Bihać Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/bihac/ geopolitica etc Thu, 25 Aug 2022 10:05:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Al centro dei Balcani https://ogzero.org/studium/al-centro-dei-balcani/ Mon, 27 Dec 2021 17:49:46 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=5640 L'articolo Al centro dei Balcani proviene da OGzero.

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Bosnia e dintorni

Le tensioni dell’ex Jugoslavia tornano ad addensarsi a 40 anni dalla morte di Tito e a 26 da Dayton. Il centro di tutto è rappresentato dalla multietnicità bosniaca, che era già evidente durante l’assedio di Sarajevo.
Ai conflitti secolari tra le comunità che da sempre costituiscono il tessuto del territorio bosniaco ora si sommano i flussi di migranti e la rotta balcanica è tra le più impegnative e le frontiere sono blindatissime e le condizioni di vita durissime.
Qui riprendiamo le sue “nuove” considerazioni dal campo nel gelido gennaio bosniaco.
Simone Zito ha raccontato nel suo libro la sua spedizione estiva: gli incontri, le situazioni, le modalità di attivismo e quelle che innesca il Game, la repressione della polizia e i danni sul corpo delle persone in movimento (Pom), la diffidenza, la delazione e l’accoglienza, la tolleranza della popolazione bosniaca.
Erano le sue vacanze estive dal lavoro. Ora è tornato a spendere le sue vacanze invernali a Bihać e cominciano a trapelare nuovi racconti, nuovi incontri, diverse situazioni. paesaggi innevati. E nuove morti e sofferenze e repressioni.

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Avanzamento


La feroce accoglienza europea nei Balcani

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Diario parallelo di Simone – Bihać, agosto 2021 / gennaio 2022

Il sugo manzoniano

Decalogo  11 agosto 2021

  1.  Molti ragazzi che incontriamo hanno l’età dei miei allievi (insegno alle superiori).
  2.  Sono soprattutto afgani che scappano dai Taliban.
  3.  Spesso l’odissea del viaggio dura mesi o anni. Rischia di diventare la loro vita.
  4.  Chi può paga trafficanti che gli permettono di bruciare le tappe in cambio di svariate migliaia di dollari. Gli smuggler “corretti” prendono i soldi una volta che riescono a portarti a destinazione. Quelli “infami” possono tranquillamente stuprare le donne o denunciare alla polizia i migranti.
  5.  La scabbia è endemica. Abbiamo visto gambe che sembravano gruviere. Non si può curare perché le condizioni igieniche e i cambi di vestiti, tende e coperte non sono sufficienti. Quello che facciamo è cercare di alleviare il dolore, disinfettare, ridurre il prurito.
  6.  I migranti psicologicamente più in difficoltà a volte sono quelli con una maggiore cultura e maggiormente consapevoli di essere trattati come animali. Ci sono case occupate dai migranti piene di blister esauriti di psicofarmaci.
  7.  I migranti provano continuamente il Game. In genere si fanno 10 giorni di cammino evitando città, mercati, luoghi affollati seguendo una mappa con il gps. Altri però cercano di passare solo tra boschi e montagne e in quel caso il “Cammino di Santiago” di questi dannati della terra dura 22 giorni. Impossibile portare acqua e cibo sufficiente per un viaggio così lungo.
  8.  Arrivano sfatti a Trieste perché camminano 14-16 ore al giorno. Quando la polizia croata o slovena individua gruppi numerosi spesso aspetta la notte per prenderli, perché dormono senza scarpe e non riescono a scappare.
  9.  La polizia croata mena, ruba, rompe i cellulari, brucia borse e vestiti, prende le scarpe. Quando li respinge, i migranti possiedono solo più un paio di mutande, pantaloncini e una maglietta. Se hanno più di una maglietta gliela prendono. L’Europa finanzia e, di fatto, promuove tutto questo.
  10.  Le frontiere fanno schifo, bisogna distruggerle.

C’è… bisogno di psicologi ed etno-psicologi da queste parti  4 gennaio 2022

  • C’è chi è un amico pastho che ha imparato a dire “mi sono gustato la doccia” e “sciupa feste” in italiano. Lui ci insegna che “saba ba guru” vuol dire “ci vediamo domani” e una serie di altre parole che non bisogna per forza riportare.
  • C’è chi c’era già questa estate e fa un po’ male sapere che tu sei tornato a casa e lui è rimasto nella topaia in cui l’avevi lasciato.
  • C’è chi è un ragazzo del kashmir che ci insegna che “freddo” in Grecia si dice “freddo”.

  • C’è chi ci chiede di fare la doccia dicendoci che è più di un anno che non ne faceva una e sta trenta minuti sotto il getto d’acqua calda. E direi che se li merita tutti.
  • C’è chi sceglie di vivere in una baracca a un’ora e un quarto da Bihać per stare lontani dalla polizia e dagli Alì Baba, decidendo di camminare quasi tre ore al giorno per fare praticamente qualsiasi cosa.
  • C’è chi balla e ride perché gli va o perché obbligato, ma c’è anche chi è schizzofrenico e avrebbe bisogno di un aiuto psicologico significativo (c’è bisogno di psicologi ed etno-psicologi da queste parti).
  • C’è chi ci chiede di fare la doccia e poi stende una coperta per poter pregare verso La Mecca.
  • C’è chi è un ragazzo scappato dal suo paese perché attivista politico a 16 anni e ora ne ha 19 ed è da tre anni sulla rotta. È sveglio e dagli occhi puliti. Ha un dente nero e mi sono chiesto se gli facesse male o se avessimo potuto fare qualcosa, ma non ho osato chiederglielo (per ora).
  • C’è chi, prima di farsi una doccia, si fa mettere dei sacchetti di plastica attorno al piede per coprire una fasciatura. La faccia non è bella. Ci raccontano che, cucinando, gli è caduto olio bollente sulla caviglia. Quando scopre la ferita e la vedo mi gira un po’ la testa. Non potrei mai fare il medico, ma per fortuna c’è chi lo è e passa tutti i giorni a cambiare le fasciature.
  • C’è chi si affida a trafficanti infami che per attraversare il deserto dell’Iran sono capaci di mettere anche tre persone dentro un bagagliaio senza fermarsi agli alt e ai posti di blocco. Il problema è che la polizia poi spara alle gomme per cercare di fermare il veicolo, ma magari becca il serbatoio è la macchina prende fuoco o becca le persone imprigionate all’interno. Immagino i drammi della persona colpita o di quanti rimangono chiusi con dei cadaveri dentro un bagagliaio per delle ore (c’è bisogno di psicologi ed etno-psicologi da queste parti).
  • C’è chi balla a piedi nudi e in maniche corte il 2 gennaio nella jungle di Bihać, cantando una canzone alla fidanzata lontana.

  • C’è chi si potrebbe permettere un taxi game e arrivare in Italia in poche ore, ma si sente responsabile di qualche amico che è partito con lui e decide di stare loro vicino perché conosce l’inglese e può essere di aiuto. Le mamme quando li chiamano vogliono parlare con lui per sapere che va tutto bene.
  • C’è chi lavora in una associazione umanitaria e dice che ora la situazione a Bihać è perfetta.
  • C’è chi è una cucciola di cane che si chiama Amore ed è stata adottata in uno squat. Morde qualsiasi cosa capiti a tiro, è per nulla magra e piuttosto allegra. Abbiamo tentato di farle una doccia di cui aveva un gran bisogno, ma non era molto dell’idea.

  • C’è chi a capodanno gioca al telefono senza fili tra persone che parlano sei lingue diverse tra europei, bosniaci, croati e migranti. Io ho scelto “Arvëdse e n’gamba”, non ci siamo arrivati nemmeno vicini.

Le abilità tecnologiche a conforto di esistenze precarie

Energia pulita  24 agosto 2021

È capitato in più occasioni che prestassimo i nostri telefoni a qualche ragazzo per chiamare casa. Questo perché la polizia croata requisisce i telefoni di tutte le persone che ferma, impedendo loro di poter sentire i genitori per sapere se sono ancora tutti vivi. E questo è di una violenza schifosa.

Per provare a stemperare, almeno in parte, questa situazione abbiamo installato nella jungle tre pannelli fotovoltaici, autocostruiti, in modo da permettere a chi in quei posti vive e li attraversa, di poterlo fare con il cuore un po’ più leggero e il cellulare acceso. Senza telefono, da queste parti, non si va lontano. Sicuramente non in Europa. Un grazie pieno di gioia e rabbia al collettivo Rotte Balcaniche – Alto vicentino per la semplicità, la generosità e l’energia che ci mette nel sostenere i dimenticati e combattere le frontiere.

Pannelli al sole agostano


Bucato splendente con il detersivo della Jungle

Questa estate era fantascienza  4 gennaio 2022

In genere è la mamma che ti insegna ad usare la lavatrice: dividere i colori e i tessuti in modo da non trovarsi tutto il bucato rosa o il maglione di lana preferito della grandezza giusta per tuo nipote di 4 anni.

Grazie al collettivo Rotte Balcaniche – Alto vicentino, alle loro mani, conoscenze e dedizione è stato possibile costruire un impianto idraulico nel magazzino di NoNameKitchen, in modo da poterlo collegare a tre lavatrici e due asciugatrici comprate in Italia e portate qui. Lavorano praticamente a ciclo continuo. Laviamo tutto a 60 o 90 gradi (la mamma non sarebbe d’accordo perché si rovinano i tessuti delicati, ma se avesse da gestire la scabbia o altre malattie, probabilmente userebbe il napalm). Questo è prezioso perché quando facciamo i trattamenti o le docce, i ragazzi ci danno i loro vestiti da lavare e glieli riportiamo puliti. Questo vuol dire spendere meno soldi per gli acquisti, meno spreco e meno rifiuti (i Pom spesso buttano i vestiti vecchi quando ne hanno di nuovi), più pulizia nella jungle.

Le acque dell’Una. Gelide in ogni stagione

Una  31 luglio 2021

Vivere a cinque minuti da un fiume balneabile ha i suoi vantaggi, tipo riuscire a sopravvivere ai 40 gradi di questo luglio. Alcuni campi e meleti separano la casa dal fiume Una, una collana verde smeraldo che nasce in Croazia e si fa ammirare per 212 km. Se metti i piedi dentro ti viene voglia di tirarli fuori perché la temperatura è quella dei torrenti di montagna.

Poi se vinci la paura e ti butti, quando esci e ti metti al sole senti ogni centimetro di pelle che pizzica come le corde di una chitarra che suona una bella musica. Ti senti un po’ più felice con le goccioline ancora attaccate alla pelle. “Forse è uno dei fiumi più belli del mondo”, penso. L’Una si muove placido ed è di un verde vivo come pochi. In centro città si vedono spesso bimbi fare il bagno, barche da pesca o coppiette apparentemente felici andare in canoa.

Immagino sia molto bello anche a Novi Grad, dove una notte di due giorni fa il fiume si è mangiato un bambino afgano di cinque anni. È scivolato dalle braccia del padre mentre cercava di guadarlo per arrivare in Croazia insieme alla moglie e ad altri quattro figli. È scivolato. L’hanno ripescato dopo un’ora.

Penso sia sbagliato, però, credere che sia morto per colpa del fiume o di una traversata “illegale” da parte di una «famiglia di immigrati clandestini», come simpaticamente ci ricorda “La Stampa”. A ucciderlo è stato il confine ed è Bruxelles che finanzia la Croazia con mezzi, militari e milioni di euro per dare la caccia ai migranti. Quando scrivo “caccia”, lo faccio in senso proprio: usano cani e coltelli. E nell’Unione oggi non comanda Orbán.

Il prossimo che mi parla dell’Europa culla dei diritti umani lo affogo.

Queste sono le acque del fiume Una in estate


E queste sono le acque del fiume Una innevate

Una  3 gennaio 2022

Il bar sotto il mare è un bel libro, ma non sono sicuro esistano davvero posti simili, se si escludono quelli di navi, crociere e traghetti. Mentre sono certo esistono bar sotto i fiumi. L’Una, dopo le piogge delle scorse settimane, è diventato potente e maestoso, sommergendo tavolini e pub che sorgono lungo le sue sponde e dentro i quali in più occasioni è scappata una birra o una risata. Quindi si, esistono pub sotto i fiumi. Per i proprietari è sicuramente un problema che li tocca da vicino e a cui, forse, sono abituati come i gestori delle arcate ai Murazzi o i negozianti di Piazza San Marco.

Quello a cui non mi abituo e a cui non dobbiamo abituarci mai sono le persone che rimangono sotto le acque, fiumi o mari che siano. Quest’estate avevo scritto di un padre afgano a cui è sfuggito il figlio tra le braccia mentre cercava di guadare l’Una per raggiungere la Croazia. Lo ripeto perché si dia peso alle parole: a un padre è scivolato il figlio dalle braccia trascinato dalla corrente del fiume.

Tre settimane fa una bimba di 10 anni è morta nello stesso modo, era aggrappata alle spalle della mamma mentre cercava di attraversare le acque gelide del fiume Dragogna, nella penisola dell’Istria. Era quasi arrivata, Trieste è a uno sputo. Il 30 dicembre un ragazzo che stava in una casetta bianca nella jungle di Bihać, che abbiamo visto e a cui abbiamo fatto la doccia più volte, è morto nel fiume Sava vicino a Gradiska, sul confine croato-bosniaco. Di queste e di troppe altre persone non conosciamo neanche i nomi, i giornalisti spesso non si disturbano neanche di rintracciarli. Forse solo noi europei e i nostri animali domestici abbiamo diritto a un nome. I migranti possono accontentarsi di un trafiletto generico e della scabbia. Tanto basta.

Queste non sono tragedie o fatalità, ma persone morte di confine. Ogni parlamentare europeo che ha votato queste leggi e regolamenti che tengono i poveri lontani dai nostri paesi dovrebbe alzarsi nel cuore della notte in pigiama, andare a piedi davanti a quei genitori che hanno visto il gorgo prendersi i loro figli, fratelli e sorelle e chiedere loro scusa.

E non sarebbe ancora nulla per tornare a recuperare un minimo di dignità. Nulla.

La macchina del nazionalismo e quella dei flussi migratori:
una fucina di diversità in rotta di collisione

Conflitti balcanici secolari: la battaglia della Piana dei Merli del 15 giugno 1389 tra l’anima cristiana (guidata dai serbi) e quella ottomana da Murad I.

Interessante il lungo excursus di Alfredo Sasso che inquadra precisamente le attuali strategie delle spinte nazionaliste all’interno delle più vaste pulsioni secessioniste balcanico-caucasiche, un pretesto colto per intimorire sui rischi di nuove guerre civili e giungere a ottenere piccole patrie autonome su base etnico-religiosa. Ma sullo sfondo si intravedono manovre di potenze locali e meno a cui i satrapi locali guardano per avere padrini che assicurino il mantenimento del potere nelle loro enclavi.

Alta tensione per l’emergenza bosniaca

La rete underground di Bihać di cui fa parte Simone nell’estate bosniaca denuncia sulle onde di Radio Blackout i limiti, le compressioni, i “confini” entro i quali vivono i migranti arrivati a tentare il Game in una zona dove il campo di Lipa è andato in cenere nei rigori dell’inverno (dicembre 2020). La doppia realtà descritta da Fabio illustra l’effettiva situazione dei campi e l’approccio degli autoctoni.
I numeri sono molto superiori a quelli ufficiali; le frontiere blindate vivono della compresenza di campi formali affiancati da miriadi di tentativi di autorganizzazione, creando una costellazione di campi volta a tenere alta la tensione e quindi la repressione, creando una costante emergenza costruita. Un imbuto che fa da tappo a un corridoio di transito

Marine fa invece la storia del campo di Bihać e poi degli altri campi minori fino ad aprile 2020 quando fu aperto quello di Lipa, costruito per racchiudere in pandemia i Pom sparsi dentro e fuori i campi formali.
Differenze tra gestioni di campi a seconda delle conduzioni per problemi di trasparenza e corruzione tra la gestione governativa o di Iom. Il tutto in relazione ai flussi (forse 75.000 persone sarebbero quelle registrate ufficialmente in transito dal 2018 all’estate 2021 nei campi dell’area di Bihac e una media di 2000 persone in transito contemporaneamente nelle strutture ufficiali); ma molti ragazzi preferiscono ovviamente vivere fuori da una struttura più simile a un carcere o comunque sempre sotto controllo delle forze dell’ordine.

“Alta tensione per l’emergenza bosniaca”.

La condizione umana nei campi di Sarajevo: Ušivak

Un elemento centrale di queste testimonianze – ed è ben evidenziata da Mirka nella sua corrispondenza – è il fatto che la vita ruota solo attorno a un’ossessione: The Game, lo stesso che in questi anni abbiamo documentato da Calais, da Ceuta e Melilla, dal Pireo… i coni d’imbuto delle esistenze che devono passare attraverso quel filtro imposto dal delirio di respingimento.
Il racconto che Ursula e Mirca, di “Torino per Moria”, con cui viene fatto un confronto tra campi profughi, ci hanno descritto di quelli di Sarajevo e dai campi in cui sono contenuti i migranti che provano a ripetizione il passaggio delle frontiere si incentra su tre interviste: a Idriss, gambiano che ha dovuto lasciare il paese perché si è scontrato con i suoi superiori e per trovare il futuro per sé e la famiglia; le aspettative da parte della società di provenienza, le botte e le costrizioni, la meta da raggiungere sono comuni alle depressioni che accomunano quelle di Ali, pakistano ventinovenne e Habib, marocchino… tutti precisi nel tracciare il loro viaggio prima di questo Game – tentato ogni giorno da almeno due dei 1200 ospiti dei campi (e il costo del tentativo supera sempre oltre i 3000€ fino a 5000) – e sciorinano una precisa graduatoria di tollerabilità dei singoli luoghi toccati nel viaggio. Una corsa a tappe durante la quale sono stati sottratti loro tempo ed energie, pur di rallentare una progressione storica che non deve essere di integrazione ma di accoglienza, proprio quello a cui agognano e che occupa i loro pensieri, i corpi feriti, battuti, debilitati.

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]]> n. 13 – Rotta balcanica: il Game, simbolo del fallimento europeo https://ogzero.org/il-fallimento-delle-politiche-migratorie-la-rotta-balcanica/ Thu, 16 Sep 2021 09:45:18 +0000 https://ogzero.org/?p=4908 Se esiste una rotta migratoria che simboleggia il fallimento delle politiche migratorie europee è quella balcanica, un percorso che cambia direttrici adeguando il passo, la resistenza al clima, alla fame e alle malattie, al disastro umanitario del momento. Il Game (non a caso il termine significa in italiano anche “cacciagione”) è ormai un gioco violento, […]

L'articolo n. 13 – Rotta balcanica: il Game, simbolo del fallimento europeo proviene da OGzero.

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Se esiste una rotta migratoria che simboleggia il fallimento delle politiche migratorie europee è quella balcanica, un percorso che cambia direttrici adeguando il passo, la resistenza al clima, alla fame e alle malattie, al disastro umanitario del momento. Il Game (non a caso il termine significa in italiano anche “cacciagione”) è ormai un gioco violento, perpetrato dalla fortezza Europa che i migranti tentano di vincere valicando muri, superando respingimenti illeciti, subendo accordi disumani tra paesi non sicuri e tornando e ritornando sui loro passi per anni.

Fabiana Triburgo qui delinea gli errori strategici sostanziali dell’Unione, che sfociano in una vera e propria violazione dei diritti umani.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Il transito dei migranti lungo la cosiddetta rotta balcanica non è certo semplicemente un fenomeno relativo alla mobilità umana che riguarda una specifica area geopolitica ma l’espressione di una politica migratoria che, al di là degli orientamenti, non può essere ignorata poiché gravissima è la violazione dei diritti umani perpetrati sulla stessa. È necessario prendere coscienza di quanto sta avvenendo e di quanto è accaduto perché l’omertà e la volontà di confinare e segregare per non rendere visibili i migranti non potrà mai essere una soluzione autentica e sicuramente non rende giustizia ai tanti individui che migrano da un paese all’altro della rotta –  europeo o non – e che, nelle migliori delle ipotesi una volta respinti, vengono derubati, picchiati, umiliati, derisi.

Ciò avviene contrariamente a qualsiasi disposizione normativa in materia sia essa nazionale, sovranazionale, internazionale. La strategia di rendere i migranti folli attraverso il Game –  così viene denominato questo orrendo e assurdo gioco –  respingendoli sistematicamente da un paese all’altro lungo la rotta, costringendoli a ripartire dopo i respingimenti dal “punto zero”, venti, trenta, cinquanta volte continua tuttavia spesso a non funzionare: grande la soddisfazione e l’ammirazione di chi scrive nel momento in cui alcuni di questi individui comunque riescono ad entrare in Europa, non per l’impiego di reinsediamenti dai paesi terzi a paesi dell’Unione, ma grazie solo alle loro forze.

Nessuna politica illogica, assurda, strategicamente programmata e attuata da chi è in una posizione di potere può contrastare la forza umana di chi lotta perché non ha alternative. E fintanto che vi è qualcuno che lotta il minimo è che ci sia qualcuno che scriva con profondo rispetto.

Vecchia rotta, nuova rotta

Iniziamo pertanto a dare alcuni riferimenti temporali rispetto alla mobilità dei migranti in tale area che non è una recente emergenza umanitaria riguardante i cosiddetti Balcani occidentali a meno che non la si consideri volutamente indotta. Il primo passo per accostarsi alla comprensione del fenomeno richiede “un salto” all’indietro di almeno cinque-sei anni. Con rotta balcanica si intende invero quel percorso che i migranti compiono passando attraverso il Nord della Grecia, Macedonia del Nord, Bulgaria, Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia. Dapprima era “legalizzata”: nel 2015 e nei primi mesi del 2016 circa un milione di persone, per lo più siriani, attraversarono a piedi tale area senza quasi alcun impedimento degli stati al passaggio dei migranti alle frontiere nei paesi UE ed extra UE che sono parte del percorso. Per alcuni anni la migrazione nei Balcani ebbe infatti come tappe Turchia, Grecia, Macedonia del Nord, Serbia e Ungheria nell’evidente tentativo dei migranti di arrivare prevalentemente verso Germania e Francia. Tuttavia, la rotta a oggi continua ad essere percorsa da un rilevante numero di individui nonostante tutti gli strumenti di deterrenza impiegati nei loro confronti nel corso degli anni.

Migranti in Ungheria, vicino al confine con la Serbia (foto Gémes Sándor/SzomSzed).

Chi passa e dove

I migranti sono prevalentemente afghani, siriani, iracheni, pakistani e iraniani rispetto ai quali in parte abbiamo già analizzato le situazioni dei paesi d’origine che danno luogo alle migrazioni forzate. Nel 2015 dunque la Turchia fu interessata dal passaggio di un rilevante numero di profughi che confluirono verso l’Egeo e verso i paesi dei Balcani per raggiungere l’Europa occidentale, ma i mezzi adottati in seguito da questi e dall’UE – finalizzati all’impedimento dell’ingresso alle frontiere – determinarono un mutamento nel 2018 dell’originario percorso che oggi registra nella Bosnia ed Erzegovina il maggior numero di presenze di migranti sul percorso, in particolare nel cantone di Una Sana al confine con la Croazia.

Da campi emergenziali a campi di confinamento

Dopo la chiusura del Campo di Bira nel settembre 2020 nel cantone se ne è costruito un altro nel maggio dello stesso anno, quello di Lipa (a cui si riferisce il video) la cui gestione era stata affidata all’Oim che a dicembre 2020 ha lasciato il campo a causa delle condizioni disumane nelle quali erano trattenuti i migranti, sprovvisti di acqua e di corrente elettrica. All’abbandono del campo dell’organizzazione internazionale ne è seguito l’incendio ma attualmente sopra le macerie della vecchia tendopoli si stanno costruendo dei container: da campo emergenziale Lipa sta divenendo campo temporaneo di confinamento dei migranti che consente l’accoglienza di sole 1.500 persone strategicamente posizionato su un altopiano, lontano 25 chilometri dal primo centro abitato ossia dalla città di Bihać.

La polizia bosniaca trasferisce nel campo di Lipa centinaia di migranti (aprile 2020, foto Ajdin Kamber / Shutterstock).

Muri e liste di ammissione

Appare evidente che stia divenendo prassi consolidata la creazione di hotspot ai confini delle frontiere dell’Unione, come emerge anche dalla lettura del nuovo patto sulla migrazione e l’asilo. Non si può in tale ricostruzione quindi ignorare quali siano stati i più gravi espedienti utilizzati per la compressione dell’applicazione del diritto d’asilo che hanno contribuito al cambiamento delle correnti migratorie. A partire dal luglio 2015 l’Ungheria iniziò a costruire un muro costituito da una barriera metallica al confine con la Serbia lungo 175 chilometri e successivamente un altro al confine con la Croazia; a tali imponenti barriere fisiche si aggiunsero – in una logica di pericolosa emulazione – le recinzioni della Slovenia al confine con la Croazia e della Macedonia del Nord al confine con la Grecia. Belgrado, che era uno degli snodi fondamentali della Rotta confinando con Ungheria, Croazia e Romania cominciò negli anni successivi la gestione dei flussi migratori in collaborazione con il governo ungherese mediante liste di ammissione dei migranti.

Il famigerato accordo UE-Turchia

Si arrivò dunque a quel famigerato quanto costoso accordo – ossequiosamente rinnovato – tra Unione Europea e Turchia del marzo del 2016 per il successivo triennio, con impegno di bonifico di 6 miliardi di euro entro il 2018 da parte della prima a quest’ultima, secondo il quale «tutti i nuovi migranti che hanno compiuto la traversata dalla Turchia alle isole greche a decorrere dal 20 marzo 2016 saranno rimpatriati in Turchia» e chiaramente sottolineando che ciò sarebbe avvenuto «nel rispetto del diritto dell’Unione e internazionale escludendo le espulsioni collettive» e che «una volta fermati o per lo meno drasticamente e sensibilmente  ridotti gli attraversamenti irregolari tra Turchia e UE» sarebbe stato attivato «un programma  volontario di ammissione umanitaria degli stati membri dell’Ue».

Il coivolgimento della Grecia il collegamento alla rotta dell’Egeo

Al di là dei discorsi di facciata – utili quando bisogna nascondere altre intenzioni – sembra che di fatto non sia andata esattamente così. Chiudendo quel flusso migratorio tra Grecia e Turchia se ne generò un altro verso il confine terreste turco-bulgaro che poi è sfociato nuovamente in Grecia. Rispetto alla rotta dell’Egeo, la cui analisi è collegata a quella balcanica, all’accordo del 2016 seguì la creazione di fatto di “hotspot” mediante la restrizione geografica operata, nei confronti dei migranti, nelle cinque isole greche – prima di accedere alla Grecia continentale – nelle quali si istituirono centri di accoglienza e di identificazione volti al contenimento dei flussi migratori e con essi anche delle domande d’asilo.

Se tale politica in un primo periodo ha determinato una sensibile diminuzione degli ingressi dei migranti, non ha evitato che la Grecia dal 2017 al 2019 fosse comunque la prima frontiera tra i paesi UE a essere attraversata.

La registrazione nel Paese di 121.000 persone nel 2020, anno che ha visto l’esasperazione delle condizioni nei centri nelle isole greche, come avvenuto in quello di Moira a Lesbo, non ci consente di soprassedere rispetto al fatto che i migranti appartenenti alle nazionalità succitate non solo non si sono mai fermati in conseguenza dell’accordo, dei muri e delle recinzioni ma molti di loro hanno continuato a optare oltre che per l’altra rotta marittima, ossia verso le principali città dell’Adriatico, nascosti nei tir diretti in Italia, per la percorrenza della via terrestre in prossimità del fiume Evros, al confine greco-turco, andando a confluire nuovamente nella rotta balcanica.

Il campo di Moira devastato dall’incendio.

Torna lo snodo di Idomeni

Oggi l’ex campo di Idomeni, il primo campo della rotta balcanica, costruito sul confine tra Macedonia del Nord e Grecia (sgombrato nel 2016) è nuovamente il simbolo di uno snodo principale per chi tenta di raggiungere attraverso i Balcani l’Europa centrale: la Grecia – così come la Bulgaria, la Croazia, la Slovenia e l’Ungheria, ma di recente anche l’Albania e la Romania – non sono certamente paesi di destinazione dei migranti, ma di transito, sebbene facciano parte dell’Unione, e considerati i trattamenti, ai quali sono sottoposti in essi se ne intuisce anche il motivo.

Immagine da un video di Bledar Hasko, campo di Idomeni.

Divieto di respingimento: riconosciuto e poi violato

Come noto lungo la rotta balcanica si attuarono e si attuano numerosi respingimenti: con tale espressione ci si riferisce a quegli atti coercitivi messi in atto da parte delle autorità di pubblica sicurezza di uno stato mediante l’impedimento all’ingresso nel proprio territorio di cittadini stranieri privi del titolo per l’ingresso o attraverso il rinvio verso un altro stato di individui che già sono presenti nel territorio. Tali atti – legittimi in quanto basati sul principio della sovranità nazionale riconosciuto agli stati secondo il diritto internazionale – trovano tuttavia il proprio limite nel rispetto dei diritti umani e di altri principi internazionali come quello sancito dal divieto di respingimento (non refoulement) considerata norma accettata e riconosciuta dalla Comunità internazionale della cui violazione da parte degli stati dell’UE si è già precedentemente argomentato nell’introduzione di questa sezione del saggio dedicata alle rotte migratorie. Si aggiunge che spesso i respingimenti lungo la rotta balcanica sono collettivi e come tali vietati secondo quanto stabilito dall’art.4 del quarto protocollo addizionale della Cedu.

Il confine croato respinge “a catena”

Ciò che rileva è che una buona parte degli individui che sono attualmente confinati nella rotta riferisce di essere stata respinta “a catena” dall’Italia o dalla Slovenia fino alla Croazia, paese dal quale poi sono stati ulteriormente respinti violentemente in Bosnia ossia fuori dalle frontiere dell’Unione: secondo il Danish Refugee Council da maggio del 2019 a novembre del 2020 circa 22.550 sono stati i respingimenti sommari dalla Croazia alla Bosnia.

In tale ambito dei respingimenti a catena per lo più collettivi, l’elemento sul quale è necessario soffermarsi è quello delle riammissioni “informali” dei migranti, non solo di quelle attuate dalla Croazia relativamente ai migranti respinti dalla Slovenia, ma anche di quelle della Slovenia in conseguenza degli accompagnamenti forzati alla frontiera da parte dell’Italia.

L’Italia e le riammissioni informali

La questione assume una particolare rilevanza se si considera che la Slovenia dal primo luglio ha assunto la presidenza del Consiglio dell’Unione fino al 31 dicembre e che perciò nei prossimi mesi avrà un ruolo strategico per quanto riguarda il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo proposto dalla Commissione UE. Si ricorda che il governo italiano ha ammesso nel 2020 di aver collaborato con la Slovenia alle riammissioni informali, in esito ad un’interrogazione urgente dell’onorevole Riccardo Magi del luglio del 2020 che chiedeva di far chiarezza in merito alle operazioni di Polizia al confine italo-sloveno. L’Italia ha collaborato a tali riammissioni con la Slovenia all’incirca da maggio del 2020 fino almeno a gennaio del 2021: con l’ordinanza del Tribunale di Roma del 18 gennaio 2021 è stato accolto il ricorso d’urgenza presentato da un cittadino pakistano che dichiarava di essere stato ricondotto dall’Italia alla Slovenia, quindi in Croazia e infine in Bosnia. All’uomo assistito da Asgi è stata concessa la riammissione in Italia con un visto umanitario.

E l’Europa?

Per quanto attiene gli aspetti giuridici – nelle ipotesi di accompagnamenti forzati da un paese dell’Unione, nei confronti di un altro paese dell’Unione che effettua le riammissioni – occorre argomentare sul diritto d’asilo, inteso come diritto d’accesso alla domanda di protezione internazionale, nonché sul concetto di individuazione del paese UE competente a trattare in merito alla domanda d’asilo.

Il diritto d’asilo nel nostro ordinamento nazionale è disciplinato dall’art. 10 co. 3 della Costituzione ed è un pilastro di questa essendo inserito in quei primi 12 articoli immodificabili: secondo il nostro ordinamento esso non può quindi in alcun modo subire limitazioni o deroghe.

 

D’alta parte anche diritto dell’Unione Europea stabilisce che le autorità dei paesi membri debbano rispettare la manifestazione di volontà del cittadino di un paese terzo che intenda chiedere asilo alla frontiera o sul territorio di un paese dell’Unione. Riguardo a ciò si vedano l’art. 3 del Regolamento Shenghen ossia il n.399 del 2016, la direttiva 32/2013/UE  – cosiddetta Direttiva procedure agli artt. 3 e 9 –, nonché il regolamento n. 604 del 2013, denominato comunemente Dublino III – che all’art. 3 paragrafo 1 stabilisce che gli stati membri esaminano qualsiasi domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide sul territorio o alla frontiera dell’Unione, e nelle zone di transito.

È stabilito inoltre che lo straniero che ha manifestato la volontà di chiedere asilo debba essere sempre trattato come un richiedente protezione internazionale e come tale è fatto obbligo allo stato che ha registrato la domanda, di collocare il richiedente in uno specifico centro secondo quanto stabilito dall’art. 3 della direttiva accoglienza. Inoltre, nel caso in cui si ritenga che lo stato competente non sia quello in cui è stata presentata la domanda di protezione internazionale si deve attivare il procedimento di accertamento del paese competente. Al riguardo si rammenta che in base all’art. 4 del Regolamento di Dublino lo stato nel quale è stata presentata la domanda ha l’obbligo di informare il richiedente che è stata attivata tale procedura e di attivare un colloquio relativamente alla medesima in una lingua da lui comprensibile nonché di fornirgli copia del verbale del colloquio. Solo infatti una volta che il paese dell’Unione accerti che la responsabilità sia di un altro stato, in base ai criteri enunciati al Capo III del Regolamento di Dublino, si potrà procedere al trasferimento in esso. L’art. 27 del Regolamento stabilisce inoltre che il richiedente ha diritto a un ricorso effettivo avverso la decisione di trasferimento o alla revisione della medesima mediante un organo giurisdizionale:

nessun trasferimento di un richiedente asilo da uno stato all’altro dell’Unione quindi può avvenire in violazione di tale regolamento.

Si aggiunge che in base all’art. 3 paragrafo 2 del Regolamento Dublino qualora sussistano carenze sistemiche nella procedura d’asilo e nelle condizioni di accoglienza dello stato membro in cui la persona verrebbe rinviata, il rinvio non è possibile e la competenza a trattare della domanda di protezione internazionale rimane quella dello stato in cui la domanda è stata presentata. Si veda al riguardo la sentenza del 21 gennaio del 2011 della Corte di Strasburgo M.S.S. contro Belgio e Grecia.

Ne discende che ogni trasferimento di un richiedente asilo verso un altro stato dell’Unione non possa essere mai automatico ma debba necessariamente essere valutato individualmente e concretamente rispetto alla persona che ha presentato domanda di protezione internazionale e che non possono esservi degli stati che vengano considerati aprioristicamente sicuri come invece è stato dichiarato con riferimento alla Slovenia e alla Croazia semplicemente perché facenti parte del territorio dell’Unione.

Ogni trasferimento del richiedente infatti deve essere valutato solo in base alla domanda d’asilo registrata e ulteriori accordi bilaterali e multilaterali non possono essere applicati in violazione del regolamento n. 604 del 2013. Ulteriori riflessioni giuridiche si sviluppano poi rispetto dell’accordo intergovernativo tra Italia e Slovenia del 1996 questa volta con riferimento a tutti i migranti siano o meno richiedenti asilo. L’accordo riesumato per legittimare le riammissioni informali di cui sopra è entrato in vigore il primo settembre 1997.

Rispetto all’accordo va detto che non è stato mai ratificato dal Parlamento italiano secondo quanto stabilito dall’art. 80 della Costituzione.

L’accordo essendo dunque di natura politica non può certamente modificare o derogare alle leggi ordinarie vigenti nel nostro ordinamento e tanto meno alla normativa europea. Inoltre, l’art. 2 dell’accordo sancisce che esso non sia applicabile ai rifugiati ma si ritiene che tale espressione attui una discriminazione tra rifugiati e richiedenti asilo che hanno il diritto di far ingresso in un paese UE altrimenti non sarebbe possibile l’esperimento del procedimento amministrativo necessario per dichiarare lo status di rifugiato. Sempre nel testo dell’accordo, più specificatamente all’articolo 6, si fa riferimento al carattere di informalità delle riammissioni dei cittadini di uno dei due paesi Ue o di cittadini terzi. Tuttavia, l’espressione “senza formalità” contenuta nell’accordo non può essere riferita all’atto della riammissione in senso stretto: in quanto sono atti amministrativi che incidono sui diritti soggettivi dello straniero e come tali devono essere disposti dalla Pubblica amministrazione con un provvedimento motivato in fatto e in diritto e notificato alla persona destinataria del provvedimento secondo quanto stabilito dalla Legge 241/1990. Pur potendo assumere una forma semplificata-succinta e immediatamente esecutiva rimane il fatto che per ogni atto di rinvio/ammissione o trasferimento debba essere comunque presente un atto che lo disponga e che sia impugnabile a livello giurisdizionale diversamente da quanto è avvenuto con le riammissioni tra Italia e Slovenia: il rischio è quello della violazione dell’articolo 24 della Costituzione sul diritto di difesa e dell’articolo 13 della CEDU nonché dell’art. 47 della Carta fondamentale dell’Unione Europea.

«La libertà personale è inviolabile»

Poiché inoltre la riammissione comporta l’accompagnamento forzato alla frontiera anche nel caso in cui sia eseguito nell’ambito di frontiere interne dell’Unione è un’attività che incide comunque sulla libertà personale dell’individuo e per questo motivo deve essere sottoposto a convalida dell’autorità giudiziaria secondo l’art. 13 della Costituzione. La stessa Direttiva rimpatri 115/2008/CE all’art. 6 par. 3 – che stabilisce la riammissione di un cittadino terzo irregolare anche senza l’emissione di una decisione sul rimpatrio – non esonera però lo stato che effettua la riammissione ad adottare una decisione sulla riammissione stessa: ossia un provvedimento scritto e notificato alla persona interessata e sottoponibile al controllo di un organo giurisdizionale.

Senza formalità = rapidità

Si può affermare in conclusione che il termine “senza formalità” non si debba interpretare acconsentendo all’attività di riammissione in assenza di un provvedimento, quanto piuttosto nel senso della speditezza e della forma succinta dell’atto amministrativo di riammissione.

Pattugliamenti congiunti vs indagini

Ad ogni modo con una nota stampa del 14 giugno del 2021 è stata resa pubblica la decisione del Ministero degli interni di nuovi pattugliamenti congiunti con forze di Polizia italo-slovene nelle frontiere Trieste/Koper e Gorizia/Nova Gorica in seguito all’incontro dei ministri degli Interni dei due paesi, al fine di sgominare le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico dei migranti su tale area della rotta balcanica. I pattugliamenti congiunti sono frutto di un accordo sottoscritto alcuni mesi fa dalle autorità di Polizia di Roma e di Lubiana ma sebbene se ne condividano gli intenti è stato sottolineato che tale accordo non è sicuramente lo strumento migliore per contrastare il traffico di esseri umani riservato piuttosto a un’attività di intelligence o a una di inchiesta con il  coordinamento delle diverse autorità giudiziarie:

sembra piuttosto che l’intento sia nuovamente di contrastare l’ingresso dei migranti al confine italo-sloveno.

Si ricorda che il Tribunale amministrativo di Lubiana ha stabilito che con il respingimento di un cittadino camerunense in Croazia e da qui inviato in Bosnia, da parte della polizia slovena, dopo essere stato trattenuto dalla stessa per due giorni, è stata violata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La sentenza si affianca alle pronunce di Tribunali italiani e austriaci (Tribunale di Stiria, 1 luglio 2021) a favore dei migranti respinti oltre i confini esterni dell’Unione.

Il fallimento delle politiche dell’Unione

S’intuisce quindi il colossale fallimento di tali politiche che se si vuole essere cinici, non hanno raggiunto l’obiettivo sperato, visto che la rotta continua comunque a essere percorsa e – se si considera che la proposta di ricollocamento automatico in tutti i paesi dell’Unione dei migranti che hanno presentato domanda d’asilo, in proporzione al Pil e all’assetto demografico di ciascuno da anni – è pressoché ignorata e allo stesso tempo non viene modificato il regolamento Dublino: tale parziale soluzione avrebbe permesso quanto meno di evitare non solo l’erogazione da parte dell’UE di ingenti finanziamenti a Frontex nonché alla Bosnia per “l’accoglienza” di migranti respinti evitando la catastrofe umanitaria nel cantone verificatasi nel 2019, nel 2020 e ancora oggi nel 2021.

Operazioni di “sicurezza” marittima di Frontex, sovvenzionate da finanziamenti europei.

In tale situazione, dinanzi all’emergenza umanitaria che sta attraversando l’Afghanistan e che inevitabilmente dispiegherà i suoi effetti sulla rotta con un aumento sostanziale del transito dei migranti provenienti da tale area dell’Asia centrale, l’unico timore dell’Europa è che non si riviva “un nuovo 2015”. Un’altra occasione persa per rivedere l’intero impianto di un sistema farraginoso e disumano cui l’unico scopo e alzare i muri – in qualunque modo siano intesi – della fortezza Europa.

L'articolo n. 13 – Rotta balcanica: il Game, simbolo del fallimento europeo proviene da OGzero.

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Un gioco è bello quando dura poco. Report dal confine bosniaco-croato https://ogzero.org/report-dal-confine-bosniaco-croato-buco-nero-d-europa/ Wed, 25 Aug 2021 08:43:29 +0000 https://ogzero.org/?p=4689 Proponiamo questo reportage sulla situazione dei migranti al confine bosniaco-croato a cura di Simone Zito (Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino), pubblicato su Melting Pot, diventato poi uno dei nostri volumi (Rott’amare), composto con i materiali che Simone ha salvato dal suo impegno estivo in Bosnia. Più avanti, con altri contributi, approfondiremo il tema anche dal […]

L'articolo Un gioco è bello quando dura poco. Report dal confine bosniaco-croato proviene da OGzero.

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Proponiamo questo reportage sulla situazione dei migranti al confine bosniaco-croato a cura di Simone Zito (Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino), pubblicato su Melting Pot, diventato poi uno dei nostri volumi (Rott’amare), composto con i materiali che Simone ha salvato dal suo impegno estivo in Bosnia. Più avanti, con altri contributi, approfondiremo il tema anche dal punto di vista giuridico per evidenziare i lati oscuri della pratica dell’esternalizzazione che portano alla violazione del diritto internazionale e inquadreremo i criteri che le democrazie occidentali individuano all’interno dei vari quadranti interessati e le aspettative che fanno “investire” su un paese piuttosto che un altro affinché questo svolga il ruolo di gendarme blindato che impedisce l’arrivo di migranti nella “Fortezza”.

“Alta tensione per l’emergenza bosniaca”.

 


Ci sono molte cose che non ti aspetti tra le colline boschive che separano la Bosnia-Erzegovina dalla Croazia. Le armi da fuoco, per esempio. La settimana scorsa c’era una pistola puntata contro una donna nigeriana dal suo passeur, chiusa in una casa e stuprata. È riuscita a fuggire lanciandosi da una finestra e ora è ospitata in una casa sicura. Qualche giorno fa un’avvocata ci ha informato anche di un traffico di organi lungo il confine e sappiamo di gang che, come nelle migliori tradizioni medioevali, rapinano i migranti che provano a passare la frontiera. Per non parlare di droni, microfoni nei boschi, telecamere, migranti marchiati con vernice sulla testa o dai bastoni della polizia croata. Per non farsi mancare nulla possiamo citare anche mine e orsi nelle foreste. Dopo le prime settimane di permanenza lungo il confine bosniaco-croato, lavorando attivamente e in modo complice con i migranti che quotidianamente cercano di valicarlo, iniziamo a farci un’idea dell’atrocità dei meccanismi di accoglienza dell’Unione Europea.

Il buco nero d’Europa

Quella bosniaca è una migrazione giovane, iniziata tre anni fa, nel 2018. Da allora la Bosnia ed Erzegovina (Bih) è diventata il nuovo crocevia delle rotte dei migranti in fuga da paesi in guerra o dove forte è l’instabilità politica nel continente asiatico, come Afghanistan, Siria, Iraq e Pakistan. I due centri di raduno più significativi sono Bihać e Velika Kladuša, due piccole cittadine del Cantone Una-Sana nella parte nord-occidentale del paese. Questo per la loro prossimità al confine con la Croazia e per il fatto che le altre regioni che costituiscono la federazione bosniaca rivendicano apertamente di non volere migranti e pertanto non autorizzano la presenza di campi che, quindi, si concentrano nel cantone dell’Una-sana e attorno a Sarajevo.

Da Bihać e Velika Kladuša sono circa 240 i chilometri che dividono i migranti dal confine italiano e austriaco, chilometri che macinano a piedi in una decina di giorni con lo zaino pieno di pane, il timore di essere individuati dalla polizia croata e la fame e la sete degli ultimi giorni, quando ciò che si erano portati dietro è finito e a spingerli in avanti sono solo la speranza e la disperazione impastate assieme. Spesso i pochi fortunati che arrivano a Trieste arrivano in condizioni difficili, a volte critiche.

Secondo un rapporto dell’Oim (l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) di maggio 2021, sono 3220 i migranti che, a fine aprile 2021, vivono in accampamenti informali fuori dai centri di “accoglienza”. Vista l’immobilità e l’ingovernabilità dello Stato bosniaco, in un primo momento è stata l’Oim a occuparsi della creazione e della gestione dei campi autorizzati. Il Rapporto denuncia tuttavia la progressiva diminuzione dei posti disponibili, arrivando a 3242 nel 2021, situati in poche strutture isolate, con standard insufficienti (assenza di elettricità, di acqua calda o di servizi essenziali). Questo nonostante i fondi dell’Unione europea arrivati in Bosnia ed Erzegovina per la gestione dei flussi migratori ammontino a più di 88 milioni di euro dal 2018 al 2021. Ovviamente a questi finanziamenti bisogna sommare quelli erogati per la gestione delle frontiere e il rafforzamento delle capacità della polizia nelle attività di controllo dei flussi migratori per oltre 23 milioni di euro.

Nonostante quanto scritto finora, la recente politica del governo bosniaco è quella di una progressiva chiusura dei campi preesistenti su proprietà private, anche a causa degli alti costi pagati a personaggi non sempre trasparenti, l’esclusione delle Ong internazionali dalla gestione delle strutture di “accoglienza” e il passaggio sotto la giurisdizione del ministero per la Sicurezza.

Verosimilmente, questo comporterà l’abbandono di standard internazionali nell’organizzazione dei campi che finiranno per essere sotto il diretto controllo di un Paese al momento incapace, per volontà e capacità, di gestire un fenomeno migratorio pur di modesta portata [1].

Altre conseguenze rilevanti saranno il progressivo aumento della logica securitaria all’interno dei campi, un cambiamento di paradigma della finalità di queste strutture, sempre più simili a luoghi di detenzione, e una diversa politica nei confronti delle organizzazioni informali e delle Ong non registrate. Finora questi gruppi sono stati generalmente tollerati dalle autorità locali e non, data l’impossibilità da parte loro di affrontare, per il momento, la gestione dei migranti in territorio bosniaco. Quando però il campo di Lipa sarà pronto è prevedibile un inasprimento della repressione nei confronti di queste organizzazioni.

Lipa: un passato di tende, un futuro di container

Il campo di Lipa rientra all’interno delle dinamiche appena descritte: il nuovo insediamento dovrebbe essere inaugurato il 6 settembre. “Nuovo” perché il 23 dicembre del 2020 è andato a fuoco lasciando centinaia di persone in ciabatte in mezzo alla neve. Il nuovo campo sarà costituito da container e dovrebbe ospitare 1500 persone (1000 uomini singoli, 300 membri di nuclei familiari e 200 minori non accompagnati). La strategia è quella di chiudere i campi vicino alle zone di confine e relegare le persone in questa enorme struttura, situata su un altopiano isolato. Al momento il campo di Lipa è costituito da 30 tendoni con una capienza di 30 persone l’uno. Per il momento sono 600-700 le persone “ospitate” e possono entrare e uscire a piacimento; in passato, tuttavia, si è arrivati a contenerne fino a 1500. Anche se tutto dovesse andare secondo i piani del Governo, non sarà possibile coprire il numero di migranti presenti in Bosnia ed Erzegovina (tra i 7000 e i 9000) che avrebbero bisogno di un ricovero, almeno nel periodo invernale. La previsione è comunque già quella di un futuro ampliamento. Il fine, ben poco celato, è il rallentamento dei flussi di migranti verso l’Unione europea.

Questa nuova politica dei campi sta già probabilmente modificando le rotte migratorie che potrebbero spostarsi in zone differenti, probabilmente più vicine alla Serbia.

C’era una volta la Jugoslavia

Se si volesse fare un paragone tra la Serbia e la Bosnia-Erzegovina, si potrebbe dire che la prima ha una tradizione più lunga di gestione dei flussi migratori: iniziata come rotta nel 2016, ora sono presenti 18 centri per il transito e i richiedenti asilo. Il numero dei People On the Move – Pom (persone in movimento) presenti sui rispettivi territori nazionali è simile (8000-10.000 in Serbia, 7000-9000 in Bosnia). I campi con meno servizi e meno organizzati sono quelli per uomini singoli e vicino al confine (per il gran numero di persone che tenta il game e i problemi di gestione a esso legati). Capita che d’inverno i Pom tornino in Serbia date le condizioni di invivibilità all’esterno dei campi e per la migliore qualità dell’accoglienza.
Per quanto riguarda, invece, il rapporto tra Croazia e Bosnia, quest’ultima non accusa formalmente la Croazia per le riammissioni [2], quanto per i respingimenti illegali fatti all’interno del suolo nazionale. La questione dirimente non è quindi la violenza sistematica e illegale di una polizia che sequestra telefoni, bastona e toglie le scarpe ai migranti anche in pieno inverno per ributtarli in mezzo al nulla, quanto la violazione della sovranità nazionale. Purtroppo sono pochissimi i Pom che decidono di denunciare i respingimenti violenti subiti: molti non ne vedono l’utilità o hanno paura che questo possa rallentare o impedire il riconoscimento del loro stato di rifugiato. Spesso, molto più prosaicamente, non hanno alcuna intenzione di stare fermi un anno per attendere i tempi burocratici della pratica o preferiscono dimenticare senza essere costretti a rivivere il trauma. A volte capita siano i migranti stessi a giustificare quanto hanno subito: «Mi hanno picchiato, ma io sono un migrante irregolare». Al di là dei motivi, lo stato croato continua ad affermare che non ci sono prove di respingimenti violenti e che i segni delle percosse, le ferite, i traumi sono auto inflitti dagli stessi migranti o causati da conflitti tra loro [3].

“Acab anche nei Balcani il problema sono loro”.

«Migranti big problem»

Per il momento gruppi di cittadini organizzati e razzisti non sono ancora preoccupanti. Esistono e uno dei più significativi è guidato da Sej Ramić, un professore d’arte il cui slogan è “stop all’invasione dei migranti” e la cui propaganda è caratterizzata da contenuti xenofobi e razzisti. Pur avendo un certo seguito sui social e tra la gente, quando si è candidato alle elezioni nella città di Bihać nel 2020 non ha riscosso grandi consensi anche a causa del forte legame degli elettori con i tre partiti etnonazionalisti.

Là dove la politica manca, bisogna farla

Non vi sono lotte collettive o autorganizzate da parte dei Pom, questo per svariati motivi: la fatica fisica, la miseria del viaggio e la mancanza di leader politici o di comunità. Vi è un egoismo più che comprensibile che nasce dalla volontà di sopravvivere nonostante tutto e tutti e, nelle zone di confine, disperde mesi o anni di relazioni costruite durante il viaggio. Le poche battaglie fatte avvengono a titolo personale.

Il governo bosniaco sembra intenzionato a promuovere la costruzione di pochi grandi campi lontani dalle zone di confine, in modo da ridurre il numero di migranti che tentano di entrare in Croazia. Questo per svolgere al meglio il ruolo che l’Unione Europea ha deciso di attribuire a questa terra, cioè quella di uno stato cuscinetto in grado di ridurre gli ingressi in cambio di milioni di euro di denaro pubblico. Il tutto condito con livelli di inefficienza, corruzione e confusione legislativa e burocratica importanti.

Le Ong presenti sul territorio svolgono un lavoro difficile e prezioso, calmierando quella che potrebbe essere una mattanza silenziosa e silenziata, senza però riuscire a evitare di trasformare un fenomeno migratorio che ha cause politiche e responsabilità chiare in rivoli infiniti di disperazioni monodose, di morti e ferite tutte individuali. Tuttavia, la necessità di farsi riconoscere a livello ufficiale dal Governo bosniaco riteniamo comporti scelte che, pur tatticamente utili al fine di alleviare le sofferenze dei migranti, strategicamente possano comportare una difesa dello stato di cose presente, piuttosto che un suo ribaltamento. Inoltre, vi è un rischio che queste organizzazioni dovrebbero valutare nella progettazione delle loro attività: l’essere funzionali a un processo di invisibilizzazione del fenomeno a quasi vantaggio solo delle autorità locali, permettendo una qualche sorta di sopravvivenza nelle jungle fuori dalla città e, conseguentemente, l’allontanamento dei migranti dai centri urbani e dalla vista degli onesti cittadini.

Pertanto riteniamo sia necessario e urgente, da parte di organizzazioni, collettivi e singoli individui che si sentono solidali con i migranti e nemici delle frontiere, riempire quello spazio politico che i vari attori di questo spettacolo non possono o non vogliono agire. Nascondersi dietro la finzione che siamo solo turisti in vacanza e non collettivi politici, riteniamo non sia utile a porre la questione su un piano che non è più rimandabile. Scegliamo di venire lungo le rotte per denunciare le politiche mortifere di esclusione dei poveri da parte dell’UE. Questa nostra rimane una riflessione sicuramente iniziale e incompleta, dato che vorremmo fosse arricchita da una molteplicità di contributi di chi lavora sul campo e di chi, invece, si spende su altri ambiti.

“La condizione umana nei campi di Sarajevo: Ušivak”.
Pensiamo che sul lungo periodo non riconoscere pubblicamente il contenuto politico del nostro operato possa essere controproducente: non siamo turisti che regalano pantaloncini, anche perché non basterebbero tutte le braghe del mondo per mettere anche solo una pezza su quanto sta succedendo qui, tutti i giorni.

Un elemento della discussione, proposto spesso da chi lavora sul campo, è che portare una qualche forma di conflitto può mettere a rischio le attività o addirittura le persone in movimento. Di questo dobbiamo tenere conto, ovviamente, essendo una realtà complessa e articolata.

Tuttavia alzare il livello del conflitto ora dovrebbe essere visto come un aprire spazi di agibilità in futuro, quando le politiche securitarie saranno efficienti e rodate.

Le manifestazioni di Trieste prima e Maljevac dopo sono state un piccolo passo in questa direzione, ma importante. Abbiamo capito che è possibile portare pressanti richieste anche dove fino a quel momento sembrava impossibile. Tutto ciò si collega anche con le lotte contro le denunce arrivate e che ci aspetteranno nel breve futuro. Gli attivisti e le attiviste denunciate non possono restare sole nel percorso giudiziario, dobbiamo contrastare questo attacco alla solidarietà creando un fronte comune. E continueremo a stare dove non dovremmo stare.

 

Fonti

- Dossier Bosnia ed Erzegovina, la mancata accoglienza Dall’emergenza artificiale ai campi di confinamento finanziati dall’Unione europea, RiVolti ai Balcani, luglio 2021, https://altreconomia.it/prodotto/bosnia-ed-erzegovina-la-mancata-accoglienza/

- Consiglio europeo Comunicato stampa 18 marzo 2016, Dichiarazione UE-Turchia, 18 marzo 2016
https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2016/03/18/eu-turkey-statement/

- L’Oim chiede la fine dei respingimenti e delle violenze contro i migranti lungo le frontiere esterne dell’UE https://italy.iom.int/it/notizie/loim-chiede-la-fine-dei-respingimenti-e-delle-violenze-contro-i-migranti-lungo-le-frontiere

- Iom: Temporary Reception Center Profiles, https://bih.iom.int/temporary-reception-center-profiles

- Save the Children, Viaggio (attra)verso l’Europa, report 20 giugno 2021, https://www.meltingpot.org/Report-di-Save-the-Children-Nascosti-in-piena-vista-Minori.html

- La vittoria dei talebani è inevitabile?, https://www.ilpost.it/2021/08/07/afghanistan-talebani-vittoria-inevitabile/

- Giuseppe Smorto, Fabio Tonacci, Le riammissioni dei migranti in Slovenia sono illegali, il Tribunale di Roma condanna il Viminale, https://www.repubblica.it/cronaca/2021/01/21/news/viminale_condannato_riammissioni_illegali_respingimenti_slovenia_migranti-283542228/

Note

[1] Per approfondire quanto questa crisi sia creata ad hoc più che giustificata dai numeri, si veda il prezioso dossier Bosnia ed Erzegovina, la mancata accoglienza. Dall’emergenza artificiale ai campi di confinamento finanziati dall’Unione europea, RiVolti ai Balcani, luglio 2021 – https://altreconomia.it/prodotto/bosnia-ed-erzegovina-la-mancata-accoglienza/

[2] Sarebbe interessante fare un’analisi del linguaggio utilizzato, in una logica sostanzialmente orwelliana. Per “riammissioni” si intendono gli allontanamenti informali (e illegali) attuati dalla polizia del Paese d’ingresso che, in modo generalmente violento, riporta i migranti al precedente Paese di transito senza dare loro la possibilità di presentare domanda di protezione internazionale. Famoso è il caso della sentenza del tribunale ordinario di Roma che condannò il ministero dell’Interno accusandolo, con queste prassi, di star violando contemporaneamente la legge italiana, la Costituzione, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e persino lo stesso accordo bilaterale Italia-Slovenia.

[3] Vi sono casi sporadici di poliziotti croati che, tra il 2019 e il 2020, hanno denunciato in modo anonimo al loro sindacato le azioni criminali di cui sono stati testimoni. Quando vengono prese in carico queste denunce e non si concludono con un’impossibilità a procedere, finiscono per colpire singoli poliziotti presentati all’opinione pubblica come “mele marce” di un sistema sano che
tutela i migranti secondo il diritto internazionale e nel rispetto dei diritti umani.

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