Forse perché non riescono più a immaginarsi a fare altro. Un paese dunque predisposto come poligono di tiro diffuso e residence per dittature militari da cui, nei recenti e limitati anni di democrazia approssimativa, sperava di disintossicarsi.

Le efferatezze di Tatmadaw, coacervo di sangue, narcos e crypto-crony capitalism

Un esercito che si identifica con lo stato, sacralizzato da una storia mitica di eroi guerrieri, «impregnato di crony capitalism cronico», una delle tante “apparizioni” del capitalismo, quello della solida rete di compari e amici degli amici attestati nei gangli economici e finanziari. È un impianto sociale di corruzione generalizzata, costruito sul rapporto servo-padrone, sulla impunità garantita, incapace e non particolarmente interessato a costruire l’unificazione dall’alto del paese mediando tra le molteplicità. Nonostante la sua smisurata forza, gli appoggi e gli armamenti ricevuti da Russia e Cina, a tutt’oggi controlla, a esser larghi, la metà del paese. Un esercito così conformato non impiega solo la mascolina brutalità, ma amministra leve materiali e simboliche che gli consentono di non intimorirsi troppo e perfino di esercitare ancora una egemonia culturale debilitata ma non moribonda.

Tradizionali appoggi monastici in periodi di magre elemosine

La manforte la riceve dal sangha, la numerosissima e autorevole comunità monacale buddhista, di scuola Theravada come altri buddhismi del Sudest asiatico, che si compiace del ruolo di avanguardia politica svolto dai monaci durante la lotta anticoloniale contro gli inglesi nella prima metà del Novecento e della loro a tutt’oggi capillare presenza tra la popolazioneMezza comunità è dedita allo studio e alla meditazione, in attesa di tempi migliori; un quarto è dichiaratamente antiregime; il resto è un segmento militante molto eccitato che ha assunto da diversi anni una posizione ultranazionalista, xenofoba, razzista e di conseguenza entusiasta sostenitrice e istigatrice della giunta militare. Nessuna novità, verrebbe da dire, tutto già visto in Birmania. E non solo lì.

Uno dei territori in cui lo scontro è più rabbioso è la zona centrale del paese, in particolare la regione Sagaing, grande quanto l’Italia Settentrionale. Cioè il cuore culturale e storico della Birmania. Abitato da una popolazione in stragrande maggioranza buddhista, partecipe di un ordine simbolico che fino a non molto tempo fa guidava la birmanizzazione forzata del paese. È la prima volta dal dopoguerra e questa innovazione trasforma in modo radicale la geometria politica nazionale che diventa centro contro centro e non solo centro contro periferia. Una parte dell’insurrezione è condotta dal People’s Defence Force (Pdf), braccio armato del National Unity Government (Nug), il governo in esilio o governo ombra che cerca il riconoscimento internazionale e, soprattutto, l’alleanza con le forze politiche e gli eserciti delle Aree di frontieraNon è detto che ci riesca in tempi brevi, ma il progetto è partito.

La strage dal cielo sulle coste dell’Irrawaddy nel centro del Mandalay

Intanto la guerra in sé e per sé va avanti, bombardamenti a tappeto, villaggi in fiamme, droni funesti, imboscate letali [l’esercito birmano perde in media 100 uomini alla settimana], attacchi alle infrastrutture [giovedì 6 aprile l’aeroporto internazionale di Yangon è stato chiuso nella notte perché colpito da artiglieria], incendio e distruzione delle stazioni di polizia, fuga delle popolazioni coinvolte e fioritura di campi profughi… L’Expo dell’arsenale non chiude mai. Il caos e l’emergenza come regola della vita sociale, in un paese tra i più colpiti al mondo dai cambiamenti climatici. La sofferenza dei viventi non incontra ostacoli. Intanto l’Irrawaddy continua bonario a scorrere lungo i suoi 2500 chilometri, i delfini meditano forse sulla loro estinzione e pure gli operosi esseri umani che condividono la vita del fiume.

E il doppio “gioco” cinese in periferia

Quanto durerà la guerra? Movimenti di riforma interni all’esercito? Torneranno nelle caserme i soldati? Un golpe? Un’implosione generale? Impossibili per ora risposte creative a queste domande. Nuove leadership si manifestano nelle Aree di frontiera. Aspirano, come minimo, a uno Stato molto, molto federale. Nel frattempo, il gigante di confine, la Cina, gioca come al solito su due tavoli. Sostiene e foraggia la giunta militare, e nello stesso tempo sussidia generosamente di armamenti e merci il Kokang e lo “Stato” Wa, regioni della Birmania in lotta armata contro la giunta militare.

Cronaca

Aung San Suu Kyi è in isolamento in carcere nella capitale surreale Naypyidaw a scontare i 33 anni a cui è stata condannata. Gli sgherri sono specialisti in vendetta. La resistenza è anche radicata nei mille gruppi e reti che continuano a far funzionare le scuole, a procurare medicine e a fare quanto è possibile in un welfare dal basso ricco di sorrisi e di delicatezze. Il regime ha appena tagliato 200 alberi di Poinciana reale o albero di fuoco nella 38ª strada di Mandalay, nei pressi dell’incantevole mercato della giada. I suoi fiori rosso fiamma rimandavano al colore della Lnd [Lega Nazionale per la Democrazia], il partito di Aung San Suu Kyi, a cui la via era stata intitolata. Terrorismo vegetale

.

Non essere indeciso,
il detonatore della rivoluzione
sei solo tu, o io.
(K Za Win [1982-2021] poeta,
ucciso dalla polizia durante una manifestazione da lui organizzata contro la giunta, 3 marzo 2021)


 

La malavita cinese naviga sulle coste del Moei tra Thailandia e Myanmar

Emanuele Giordana a sua volta descrive i legami tra tutti i protagonisti in tragedia, senza indulgenza per una fazione o l’altra: la fotografia che si ricava è quella del malaffare generalizzato che non lascia spazio a interpretazioni desumibili da una qualunque etica: gli affari contrapposti animano le rive del Moei e si vedono sorgere città poi abbandonate, dove tutto è consentito, anzi è il malaffare la legge di una terra senza alcuna regola se non quella della truffa e dell’inganno, ora sempre più finanziario, che ha surclassato persino in parte la destinazione d’uso dei paradisi sessuali e del gioco d’azzardo. Manovre ad altissimo livello internazionale sovrintendono all’occupazione del territorio e alla cooptazione degli addetti nella zona del Karen State.

«Con le false credenziali della Belt and Road Initiative – messe in discussione dal precedente governo del Myanmar guidato da Aung San Suu Kyi e pubblicamente sconfessate dall’ambasciata cinese in Myanmar nel 2020 – la città si trova appena a nord di Mae Sot, in Thailandia. Secondo il materiale promozionale, la città avrà “parchi industriali scientifici e tecnologici, aree per il tempo libero e il turismo, aree per la cultura etnica, aree commerciali e logistiche e aree per l’agricoltura ecologica”. Ci sarà anche una struttura per “l’addestramento alle armi da fuoco”. Shwe Kokko è stato anche definito “la Silicon Valley del Myanmar” e una stazione chiave lungo la “Via della Seta marittima”» (NikkeiAsia), parte di un ponte terrestre tra l’Oceano Indiano che permette di aggirare i pericoli e i dazi della navigazione tra gli stretti del Mar Cinese Meridionale, avvalendosi di una ferrovia che unirà lo Yunnan al mar delle Andamane.  

 

“Shwe Kokko e i suoi modelli”.

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Asean tra decimazione pandemica e decrescita tradizionalista https://ogzero.org/covid-golpe-birmano-e-repressione-thai-l-oriente-a-pezzi/ Wed, 01 Sep 2021 20:09:40 +0000 https://ogzero.org/?p=4769 Covid, golpe birmano, repressione thailandese: elementi di stravolgimento innescati per un cambio di rotta di difficile elaborazione per i criteri occidentali. Il Sudest asiatico va decifrato immergendosi in quel mondo altro e sfuggente ai parametri europei, però in grado di elaborare svolte che risultano incomprensibili per i farang, se non dopo che i processi si […]

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Covid, golpe birmano, repressione thailandese: elementi di stravolgimento innescati per un cambio di rotta di difficile elaborazione per i criteri occidentali. Il Sudest asiatico va decifrato immergendosi in quel mondo altro e sfuggente ai parametri europei, però in grado di elaborare svolte che risultano incomprensibili per i farang, se non dopo che i processi si sono ormai proiettati in una direzione inattesa per quanto linearmente coerente a quell’universo di riferimenti, ma di difficile interpretazione al di fuori di quelli, producendo svolte che estromettono gli elementi alieni alla comunità, che si ritrae nei valori tradizionali, forse per trovarvi nuova linfa in prospettiva futura, benché al momento appaia semplicemente reclinata in uno spirito conservatore e retrivo.

Solo una frequentazione ventennale dell’area come quella di Max Morello può cogliere gli elementi di affanno in cui si sta dibattendo innanzitutto la cultura del Sudest asiatico. E questo produce in lui un moto di delusione per l’implosione della sua fascinazione verso l’approccio filosofico delle società asiatiche che aveva imparato a frequentare, l’illusione di potersi lentamente avvicinare a interpretare quel mondo attraverso la conoscenza della filosofia che lo permea; ora sono quasi irriconoscibili nel loro travaglio… e l’inaudito è che questo forse consente di tornare a riconsiderare l’approccio della cultura occidentale, vista l’assenza di spunti progressivi per uscire da una crisi non solo economica e sanitaria da parte di una filosofia che invece risultava affascinante perché appariva capace di proposte globali e non identitarie.


Il grotesque della danse macabre

«Questa mattina è morto il padre di Cho. Soffocato. Non si trova più l’ossigeno… I militari se lo prendono per loro e i loro protetti. Negli ospedali pubblici c’è l’esercito che decide chi ha diritto al respiratore…».

Così mi ha scritto un amico che per fuggire dal caos e dal virus dilagante in Birmania ha abbandonato la casa che si era costruito a Yangon e si è trasferito in un condominio a Bangkok con il figlio e la moglie Cho.

«Non voglio fare il cinico ma mi sembra inutile fare il conto dei morti in Birmania. Qui si moriva comunque per qualsiasi altra malattia. La differenza è che adesso si muore soffocati»,

mi dice un altro amico rimasto in quel paese. Lui ha cercato di evitare il contagio, le manifestazioni e i combattimenti continuando a spostarsi tra i villaggi più isolati.

La Birmania, Yangon in particolare, è divenuta la scena di una tremenda rappresentazione pulp, splatter, horror, da teatro dell’assurdo e della crudeltà. I paragoni con generi o forme di spettacolo, di patologie psichiche reali o diaboliche, di miti e superstizioni non sono un espediente letterario. Servono a rappresentare una realtà che diviene sempre più difficile da credere, immaginare e descrivere se non si ricorre alla dimensione fantastica, a un vero e proprio lessico dell’orrore che si ritrova nei titoli, negli articoli, nei post, nei tweet.

A fine agosto le vittime della repressione militare sono oltre 1000. Circa 15.000 i morti per Covid. Entrambe le cifre, probabilmente, errate per difetto e sicuramente destinate ad aumentare. Soprattutto la seconda. In alcune zone metà della popolazione potrebbe essere già infetta. A Yangon i morti superano i 2000 al giorno.

Catastrofe umanitaria multidimensionale

«Stiamo morendo tutti. Il Myanmar è sull’orlo della decimazione»,

mi dice un altro amico ancora stremato dal contagio. I cadaveri vengono bruciati anche negli inceneritori, sepolti in fosse comuni o addirittura in discariche. Il Covid si diffonde ulteriormente tra i volontari che li trasportano. Molti muoiono in casa, soffocati, aspettando l’ossigeno che non arriva. L’esercito si riserva il controllo dell’ossigeno le cui scorte vanno esaurendosi.

La perfetta rappresentazione, anche semantica, di questa situazione sta tutta nella dichiarazione di Michelle Bachelet, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. Riferendosi alla situazione in Myanmar ha definito una crisi che sta precipitando in una “catastrofe umanitaria multidimensionale”. Espressione che ingloba l’angoscia, l’orrore, la miseria, la violenza del covid e del golpe.

Solo il 40% del già ridotto sistema sanitario birmano è operativo, secondo le stime più ottimistiche solo il 6% di una popolazione di 54 milioni è vaccinato. Molti medici vengono arrestati per aver violato il coprifuoco per visitare qualcuno o portargli ossigeno. Altri medici e infermiere finiscono in prigione per essersi rifiutati di lavorare negli ospedali dei militari. Migliaia di persone si ammalano e muoiono di Covid in carcere. I dirigenti anziani della National League for Democracy sono letteralmente decimati. Si estingue così una generazione sopravvissuta a decenni di lotte e persecuzioni. Insomma, il Covid diviene il miglior mezzo di controllo e repressione: sta stremando l’opposizione, è perfetta scusa alle morti per tortura. Ma soprattutto il Covid riduce la popolazione in uno stato di attonita impotenza, esacerbando diseguaglianze già abissali, condannando i più poveri, il cui numero è destinato a raddoppiare, a soffrire senza possibilità di reazione. Intanto è più che triplicato il numero dei rifugiati interni, uomini donne e bambini che hanno abbandonato i loro villaggi per sfuggire ai conflitti tra esercito e milizie etniche che si sono riaccesi in tutta la Birmania.

È una tempesta perfetta…

in cui non sembra aprirsi alcuno spiraglio. Le milizie sono vittime del “dilemma del prigioniero”: pur sapendo che l’unica possibilità di reale opposizione sta in un’alleanza, non riescono a unirsi per reciproca diffidenza e per l’incapacità di valutare rischi e benefici. Il People’s Defence Force (Pdf), braccio armato del National Unity Government (Nug), a sua volta, sembra paralizzato dal mancato appoggio delle milizie e dalla difficoltà di convertirsi alla lotta armata da parte di un’opposizione che, sotto la guida di Aung San Suu Kyi aveva fatto della non-violenza la sua forza. In molti casi, quindi, i gruppi di resistenza sembrano mossi dalla disperazione, pronti a un sacrificio rituale. Com’è accaduto ai giovani che si sono gettati da una finestra per evitare la cattura e la tortura.

A poco a poco, tuttavia, sembra che alcuni gruppi stiano evolvendo verso forme più organizzate e sofisticate di guerriglia, come l’agguato in cui sono stati uccisi cinque poliziotti proprio come rappresaglia per il suicidio degli studenti.

Sul fronte opposto la giunta militare non sembra in grado di vincere una guerra civile che non aveva previsto. Le forze armate, Tatmadaw, sono decimate anch’esse dal Covid, forse perché ai militari è stato somministrato a loro insaputa il Covaxin, un vaccino indiano ancora non approvato. Secondo fonti dell’opposizione, inoltre, sarebbero già più di 2000 i disertori – soprattutto soldati semplici, sottufficiali e poliziotti – che si sono uniti al Civil Disobedience Movement (Cdm).

In questo scenario da incubo, il programma politico presentato dal generale Min Aung Hlaing, artefice del golpe e autoproclamato primo ministro, appare come un “manifesto di pazzia”, paragonabile a quello dell’Angkar, l’organizzazione dei khmer rossi di Pol Pot, secondo cui chiunque si opponga all’organizzazione stessa è un nemico da sterminare. Anche se ciò significa far strage del proprio popolo. In questo delirio il nemico diviene l’incarnazione del male: Aung San Suu Kyi e la sua Nld sono addirittura accusati di aver violato il dharma, la legge buddhista di cui i militari si ergono a protettori e difensori. Una missione sacra che, secondo i monaci più fanatici, è stata premiata dalla divinità che ha fatto guarire dal Covid l’ultraottantenne generale Than Shwe, dittatore della Birmania dal 1992 al 2011, autore di una sanguinosa repressione con migliaia di dissidenti torturati e imprigionati. Il fatto che Than Shwe e sua moglie abbiano potuto godere di cure precluse al resto della popolazione è anch’esso da considerare come il segno di un karma miracoloso. Al contrario la Signora sarebbe stata punita per la sua incapacità nell’affrontare la crisi sanitaria, nel trovare un accordo con i diversi gruppi etnici e nel mantenere il sostegno dell’Occidente in seguito alla crisi determinata dalle violenze sui rohingya.

Accusa, quest’ultima, che appare grottesca pensando alle responsabilità di buona parte dell’intelligenza occidentale che ha abbandonato Aung San Suu Kyi – e con lei i rohingya – al proprio destino, accusandola di crimini contro l’umanità e genocidio per non essersi opposta con sufficiente forza alla persecuzione compiuta dai militari. È stato proprio l’Occidente, dunque, accecato da una hybris, a creare le condizioni per il golpe.

… per un’epidemia golpista

La situazione in Myanmar sta generando un effetto contagio in tutta l’area. Oltre a ridefinirsi come stato paria, è condannato a essere anche untore. E non solo per le decine di migliaia di persone in fuga. È come se tutti gli orrori della ex Birmania si replicassero o venissero alla luce nelle altre nazioni dell’Asean: la scarsità di ossigeno e di vaccini, il mistero sul numero di morti o contagiati, i cadaveri bruciati nei crematori dei monasteri o sepolti in fosse comuni, la miseria che rende un tampone un lusso (nelle Filippine, per esempio, costa otto volte il minimo salario giornaliero), la rinascita di pratiche magiche in sostituzione di cure mediche inesistenti, l’acuirsi di tensioni etniche, religiose e razziali in cui ognuno cerca nell’altro un capro espiatorio.

Inizialmente sembrava che la resistenza al virus dei popoli del Sudest asiatico fosse l’ennesima prova di una cultura che aveva gli anticorpi per contrastarlo. Per alcuni ricercatori, come l’italiano Antonio Bertoletti dell’Università di Singapore, poteva essere così, ma solo perché si era creata una sorta d’immunità dovuta all’esposizione a virus come la Sars.

Poi, nell’aprile scorso, è arrivata la variante Delta. I contagi e i decessi sono aumentati in modo esponenziale con una crescita superiore a ogni altra parte del mondo. Il Sudest asiatico e i suoi 655 milioni di abitanti sono divenuti l’ultimo hotspot della pandemia, rivelando i malfunzionamenti strutturali della regione: l’autoritarismo o la democrazia limitata, la corruzione e la burocrazia che l’alimenta, le diseguaglianze, il potere delle élite e delle oligarchie, l’assenza di un adeguato sistema di assistenza sociale e sanitaria.

La società disfunzionale e la trasmissione sessuale del virus

La Thailandia è un esempio perfetto di questa società disfunzionale: è stata modello per il golpe birmano e quindi vittima della stessa contaminazione tra Covid e politica, sia pure in forma meno virulenta. Dall’inizio della pandemia sino ad aprile 2021, i casi di Covid erano stati circa 28.000, con 98 morti. Da aprile a fine agosto i contagiati sono circa 400.000, i morti oltre 11.000.

L’epicentro di questa nuova ondata sono stati quei locali, come il Krystal Exclusive Club o l’Emerald, frequentati dai cosiddetti Vvip. Non semplicemente vip, bensì very very important person, che in quei locali incontrano ragazze che non sono semplici escort bensì aspiranti mia noi, moglie minore, amanti ufficiali, cui pagare l’affitto in un residence di lusso (o intestare un appartamento) e assicurare un tenore di vita adeguato allo status del Vvip.

La trasmissione del virus per via sessuale (in senso del tutto traslato), del resto, sembra comune ai paesi del Sudest asiatico. È accaduto anche in Cambogia dove i primi casi della nuova ondata si sono verificati tra i Vvip frequentatori del N8, esclusivo locale di Phnom Penh. A infettarli sarebbero state due delle quattro ragazze arrivate pochi giorni prima da Dubai a bordo di un jet privato.

In pochi giorni il Covid si è diffuso in modo tanto rapido e violento quanto inaspettato. In Thailandia il contagio e la morte, sempre più rapidamente, si sono spostati dai quartieri delle élite come Thonglor e Suan Luang, alle prigioni, ai dormitori dei lavoratori edili, agli slum come Khlong Toey, dove è impossibile qualunque distanziamento sociale, le condizioni igieniche sono precarie, l’assistenza medica limitata. E dove la malattia è vissuta come un ulteriore stigma sociale, il segno di un karma malefico.

Interessi regali in campagne vaccinali thailandesi

La crisi è aggravata dai ritardi nella campagna vaccinale. Il governo thailandese, infatti, l’aveva pianificata con l’uso quasi esclusivo del vaccino AstraZeneca, prodotto dalla compagnia nazionale Siam BioScience, su cui, a quanto sembra, facevano conto anche altri paesi del Sudest asiatico. A fine agosto, solo l’11% della popolazione era completamente vaccinato. Secondo alcuni siti dell’opposizione molte dosi sono state vendute all’estero. Ma sarà impossibile determinare responsabilità o cause: la società farmaceutica, infatti, fa parte del patrimonio della corona, controllato direttamente da re Vajiralongkorn. E qualsiasi critica o semplice dubbio rientra ineluttabilmente sotto la legge di lesa maestà.

Altro responsabile dei ritardi vaccinali è l’ineffabile ministro della Sanità Anutin Charnvirakul, già noto per aver dichiarato che i farang, gli occidentali, erano potenziali untori in quanto “sporchi”. Secondo molte indiscrezioni Anutin avrebbe dichiarato che il vaccino Pfizer non aveva dimostrato la sua efficacia sulle popolazioni asiatiche. Quindi avrebbe dato più fiducia al cinese Sinovac (che secondo le stesse indiscrezioni è in parte controllato da una delle più ricche famiglie thai).

Nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi mesi abbiano contenuto il dilagare della crisi sanitaria, il virus ha innescato la peggior crisi economica che abbia colpito la Thailandia negli ultimi vent’anni e 21 milioni di persone rischiano di non avere più mezzi di sostentamento. La Thailandia, che secondo un rapporto del 2018 era al primo posto nella graduatoria delle diseguaglianze sociali, rischia di incrementare in modo esponenziale il suo primato.

Ritorno al futuro della decrescita nella felice vita tradizionale 

La pretestuosità dei valori khwampenthai, la rivolta in salsa prik…

In una situazione del genere appare allucinante una delle soluzioni proposte dall’establishment, ispirata ai valori della khwampenthai, la thailandesità, più che a teorie macroeconomiche: un programma di decrescita felice secondo cui il popolo thai dovrebbe tornare a uno stile di vita tradizionale, che sembra finalizzato soprattutto a un maggior controllo. Sempre più detenuto dalle cinquanta famiglie più potenti del regno, il cui patrimonio combinato ha raggiunto la cifra record di 160 miliardi di dollari. A ogni buon conto, per evitare possibili conseguenze personali per qualsiasi eventuale errore, il ministro Anutin si è fatto latore di una legge che scarichi di qualsiasi responsabilità nella gestione del covid operatori sanitari e funzionari di ogni livello.

In questo clima era inevitabile che riprendessero le manifestazioni di piazza. Ma se prima si trattava soprattutto di una protesta d’élite che metteva in discussione la cultura gerarchica della tradizione thai, compreso il totem e tabù della monarchia, e si svolgevano secondo forme e modi da “indiani metropolitani” in salsa prik, piccante, oggi sono rivolte antigovernative, rabbiose, spesso violente, innescate dalla paura del virus e dal risentimento verso un sistema corrotto che non è riuscito a contenerlo. Altrettanto violenta la reazione della polizia che sempre più spesso fa uso della forza e sembra voler contendere all’esercito il ruolo di gendarme del governo, riappropriandosi del controllo delle strade (con tutti i benefici che ne conseguono).

… e i bachi nei principi della sapienza tradizionale

«La Thailandia sta precipitando in un nuovo caos», ha dichiarato un attivista di Human Rights Watch.

«C’è un certo conforto nella decadenza. È come confrontarsi con la prima nobile verità del Buddha, il dukka, l’inevitabile sofferenza che segna l’esistenza»,

mi aveva detto lo scrittore thailandese Tew Bunnag. Figlio lui stesso dell’ammart, l’élite, che ha ripudiato la sua classe sociale per dedicarsi alla meditazione e all’assistenza ai malati terminali, Bunnag commentava così il suo libro Il viaggio del Naga in cui il serpente gigante della mitologia hindu-buddista simboleggiava la natura che governa i destini umani.

«Vivi nella sensazione di questo sottile equilibrio tra il dukka e il tentativo di cogliere ogni attimo di piacere che ti offre la vita».

Il naga, oggi, sembra incarnarsi nel Coronavirus, ma sembra che la massa della popolazione thai abbia perduto la disperata capacità di cogliere il sanuk, quel piacere che allevia la sofferenza.

La pandemia di Covid-19, insomma, sta facendo crollare quella House of Cards, il castello di carte, che si reggeva sul principio del pii-nong, maggiore-minore, che riguarda l’età, il ruolo familiare, lo status professionale, economico, sociale, culturale, l’esperienza. Un complesso rapporto che era uno degli elementi della khwampenthai, divenuta espressione di un crescente orgoglio nazionale. Per la maggior parte dei locali, che fossero phrai o ammart, membri del popolo o delle élite, uniti in questo come nella passione per il som tam, l’insalata di papaya verde, la salvezza era insita nella loro capacità di rispettare le regole, nei loro rituali, come il wai, il modo di salutarsi giungendo le mani di fronte al volto, che evita ogni contatto.

Gli asiatici, infatti, giustificano ineguaglianze, colpi di stato, restrizioni e violazioni dei diritti umani affermando che per loro non si possono applicare i valori dell’Occidente. Al tempo stesso quegli stessi valori vengono contestati in funzione di una pretesa superiorità morale che deriverebbe dal mantenere immutati i propri valori. È qualcosa che va contro uno dei cardini della logica aristotelica: il principio di non-contraddizione. Ma, ancora una volta, parliamo di una logica occidentale, lineare, ben diversa da quella orientale. Qui vige un principio circolare in cui tutto è o può essere il contrario di tutto.

Il fallimento del minilateralismo

Quello che alcuni osservatori locali hanno definito “minilateralismo” dell’Asean a indicare un modello virtuoso di sviluppo in cui si confrontano gruppi di paesi, si sta rivelando come l’ulteriore limite di un’organizzazione sovrannazionale priva di visione strategica, di quella “centralità” che definisce la capacità di affrontare le sfide esterne al gruppo di nazioni. E come l’Asean si è rivelata del tutto incapace di gestire la crisi politica in Myanmar, ancor meno sembra capace di prendere posizione tra i grandi giocatori che si confrontano nello scacchiere dell’Asia orientale, in particolare nel Mar della Cina meridionale. Quella dell’Asean appare una vera e propria manifestazione di ignavia: i problemi non vengono risolti non tanto per divisioni interne, quanto perché non sono posti o sono rimossi. Ancora una volta si manifesta quel principio che in Thailandia è sintetizzato nell’espressione “mai pen rai”: non pensarci, non preoccuparti. Potrebbe accadere così anche per la ripresa dell’estremismo islamico nell’area – che non ha rinunciato al progetto di un califfato in Sudest asiatico.

Ripiegamento dall’arrembaggio asiatico…

In effetti sta accadendo il contrario di ciò che molti preconizzavano: il “Tramonto dell’Occidente” cui doveva succedere l’alba del “Nuovo secolo asiatico” sembra essersi arrestato al crepuscolo, cui sta seguendo un’improvvisa aurora che illumina l’ovest. Il “Post-Western World” sembra trascorso o comunque si è ristretto entro i confini dell’Impero di Mezzo. Sembra invertito un ordine che aveva assunto le caratteristiche di un processo naturale, quasi genetico, come se l’evoluzione della Repubblica Popolare Cinese si diffondesse in tutta l’Asia per partenogenesi. Un processo di cui facevano vanto soprattutto le nuove tigri asiatiche, le nazioni dell’Asean, del Sudest asiatico. Oggi invece la Cina diventa sempre più inaccessibile: le autorità della provincia dello Yunnan che segna il confine con il Sudest asiatico stanno progettando un muro che li protegga da ondate di profughi.

… e il ripiegamento dall’esotico

Agli occhi di un farang, quell’altrove dove anche le zone d’ombra facevano parte di uno scenario esotico in cui si compiaceva di vivere senza subirne le conseguenze, diviene un teatro della crudeltà dove non può più sottrarsi alla realtà, dove anche lui può divenire una vittima. La prima, più forte reazione a questa presa di coscienza è un desiderio di fuga, di ritorno in patria, con la pretesa di essere accolti come un figliol prodigo. È il preludio alla riconversione, al mea culpa, alla dichiarazione d’appartenenza a un mondo che, pur con tutti i suoi limiti, garantisce i fondamentali diritti umani, si basa su quei valori universali che si era stati tentati di rinnegare per la fatale attrazione degli “Asian Values” che apparivano più efficienti e adatti ad affrontare le sfide del nuovo millennio.

Ancora una volta la dicotomia è il velo alla semplificazione perché l’Asia stessa, i suoi valori cambiano profondamente in funzione geografica, culturale, religiosa, storica: Asia del Sud, centrale, orientale, Sudest asiatico, confucianesimo, buddismo (con le profonde differenze tra il Mahayana e il Theravada), islam, eredità coloniali, ideologia comunista o postmarxista, autocrazia e democrazia entrambe in più varianti del Covid.

Fallimento del policentrismo multipolare

«L’Asia è policentrica, multipolare… In Asia non c’è uniformità in termini di geopolitica e cultura e ognuna di quelle nazioni è un mondo a sé stante».

Lo ha scritto Francis Fukuyama in epoca prepandemica, quando il policentrismo appariva un antidoto alla globalizzazione, una nuova forma evolutiva. Oggi, però, si sta rivelando disfunzionale: la gestione della pandemia si è rivelata tra le peggiori al mondo (almeno secondo il Nikkei Covid-19 Recovery Index), circa 90 milioni di persone sono regredite alla condizione di povertà, la middle class è stata uccisa in culla, l’illiberalismo, l’autocrazia, l’etnonazionalismo e l’integralismo religioso si diffondono col virus. Le nazioni del Sudest asiatico si dimostrano non le nuove tigri bensì anatre zoppe che si dibattono in una palude distopica.

Resistenza confuciana?

In questo scenario apocalittico sembrano “salvarsi” solo Vietnam e Singapore, entrambi accomunati dalla comune radice confuciana. In Vietnam, che pure sta subendo una nuova e grave ondata del Covid, il controllo esercitato dal Partito, una classe dirigente più preparata e una lunghissima esperienza delle emergenze hanno contenuto il contagio e la crisi economica. Singapore, sempre più lanciata nella sua corsa verso la realizzazione di un’utopica Elysium, sta procedendo dalla pandemia all’endemia, ossia alla coesistenza col virus tenuto sotto controllo dai vaccini, dalle nuove terapie e da forme di rilevazione rapida del virus come l’analizzatore del respiro. Sono soprattutto questi modelli che hanno creato in molti occidentali l’illusione che tutto il Sudest asiatico potesse rappresentare un’alternativa politica ed esistenziale. Un equivoco, dunque, all’interno di un inganno.

Resilienza occidentalista?

In questa prospettiva culturale bisognerebbe ripensare a tutte le criticità europee rivalutando un sistema che si sta rivelando davvero resiliente. Tanto per usare in modo adeguato un termine abusato. Nel confronto con le nazioni dell’Asean si può comprendere e apprezzare il vero senso della libertà di cui godiamo. Proprio nei beni immateriali – quali la governance, l’innovazione, lo stato di diritto, il welfare, la cultura della libertà di pensiero e d’espressione – l’Europa può riaffermare il suo ruolo, definire un modello culturale. A condizione che ne abbia coscienza e capacità di affermarlo.

«Senza memoria, non vi è identità. E senza identità, siamo solo polvere sulla superficie dell’infinito», ha detto Jonathan Sacks, leader ecumenico, filosofo. Che avvertiva: «Le civiltà cominciano a morire quando perdono la passione morale che li ha portati a esistere».

  


Il pezzo che abbiamo proposto qui è un aggiornamento e un approfondimento operati dall’autore dopo la pubblicazione di un articolo che Massimo Morello stesso aveva scritto per “Il Foglio” uscito il 29 luglio 2021. Come già nella raffinata operazione iconografica operata da Roland Barthes – le due fotografie che corredavano L’Impero dei segni e riproducevano il ritratto di un medesimo giapponese con lievi, ma sostanziali differenze tra il volto nel primo frontespizio della prima illustrazione e la sua versione modificata al fondo del libro – qui si possono confrontare le due versioni e si noterà un’accresciuta amarezza orrifica proveniente sia dalle testimonianze aggiunte, sia dai nuovi dati sulla pandemia e il montaggio diverso nei due pezzi di argomenti simili e dati aggiornati restituisce moltiplicata la delusione dell’orientalista, il travaglio di una società che sembra fornire solo formule contraddittorie e regressive…

L’Oriente a pezzi

 

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Popoli oppressi vs cinismo tattico: quale soluzione? https://ogzero.org/il-diritto-dei-popoli-all-autodeterminazione-le-lotte-comuni/ Fri, 26 Feb 2021 12:26:50 +0000 https://ogzero.org/?p=2482 Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Sartori pubblicato il 31 agosto 2014 dalla rivista “Etnie” (dove trovate, l’articolo in versione integrale) con il titolo “Indipendentismo e anarchismo: relazione impossibile?”. Ne riportiamo qui alcuni brani che danno un senso compiuto al concetto di autodeterminazione che ci interessa particolarmente quando riferito a popoli che lottano […]

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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Sartori pubblicato il 31 agosto 2014 dalla rivista “Etnie” (dove trovate, l’articolo in versione integrale) con il titolo “Indipendentismo e anarchismo: relazione impossibile?”. Ne riportiamo qui alcuni brani che danno un senso compiuto al concetto di autodeterminazione che ci interessa particolarmente quando riferito a popoli che lottano – al di là delle istanze religiose o nazionaliste – per la propria identità, con la volontà di liberare dal controllo dall’esterno di un territorio e delle genti che lo abitano.


Una premessa. Personalmente considero l’indipendentismo come uno degli aspetti assunti dalle lotte per i diritti e per l’autodeterminazione dei popoli. E l’indipendenza uno sbocco possibile, non un destino necessario.

Alla richiesta di analizzare la possibilità di un rapporto organico, stabile e strutturale tra anarchismo e indipendentismo di sinistra, ho sempre risposto con una buona dose di scetticismo.
Tuttavia, dato che le circostanze e le scelte mi avevano portato a solidarizzare con irlandesi, baschi, corsi, curdi e altri (in quanto vittime di una forma di oppressione, una delle tante che devastano questa “valle di lacrime”), senza mai rinnegare i miei trascorsi giovanili inequivocabilmente libertari, ho cercato di vivere dentro questa contraddizione. Per quanto mi è stato possibile, in base al principio della makhnovsina: «Con gli oppressi contro gli oppressori, sempre».
Che poi ci sia anche riuscito, questo è un altro paio di maniche.

L’apparato statale è indispensabile?

In una fase precedente, evidentemente in preda all’ecumenismo, mi ero spinto oltre, scrivendo che «lottare per il superamento della forma-stato a favore dell’autorganizzazione totale delle classi subalterne deriva da una concezione del mondo non dissimile da quella di chi teorizza il superamento dello stato-nazione per l’autorganizzazione della comunità popolare» 1). E mi salvavo l’anima aggiungendo un indispensabile “Forse”. Del resto le “nazioni senza stato” che hanno saputo sopravvivere, conservare tradizioni e linguaggi, combattere l’oppressione e lo sfruttamento e talvolta anche difendere la propria terra dal degrado, non dimostrano, magari senza volerlo, che l’apparato statale non è poi così indispensabile?
Penso quindi che tra libertari e indipendentisti di sinistra (“nazionalisti”? “nazionalitari”? “abertzale”?) ci si possa comunque sopportare, si possa convivere. E talvolta, di fronte al comune nemico del momento, solidarizzare, lottare insieme 2).

Lotte comuni e condivisione

La Storia infatti ha registrato lotte comuni contro capitalismo, fascismo e imperialismo, contro il nucleare e in difesa dell’ambiente, dei diritti umani e dei prigionieri…. Oltre naturalmente alla condivisione di repressione, galera, esilio. Non sono poi mancate reciproche contaminazioni, biografie familiari e personali che si sovrappongono, osmosi tra gruppi libertari e indipendentisti di sinistra.

[…]

Popoli manovrati

Ma negli ultimi anni lo scenario sembra essersi ulteriormente complicato. Non tanto per la possibilità, comunque scarse, di coniugare in maniera duratura le istanze libertarie con quelle indipendentiste. E nemmeno perché questi “nazionalisti” siano cambiati in peggio. Da parte mia mantengo un profondo rispetto per tutti quei militanti baschi, catalani, irlandesi o curdi (da Bobby Sands al Txiki) che hanno perso la vita cercando di coniugare liberazione nazionale e sociale.

Quello che è cambiato, sicuramente in peggio, è l’accresciuta capacità del sistema tecno-industriale-militare dominante (il “caro”, vecchio imperialismo, fase suprema eccetera eccetera) di strumentalizzare i movimenti di liberazione. Anche questo un “effetto collaterale” della globalizzazione? L’autodeterminazione rischia davvero di ridursi, come avvertiva il sociologo catalano Manuel Castells, a una variabile che si usa o si getta a seconda del caso?
Una questione che ovviamente non riguarda soltanto gli anarchici, ma tutta quella sinistra antagonista, non omologata e non addomesticata che ancora si confronta con il diritto dei popoli all’autodeterminazione.
Certo, per i colonizzatori il divide et impera non è una novità. Viene praticato con successo almeno dai tempi di Giulio Cesare.
Le milizie curde alleate della Turchia che (come ha riconosciuto il Parlamento curdo in esilio) parteciparono al massacro degli armeni durante il genocidio del 1915 possono aver fornito un protocollo per l’utilizzo da parte della Francia, e in seguito degli Usa, di alcune minoranze indocinesi contro la resistenza vietnamita. In Irlanda del Nord era il proletariato protestante, maggiormente garantito, a condurre la “guerra sporca” (omicidi settari, spesso indiscriminati) contro gli abitanti dei ghetti cattolici. Da sottolineare che entrambi, indigeni irlandesi e coloni scozzesi, erano di origine celtica (non germanica, come gli inglesi, angli e sassoni). Un elemento in più per sottolineare l’artificiosità e la strumentalità, a tutto vantaggio dell’imperialismo di Londra, della divisione in due comunità reciprocamente ostili.
Putin ha potuto “pacificare” la Cecenia con il ferro e con il fuoco, utilizzando anche bande di ex guerriglieri indipendentisti divenuti collaborazionisti. Sul piano religioso, sciiti e sunniti, a fasi alterne, vengono strumentalizzati in Medio Oriente. Lo stesso avviene con le popolazioni minorizzate – curdi, beluci, turcomanni – alimentando e armando le loro aspirazioni a una maggiore autonomia o all’indipendenza.

Contraddizioni e guerre tra poveri

Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e al-Da’wa, notoriamente filoiraniani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente gli Usa avrebbero utilizzato in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad al-Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?
Anche le “guerre tra poveri” che hanno insanguinato il subcontinente indiano danno l’impressione di essere state in parte manovrate. Nel 2007 alcuni gravi attentati compiuti in occasione di feste nazionali e anniversari dell’India, vennero inizialmente attribuiti ai gruppi islamici. Successivamente emerse la pista dei separatisti del nord-est (bodo, naga…). Nel secolo scorso lo scontro era stato particolarmente duro nell’Assam, dove la maggioranza della popolazione è induista. Dal 1989 al 1996 la guerriglia dei bodo (in maggioranza cristiani) avrebbe causato la morte di migliaia di persone. Nel dicembre 1996 un attentato al Brahamaputra Express, mentre attraversava l’Assam, provocò più di trecento morti. Ancora prima delle rivendicazioni, l’atto terroristico venne attribuito ai bodo che due giorni prima avevano fatto saltare un ponte ferroviario.

Strategia della tensione mascherata da lotta per l’autodeterminazione?

Molto probabilmente in alto loco qualcuno pensa che è “sempre meglio che si ammazzino tra di loro”, purché il controllo del territorio e delle risorse rimanga saldamente nelle mani di chi detiene il potere. Si tratti di un esercito di occupazione, di una multinazionale o di criminalità organizzata come nei pogrom di Ponticelli. E naturalmente anche l’oppresso, il diseredato di turno ci metterà “del suo”.
Un caso limite, a mio avviso, quello dei karen, in perenne fuga tra Birmania e Thailandia e che da qualche tempo verrebbero sostenuti da gruppi neofascisti europei.
Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale e di quelli autonomistici non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Non a caso Manuel Castells ha parlato di «indipendenze a geometria variabile», denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese «a seconda di chi, del come e del quando». Ricordava che osseti e abkhazi si erano ribellati contro la Georgia nello stesso periodo in cui i ceceni si sollevavano contro la Russia. Inizialmente gli Usa appoggiarono l’insurrezione cecena, ma tollerarono facilmente la repressione da parte della Georgia. Analogamente nel caso del Kosovo (dove è stata poi costruita un’immensa base statunitense) si è invocato il diritto all’autodeterminazione, mentre per il Tibet non si va oltre qualche protesta simbolica. Quanto agli uiguri, sembra quasi che non esistano come popolo.

Il cinismo tattico caso per caso

«Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione – ha scritto il sociologo catalano – sono frutto di un cinismo tattico» e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno «strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente». Gli esempi si sprecano. Pensiamo al diverso trattamento riservato ai curdi in Iraq, già praticamente autonomi (e alleati degli Usa a cui hanno consentito di installare alcune basi militari), mentre quelli della Turchia continuavano a essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, grande alleato degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. Nel 2010, dopo una serie di impiccagioni di militanti curdi che l’opinione pubblica mondiale aveva completamente ignorato, i curdi dell’Iran (Partito per una vita libera in Kurdistan, Pjak, considerato il ramo iraniano del Pkk attivo in Turchia) sembravano essersi rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva rivelato “Le Monde”, ma poi la situazione sembra essere cambiata).
Nel caso di Timor Est, la popolazione subì per anni un vero e proprio genocidio nell’indifferenza dell’opinione pubblica. Tra le poche eccezioni, negli anni Settanta, Noam Chomski e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip). Solo di fronte al rischio concreto di una dissoluzione dell’Indonesia intervennero le forze internazionali, ripescando l’ex guerrigliero Gusmão, leader del Frente revolucionària de Timor-Leste independente (Fretilin) per farne il presidente. Pare che inizialmente non ne fosse particolarmente entusiasta, dato che aspirava a ritirarsi dalla vita politica e darsi all’agricoltura. Paradossale che per garantire l’indipendenza di Timor Est venissero impiegati anche soldati inglesi provenienti dalle caserme di Belfast.
E a proposito di Belfast, due situazioni molto simili come l’Irlanda del Nord e il Paese basco negli ultimi anni sembravano aver imboccato strade antitetiche. Soluzione politica, abbandono della lotta armata da parte di Ira, Inla e delle principali milizie lealiste, liberazione dei prigionieri politici e cogestione del governo locale a Belfast e Derry.

Repressione, ancora casi di tortura, tregue effimere, illegalizzazione di partiti (Herri Batasuna, Batasuna, Bildu, Sortu…), associazioni ( Jarrai, Haika, Segi, Gestoras pro Amnistia, Askatasuna…) e giornali (“Egin”, “Egunkaria”) a Bilbo, Donosti e Gasteiz. Solo nel 2012, con la definitiva rinuncia alle armi di Eta e la possibilità per la “sinistra abertzale” di partecipare alle elezioni (con Sortu), si è riaperta la possibilità di una soluzione politica del conflitto. Ma al momento Arnaldo Otegi e altri esponenti indipendentisti rimangono ancora in galera (come se durante le trattative Blair avesse fatto arrestare Gerry Adams) e per i prigionieri politici baschi, in particolare per gli etarras, la situazione rimane molto difficile 3).
La mia ipotesi è che negli anni Novanta il «grande laboratorio a cielo aperto per la controinsurrezione» dell’Irlanda del Nord dovesse chiudere in vista della partecipazione britannica alle guerre in Afghanistan-Iraq e del ruolo fondamentale assunto da Londra. Meno convincente la tesi della conversione di Blair al cattolicesimo, anche se non si può mai dire. Quanto agli Usa, Clinton avrebbe agito per conservare il voto dei cittadini statunitensi di origine irlandese che solitamente votano per i Democratici.

L’ombra dei poteri globali

È ipotizzabile che in Irlanda del Nord la stessa Cia abbia dato una mano per togliere di mezzo qualche capo delle milizie lealiste (filobritanniche) che non aveva compreso la nuova situazione. Ipotesi formulata anche dal compianto Stefano Chiarini. Al contrario, già negli anni Novanta Washington inviava agenti della Cia nel Paese basco per coadiuvare l’apparato repressivo.
Il problema di “quale autodeterminazione” si pone soprattutto nel caso di stati nati dalla colonizzazione, dato che le loro frontiere sono state stabilite in base a trattati europei con cui si decideva arbitrariamente il destino delle popolazioni. I poteri globali reali (economici, militari, tecnologici) stabiliscono caso per caso, di volta in volta, se appoggiare una lotta di liberazione, legittimarne la repressione o anche inventarne una di sana pianta. Al limite della farsa l’episodio che ha visto un gruppo di aspiranti golpisti (quasi tutti membri di una loggia massonica) arruolare mercenari per sobillare la rivolta secessionista nel Cabinda, regione angolana ricca di petrolio. Episodio da segnalare per l’uso spregiudicato di due onlus (Freedom for Cabinda e Freedom for Cabinda Confederation) create appositamente per ricevere donazioni.

Alcuni casi esemplari, storici, di separatismo a puro uso e consumo di qualche potenza coloniale (come il Katanga di Tshombe nell’ex Congo belga) potrebbero tornare di attualità. Per esempio in Bolivia con Santa Cruz, capoluogo di una regione ricca, abitata prevalentemente da discendenti dei colonizzatori, che ha spinto per l’indipendenza. Chissà? Forse Evo Morales (il presidente boliviano esponente del Ma, Movimento al socialismo) ha rischiato davvero di finire come Lumumba, il presidente progressista del Congo, assassinato nel 1961 dagli sgherri di Tshombe al servizio dell’imperialismo belga.
E forse non è un caso che nel 2008, dopo anni di impegno a fianco dei popoli oppressi, la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip), riconosciuta dall’Onu e dall’Unesco, abbia definitivamente sospeso le sue attività. Fondata da Lelio Basso, la Lidlip è stata per trent’anni portavoce delle minoranze, delle popolazioni perseguitate, dei movimenti di liberazione dal colonialismo.

 

NOTE

1) Gianni Sartori, Catalogna – Storia di una nazione senza stato, ed. Scantabauchi, 2007.
2) Ovviamente mi riferisco all’indipendenza come sbocco di una lotta di liberazione, dall’oppressione coloniale classica, “da manuale”. Come nel caso di Algeria, Guinea Bissau, Mozambico, Angola, Irlanda… o dal “colonialismo interno” come potrebbe essere per i Paesi baschi, il Tibet e la Cecenia. A mio avviso si può legittimamente parlare di movimenti di liberazione quando la lotta è anche contro il sistema economico responsabile dell’oppressione (capitalismo, neoliberismo, capitalismo di stato…). Escludendo, per quanto mi riguarda, dall’interessante dibattito partiti come l’Adsav bretone, la Lega Nord o alcuni indipendentisti fiamminghi nostalgici del nazismo.
3) Ma l’auspicata soluzione politica del conflitto è tornata nuovamente al palo dopo la retata del 1° ottobre 2013 contro 18 esponenti di Herrira (tra cui il portavoce Benat Zarrabeitia). Il giudice Eloy Velasco ha accusato l’associazione basca per i diritti umani dei prigionieri politici di essere “un tentacolo di Eta” in quanto avrebbe organizzato manifestazioni di “esaltazione” dei prigionieri baschi.

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“L’occhio del Buddha” e la Realpolitik di Aung San Suu Kyi https://ogzero.org/myanmar-la-realpolitik-della-signora-e-locchio-del-buddha/ Wed, 02 Dec 2020 20:05:02 +0000 http://ogzero.org/?p=1916 «La spiegazione è semplice: la gente non dimentica» dice un vecchio amico che vive in Birmania da più di vent’anni, un uomo per tutte le stagioni. «La gente sta meglio e ha paura di perdere quel poco che ha guadagnato». La memoria di un passato prossimo vissuto nella paura e la percezione del cambiamento spiegherebbero […]

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«La spiegazione è semplice: la gente non dimentica» dice un vecchio amico che vive in Birmania da più di vent’anni, un uomo per tutte le stagioni. «La gente sta meglio e ha paura di perdere quel poco che ha guadagnato». La memoria di un passato prossimo vissuto nella paura e la percezione del cambiamento spiegherebbero il successo di Aung San Suu Kyi e della sua National League alle elezioni dell’8 novembre.

Una vittoria schiacciante per la Nld

I risultati vanno oltre il “landslide”, la valanga di voti, ottenuta nel 2015. La Nld ha conquistato l’83,2% dei voti di 37 milioni di votanti, aggiudicandosi 396 seggi su 476 nelle due Hluttaw (le camere). L’Usdp, lo Union Solidarity and Development Party, avatar civile di Tatmadaw, le forze armate, ha ottenuto solo il 6,9% dei voti: una “umiliante disfatta”, è la ricorrente definizione, che rischia di essere pagata a carissimo prezzo dai suoi leader. I militari conservano il 25% dei seggi in parlamento, come previsto dalla costituzione creata su misura nel 2008 che assicura loro l’effettivo mantenimento del potere, ma grazie a questo risultato la Nld può formare il nuovo governo e “nominare” il prossimo presidente.

«Un risultato comunque inatteso che dimostra che il popolo la ama e la segue. Rispetto alle precedenti elezioni, queste le conferiscono un vero mandato per il cambiamento. E sono la prova di discontinuità con il passato», commenta un diplomatico, uno di quelli che hanno cercato di far comprendere quanto la realtà locale fosse lontana dall’opinione pubblica occidentale.

«Secondo me ha vinto perché l’hanno vista all’Aja. Lei non ha difeso i militari, ha difeso la nazione» spiega un missionario che percorre le vie meno battute della Birmania, riferendosi all’intervento di Aung San Suu Kyi alla Corte Internazionale dell’Aia per opporsi alle accuse di genocidio nei confronti dei rohingya, l’ormai tragicamente famosa etnia musulmana. «Se la prima volta era entusiasmo, questa volta la vittoria è pensata. Lei rappresenta l’unità. E sono stati proprio i rohingya che hanno unito la nazione».

Burma: “hermit kingdom”

Bisogna ancora affidarsi a “voci” di personaggi che per lunga abitudine preferiscono restare anonimi, per sapere che cosa accade “inside Burma”, all’interno della Birmania, come si diceva sino a dieci anni fa. Allora il paese era un “hermit kingdom”, una nazione, come la Corea del Nord (che ne era uno dei maggiori sostenitori) autoisolata, metaforicamente e fisicamente, dal resto del mondo per proteggere un ordine autocratico. Allora la stessa denominazione del paese, Birmania versus Myanmar, era segno di una presa di posizione, dissidente nel primo caso, ufficiale o “collaborazionista” nel secondo. Allora le voci che arrivavano a noi erano messaggi trasmessi da dissidenti, reporter più o meno in incognito, informatori. E per trasmetterli era necessario un programma per bypassare i blocchi del governo.

Oggi il Myanmar (ormai il termine è divenuto politicamente accettabile, intercambiabile con Birmania) è nuovamente chiuso. Ma ora è per proteggersi da una pandemia che qui potrebbe avere conseguenze inimmaginabili. Se il Myanmar è sfuggito alla prima ondata, con 800 contagi alla fine di agosto, la seconda si è rivelata brutale, con oltre 85.000 casi e 1800 morti a fine novembre. Le notizie, tuttavia, continuano ad arrivare: via mail, consultando siti locali, tramite telefonate, Messenger, WhatsApp, Facebook. In alcuni casi le “voci” si confondono, sovrappongono, appaiono fake, raccontano oscuri complotti, citano altre voci o esprimono analisi geopolitiche.

Le Covid-elections

Tutte quelle voci, nel mattino italiano dell’8 novembre, quando le urne stavano per chiudersi in Birmania, parlavano di lunghissime code ai seggi aperti alle 6 locali, di «banchetti di cibo allestiti dai militari di fronte ai seggi, ma che la gente non mangiava», oppure dell’organizzazione dei seggi «dove erano fornite gratis mascherine N-95 e gel igienizzanti».

Le “Covid elections”, come definite da molti osservatori, hanno “dominato la psiche locale” per oltre un mese, dal giorno in cui Suu Kyi ha affermato che le elezioni «erano più importanti del Covid». Secondo i suoi oppositori, lo ha fatto per sfruttare la visibilità ottenuta con la gestione dell’emergenza. Ma è più probabile che l’abbia fatto perché i militari chiedevano un rinvio, in seguito a cui avrebbero potuto dichiarare lo stato d’emergenza – previsto dalla costituzione del 2008 – quindi sciogliere il parlamento e reclamare il potere in nome della salvezza nazionale.

In questa situazione le elezioni di domenica 8 novembre, si possono rivelare le più critiche e decisive per il futuro del paese proprio perché Aung San Suu Kyi ha ormai maturato quella Realpolitik che invece le ha fatto perdere il consenso dell’Occidente.

Un modello di normalizzazione

È una storia che comincia con le elezioni del 1990, le prime dopo quasi trent’anni di dittatura. Anche allora vinse la Nld, ma furono annullate dai militari anche per una forma d’ingenuità da parte di Aung San Suu Kyi e del suo partito, che aveva proposto un processo contro gli stessi generali. Da allora nemmeno il Nobel per la pace conferitole nel 1991 riuscì a proteggerla dagli arresti e dagli attentati.

«La Signora ha vissuto all’estero sino al 1988. Non conosceva il suo paese, non aveva esperienza politica» dice una delle “voci” che commentano le elezioni da Yangon. «Adesso sembra accettare il compromesso. Si metterà d’accordo con i giovani militari perché anche i militari non sono quelli di un tempo. Vogliono essere considerati un esercito di professionisti».

Con più sottigliezza politica (frutto di una lunga militanza nella sinistra democratica) è la stessa opinione della senatrice Albertina Soliani, Presidente dell’Associazione Amicizia Italia-Birmania e amica personale di Aung San Suu Kyi. «C’è bisogno di normalizzazione. Anche lei pensa a una nuova generazione di militari. Che si distacchino dalla politica in cambio di una legittimazione».

La storia si evolve con le prime elezioni semilibere del 2010, quando la Birmania sembra avviarsi sulla “road map” verso la democrazia. Anzi: “una democrazia fiorente nella disciplina”, come in molti paesi asiatici. Allora la National League di Aung San Suu Kyi, ancora icona di democrazia, rifiutò di partecipare. Nel 2015, invece, le elezioni furono vinte dalla Nld in un vero e proprio plebiscito. Il Myanmar apparve come una sorta di “modello” per tutto il Sud-est asiatico: un compromesso storico tra un partito democratico e popolare, i militari e le rappresentanze della miriade di etnie che si contendono larghe aree del paese.

L’Affair Rohingya

La crisi di questo modello è stata innescata proprio dal problema etnico, sommato alla questione rohingya. La crisi è stata esacerbata dall’atteggiamento dell’Occidente che ha giudicato e condannato “in remoto” (forse influenzata da lobby finanziarie islamiche) arrivando ad annunciare sanzioni che avrebbero effetti devastanti in un paese dove le milizie etniche sono veri e propri eserciti (come dimostra lo stesso Arakan Army, che si oppone al governo e condanna Aung San Suu Kyi giudicata “complice” dei rohingya). Non è un caso che l’Ashin (il Maestro) Wirathu, monaco ultranazionalista definito “il volto del terrore buddhista”, latitante da 18 mesi in quanto “fomentatore d’odio”, si sia costituito a pochi giorni dalle elezioni. Per sua ammissione, così poteva «chiamare il popolo a votare contro Aung San Suu Kyi e il ‘demone’ della National League for Democracy». Per alcuni dei suoi seguaci, Wirathu è un weikza, un mago. In questo caso però si è scontrato con una figura più forte, Amay Suu, Madre Suu, che incarna quello che è stato definito il “culto dell’eroe” diffuso in Birmania (e in tutta l’Asia, del resto, secondo gli studi di mitologia e religione comparata di Joseph Campbell).

Centinaia di rohingya passano il confine con il Bangladesh

Riconciliazione nazionale: un processo schizofrenico

I birmani, evidentemente, credono che la Signora sia la sola ad avere l’autorità politica e morale per evitare che il paese torni a essere una dittatura, realizzare la riforma costituzionale e sviluppare un’economia equa e solidale in un paese dove il 24% della popolazione vive sotto il livello di povertà. Obiettivi che dipendono da un processo di riconciliazione nazionale che procede in modo schizofrenico. È accaduto anche in queste elezioni, cancellate in molti distretti controllati da milizie etniche (negli stati Rakhine, Shan e Kachin). La decisione è stata presa per “ragioni di sicurezza” giustificate sia dagli scontri tra Tatmadaw e milizie, sia dagli appelli alla violenza di estremisti come Wirathu, e apparentemente ha ottenuto il solo risultato d’inasprire le tensioni. A differenza di quanto accaduto nel 2015, però, quando il governo eletto aveva peccato d’arroganza pensando che fosse sufficiente il sostegno della maggioranza d’etnia bamar, questa volta il portavoce della Nld ha immediatamente dichiarato la volontà di formare un governo d’unità nazionale con i partiti etnici.

A contestare il risultato delle elezioni è rimasto solo l’ex generale Than Htay, segretario dell’Usdp, che ha denunciato brogli d’ogni genere e, seguendo l’esempio di Trump, ha richiesto nuove elezioni. Peccato sia stato subito sconfessato dagli stessi militari, in particolare dal Comandante in Capo di Tatmadaw, il generale Min Aung Hlaing che ha dichiarato di accettare l’esito delle urne. A nulla è valso il supporto del segretario di stato americano Mike Pompeo, che è sembrato voler accomunare nell’ingiustizia Trump e Than Htay, senza rendersi conto di quanto potesse apparire grottesco.

Sia pure con motivazioni diverse, la vittoria della Nld appare malaccetta in gran parte dell’Occidente, dove sembra ci sia un rifiuto concettuale di ciò che hanno affermato tutte le nostre “voci” birmane: Aung San Suu Kyi è amata e gode della fiducia del suo popolo. Analisti e osservatori occidentali non cercano risposte bensì conferme alle loro opinioni. Nella maggior parte degli articoli sulle elezioni birmane la parola rohingya appare sin dalle prime righe, condizionando le analisi, piegandole alla tesi secondo cui l’utopia birmana incarnata da Aung San Suu Kyi sia mutata nell’ennesima manifestazione di dittatura.

Miscuglio febbrile

Sfugge così la complessità della situazione. «La Birmania somiglia a parti dell’Europa e del Nord America nel XIX secolo: un miscuglio febbrile di nuove libertà e nuovi nazionalismi, capitalismo sfrenato, nuove ricchezze e nuova povertà, città e baraccopoli che spuntano come funghi, governi eletti, popoli esclusi e violente guerre di frontiera; uno specchio del passato, turbo-esasperato da Facebook e dalla vicina potenza ad alta industrializzazione, la Cina» scrive Thant Myint-U nel saggio L’altra storia della Birmania. Myint-U è lui stesso un “miscuglio”: storico, ex funzionario dell’Onu, nipote di quel Maha Thray Sithu U Thant che tra il 1961 e il 1971 fu segretario generale delle Nazioni Unite, nel 2011 ha iniziato a collaborare col governo come consigliere del presidente Thein Sein, ex generale che è il vero artefice della transizione verso la semidemocrazia. Nei suoi libri la Birmania è una metafora della geopolitica asiatica. È “L’occhio del Budda”, a indicare l’importanza strategica della Birmania nello scenario della regione che era definita Indocina, punto di unione e collisione delle grandi civiltà asiatiche.

Accordi e disaccordi: rotte e trattati

Oggi unione e collisione sono tra Cina e Stati Uniti. Anzi, tra Asia e Occidente. Negli ultimi anni i fronti sono divenuti ancor più fluidi: Occidente significa Stati Uniti e Unione Europea, Asia vuol dire Cina, India, Asean (l’associazione delle nazioni del Sudest asiatico) e Asia orientale (Giappone e Corea).

Il Myanmar firma il Regional Comprehensive Economic Partnership

«Entrambe le parti, Nld e militari, seguono una linea di bilanciamento fra le grandi potenze secondo la politica sancita con la conferenza di Bandung», afferma una delle “voci” di Yangon riferendosi alla conferenza del 1955 che segnò l’affermazione del movimento dei non-allineati. Ma nella geopolitica contemporanea appare sempre più difficile – specie per paesi come il Myanmar – sfuggire all’orbita della megastrategia cinese. Se ne è avuta rappresentazione una settimana dopo il voto, il 15 novembre, quando è stato siglato il Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) l’accordo economico-commerciale tra i 10 paesi dell’Asean plus Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. Il Rcep, oltre a creare il blocco commerciale e d’investimento più grande al mondo, si integra nei progetti della Belt Road Iniziative (Bri), le nuove vie della seta, e segna lo spostamento dell’Asean nella sfera d’influenza di Pechino. È un movimento di dimensione tettonica provocato anche dalla politica estera statunitense. Il presidente Trump, per marcare il distacco dal “pivot to Asia” di Obama, che affermava il ruolo strategico dell’Asia extracinese, e ribadire il suo “America First”, nel 2017 si è ritirato dalla Trans-Pacific Partnership, l’accordo di libero scambio tra gli Usa, il Canada e altri 10 paesi del Pacifico che sino ad allora si era rivelato il maggior ostacolo al progetto della Rcep. Ironia della sorte: il 17 novembre il presidente Xi Jinping ha annunciato la disponibilità ad aderire alla Tpp.

India: la grande esclusa

Oltre all’America, altro grande assente dal Rcep è l’India, preoccupata dallo strapotere cinese. Per questo, almeno in apparenza, affianca gli Stati Uniti nella strategia per «un Indo-Pacifico libero, aperto e inclusivo». In realtà è probabile che l’India, con Giappone e Corea del Sud, cerchi di bypassare i progetti cinesi di collegare Oceano Indiano e Pacifico Occidentale. Progetti che hanno il loro centro nell’occhio del Buddha, il porto birmano di Kyaukphyu, terminale che collegherebbe la baia del Bengala con la provincia dello Yunnan e da là, seguendo uno dei corridoi delle vie della seta, con il Mar della Cina Orientale. Non a caso l’India si è rivelata ben più proattiva dell’America, “regalando” al Myanmar un sottomarino. «I militari adorano questi giocattoli e non amano troppo la dipendenza dalla Cina» aggiunge la “voce” da Yangon appassionata di questo risiko.

«Dopo le elezioni dovrebbe aprirsi una nuova stagione di partnership», dice la Soliani. Ma si riferisce a quelle americane. La senatrice, infatti, afferma che il presidente eletto Joe Biden avrebbe stabilito un rapporto personale con Aung San Suu Kyi sin dal 2016, quando era vicepresidente e incontrò la Signora a Washington, un anno dopo la visita di Obama a Yangon. Secondo la Soliani, inoltre, Suu Kyi e la nuova vicepresidente Kamala Harris sono accomunate dall’influenza del pensiero di Gandhi.

Il piano di rilancio economico

Biden ha già manifestato attenzione verso l’Asean e annunciato un piano di commercio internazionale che potrebbe contrastare la Rcep, ma sembra difficile che in Birmania se ne possano avvertire le conseguenze nel breve termine. Più probabile che la combinazione di un presidente americano attento al Sudest asiatico e l’eclatante vittoria della Nld possano invertire la tendenza di Stati Uniti e Unione Europea nei confronti di una nazione criminalizzata ma che invece esprime un percorso democratico più avanzato rispetto a molti paesi dell’area. È anche grazie al rafforzamento della Nld, inoltre, che il governo del Myanmar sta per lanciare un ambizioso piano di riforme economiche, il Myanmar Economic Resilience and Reform Plan (Merrp).

La Birmania come Singapore?

«Tutti sognano Singapore. Aung San Suu Kyi potrebbe essere come Lee Kuan Yew», dice un vecchio amico di Yangon che dimostra una fiducia totale nella Signora, tanto da paragonarla al demiurgo della città-stato. E per sottolineare quanto la Birmania stia mutando su quel modello fa un’osservazione bizzarra ma significativa riferendosi alle chiazze gialle delle cicche di betel (impasto euforizzante di noce d’areca, foglie di betel e calce) che disseminavano le strade di Yangon e di tutta la Birmania. «Per terra non c’è uno sputo di betel».

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