Belt Road Initiative Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/belt-road-initiative/ geopolitica etc Mon, 13 Nov 2023 22:32:04 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Lettera22: luoghi e tempi per immaginare il sequel https://ogzero.org/lettera22-luoghi-e-tempi-per-immaginare-il-sequel/ Thu, 09 Nov 2023 16:17:25 +0000 https://ogzero.org/?p=11838 Nell’estate 2023 è uscito dopo una accorta e lunga gestazione, il numero zero di “Lettera22”, manifestazione in forma di rivista del consorzio omonimo di giornalisti indipendenti in occasione del trentennale della creazione del gruppo di professionisti che testimoniano la realtà dove si svolge, essendone esperti di lunga data. La produzione è descritta nell’editoriale come “lento […]

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Nell’estate 2023 è uscito dopo una accorta e lunga gestazione, il numero zero di “Lettera22”, manifestazione in forma di rivista del consorzio omonimo di giornalisti indipendenti in occasione del trentennale della creazione del gruppo di professionisti che testimoniano la realtà dove si svolge, essendone esperti di lunga data.
La produzione è descritta nell’editoriale come “lento ruminare” che racconta l’addensarsi dell’esplorazione dello spazio scritto a specchio di quella dei luoghi dove gli eventi, liberati dalle colonne della cronaca geopolitica, fuoriescono per costituire i capitoli di un libro in forma di magazine; l’oggetto dell’esplorazione diventa così una “terra di mezzo”, come esplicitano gli autori che rivendicano l’ibridazione delle forme narrative: dalla graphic novel al saggio sociologico, dal reportage di viaggio al racconto storico immerso in un orto o in un aeroporto al momento dello scoppio di una “operazione militare speciale”… rigoroso, circostanziato, preciso, eppure godibile per la creatività spontanea.
Rilegate in una confezione raffinata le storie graficamente impreziosite dei complici dell’Associazione di giornalisti indipendenti ci portano a spasso per il mondo con storie che si dipanano tra Corno d’Africa e Sudest asiatico, dal preludio al ritorno dei Talebani in Afghanistan all’Italia del fascismo – quello precedente e parallelo alla contemporanea invasione nazista della Serbia descritta nei disegni inediti di Zograf

Alla fine della lettura abbiamo pensato che valesse la pena tornare su alcuni dei luoghi evocati nel libro-fascicolo: ciascuno degli interventi è corredato da un Secondo Tempo, ci sembra che un buon approccio per OGzero per interpretare l’utilità di questa formula editoriale – e proporne un processo di lettura in sintonia con gli obiettivi di entrambe le testate – sia quello di partire dalla realtà in cui si stanno evolvendo ora i processi che troviamo in nuge tra le righe di questo volume e rintracciarvi le tracce o i prodromi; una sorta di Terzo tempo che ritorna sulla meditazione dei testi proposti per rilanciarne la attualità che li ribadisce.


In the mook del giornalismo indipendente

Gli afgani collaterali

Il fascicolo si apre sul quartiere del Politecnico di Kabul dopo il ripristino della shari’a, ma la storia rievocata da Giuliano Battiston insieme al padre della vittima, a cui le illustrazioni pointilliste di Giacomo Nanni conferiscono cromatismi psichedelici, percorre il 3 maggio 2009 una strada vicino a Gozarah…

Illustrazione di Giacomo Nanni

Ora si è richiuso il sipario sul paese abbandonato dalla Nato definitivamente due anni fa, ma quell’episodio di sprezzo per la vita delle popolazioni civili autoctone da parte del contingente italiano ai tempi in cui Ignazio Benito era ministro della Difesa rimane irrisolto e il generale Rosario Castellano ha potuto andare in pensione come generale di corpo d’armata il 28 giugno 2023 senza macchia e con tutti gli onori; solo un ulteriore episodio del corollario di collateral damage, perla lessicale eufemistica coniata da Bush per le stragi perpetrate dagli eserciti alleati. Nei vent’anni di occupazione euro-americana l’Afghanistan è stato oggetto di aiuti che servivano di più alle organizzazioni e istituzioni occidentali, che hanno gestito il paese in maniera diversamente coloniale, spesso con disprezzo per una cultura che nessuno ha voluto conoscere e che le truppe non incrociavano nell’apartheid armato che vigeva e che causò l’omicidio al centro della ricostruzione di Battiston. Il risultato è la diffidenza restituita dagli afgani che si sono sentiti presi in giro e non hanno trovato motivi per resistere al ritorno dei Talebani a seguito di una nuova fuga dopo quelle dei britannici del Great Game e del generale Gromov, mentre attraversava il ponte della Fratellanza, prima crepa sul muro dell’imperialismo sovietico. Le condizioni del paese fanno da sfondo alla precisa restituzione della testimonianza del padre della vittima effettuata da Battiston e si ripresentano invariate: la situazione delle carceri, le spie, l’economia dell’oppio dell’Hellmand sostituita dalla produzione di metanfetamine, la prevenzione inesistente per i disastri dei terremoti (con il corredo di migliaia di morti nell’autunno delle province dell’Ovest), proprio dove operava quel contingente italiano.

OGzero ha frequentato spesso la tragedia afgana e raccolto i racconti dei ragazzi, le cui radici affondano in quella cerniera tra mondo persiano, continente indiano e corridoi per le merci dal mondo cinese al di là dell’Himalaya, da dove sono espatriati quasi vent’anni fa, mantenendo forti contatti con le famiglie, tornando tutti a sposare donne scelte dal clan, a volte ancora nelle case avite di Ghazni, in altri casi già trapiantati a Quetta fin dalla disfatta sovietica. La novità di questo periodo è quella che la diaspora di un popolo espulso dalle sue terre non ha fine e il governo pakistano ha decretato la cacciata degli afgani dal proprio territorio, adducendo il pretesto che molti degli attentati jihadisti sono attribuibili a profughi afgani.

 

 

Ma proprio quei ragazzi hazara ci invitano ad approfondire chi sarebbero quel paio di milioni di afgani che devono lasciare il Pakistan e la loro destinazione, per comprendere meglio il disegno che potrebbe nascondersi dietro il loro rimpatrio. Innanzitutto i senza documenti afgani non stanno a Quetta, ma a Nord e i Talebani afgani saprebbero già dove collocarli: sarebbero destinati al territorio confinante con il Tagikistan e l’Uzbekistan, perché nella regione a maggioranza tagika e uzbeca scarsi sono gli islamisti e la deportazione dei pashtun molto probabilmente affini ai talebani servirebbero a diventare maggioranza in un territorio in cui si è completato un canale, il Qosh Tepa, che dirotta le acque del Amu Darya, in grado di irrigare i terreni desertici e poco abitati, dando opportunità di lavoro a comunità poco rappresentate in zona. Ma soprattutto possono esportare nei paesi limitrofi il radicalismo islamista caro ai talebani, e in particolare l’Uzbekistan potrebbe essere a rischio di infiltrazione, ovvero la nazione a ridosso della quale si trova l’area più arretrata dell’Afghanistan, quella con minori risorse.

Mappa tratta dal volume La grande illusione (Rosenberg &Sellier, 2019)

A proposito di deportazioni e diaspore capitano a fagiolo due dei racconti del “Secondo tempo” di “Lettera22”, quello che vede protagonista Ahmad Naser Sarmast, fondatore dell’Istituto nazionale di musica, chiuso dai talebani provocando la fuga all’estero delle allieve musiciste e il breve racconto da Kandahar, la capitale delle melograne, dove il conflitto si fece aspro quando gli americani precipitosamente restituirono il paese all’oscurantismo e gli agricoltori dovettero abbandonare case e terreni. Ora «la guerra è finita e siamo tornati a lavorare i campi».

Questo avviene più al Sud del paese; al Nord si stanno preparando penetrazioni del jihad verso le repubbliche centrasiatiche, attraverso una possibile “sostituzione etnica”; proprio le due repubbliche che Francia e Unione europea hanno preso in considerazione per imbastire una rete di relazioni commerciali, in alternativa alle risorse minerarie di cui non riescono più ad approvvigionarsi in Africa. E il viaggio di un paio di giorni di Mattarella a Samarcanda non può non avere risvolti strategici in questo senso.

Una serie di dubbi di una serie con troppi spunti e ipotesi, che proprio il cofondatore di “Lettera22” ci aiuta a ricomporre in questo podcast:

“L’ingombrante presenza afgana in Pakistan risolta con l’espulsione?”.

 

Il giornalista a una dimensione: quella in viaggio

Uno dei fili rossi del numero zero di “Lettera22” si può individuare nel reportage, talvolta seguendo itinerari di camminanti alla scoperta di territori; più spesso i paesaggi sono di conflitti e talvolta di intrichi delittuosi; in altri casi si tratta di semplici brevi spostamenti nello spazio, ma sprofondati nell’utopia delle performance voguing inseguita in Germania o dislocamenti lontani nel tempo a disvelare delitti irrisolti nella Lucania insurrezionale postborbonica. Appassionanti comunque, non ci soffermiamo su questi apporti contenuti nel fascicolo solo perché il nostro ambito è già fin troppo ampio delimitandolo alle questioni geopolitiche.

La tassonomia coloniale come classificazione della specie

Illustrazione di Adriana Marineo

Un approccio neanche tanto nascosto tra le pieghe dell’intelligente apporto di Paola Caridi che mette al centro la Sicilia, quella dell’annuncio mussoliniano dell’impero dell’agosto 1937– sembra di assistere ancora una volta alle immagini dell’Istituto Luce – quello dalla vicina Libia e del remoto Corno d’Africa. Entrambe aree non a caso in fibrillazione: 120 anni di storia di un colonialismo (e protettorato dell’Agip/Eni) straccione hanno prodotto scollamento e odio intercomunitario come eredità delle nefandezze. La Sicilia al centro geografico dell’impero che rende colonialismo l’emigrazione, e ora diventa testimonianza di ciò che di quella Palermo hanno lasciato i bombardamenti: Villa Giulia e l’Orto botanico – “colonizzati” ora per contrappasso dall’immigrazione bengalese per praticare il cricket. Quella Sicilia al centro dello schieramento strategico Nato nel Mediterraneo: Sigonella, il Muos… come racconta un altro complice di “OGzero” e “Lettera22”, Antonio Mazzeo.

Come si vede s’intrecciano in poche pagine serie di argomenti che regolano i rapporti mondiali tuttora, affondando le radici in quel precedente regime fascista – e in quell’altra Guerra mondiale –, retaggi della storia che tornano, evocati da quei luoghi che nella storia hanno rappresentato le stazioni di molte tappe. Anche se ora il Giardino coloniale non esiste più fisicamente, però le piante dell’Altro ci hanno conquistato, dimostrando come si ripeta la seduzione eclettica della cultura aliena che aveva ellenizzato la vittoria militare della Roma antica. Ma soprattutto l’aggettivo del Giardino è importante nell’evoluzione dell’articolo di Paola Caridi che si può gustare da pagina 68 di “Lettera22” numero zero: l’approccio coloniale dell’Italia fascista rispunta nella sua brutalità come la gramigna sulla falsariga di britannici e soprattutto degli olandesi descritti da Amitav Gosh a proposito della noce moscata. Scrive l’estensore del saggio:

«L’agricoltura coloniale doveva imporre alle comunità native un modo di coltivare secondo la nostra impostazione agricola. Allo stesso tempo doveva formare tecnici italiani capaci di coltivare le specie locali», a cui nel trasporto in “patria” gli scienziati italiani avevano persino cambiato nome a piante che loro ritenevano di aver “scoperto” e riconducendole alla sistematica classificazione linneana, ma che stavano lì da sempre, con quell’atteggiamento che Gerima, il regista etiope, stigmatizza da sempre: l’imposizione di un punto di vista culturale esogeno che fa della “integrazione” delle Species plantarum un paradigma per quella delle “razze”, per dirla alla Almirante. E infatti nell’articolo di Caridi lo spostamento dall’Orto botanico palermitano a quello romano trova protagonista una donna di origine somala, lingua letteraria italiana e «cosmogonia botanica complessa», che mette in relazione lo stato «sofferente, striminzito, piccolo» di una pianta d’incenso, che erano le stesse condizioni in cui si sentiva l’animo della donna; per poi tornare all’Orto siciliano e lì ritrovare gli insegnamenti paterni e l’originario nome della coltura. Le jacaranda palermitane però sono solo una “citazione lontana” delle strade di Gaza… quando esisteva ancora: forse per non offuscare la bellezza della copia si è operato in modo da cancellare l’originale.

In questa tassonomia non poteva mancare la supponenza bonapartista della reinterpretazione in chiave orientalista della cultura dei popoli attraversati dalle armate francesi:

«Dare un nome alle piante significa non soltanto appropriarsene, ma cancellare completamente una storia. È la storia all’interno di un preciso ecosistema che viene resa invisibile, anche attraverso il “nominare”. E assieme a questo battesimo non richiesto ci son le ramificazioni scientifiche, mediche, culturali».

Le stesse usate da Bonaparte: è la cancellazione degli eventi precedenti all’arrivo del colonizzatore, in modo da restituire una verginità culturale su cui imbastire una narrazione occidentale che faccia sue le risorse altrui. Il pessimo ultimo colonialismo italiano si insediò con le scuole di agraria. Sempre meglio che esternalizzare lager in Albania.

Quel treno per Yunnan

E questo “orientalismo” ci consente di salire insieme a Emanuele Giordana sul Cina-Laos Express, senza provare l’ebbrezza del viaggio verso le terre evocate dall’Orient Express.

Mappa di Andrea Bruno

L’estensore aveva accennato a questo percorso già in un intervento radiofonico (dal minuto 45 di questo podcast) in cui illustrava con evidente ammirazione il percorso ferroviario che porta da Kunming nello Yunnan cinese a Singapore, attraverso Vientiane. Un ramo di quella rete di trasporti che i cinesi hanno inserito nella Belt Road Initiative per omogeneizzare e far crescere l’Asean, aggirando il chockpoint potenziale dello Stretto di Malacca:

“Il mattatoio birmano dopo 2 anni: dati, analisi, prospettive allargate all’Asean”.

Subito il pezzo di Emanuele Giordana si dipana dalla capitale del Laos, ma anche sollevando il velo del tempo sulla prima esperienza degli anni Settanta: facile il confronto… anche perché allora persino la Thailandia era coinvolta dagli Yankee nella guerra al Vietnam. Gli spostamenti e l’attraversamento come sempre relativi alla situazione epocale si alternano nel racconto che è sempre avventura: in questo caso si trascorre da ricordi “stupefacenti” di rivoluzioni e sostanze, monaci e Ak-47, bombe e principi rossi, a taxi carissimi e le difficoltà a muoversi autonomamente; cimeli museali di chemins de fer e “scommesse” (arriveremo a Boten in una delle tappe del treno: «centro del gioco d’azzardo con annessi e connessi») cinesi sul futuro avamposto laotiano, trascorrendo dal periodo coloniale classico al neocolonialismo, attraversando nuvole di oppio che escono dal treno su cui risaliamo a Vang Vieng, dopo una pausa narrativa tutta da godere nel Triangolo d’oro, di cui ancora vagheggiamo in certi articoli. Adesso i divertimenti sono equiparabili a divertifici economici a basso contenuto culturale e infima attenzione ecologica… ma si può proseguire alla tappa successiva Luang Prabang; ma soprattutto il viaggio racconta tante verità sul paese e sulla condizione dei laotiani (e forse di un po’ tutto il Sudest asiatico), che il testimone rileva da par suo: infrastrutture cinesi e platea di consumatori laotiani; appaltatori e tecnologie… ovvero il Bignami della Bri fatto tratta ferroviaria… con tutto il contorno di affari e presenza cinesi.

Illustrazione di Andrea Bruno

E allora si coglie la politica della rieducazione dell’intera area effettuata da Pechino alla propria cultura, alla propria lingua; e il treno – lo insegna il vecchio West e Sam Peckimpah – è fattore unificante e ficcante, utile per diffondere idee e modi di vita ad “alta velocità”.

E così arriviamo a Boten: come Oudom Xai è l’ombelico del mondo ferroviario, così Boten è la fenice locale che risorge sempre dalle sue ceneri… però solo il ricordo del viaggiatore, che negli ultimi decenni è transitato di qui periodicamente, può restituire l’evoluzione del territorio. E Boten è di nuovo un fulgido modello di molte città sul confine di stati, dove è concesso ciò che altrove non si può fare. E intanto il Laos muta la sua natura: ambiziosi progetti cinesi visti dal finestrino tolgono spazio al Laos agricolo e rurale… ma queste lampisterie non sono che alcuni passaggi di un racconto preciso e a tutto tondo dell’evoluzione del paese ai lati della ferrovia… che i cinesi vorrebbero portare fino a Bangkok, e infatti i tailandesi temono il progetto, perché con il treno si estende l’influenza di Pechino.

Ma questa è un’altra storia e vedremo di raccontarla sia con “Lettera22” che nei libri di “OGzero”

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Il Pakistan brucia… la neve distrae, ovattando l’eco dei conflitti https://ogzero.org/il-pakistan-brucia-la-neve-distrae-ovattando-leco-dei-conflitti/ Sun, 21 May 2023 09:51:28 +0000 https://ogzero.org/?p=11093 Il Pakistan, già in sofferenza per gli attacchi dell’estremismo islamico e per i disastri ambientali, rischia forse di precipitare nella guerra civile. Niente di nuovo naturalmente. Almeno per le minoranze etniche e religiose e – soprattutto – per le donne, i bambini, i diseredati. Vittime designate di una costante “guerra a bassa intensità”. Ma l’importante […]

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Il Pakistan, già in sofferenza per gli attacchi dell’estremismo islamico e per i disastri ambientali, rischia forse di precipitare nella guerra civile. Niente di nuovo naturalmente. Almeno per le minoranze etniche e religiose e – soprattutto – per le donne, i bambini, i diseredati. Vittime designate di una costante “guerra a bassa intensità”.
Ma l’importante è continuare a sciare sulle “cime inviolate” del “Terzo Polo”. Come non mancano di segnalarci amabilmente su Instagram gli stessi vacanzieri d’alta quota nostrani… che non boicottano e così immemori non si accorgono di affiancare i militari di uno stato oppressore, in mano a un’oligarchia che spadroneggia su cittadini discriminati. Sintomatico del modo di fare affari, senza badare alla natura delle oligarchie genocidiarie che controllano i paesi con cui si intrecciano.
In questi giorni in cui il Pakistan è tornato alla ribalta per gli scontri con decine di morti dopo l’arresto di Imran Khan ci sembra interessante il modo in cui Gianni Sartori inforca il grandangolo perlustrando l’area pakistana, allargando lo sguardo sia nel tempo che ai temi.  


Il balletto criminale delle elezioni imminenti

Ma cosa sta succedendo in Pakistan? Davvero siamo alle soglie di una guerra civile? O stiamo assistendo al preludio (“con altri mezzi”) della campagna elettorale in vista delle elezioni di ottobre (salvo modifiche, rinvii)?

Il risvolto etnico

In realtà per alcune minoranze etniche o religiose: hazara, beluci, cristiani, sciiti… così come per le donne, i bambini e un gran numero di diseredati, la situazione era già difficile. Tra attentati, aggressioni, (guerra a bassa intensità ?), discriminazioni…che si vengono a sovrapporre (con effetti sinergici) alla grave crisi economica e alla disastrosa situazione sanitaria. Per non parlare di alluvioni e altre emergenze ambientali.

Il risvolto talebano

Un recente avvenimento è sintomo emblematico di una situazione in via di ulteriore degrado (e qui non mi riferisco a quello ambientale).
Qualche giorno fa Muhammad Alam Khan, un poliziotto assegnato alla protezione della Catholic Public High School (una scuola cattolica femminile) nel Nordovest del Pakistan (a Sangota, nella valle dello Swat, provincia del Khyber Pakhtunkhwa), ha aperto il fuoco contro il pulmino che trasportava le allieve uccidendone una di 8 anni e ferendone altre sei e un’insegnante.
Il tragico episodio è avvenuto nella stessa regione da cui proviene Malala Yousafzai, l’attivista premio Nobel per la pace per aver condotto una campagna contro il divieto all’istruzione femminile imposto dal Tehreek-e Taliban Pakistan (Ttp, i talebani pakistani). Nel 2012 anche lei era stata colpita alla testa da un proiettile sull’autobus per tornare a casa da scuola, mentre anni fa la Catholic Public High School aveva dovuto chiudere per le minacce e per gli attentati.

Nel 2022 in questa provincia si sono registrati almeno 225 attentati (“solo” 168 nel 2021). O almeno secondo le cifre ufficiali. Da parte loro i miliziani legati al Ttp ne avevano rivendicato oltre 360. Senza dimenticare gli attacchi di un’altra organizzazione jihadista-terrorista operativa anche in Pakistan: lo Stato islamico che solo nel marzo 2022 aveva ucciso oltre 60 persone.
E anche il 2023 non sembra promettere bene. Solo nei primi quattro mesi sono già 180 quelli ufficiali.

Nel gennaio di quest’anno i talebani pakistani avevano rivendicato anche il sanguinoso attacco suicida (con oltre una trentina di morti e centinaia di feriti) ad una moschea di Peshawar, situata in un complesso dove si trova il quartiere generale della provincia del Khyber Pakhtunkhwa.

Il risvolto separatista

Per completezza va anche ricordato che gli attentati non sono monopolio esclusivo degli estremisti islamici. Un attacco suicida dell’agosto 20121 nella città di Gwadar (contro un veicolo cinese) era stato rivendicato dai separatisti beluci.

Una situazione drammatica, convulsa e foriera di ulteriori lutti.

Le malefatte di Imran Khan

Non per niente tra le questioni sollevate dall’attuale conflitto interno tra governo e opposizione (ma anche tra militari e una parte della società civile) appare rilevante l’accusa di ambiguità rivolta all’ex primo ministro Imran Khan. Per aver consentito, favorito il rientro in patria dei talebani pakistani purché garantissero di deporre le armi (cosa auspicabile ma difficile da realizzare). Come era prevedibile, nonostante le trattative per il loro reinserimento e per una “soluzione politica” del conflitto, dopo poco tempo gli attentati erano ripresi. Alimentando il sospetto che i colloqui, le trattative avessero in realtà consentito al Ttp di riorganizzarsi.

Le persecuzioni contro Imran Khan

Quanto alle numerose azioni giudiziarie lanciate contro lo stesso leader del Pakistan Tehreek-e-Insaf (Pti) per corruzione e reati finanziari (e anche un probabile tentativo di eliminarlo fisicamente, stroncato dalla mobilitazione dei militanti del Pti), presumibilmente in parte strumentali, per ora sembrano aver portato più che altro all’incarcerazione di tanti suoi seguaci. Pare anche dietro sua indicazione: farsi arrestare per “saturare le carceri e screditare il governo”… quanto meno un rischioso azzardo.

Tra le accuse principali, quella relativa all’Al-Qadir Trust, proprietà di Khan e della moglie, a cui l’impresa immobiliare Bahria Town avrebbe fornito un terreno del valore di 530 milioni di rupie (1,71 milioni di euro)
Ma forse Imran Khan sta anche pagando il prezzo di un suo avvicinamento alla Russia (malvisto dagli Usa, oltre che dall’India per ragioni inverse). Questo potrebbe aver innescato la rottura con l’esercito e favorito la sua defenestrazione.

Come è noto l’ex primo ministro è stato arrestato (a quanto sembra da un gruppo paramilitare legato ai servizi segreti) mentre si trovava all’Alta corte di Islamabad per testimoniare in un processo.

Ambiguità pakistane nel posizionamento geopolitico

Naturalmente non mancano (anche a sinistra, tra quella più “campista”) gli estimatori del regime pakistano.
Pensando di intravedervi una componente di possibili “blocchi egemonici alternativi musulmani” per un mondo multipolare contro l’imperialismo statunitense. Blocchi di cui potrebbero far parte sia la Turchia che l’Iran e in buoni rapporti con Russia e Cina. Sarà, ma non mi convince. In realtà è più probabile che il Pakistan (come da tradizione) continuerà a giocare su due tavoli. Se con gli Stati Uniti prevale la collaborazione sul piano militare (e i finanziamenti), con la Cina va sviluppando l’aspetto commerciale (vedi la Via della Seta).

Lasciando per ora da parte l’altro rischio, quello di un possibile conflitto nucleare con l’India. Magari a causa di un “malfunzionamento tecnico”, di un errore. Come quando nel marzo scorso l’India ha lanciato accidentalmente un missile supersonico in Pakistan. Caduto senza danni particolari nel Punjab (distretto di Khanewal).

Indifferenza occidentale

In alta quota si trovano i retaggi degli scambi d’interessi tra imprese occidentali (molto spesso italiane, anche affondando nelle nevi storicamente del passato) e intrecci tra potere canaglia di uno stato dai molteplici scambi interessanti. Sempre intenti a individuare qualche residua “cima inviolata” (lapsus rivelatore?) da cui scendere con gli sci (anche qualche giorno fa nella regione del Gilgit-Baltistan).
Mentre – che so – negli anni Ottanta del secolo scorso era quasi normale (almeno per persone con un minimo di coscienza sociale, politica…) boicottare almeno turisticamente un paese come il Sudafrica dell’apartheid e in epoca più recente la Turchia che reprime il popolo curdo, oggi come oggi andare a trascorrere le “settimane bianche” in Pakistan per alpinisti, escursionisti e sciatori nostrani non sembra assolutamente fuori luogo. Anche a persone che magari poi se la tirano con le questioni umanitarie e ambientali. O quelli che mentre denunciano lo scioglimento dei ghiacciai del “Terzo Polo” vi contribuiscono con i loro mezzi (nel senso di veicoli).

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Risorse e rotte artiche in tempo di guerra https://ogzero.org/risorse-e-rotte-artiche-in-tempo-di-guerra/ Sun, 01 May 2022 21:58:15 +0000 https://ogzero.org/?p=7227 L’inviato speciale Ue per l’Artico, Michael Mann ha commentato il 30 aprile 2022 le decisioni del Consiglio artico rispetto alla collaborazione con la Russia, ritenendo che nonostante le tensioni, «grazie ai fondi europei l’Artico può diventare un laboratorio di sviluppo di tecnologie e risorse sostenibili con cui vincere la sfida della crisi energetica», però un […]

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L’inviato speciale Ue per l’Artico, Michael Mann ha commentato il 30 aprile 2022 le decisioni del Consiglio artico rispetto alla collaborazione con la Russia, ritenendo che nonostante le tensioni, «grazie ai fondi europei l’Artico può diventare un laboratorio di sviluppo di tecnologie e risorse sostenibili con cui vincere la sfida della crisi energetica», però un sempre maggior numero di navi russe navigano nell’Artico.

L’importanza delle risorse artiche a cui il riscaldamento globale consente di accedere (per le tecnologie e per la transizione energetica – che ridurrebbe la capacità di ricatto russo) e lo scontro per la Northern Sea Route che si va liberando dai ghiacci e che Mosca intende controllare considerandola parte integrante del proprio territorio, producono anche nel Grande Nord ribaltamenti geopolitici e costringono a trovare soluzioni alternative alla cooperazione sostenibile finora perseguita tra le potenze mondiali. Ciò che è destinato a patire di questa contingenza è l’ambiente, l’accesso a energia sostenibile… e gli interessi cinesi. Alessandra Colarizi fornisce qualche elemento per comprendere quali fossero i progetti e la pianificazione di Pechino riguardo al Mar Glaciale Artico e cosa ne rimane dopo la crisi ucraina.


L’“amicizia senza limiti” e le forniture di gas russo. È quanto le cronache internazionali ricordano dell’ultimo – ormai storico – incontro tra Vladimir Putin e il presidente cinese Xi Jinping. Ma, durante quelle ore trascorse insieme a ridisegnare l’ordine internazionale, i due leader si sono soffermati su un’altra questione centrale tanto per la stabilità energetica mondiale, quanto per i futuri assetti geostrategici: la necessità di promuovere una Cooperazione sostenibile e pratica nell’Artico, come recita il motto della presidenza moscovita iniziata nel maggio 2021.

L’estremo Nord rappresenta, insieme all’Asia centrale, lo scacchiere regionale in cui i due giganti collaborano più attivamente. È anche una delle aree più colpite dal colpo di coda della crisi ucraina. Compiendo un passo decisivo, il 24 marzo 2022 i membri del Consiglio Artico (Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Svezia e Stati Uniti) hanno sospeso tutti i colloqui con Mosca. Non una cosa di poco conto: la Russia controlla oltre metà della costa bagnata dall’Oceano Artico ed è al centro delle principali iniziative multilaterali, dalla ricerca scientifica allo sviluppo economico passando per la collaborazione militare. Ora la sua estromissione rischia di paralizzare il funzionamento della principale organizzazione regionale.
Per Pechino, non è una buona notizia.

La Cina un “paese quasi artico”

Geograficamente parlando un outsider, la Cina si definisce un “paese quasi artico”.  Dal 2013 è membro osservatore del Consiglio (paradossalmente, dal punto di vista geografico, lo è anche l’Italia). Ma frequenta la zona addirittura dal 1925, ovvero da quando siglò il trattato delle Svalbard che disciplina le attività commerciali nelle isole a metà strada tra la Norvegia e il Polo Nord. Il perché è spiegato nel libro bianco sull’Artide pubblicato dal governo cinese quattro anni fa (dove si dispiega l’Operazione Dragone Bianco): nonostante la distanza, le «condizioni naturali dell’Artico e i loro cambiamenti hanno un impatto diretto sul sistema climatico e sull’ambiente ecologico della Cina e, a loro volta, sui suoi interessi economici nell’agricoltura, la silvicoltura, la pesca, l’industria marina e altri settori».

Non è quindi solo un fenomeno di interesse scientifico. ll riscaldamento ambientale sta causando un progressivo scioglimento dei ghiacci, rendendo sempre più navigabili acque un tempo impercorribili. Proprio alla creazione di nuove rotte commerciali tra l’Asia orientale, l’Europa e il Nordamerica passando attraverso l’Artide, guarda la cosiddetta “Via della seta polare”, declinazione artica della Belt and Road Initiative, la strategia di politica estera con cui Pechino sostiene la penetrazione internazionale delle aziende statali cinesi e dei suoi standard industriali attraverso la costruzione di grandi vie di comunicazione marittime e terrestri in Eurasia.

I nuovi corridoi settentrionali non solo permetteranno di aggirare “lo stretto di Malacca”, l’impervio passaggio (uno dei chokepoint mondiali) sotto il controllo degli Stati Uniti e dei suoi alleati asiatici. Contribuiranno anche ad accorciare i tempi di percorrenza delle merci tra i porti cinesi e gli scali europei. Passando per Suez oggi una nave che parte da Shanghai diretta a Rotterdam impiega circa 50 giorni; attraverso la rotta nordica e la Via della Seta Polare lo stesso viaggio durerebbe circa 33 giorni. Per il momento la tratta è ancora in fase di test: il colosso cinese China Ocean Shipping Company (Cosco) effettua circa nove spedizioni all’anno. Ma il numero è destinato a salire e alcune società sono già in trattative per garantire un volume di transazioni prestabilito ogni anno.

La Cina come player responsabile

Commercio a parte, gli interessi cinesi nel quadrante includono scopi scientifici, ambientali, e diplomatici. Inserita nell’ultimo “piano quinquennale” 2021-2025, la strategia polare cinese annovera tra gli obiettivi la realizzazione di esplorazioni in acque profonde, la pianificazione di missioni spaziali, e la tutela del diritto internazionale marittimo. Conscia del suo nuovo status internazionale, negli ultimi anni la Cina ha utilizzato il Consiglio Artico per presentare un’immagine di sé più responsabile, soprattutto alla luce delle accuse che dall’altra parte dell’Eurasia accompagnano l’espansionismo cinese nelle acque contese con i vicini rivieraschi.

Nel white paper Pechino spiega che il suo coinvolgimento nel quadrante è teso a «comprendere, proteggere, sviluppare e partecipare alla governance dell’Artico, in modo da salvaguardare gli interessi comuni di tutti i paesi e la comunità internazionale e promuovere lo sviluppo sostenibile» della regione. Ne consegue un’immagine rassicurante ma parziale della Polar Silk Road. A giudicare dai report comparsi sulla stampa cinese, infatti, gli aspetti militari, sebbene mai espliciti, sono altrettanto fondamentali per comprendere la crescente assertività di Pechino nell’area.

La marina cinese vede nel passaggio a Nordest una scorciatoia per spostare truppe dal Pacifico all’Atlantico, in mancanza di basi militari (la più vicina è a Gibuti, nel Corno d’Africa) da cui tenere a tiro la costa americana con i propri bombardieri e missili balistici intercontinentali. Un sogno vagheggiato da Mao nel 1959 e che l’Unione sovietica di Chruščëv congelò per decenni. Secondo il tabloid nazionalista “Huanqiu Shibao”, se i sottomarini cinesi dotati di armi nucleari riuscissero ad accedere indisturbati al Mar Glaciale Artico, i rapporti di forza con gli States e gli alleati Nato cambierebbero radicalmente rendendo la Cina una “potenza militare mondiale”.

Se la Cina perde la Russia

Consapevole dei suoi limiti geografici, fino a oggi la Cina ha puntato a cementare la propria presenza nello scacchiere polare in partnership con Mosca. Passando dentro la zona economica esclusiva russa, la Rotta del Mare del Nord è in balia delle decisioni del Cremlino in termini di tariffe e accesso alle infrastrutture marittime lungocosta. Soprattutto dopo l’occupazione della Crimea e il crescente isolamento internazionale di Mosca, la Cina è riuscita a sfruttare il proprio ascendente su Mosca per ottenere importanti quote di partecipazione nei principali progetti energetici in Siberia. A partire dal 2016 la statale China National Petroleum Corporation (Sinopec) e il Silk Road Fund hanno affiancato la russa Novatek e l’azienda francese Total nello sviluppo di un giacimento di gas naturale liquefatto nella penisola di Yamal. Società petrolifere statali cinesi stanno lavorando all’ultimazione di Arctic LNG-2 e del giacimento di Payakha, mentre Pechino ha già messo gli occhi sulle infrastrutture di trasporto, vero fiore all’occhiello della Silk Road: secondo un accordo del 2016, la costruzione di un porto d’altura vicino ad Arkhangelsk, sul Mar Bianco, doterà Cosco di un’importante base logistica lungo la rotta a Nordest. E, nonostante sia in fase di stallo da circa vent’anni, la Cina ha espresso interesse anche per la ferrovia di Belkomur, con cui le autorità locali puntano a creare un sistema di trasporto unificato nei territori settentrionali.

Non è solo una questione di business. L’allineamento con la Russia è servito, come in altri frangenti, a sostanziare la postura cinese con una visione strategica di più ampio respiro. Senza Mosca la Cina nell’estremo Nord rimane un intruso, anche piuttosto sgradito. In tempi recenti, nel resto dell’Artide, la Via della Seta Polare ha incontrato notevoli ostacoli, spesso a causa delle preoccupazioni di paesi, come Canada e Svezia, con cui Pechino ha rapporti politici tesi. Gli Stati Uniti non hanno nascosto il proprio disagio per le mire del gigante asiatico sull’industria mineraria in Groenlandia – prima che la vittoria nel 2021 della sinistra ambientalista di Inuit Ataqatigiit sospendesse le attività estrattive.

Cosa succederà adesso? 

C’è chi, guardando al passato recente, pronostica un attivismo anche maggiore del gigante asiatico nel quadrante artico. Secondo gli ottimisti, senza alternative, la Russia sarà costretta a darsi mani e piedi alla Cina: gli yuan sostituiranno i capitali sborsati delle multinazionali europee e giapponesi, continuando a foraggiare i piani artici di Mosca. Non tutti concordano, però. Non solo perché, aldilà della sbandierata pseudo-alleanza, dall’introduzione delle misure punitive le aziende cinesi hanno mostrato una maggiore cautela nel fare affari con l’Orso. Lo dimostra il rallentamento delle attività di Sinopec in Russia, nonché il calo delle importazioni di carbone russo nei primi mesi dell’anno.

Mentre, per alcuni esperti cinesi, la rottura tra gli otto stati membri del Consiglio Artico non comprometterà automaticamente la strategia cinese nella regione, le sanzioni internazionali contro Mosca potrebbero eccome. Soprattutto considerati i divieti (diretti e indiretti) sull’export di tecnologia americana, da cui il progetto di Yamal dipende enormemente.

I risvolti politici non sono meno insidiosi. Per l’Artic Institute Pechino pagherà il prezzo di quella che i vertici Ue hanno definito una “neutralità filorussa”: secondo il think tank con base a Washington, infatti, «è difficile immaginare che gli Stati Uniti, il Canada o i cinque paesi nordici del Consiglio acconsentiranno ad approfondire la cooperazione economica o a integrare la Cina nei forum regionali se [Pechino] continuerà a schierarsi con la Russia». Fattore che potrebbe inficiare di riflesso la “diplomazia omnidirezionale” condotta dal governo comunista con Svezia, Finlandia e Norvegia nei settori aerospaziale, dei cambiamenti climatici e dell’esplorazione scientifica. Ora che – contrariamente alle intenzioni di Putin – la crisi ucraina ha intensificato la cooperazione tra la Nato, Helsinki e Stoccolma, separare la ricerca pacifica dalla sicurezza armata risulta sempre più difficile. Collaborando con Mosca nella regione polare, Pechino rischia di dover rispondere ad accuse che trascendono il presunto supporto militare in Ucraina.

C’è poi un problema più profondo, che riguarda la natura stessa della cooperazione sino-russa. Mosca non ha mai visto di buon occhio lo sconfinamento cinese nel proprio cortile di casa. Anche dopo l’ingresso della Cina nel Consiglio Artico, la partnership polare tra i due giganti ha continuato a risentire della diffidenza che storicamente contraddistingue le relazioni sino-russe. Nel 2020 il direttore dell’Arctic Civic Academy di San Pietroburgo è finito agli arresti per aver passato a Pechino informazioni classificate sulla ricerca idroacustica e il rilevamento di sottomarini. L’invasione russa dell’Ucraina irrompe in una crisi di fiducia che il mancato coordinamento dei rispettivi vertici sul fronte europeo rischia persino di esacerbare.

Le considerazioni economiche aggiungono ulteriori incognite all’equazione polare. Perché se è vero che gli investitori cinesi potrebbero trarre benefici dal ripiegamento dei competitor occidentali dai giacimenti russi, la sostenibilità dei finanziamenti nei combustibili fossili è tutt’altro che scontata. Da quando Pechino ha annunciato l’obiettivo emissioni zero entro il 2060, i prestiti cinesi destinati al comparto energetico lungo la Belt and Road sono crollati verticalmente. Nelle terre dei ghiacci prevarranno i calcoli politici o le valutazioni ambientali?

La politica estera o l’agenda interna?

Cambiano gli equilibri mondiali, ma cambiano soprattutto le priorità cinesi. È il grande limite dell’“amicizia senza limiti” tra Cina e Russia.

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Potenze coloniali, mandarini e conseguenze di lungo periodo https://ogzero.org/volpicelli/ Wed, 03 Nov 2021 21:55:31 +0000 https://ogzero.org/?p=5267 All’inizio della fine dell’Impero ottomano  scoviamo in un’intuizione di Luigi Barzini senior le radici del risveglio della potenza cinese nel momento in cui le scelte propulsive di Xi Jinping sono poste sotto pressione a livello globale: la produzione cinese rallenta ormai per il secondo trimestre di seguito; problemi di approvvigionamento, tensioni muscolari nel Pacifico, diminuzione […]

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All’inizio della fine dell’Impero ottomano  scoviamo in un’intuizione di Luigi Barzini senior le radici del risveglio della potenza cinese nel momento in cui le scelte propulsive di Xi Jinping sono poste sotto pressione a livello globale: la produzione cinese rallenta ormai per il secondo trimestre di seguito; problemi di approvvigionamento, tensioni muscolari nel Pacifico, diminuzione dei consumi ancora in seguito alla pandemia, che ha prodotto costi cospicui, hanno colpito l’economia che s’incentra sulla Belt Road Initiative. Dimostrando così che ormai Pechino è centrale negli interscambi e regola il mercato, essendosi inserita in ogni ganglio dell’interscambio e della produzione di beni, come mettevano sull’avviso con lungimiranza Barzini e il mandarino di 4° grado Volpicelli.


Un secolo di “Made in China”

«Noi non abbiamo idea delle grandi forze latenti della Cina, dell’intelligenza acuta, della perspicacia e dell’abilità del cinese. Ma lasciamolo dormire in pace questo immenso popolo sonnacchioso e divertente; sarà tanto meglio per noi. Guardate i giapponesi che cosa hanno saputo fare in poco tempo! I cinesi sarebbero capaci di ammazzare in cinquant’anni tutte le nostre industrie e quelle americane. Quattrocento milioni di uomini instancabili, intelligenti, sobri: ma che vi pare! Troveremo il “made in China” persino in fondo alle nostre mutande» [Luigi Barzini].

Il grande inviato del “Corriere della Sera” Luigi Barzini, 120 anni fa più o meno, aveva capito tutto. Gli era bastato poco tempo in giro per l’Asia per scrivere queste righe di ammonimento che ho ritrovato mentre anni fa andavo alla scoperta di quel mondo per raccontare la storia di un interprete-diplomatico italiano che vi visse buona parte della sua vita adulta. Noi italiani e le grandi potenze occidentali eravamo i conquistatori, i colonizzatori. E Barzini oltre a raccontare le violenze perpetrate contro la popolazione cinese dalle armate civilizzatrici, le stesse che si erano impegnate nel grande continente africano e in America Latina, aveva compreso ciò che molti analisti di oggi non vogliono ancora accettare. Forse perché, come per altre realtà, evitano di leggere la storia.

Scavando per ricostruire le vicende di Eugenio Felice Maria Zanoni Hind Volpicelli mi erano capitate anche altre valutazioni su ciò che stava accadendo e poteva succedere in quel mondo così lontano  e che raccontai nel mio Dante in Cina (il Saggiatore, 2018). Queste le parole di Lord Wolseley, uno dei più grandi generali britannici dell’epoca vittoriana, in un’intervista pubblicata il 6 luglio 1900:

«La Cina ha tutti i requisiti per conquistare il mondo. Ha una popolazione di 400 milioni che parlano tutti la stessa lingua o dialetti comprensibili da un lato all’altro dell’Impero. Ha un’enorme ricchezza in attesa di essere sviluppata. Oltretutto non hanno paura della morte. Comincia con una base di milioni e milioni di possibili soldati come questi e ditemi se ci riuscite quale sarà la fine».

Il protagonista della mia ricerca si era formato in ciò che era, per molti versi, la grande scuola dei colonialisti. L’Orientale di Napoli ha le sue radici nel colonialismo religioso, precursore di quello nazional-economico. Là si preparavano giovani cinesi per estendere la presenza della chiesa e del pensiero cattolico a casa loro. Là, all’ombra del Vesuvio, all’epoca di Volpicelli, ossia nell’Ottocento, vi si istruivano, tra gli altri, gli interpreti indispensabili per la penetrazione della Cina, del Giappone e delle terre contese del Sud asiatico. E per la gestione del bottino. Diplomatici e tecnici, al servizio delle grandi potenze occidentali:

«Quando il governo britannico cercava di stabilire relazioni diplomatiche con la Cina, l’unico posto in Europa dove riuscì a trovare un interprete fu nel Collegio dei cinesi a Napoli», avrebbe scritto il protagonista del mio libro.

Per meglio comprendere le cronache degli scontri, delle tensioni montanti tra la Cina comunista-capitalista proiettata verso il mondo e le grandi potenze che sono le stesse di allora, come l’Europa e la Russia e persino gli Usa, che a cento anni erano ancora relativamente giovani e appaiono oggi, dopo altri cento anni, consumati e sulla difensiva, potrebbe aiutare questo capitolo tratto da Dante in Cina.

Volpicelli presenzia alla cerimonia per il secentenario dantesco a Hong Kong con la fascia rossa al braccio

Console, console generale, Hong Kong e i pirati

Un “raccoglitore di notizie”, come si autodefinisce Volpicelli in un dispaccio diretto ai suoi superiori, non è necessariamente una spia. L’interprete italiano, nel 1898, non era più alle dipendenze delle Dogane imperiali. Dopo quattro mesi tra Siberia e Russia europea era tornato a Roma per essere formalmente reclutato dal servizio consolare del Regno e ricevette le sue istruzioni per una carica amministrativa. La sua giurisdizione – Hong Kong, Canton e tutta la Cina meridionale – aveva un’importanza che andava molto al di là della presenza fisica degli italiani nella regione. Con l’approfondimento delle lingue Volpicelli si era preparato a compiti più vasti di quelli svolti per l’amministrazione delle Dogane. Con i suoi viaggi in Cina, Russia e Giappone si era fatto una conoscenza diretta dei tre paesi; dei costumi e delle usanze della gente comune. Aveva studiato a fondo i loro apparati militari. I suoi contatti si erano estesi anche al di fuori della cerchia stretta dei leader e degli amministratori che aveva frequentato fino ad allora. Nei primi anni dell’ultima decade del secolo, il nostro interprete aveva stupito la vasta comunità straniera di Shanghai con le sue pubblicazioni e conferenze. C’è chi tra gli storici moderni cita ancora i suoi studi e ricerche sugli antichi rapporti commerciali, politici e militari della Cina con il resto del mondo. Molti applausi ebbe dai soci della Royal Asiatic Society parlando del commercio degli arabi con la Cina e dei primi insediamenti coloniali portoghesi: giochi diplomatici e strategie globali come le complesse partite di Wei Yi che da tempo aveva spiegato agli occidentali.

Con il suo corpo alto e atletico, una folta barba che ricordava quella del rivoluzionario russo Bakunin che tanto gli piaceva e anche dell’intellettuale italiano un po’ anarchico De Gubernatiis, imparentato con lo stesso Bakunin, Zanoni entrò con il piede giusto nella colonia inglese in un momento cruciale per la Cina e per chi la voleva dominare. Si fece subito notare per la sua cultura e intraprendenza. Compiva tutte le mosse e i riti che spettavano al nuovo arrivato e anche quelle che non rientravano nel protocollo diplomatico. Gli avvenimenti importanti si susseguivano con una velocità insolita e lui si sarebbe ritrovato al centro non soltanto delle questioni diplomatiche ma anche dell’attività del Corpo di spedizione italiano che si sarebbe unito alle marine delle altre potenze e ai progetti di espansione territoriale europee e del Giappone.

La Germania, arrabbiata per l’uccisione di due missionari tedeschi a Shantung chiese, o meglio impose con la minaccia delle armi, di essere ricompensata con la consegna di Kiano Chow e la sua baia. La Russia occupò Port Arthur, una base navale situata in Manciuria ora chiamata Lüshunkou. La Francia si piazzò a Guangzhouwan, ossia “Baia di Guangzhou”, una piccola enclave sulla costa meridionale della Cina collegata all’Indochina. A giugno, l’Inghilterra ottenne l’estensione della sua concessione di Hong Kong allargando i possedimenti fino a Kowloon e un mese dopo fino a Weihaiwei. A settembre il giovane imperatore Kuang Hsu, fu messo agli arresti nel proprio palazzo, il premier Li Hung Chang fu spedito a casa e l’imperatrice Dowager – un termine in inglese che significa vedova o ereditiera – salì al trono del Dragone. Da lì a poco Londra avrebbe preteso i cosiddetti Nuovi territori per allargare ulteriormente Hong Hong.

Vi è compresa Lantao con la sua cima imponente, radicata nelle tradizioni e nella mitologia locali. Oggi l’isola ospita il modernissimo aeroporto internazionale. I Nuovi territori, tra vasti parchi naturali, una splendida università e zone residenziali edificate nel rispetto dello spazio e anche dell’uomo, costituiscono una magnifica lezione di urbanistica. Centoquindici anni fa, Hong Kong era già una colonia importante alla quale l’Inghilterra aveva dedicato enormi investimenti visibili ancora oggi che l’intero territorio (con uno status di autonomia amministrativa) è stato restituito alla Repubblica popolare cinese.

Volpicelli, prima di approdare a Hong Kong aveva girato per lungo e per largo la Cina, muovendosi tra Canton e Shanghai, tra Macao e Pechino. Conosceva tutti. Era rispettato. Il suo nome era ben noto: circolava anche fuori dal cerchio degli addetti ai lavoro, grazie al giornale inglese di Shanghai. Il North China Herald pubblicava di tutto, dalle notizie più importanti giunte dall’Europa e dagli Stati Uniti, alla cronaca quotidiana dell’Impero. Una rubrica annottava arrivi e partenze, conferenze, nozze e battesimi. Al ballo annuale della comunità straniera di Shanghai dedicarono una pagina intera con i nomi di tutti gli invitati, compresi “i signori Volpicelli”. Sotto il titolo “Funzione interessante”, nel dicembre 1899, i cronisti raccontarono la consegna a un caporale inglese di una medaglia al valore conferitogli dal Re d’Italia per aver salvato un marinaio italiano a Candia, sull’isola di Creta. «Il generale Cascogne pronunciò un discorso e strinse la mano all’eroe e il signor Volpicelli appuntò la decorazione sul petto del caporale. Nel suo discorso il Console espresse la sua alta ammirazione per le qualità splendide dei soldati britannici».

Erano gli anni della nuova colonizzazione e l’Italia voleva la sua fetta. A Roma il parlamentare Angelo Valle aprì una discussione vivace che, diceva, «deve elevarsi ai più alti concetti e ai maggiori interessi dello stato». Era il primo maggio 1899, pochi anni dopo che quel giorno era stato fissato per legge la festa dei lavoratori.

«La Camera decida se vuol seguire una politica, quale spetta all’Italia per le sue tradizioni, per la sua posizione geografica, per lo spirito nazionale, per il suo genio, per la sua intraprendenza e attività — prendendo parte a tutte le questioni mondiali;— oppure — se rinnegando il passato — voglia restringersi nel suo guscio, seguitando una politica che la ridurrebbe all’anemia, alla miseria, all’isolamento…». Angelo Valle guardava nella direzione in cui ci avrebbe portato Mussolini con la sua via dei Fori Imperiali, lastricata di conquiste, crimini e false speranze per il futuro di Roma.

«Vorrà l’Italia, un tempo la prima e più potente nazione colonizzatrice del mondo, rimanere ultima in questo movimento generale? La trasformazione del Mondo è inevitabile; può l’Italia disinteressarsene? L’Italia deve domandare il suo risorgimento economico non alla sola agricoltura, ma altresì all’attività degli scambi, alla sua produzione industriale, quindi la necessità delle colonie allo sviluppo economico di un popolo. Senza colonie non può esservi commercio esterno. Senza una politica coloniale non è possibile a una grande potenza ma ben presto quello immigrante, che perde lingua e nazionalità, A me piacciono colonie che abbiano costumi, leggi, Governo italiano, a seconda del classico concetto Romano, adottato oggi dagli inglesi.

Il mondo comincia a divenir piccolo e quindi è necessario affrettarsi a prenderne la nostra parte. Non dobbiamo spaventarci degli insuccessi in Africa, né prendersi paura dell’ignoto. Né dobbiamo fare della politica coloniale una questione di partito, ma seguire il nobile esempio dei Parlamenti inglese, franasse e tedesco, ove, quando sorgono questioni di politica estera, le opposizioni, meno i socialisti, si affrettano a dichiarare ai rispettivi Governi, che nella politica estera avranno il loro appoggio incondizionato».

E ancora: «La Cina è la grande carcassa dell’Asia, e sei aquile europee e americane vi girano attorno premendosi e spingendosi l’una sull’altra. Essa è destinata ad essere assorbita alle potenze europee, e perché noi non dovremmo averne la nostra parte?…»

Lelio Bonin Longare, sottosegretario agli Esteri, nel corso del dibattito parlamentare offrì una sua interessante intuizione: «…a parer mio, il maggior pericolo che può attendere un giorno gli stati che mettono piede nell’Estremo Oriente per procurarvisi possedimenti territoriali può venire dai cinesi medesimi. Noi troppo spesso, parlando della Cina, dimentichiamo i cinesi, ed è un errore che si spiega facilmente perché succede di frequente a tutti di confondere la Cina ufficiale con la nazione, cinese, o piuttosto con quel conglomerato di popoli è di razze differenti, uniti insieme dai vincoli di antichissime tradizioni, che per comodità di linguaggio si può chiamare nazione cinese».

Mandarino di 4° grado

Volpicelli, console rispettato in quanto rispettoso della cultura cinese

E andò avanti per ricordare un episodio della storia coloniale nel quale Volpicelli, ancora non console e nemmeno al servizio dell’Italia, era stato coinvolto come interprete. «Non dimentichiamo quello che è successo alla Francia nel Tonchino dove i francesi, più che con l’esercito regolare, ebbero a fare con irregolari e con la popolazione. Quella campagna segnò alcune delle date più tristi della storia militare della vicina Repubblica. Ed oggi pure non mancano i segni ammonitori: nel settembre scorso il Kwang-sì era in mano di un esercito di 20.000 ribelli che saccheggiarono ed incendiarono intere città, e nel mese di ottobre il settlement francese di Shanghai era attaccato dalla popolazione e dovette essere difeso dai marinai delle navi ancorate nella rada.

Abbiamo di questi giorni veduti i Tedeschi a Kiao-Tchiao e gli Inglesi a Hong Kong intraprendere spedizioni all’interno per domare alcune ribellioni. Si vede già all’opera l’azione agitatrice di sette politiche, che il Brandt paragona agli Armeni dell’Anatolia, uomini dal più ardente patriottismo e poco scrupolosi nella scelta dei lezzi coi quali possono nuocere ai loro nemici».

Hong Kong nell’estate del 1993, vista dal Peak Victoria. All’incirca dallo stesso punto di vista della copertina.

Volpicelli, per quanto ancora figura dai tratti incerti e misteriosi, era decisamente un anticolonialista (e anche un antifascista al punto da rinunciare alla vecchiaia in Italia e alla compagnia di sua moglie e finire la sua vita in Giappone). Odiava talmente tanto l’espansionismo britannico da apparire agli occhi di Londra come un alleato, quasi un agente della Germania avviata a essere nazista. Purtroppo i giochi ambigui di quel mondo sono ampiamente specchiati in quelli delle diplomazie occidentali di oggi incapaci di affrontare con coerenza e una strategia comune il risveglio di quell’immenso popolo sonnacchioso visto e analizzato poco più di un secolo fa dall’inviato del “Corriere della Sera”.

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Il trailer del kolossal hollywoodiano “America is back” https://ogzero.org/america-is-back-la-regia-del-road-movie-di-biden/ Sun, 20 Jun 2021 01:34:58 +0000 https://ogzero.org/?p=3925 «America is back» in Europe, but… Biden torna a proporre la politica multipolare americana, che mira a presentare gli Stati Uniti come riferimento di un’ampia alleanza in cui si distribuiscono patenti di democrazia a tutti, tollerando in parte anche il regime putiniano (o comunque mostrando di voler aprire un dialogo), purché si adotti un profilo […]

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«America is back» in Europe, but… Biden torna a proporre la politica multipolare americana, che mira a presentare gli Stati Uniti come riferimento di un’ampia alleanza in cui si distribuiscono patenti di democrazia a tutti, tollerando in parte anche il regime putiniano (o comunque mostrando di voler aprire un dialogo), purché si adotti un profilo intransigente verso Pechino o si rendano meno stretti legami e partnership con l’unico rivale riconosciuto. Infatti la regia raffinata ha dapprima restituito una riunione di famiglia nella verde Cornovaglia, dove il vecchio patriarca è venuto in Europa a cercare location adatte per una ridistribuzione dei ruoli all’interno del consesso europeo, lanciando segnali distensivi di collaborazione che superassero l’isolazionismo dell’amministrazione precedente – di cui si sono frettolosamente cancellati gli sgarbi –, ma sancendo la globalizzazione e lo spostamento dal marcato eurocentrismo, già abbandonato da Obama, all’asse indopacifico.

America is back

Ripulitura preventiva delle deiezioni trumpiane

E di nuovo la trama del film lascia trasparire il messaggio anticinese dell’intreccio.

Il Convitato di Pietra

E allora scomponendo il film del viaggio di formazione della presidenza Biden nei suoi duetti, cominceremmo con quello non ancora avvenuto tra Xi Jinping e Biden – ma di cui c’è già stata una prolessi nei titoli di coda, immaginandolo nella cornice del G20 italiano, in scena esattamente vent’anni dopo quello tragico genovese. Ci pare che cominciare l’analisi dei fotogrammi del road-movie europeo di Biden dal fuoricampo in cui è rimasto collocato per tutto il tempo il co-protagonista principale sia l’ottica attraverso cui assistere almeno a una sequenza della pellicola. Quella che consideriamo centrale e che ci sforziamo di inquadrare come nel film Dark Passage con Humphrey Bogart (regia di Delmer Davies per un titolo perfetto nel 1947 come per sottotitolare l’attuale film di Biden), in cui Vincent non viene inquadrato se non con particolari degli occhi e invece la cinecamera coincide con il suo sguardo, cercando di restituire l’ottica della soggettiva fuori scena di Xi Jinping, il controcampo del Convitato.

Don Giovanni 1979, di Joseph Losey

Per quanto sommessa, accennata e rimasta impigliata nel resto della trama, fatta invece di spettacolari palcoscenici e forti illuminazioni (quasi a voler spostare l’attenzione su episodi collaterali, come avviene spesso nei road-movie); la mano tesa del Convitato di pietra ha preso il fuoriscena come nel finale del Don Giovanni, relegando l’annuncio di un percorso delle merci alternativo a quello promosso dalla Bri, la nuova Via della seta, al rango del catalogo di Leporello: una smargiassata fin dall’allitterazione del nome Build Back Better World.

Il messaggio principale del film, sempre sottotraccia, è che vanno ridimensionati innanzitutto i rapporti commerciali con i cinesi, ma fingendo che si tratti di una guerra morale alle violazioni dei diritti civili.

E parlando di questa sequenza con Sabrina Moles (@moles_sabrina), il film si è trasformato in un viaggio interstellare, con al centro la nuova piattaforma spaziale cinese, che ha costretto Biden a un aggiornamento dell’articolo 5 dell’accordo Nato, estendendolo al dominio spaziale:

“La pantomima globalizzata della Guerra morale alla Cina”.

Il servo di due padroni

Di tutta la pantomima messa in scena nel viaggio di formazione del mondo di Biden infatti, riconsiderando il tourbillon dei messaggi mediatici, una volta conclusa la kermesse e lasciate decantare le dichiarazioni, spenti i riflettori, a posteriori nel consuntivo non si annoverano risultati apparentemente tangibili, ma è stata come una proiezione di slide della sceneggiatura da recitare nei prossimi anni della serie-tv che potrebbe intitolarsi The Great Game. The Revenge, la cui regia è affidata a Biden, con Blinken aiutoregista nelle sequenze del ritiro da Kabul, quindi al di là di ogni simulacro simbolico – che non avrà mai lo stesso impatto dell’ultimo elicottero che il 1° maggio 1975 lasciava l’ambasciata americana in Vietnam, anche se si tratta proprio di quel remake – offerto in pasto alle telecamere i nodi del film vero ruotano ancora attorno a Donbass e Crimea – come ci racconterà Yurii Colombo alla fine di questo articolo – e di conseguenza alle ex repubbliche sovietiche, che ritroviamo nel discorso di Baku, pronunciato da Erdoğan guarda caso proprio il giorno dopo il ritorno nell’alveo della Nato, con il compito speciale di andarsi a immolare in Afghanistan, come già avvenne quando la Turchia dovette pagare l’ingresso nella Nato dissanguandosi nella Guerra di Corea.

M.A.S.H., 1970, regia di Robert Altman

Stavolta il presidente turco di buon grado allunga i suoi tentacoli anche verso il Khorasan con la benevolenza degli Usa, che gli delegano così controllo militare, sfruttamento e ricostruzione di un’area fondamentale per il passaggio di merci tra XInjiang uyguro, Karakum turkmeno, Pamir tajiko, HinduKush multitribale, Karakorum e pianure indo-pakistane… monti e pianure persiane. Nomi evocativi di pellicole in costumi di mercanti: l’autentica antica Via della seta – il copyright – da contrapporre alla Belt Road Initiative per conto americano.

D’altronde nel duetto realmente interpretato con Putin si è giunti a una comunità di intenti («un dialogo bilaterale sulla “stabilità strategica”») su quel territorio che ha visto i due imperialismi rimanere impantanati nella Campagna d’Afghanistan.  Come riporta l’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della Luiss: «Nella conferenza stampa tenuta da Biden, a seguito dell’incontro che è durato circa 3 ore, il presidente ha affermato di aver discusso dell’interesse condiviso di Stati Uniti e Russia nel prevenire «una recrudescenza del terrorismo in Afghanistan»; [anche se ci sono prove del “Times” di aiuti economici e in armi elargiti da Mosca ai Talebani, ai quali erano anche state promesse taglie dal Cremlino per ogni soldato statunitense ucciso]. Un giornalista gli ha quindi chiesto se avesse fatto qualche domanda a Putin al riguardo. «No, è stato lui a chiedere dell’Afghanistan. Ha detto che spera che saremo in grado di mantenere un po’ di pace e sicurezza, e io ho detto: “questo dipende molto da voi”».

Dunque si direbbe che entrambe le potenze appaltino a Erdoğan il vuoto lasciato dal ritiro, ma poi gli affari azeri hanno inebriato il presidente turco spingendolo a parlare di imminente unità d’intenti tra 6 nazioni, tra queste le tre che hanno animato i protocolli di Astana e che si inserivano nella assenza trumpiana per spartirsi l’area (Russia, Turchia, Iran). Il colpo di scena turco di Baku allarga il novero a Georgia, Azerbaijan e… Armenia (!), dichiarando nella composizione dell’accordo quanto sia centrale proprio l’area caucasica, un’area che Putin non si può permettere sia sotto il controllo occidentale. E in questo caso l’ottica adottata nelle proiezioni della trama del film imbastita a Bruxelles, a cui hanno assistito Biden e Erdoğan alterna quello del documentario in stile Settimana Incom, con la promozione delle prodezze dei droni Bayraktar in Caucaso; mentre l’altro stile retorico utile per inquadrare lo sforzo richiesto alla Turchia in territorio libico non è più quello del materiale mediatico per l’arruolamento nelle Private military and security companies, quanto la brochure patinata delle imprese edili per la ricostruzione con l’imprimatur di Biden.

Illuminante risulta cercare di adottare lo sguardo di Ankara sull’incontro di Bruxelles, il primo tra Biden e Erdoğan, usando la lucida ironia di Murat Cinar (@muratcinar):
“Finto multilateralismo al servizio di reali democrature affaristiche”.

Il Terzo Uomo

Dunque in qualche modo Erdoğan dimostra ambiguità anche genuflettendosi a Bruxelles il giorno prima da Biden e quello successivo intraprendendo anche lui un road-movie interno all’Azerbaijan per controllare appalti e rilanciare l’alleanza di Astana allargata a un’area limitrofa e complementare a quella che coinvolge l’Afghanistan… e che è fondamentale per la politica di Putin, di cui il presidente turco rimane alleato. 

Proprio del terzo incontro del Gran Tour bideniano rimane da parlare, dopo la presenza inquietante del Convitato ingombrante Xi e l’infido Erdoğan, la scena madre e l’epilogo del viaggio di formazione vedeva la compresenza nell’inquadratura del “Killer dagli occhi di ghiaccio e senz’anima”, come lo stesso Biden aveva definito Putin

America is back

L’occhio che uccide, 1960, di Powell e Pressburger

Il consumato stratega aveva organizzato la sfida non tanto come nel torneo di The Quick and the Dead (Sam Raimi, 1995), piuttosto spingendo sull’atmosfera da spy story, per evocare i giornalisti uccisi e i dissidenti avvelenati, senza con questo appendere il Cremlino al cappio dei diritti umani e quindi cambiando registro narrativo l’incontro non ha risolto i veri nodi che rappresentano il dissidio tra Russia e Stati Uniti, ma si è trasformato in una partita a scacchi in stallo… riguardo al possibile  scacco di uno dei due contendenti possiamo seguire lo sguardo moscovita di Yurii Colombo (@matrioska2021):

“Le relazioni insolubili”.

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L’Iran da Astana all’Eurasia https://ogzero.org/liran-da-astana-alleurasia/ Sun, 02 Aug 2020 22:20:34 +0000 http://ogzero.org/?p=990 Massima pressione americana e scenario multilaterale regionale È passato inosservato l’ultimo vertice dei presidenti di Russia, Turchia e Iran, riuniti il 1° luglio scorso (in videoconferenza) per discutere gli ultimi sviluppi della situazione in Siria. Il virtuale incontro però aveva la sua importanza. Per cominciare, ha riaffermato che il cosiddetto “processo di Astana” non è […]

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Massima pressione americana e scenario multilaterale regionale

È passato inosservato l’ultimo vertice dei presidenti di Russia, Turchia e Iran, riuniti il 1° luglio scorso (in videoconferenza) per discutere gli ultimi sviluppi della situazione in Siria. Il virtuale incontro però aveva la sua importanza. Per cominciare, ha riaffermato che il cosiddetto “processo di Astana” non è defunto, come molti andavano annunciando.

Con questo nome si indica la serie di colloqui cominciata del dicembre 2016 nella città di Astana (Kazakhstan) per iniziativa di Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdoğan e Hassan Rohani con l’inviato del segretario generale dell’Onu per la Siria: una iniziativa diplomatica per la pace in Siria, parallela agli (inconcludenti) colloqui sponsorizzati dall’Onu a Ginevra. Il format di Astana ha portato nel settembre 2017 a un accordo per istituire quattro “zone di de-escalation” nel territorio siriano, di cui le tre potenze si sono fatte “garanti”.

Non entreremo qui nei dettagli di come questi accordi si sono tradotti sul terreno: che la Siria sia ancora lontana da una effettiva stabilizzazione è sotto gli occhi di tutti. Il punto che qui interessa è che sotto lo stravagante format intitolato a una citta kazakha abbiamo tre potenze regionali che discutono compromessi e accordi in uno scenario, la Siria e il Vicino Oriente, dove però le rispettive agende politiche sono diverse e spesso in aperto conflitto. A cominciare dal fatto che la Turchia appoggia le formazioni ribelli sunnite che cercano di rovesciare il governo di Bashar al Assad, mentre la Russia e l’Iran si sono adoperati anche militarmente per tenerlo in piedi.

Più in particolare, il vertice di luglio è stato il primo da quando Turchia da un lato, Russia e Iran dall’altro si sono scontrati nella provincia di Idlib, la più ampia delle zone di “de-escalation” (la tensione era salita in febbraio con 33 militari turchi uccisi da un raid attribuito a jet russi, a cui la Turchia ha risposto attaccando forze del regime siriano e milizie sciite filoiraniane). Una relativa calma è tornata dopo che Erdoğan in marzo è volato a Mosca e ha concordato con Putin un cessate il fuoco, con un meccanismo di “corridoi di sicurezza” per garantire le vie di comunicazione, e di pattugliamenti comuni che però dovrebbe preludere alla ripresa di controllo delle forze di Damasco sulla provincia di Idlib (ovvero, sembrerebbe che Ankara abbia dovuto accettare le condizioni russe). In realtà molti segnali dal terreno fanno temere una ripresa di ostilità.

 

Integrazione attraverso scambi, favori e relazioni complicate

Eppure il comunicato congiunto del vertice tripartito lascia intendere che la Russia lascerà alla Turchia più tempo per concludere ciò che si è impegnata a fare nel quadro degli accordi di Astana, e cioè mettere sotto controllo i ribelli jihadisti siriani che operano nella provincia di Idlib. Le variabili sono numerose e complicate: dalla dinamica tra le formazioni ribelli più dipendenti dal sostegno turco (come Hayat Tahrir Shams) e quelle più radicali – al controllo delle province nordorientali a maggioranza kurda, che la Turchia considera una propria zona di pertinenza (tanto che occupa un’ampia “zona cuscinetto” con l’accordo di fatto degli Usa e anche della Russia). Concedere alla Turchia di occupare altro territorio siriano-kurdo potrebbe diventare moneta di scambio per recuperare zone strategiche controllate dai ribelli sunniti più a sud. Altre variabili poi ci porterebbero in Libia, un altro teatro di guerra internazionalizzata dove Mosca e Ankara sono su fronti contrapposti: le due crisi sono molto intrecciate.

Tutto questo dice quanto sia ancora lontano un assetto stabile che sia preludio alla pace in Siria. Intanto però il format di Astana afferma la sua esistenza sulla scena mediorientale come un fronte politico-diplomatico contrapposto a quello a conduzione statunitense.

La dichiarazione dei tre presidenti per esempio se la prende con «l’appropriazione e trasferimento illegale di risorse petrolifere che appartengono alla Repubblica Araba di Siria», allusione alle forze degli Stati Uniti che presidiano due campi petroliferi nella provincia nord-orientale siriana, la cui amministrazione autonoma curda (controllata dalle Forze democratiche siriane, filo Usa) ha di recente concesso a compagnie Usa il diritto di commercializzare il petrolio estratto. I tre presidenti ribadiscono inoltre l’impegno a difendere «sovranità, indipendenza e integrità territoriale» della Siria, quindi a «respingere iniziative illegali di autogoverno» – riferimento alla tentazione di affermare un’autonomia territoriale curda nel Nordest difesa dagli Usa. Condannano le sanzioni statunitensi contro la Siria.

La dichiarazione congiunta poi condanna «gli attacchi militari di Israele in Siria», e questa è una concessione al presidente Rohani: si riferisce alla serie di raid condotti nelle ultime settimane da forze israeliane contro obiettivi iraniani e delle milizie filoiraniane intorno a Damasco (l’ultimo episodio è del 20 luglio). Ma proprio questo è anche un esempio di come il format tripartito copra agende molto diverse. Infatti è dubbio che la Russia abbia davvero intenzione di reagire agli attacchi di Israele contro obiettivi iraniani in Siria. C’è perfino chi parla di un vero e proprio accordo dietro le quinte tra Mosca e Tel Aviv (che peraltro hanno intensi contatti diplomatici) per ridimensionare le milizie filoiraniane, e in generale la presenza dell’Iran in Siria.

Lo scenario è complicato, e anche le relazioni tra Tehran e Mosca lo sono. Nel 2015 l’Iran ha concesso ai jet russi in partenza dalle basi nella regione del Caucaso di sorvolare il proprio spazio aereo per andare a bombardare le postazioni dello Stato islamico in Siria, e a Tehran la cosa era presentata come il primo passo di una nuova alleanza strategica con Mosca. L’occasione era la comune “guerra alla Stato islamico”, o Daesh secondo l’acronimo in arabo (pare che ai russi interessasse in particolare colpire le milizie cecene all’interno delle formazioni jihadiste). L’Iran aveva già mandato forze speciali sul terreno a sostenere l’esercito governativo e organizzare milizie; l’entrata in gioco della Russia ha contribuito in modo decisivo a cambiare le sorti militari del conflitto siriano e salvato il regime di Assad.

Dal punto di vista dell’Iran, l’interesse strategico in Siria è evidente. Si tratta di un raro “paese amico” tra i vicini arabi (e da lunga data: negli anni Ottanta Damasco con Hafez al Assad, è stata l’unica capitale araba a non appoggiare l’invasione dell’Iran da parte dell’Iraq di Saddam Hussein), e di un’area di influenza strategica importante, via di comunicazione verso il Mediterraneo, accesso verso l’alleato movimento di Hezbollah in Libano: dunque quella che Tehran considera la sua “profondità strategica” nei confronti di Israele. Vedere a Damasco un governo sunnita di stampo saudita sarebbe per Tehran un disastro da evitare a tutti i costi. Per questo ha sostenuto l’esercito governativo siriano e varie milizie filogovernative, spesso addestrate e organizzate dalle Guardie della rivoluzione iraniana (anche se nessuno ne darà mai conferma ufficiale): cosa che continuerà finché le varie reincarnazioni di Daesh e di al-Qaeda avranno i loro sponsor. L’obiettivo iraniano è assicurarsi in futuro che a Damasco sieda un governo non ostile. Anche la Russia, che ha in Siria la sua unica base militare nel Mediterraneo, ha tutto l’interesse a garantirsi in Siria un governo amico.

Le convergenze di interessi però non sono eterne, e comunque non esclusive. Le milizie organizzate dalle Guardie della Rivoluzione iraniane in Siria (e in Iraq) sono state fondamentali per respingere l’offensiva dello Stato islamico (e il principale artefice di questo successo sul terreno è stato il comandante delle forze speciali al Qods, Qassem Soleimani, poi ucciso da un raid statunitense nei primi giorni di gennaio 2020 a Baghdad). Ma quelle milizie sono diventate ingombranti per molti, sia in Iraq che in Siria: che esista o meno un accordo dietro le quinte tra Israele e Russia, entrambe le parti hanno interesse a ridimensionare l’influenza iraniana sul terreno.

Questo non significa che l’alleanza strategica sia finita. E in ogni caso non impedirà a Russia, Turchia e Iran di tenere “al più presto” il prossimo vertice del “processo tripartito”, questa volta in presenza a Tehran su invito del governo iraniano (ma non c’è ancora una data).

 

Astana per uscire dall’isolamento: cooperazione e infrastrutture

Come valutare il “processo di Astana”, visto da Tehran? Per rispondere bisogna allargare lo sguardo. L’Iran ha un evidente interesse a far parte di una sede di diplomazia multilaterale. In primo luogo per restare nel gioco regionale: riaffermare che una soluzione per la Siria non può prescindere da tutte le parti in causa nella regione, e l’Iran è una di queste (si ricordi che i primi, vani tentativi di dialogo sulla Siria promossi in sede Onu avevano escluso l’Iran a causa del veto Usa: solo dopo l’accordo sul nucleare del 2015, su insistenza russa, i rappresentanti di Tehran sono stati ammessi ai “colloqui sulla Siria” – benché finora inconcludenti).

L’interesse però va oltre la Siria, per quanto importante. Il punto è che la Repubblica Islamica dell’Iran fa i conti con uno storico accerchiamento nella regione: politico, diplomatico, a volte militare (come quando le truppe Usa si trovavano in Iraq, in Afghanistan, oltre a pattugliare il Golfo Persico). L’accordo sul nucleare del 2015 (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa, firmato da sei potenze mondiali e dall’Iran) aveva rotto l’isolamento. Ma da quando nel maggio 2018 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha deciso di buttare alle ortiche l’accordo, intorno all’Iran si è costruito un nuovo blocco: un muro di sanzioni senza precedenti. Benché unilaterali, il sistema di sanzioni Usa riesce a isolare l’Iran grazie al ricatto delle sanzioni secondarie (che colpiscono aziende e paesi terzi che abbiano contatti commerciali con Tehran). È la strategia della “massima pressione”. Non che sia riuscita a far crollare l’Iran, e difficilmente ci riuscirà: ma certo sta pesando molto. Dal crollo delle esportazioni di greggio alla difficoltà di acquistare pezzi di ricambio industriali, derrate alimentari o materiale medico, gli iraniani stanno pagando un prezzo molto alto.

L’Iran ha un disperato bisogno di rompere questo isolamento. Per questo, con il “programma tripartito” di Astana e ben oltre, l’Iran ha un interesse fondamentale ad approfondire la cooperazione strategica con la Russia, come del resto con la Cina. E con i paesi vicini. Con la Turchia in particolare l’Iran ha legami di vecchia data, sia politici che commerciali, culturali, umani (la Turchia è tra i pochissimi paesi dove i cittadini con passaporto iraniano non abbiano bisogno di un visto d’ingresso). Benché spesso in concorrenza sulla scena regionale, Tehran e Ankara mantengono una “cooperazione strategica” nell’interesse reciproco.

Tanto più importante è la sponda russa. Il 22 luglio scorso il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif ha concluso una missione a Mosca, dove ha portato un “messaggio speciale” del presidente Hassan Rohani a Vladimir Putin (il contenuto del messaggio non è stato diffuso), e dove ha discusso con il suo omologo, il ministro degli esteri Sergey Lavrov, una serie di questioni bilaterali e di coordinamento regionale. Non sapremo cosa si sono detti circa lo scacchiere siriano. Sappiamo però che Iran e Russia hanno concordato di definire un nuovo accordo ventennale di cooperazione strategica, che vada oltre quello attualmente in vigore (che scade in marzo).

Analogo accordo è quello che l’Iran ha in ballo con la Cina: un accordo venticinquennale di cooperazione economica e di sicurezza, che secondo alcune fonti sarebbe addirittura già stato firmato anche se finora è circolata solo una bozza ufficiosa e numerose illazioni (cosa che ha suscitato grandi critiche in Iran, e attacchi dell’opposizione conservatrice che accusa il governo di Rohani di “svendere” il paese). L’accordo è in discussione da quando il presidente Xi Jinping in visita a Tehran nel 2016 ne ha parlato con l’ayatollah Ali Khamenei, e tratterà di energia, telecomunicazioni, infrastrutture come porti e ferrovie – e del petrolio che la Cina comprerà dall’Iran.

Gli accordi di cooperazione con Russia e Cina sono di sicuro il tentativo, per l’Iran, di allentare la “massima pressione” statunitense cercando la partnership di due potenze altre (entrambe membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu). Ma in entrambi i casi la cooperazione è cominciata ben prima dell’avvento di Trump a Washington. La realtà è che la “massima pressione” avrà solo accelerato una dinamica che sarebbe emersa comunque, la tendenza a una maggiore integrazione in quello spazio di scambi e relazioni politiche ed economiche spesso chiamato “Eurasia” e di cui l’Iran è un tassello centrale, in senso geografico e politico: in cui si incrociano corridoi di trasporti e progetti industriali, la Belt Road Initiative cinese, i gasdotti russi, ferrovie, porti (come quello Chabahar sulla costa iraniana, possibile sbocco nell’oceano Indiano per molte repubbliche centroasiatiche). Uno spazio multilaterale in cui Tehran sta a pieno titolo.

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Catene di isole nella corrente del grande gioco indopacifico https://ogzero.org/studium/catene-di-isole-nella-corrente-del-grande-gioco-indo-pacifico/ Fri, 31 Jul 2020 07:11:27 +0000 http://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=956 L'articolo Catene di isole nella corrente del grande gioco indopacifico proviene da OGzero.

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Catene di isole nella corrente del grande gioco indo-pacifico

La Belt Road Initiative sembrava inarrestabile. Dopo la pandemia e la definitiva cinesizzazione di Hong Kong il progresso di questo imponente flusso di infrastrutture, vie di comunicazione, isole “create” nell’oceano e ferrovie che corrono nel deserto non sembra aver perso impulso nelle intenzioni di Xi. Questo Studium prende però le mosse dall’ipotesi che cominci a incontrare la resistenza di una rete internazionale, intessuta per imbrigliare i traffici di questa sorta di neocolonialismo cinese… innanzitutto costituita da una cortina stesa a partire dalle intasate miglia del Mar cinese fino ai contesi dirupi del Kashmir.

40%

Avanzamento

Attori europei sul palco indo-pacifico

Riconoscendo il valore economico e geopolitico dell’Indo-Pacifico – dove ha sede il 60% della popolazione e un terzo del commercio mondiale – la Germania sfrutta il riposizionamento nel quadrante per rilanciare il multilateralismo e il libero scambio, invocando un dialogo europeo con la NATO e gli attori regionali, non è l’unico paese del Vecchio Continente ad aver voltato lo sguardo a Oriente.

Nel 2019 anche Parigi parla di “libero commercio”, “multilateralismo” e di un “ordine multipolare” nella zona e l’avvio di trattative per una possibile adesione alla partnership per l’ex TPP da cui l’America di Trump si è sfilata nel 2017 – ha coinciso con l’emergere di indiscrezioni sulla presunta decisione di inviare, per la prima volta, una delle due portaerei britanniche nella regione.

Ultimamente, l’interesse di Bruxelles (che si era dichiarata neutrale) per il quadrante si è esplicitato in un inedito avvicinamento a Taiwan.


Il futuro del quadrante indo-pacifico: porti cinesi come in un filo di perle

Si inaspriscono i rapporti tra i colossi economici mondiali che mostrano i muscoli con operazioni di militarizzazione che in realtà vanno al di là delle questioni dei diritti nazionali rivendicati e rispecchiano i rispettivi interessi economici nell’area indo-pacifica. Questo antico Risiko vede contrapposti per esempio Cina e India (sulla Line of Actual Control che fa da confine ad alta quota) con ripercussioni sul vicino Pakistan, una triangolazione che favorisce gli Stati uniti nella sua Guerra Fredda contro Pechino.

E i conflitti non sono solo in terra ma anche sui mari, dove la conquista dei porti in punti strategici da parte della Cina rende più aspri anche i rapporti con i vicini regionali interessati economicamente a quelle aree che intessono così alleanze di comodo e scatenano l’interventismo americano nella regione. Inoltre gli scontri diplomatici (e non) che riguardano Hong Kong si riverberano anche sugli accordi tra la Santa Sede e Pechino che avevano preso, con l’attuale papa, una strada di riavvicinamento con l’Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi, disaccordi che fanno buon gioco a Washington (e all’India di Modi) nel suo tentativo di arginare la potenza cinese.

Emanuele Giordana analizza in questo Punctum come si sviluppa il gioco globale in questa zona del mondo.


Alla conquista del Mar cinese, un pezzo alla volta

I rapporti tra Cina e Stati Uniti sono sempre più tesi, anche a causa della disputa territoriale nel Mar cinese meridionale – area che ospita un terzo del commercio marittimo mondiale –, che vede la Cina accusata di militarizzare la zona, alimentando il contrasto con altre potenze (Brunei, Malesia, Filippine, Taiwan e Vietnam, e anche con l’Australia che nelle isole del Pacifico ha sempre investito e ora sta assumendo una posizione difensiva con un piano decennale da 270 miliardi di dollari per rafforzare i propri sistemi difensivi) che ambiscono al controllo di quelle zone del Pacifico come gli arcipelaghi delle Paracel e delle Spratly o le isole Marshall e le Pratas.

La Cina, dal canto suo, accusa gli Stati uniti di ingerenza in affari regionali che non li riguardano, ingerenza dimostrata dalle sempre più frequenti incursioni in quel quadrante.


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]]> Il piatto mare-monti tra Cina e Usa https://ogzero.org/il-piatto-mare-monti-tra-cina-e-usa/ Tue, 14 Jul 2020 13:25:48 +0000 http://ogzero.org/?p=462 Anche il recente scontro tra Delhi e Pechino va ricondotto a una battaglia più grande nella regione indo-pacifica. Un gioco globale su più tavoli soprattutto tra Usa e Rpc che passa persino per gli abiti talari Il faccia a faccia sino-indiano iniziato a maggio sulle vette himalayane, da sempre teatro di tensione per la questione […]

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Anche il recente scontro tra Delhi e Pechino va ricondotto a una battaglia più grande nella regione indo-pacifica. Un gioco globale su più tavoli soprattutto tra Usa e Rpc che passa persino per gli abiti talari

Il faccia a faccia sino-indiano iniziato a maggio sulle vette himalayane, da sempre teatro di tensione per la questione del Kashmir e per le mai sopite rivendicazioni di confine tra India e Cina, ha registrato la notte del 15 giugno il primo scontro violento tra i due eserciti da quasi 50 anni a questa parte seppur senza l’uso di armi da fuoco. Il bilancio dei morti resta incerto ma, nonostante le dichiarazioni che da ambo le parti, sostengono di voler riportare la questione nell’ambito di una pacifica e diplomatica risoluzione del contenzioso, la tensione resta elevata. E rischia di farla aumentare anche nelle relazioni sempre tese tra Delhi e Islamabad, alleata di Pechino.

Lo scontro economico tra Cina e India

Dietro allo scontro ci sono molti fattori che non riguardano solo i confini ma il confronto tra due grandi potenze mondiali – India e Cina – e, più in generale, la guerra dell’egemonia globale dove si affacciano ovviamente altri attori, soprattutto gli Stati Uniti (la Russia appare in Asia su posizioni arretrate). Con il premier Narendra Modi, l’India ha avuto una sterzata fortemente anticinese di cui si è avuta prova quando Delhi ha fatto fallire, nel novembre 2019, l’accordo di libero scambio Rcep: è l’acronimo del Partenariato economico globale regionale proposto nella regione indo-pacifica da dieci stati del Sudest asiatico riuniti nell’Asean e Australia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud e appunto India. Fu la paura dei beni a basso prezzo cinesi sul mercato indiano a preoccupare Delhi. Uno spettro riassunto dalla giornalista indiana Barkha Dutt, autrice di This Unquiet Land: Stories from India’s Fault Lines (non a caso sul “Washington Post”) a commento degli scontri al confine sull’Himalaya, a oltre 4000 metri di altezza e lungo la Linea di controllo (Line of Actual Control: Lac) che fa da confine tra India e Cina. «Il deficit commerciale dell’India con la Cina è di 53 miliardi di dollari», scrive, aggiungendo che sarebbe «un suicidio consentire alla Cina di avere libero accesso ai mercati e ai consumatori indiani mentre costruisce strade e infrastrutture attraverso le parti del Kashmir occupate dal Pakistan».

Dall’altro lato del confine, in Pakistan, prevale la prudenza ma un editoriale di “The Dawn” del 18 giugno chiarisce come la vedono a Islamabad: «Sfortunatamente, l’India ha una storia di bullismo nei confronti dei suoi vicini e cerca di giocare a egemone regionale. Il Pakistan ha da tempo sottolineato la necessità di affrontare la questione del Kashmir al tavolo negoziale, una posizione che l’India ha arrogantemente respinto». Un fatto che purtroppo, al di là delle responsabilità anche pachistane nel conflitto, ha un fondo di verità.

Non solo riflessi regionali

Ovviamente, un conflitto tra Cina e India non ha solo riflessi regionali. Se tocca i vicini come il Pakistan, rientra nel grande gioco internazionale e non è difficile capire dunque come gli Stati Uniti possano servirsene nella neoguerra fredda, soprattutto commerciale, con Pechino. Una guerra fredda commerciale e a parole ma che, come vedremo, è anche armata. È un elemento che desta preoccupazione in tutta l’Asia come ha scritto ai primi di giugno su “Foreign Affairs” Lee Hsien Loong, primo ministro di Singapore: «L’Asia ha prosperato – scrive – perché la Pax Americana dalla fine della Seconda guerra mondiale ha fornito un contesto strategico favorevole. Ma ora, la travagliata relazione tra Stati Uniti e Cina solleva profonde domande sul futuro dell’Asia e sulla forma dell’ordine internazionale emergente».

Ma oltre alle montagne ci sono soprattutto i mari. La regione del Pacifico, o meglio dell’Indo-Pacifico (come ora viene chiamata), comprende la Cina, il Mar cinese orientale e il Mar Cinese meridionale, tutti i paesi che vi si affacciano (dal Giappone all’Indonesia) e il Golfo del Bengala, territorio marino presidiato dall’India che lo ritiene il suo cortile di casa acquatico. I mari sono vie di collegamento commerciali fondamentali, luoghi di caccia, presidi militari e infine riserve energetiche, come rivela la querelle sulle isolette Paracel e Spratly. Su tutta una serie di atolli cinesi a tutti gli effetti, Pechino ha allestito piste di atterraggio, magazzini, baracche militari e il contenzioso su Paracel e Spratly, rivendicati da più nazioni, ha fatto salire il livello di allarme ormai da anni. La storia è antica perché Pechino rivendica un’area estesa per circa mille miglia dalle sue coste e la controlla con navi militari, aerei e pescherecci. Una forza di pressione che nel 2018 obbligò Hanoi – che ha rivendicazioni territoriali in quello specchio di mare assieme a Malaysia, Brunei, Filippine e Taiwan – a sospendere i progetti di trivellazione petrolifera della spagnola Repsol. A fine aprile 2020 tra l’altro, il Vietnam ha protestato con Pechino contro l’istituzione di due distretti sull’isola cinese di Hainan col compito di governare Paracel e Spratly.

Piccole isole grandi problemi

Il contenzioso, come dicevamo, preoccupa un po’ tutti: i più teneri con Pechino sono i filippini, i più agguerriti sono i vietnamiti. E non è un caso se Hanoi stringe relazioni sempre più forti con Washington che sono invece ai minimi storici con Manila. Ma la partita è molto più ampia: la Nuova Via della Seta (Belt Road Initiative) si basa anche su un “filo di perle” marittime che sono i porti di Chittagong in Bangladesh, Sihanoukville in Cambogia, Hambantota in Sri Lanka e Gwadar in Pakistan più altri progetti (in Myanmar, Thailandia…) per la costruzione di nuove infrastrutture portuali e in alcuni casi anche militari. Una recente analisi di “Al Jazeera” ha fatto i conti in tasca alla potenza militare marittima cinese: fregate, portaerei, sottomarini, pattugliatori (acquistati ma sempre più costruiti in loco) con una forza militare navale di circa 100000 uomini, la seconda al mondo dopo gli Stati Uniti (quasi il doppio) e subito prima della Corea del Sud.

Gli americani non sono rimasti a guardare. Nell’area è dislocata la Settima flotta, la più grande di quelle dispiegate dalla marina statunitense con oltre 50-70 navi e sottomarini, 140 aerei e circa 20000 marinai in grado di reagire rapidamente. Il Comando generale dell’area (Usindopacom) conta infine oltre 370000 uomini tra personale di terra, aria, mare. Proprio recentemente sono state rafforzate una serie di manovre di pattugliamento, sorveglianza, osservazione che hanno innervosito i cinesi. Un esercizio muscolare mentre si scaldava il dossier Covid-19, il caso Hong Kong e quello mai chiuso su Taiwan.

Washington scalda i muscoli

L’idea di potenziare la difesa americana nel Pacifico ha cominciato per altro a circolare ai primi di aprile di quest’anno quando le conclusioni di un rapporto dell’ammiraglio Phil Davidson, a capo del Comando Usindopacom, hanno chiesto al Congresso 20 miliardi di dollari per rafforzare operazioni navali, aeree e terrestri nella regione (sistemi d’arma, logistica, training, intelligence…). Nel giro di 15 giorni la richiesta è diventata una proposta di legge, presentata al Congresso il 23 aprile dal repubblicano Mac Thornberry a capo dell’Armed Services Committee della Camera, comitato con compiti di sorveglianza su Pentagono, servizi militari e agenzie del Dipartimento della Difesa, compresi budget e politiche. Falco texano, Thornberry presenta la “Indo-Pacific Deterrence Initiative” come il corollario orientale necessario della “European Deterrence Initiative” che, per controbilanciare l’espansionismo russo a occidente, ha già messo sul tavolo fino al 2021 oltre 26 miliardi di dollari. Nel progetto di legge se ne chiedono più di sei per la sola regione indo-pacifica e per il solo 2021 con un piano che probabilmente arriverà ai 20 miliardi chiesti dall’ammiraglio Davidson nel giro dei prossimi esercizi finanziari.

Naturalmente, come nel “dialogo” tra Cina e India, anche in quello tra Usa e Cina le manifestazioni pubbliche sono sempre “costruttive”. Ma gli incontri faccia faccia danno più la sensazione che gli avversari vogliano soprattutto studiarsi più che mettersi realmente d’accordo. Ne sembra la prova il summit di metà giugno (la battaglia indo-cinese era appena avvenuta) tra il diplomatico cinese Yang Jiechi e il segretario di stato americano Mike Pompeo che si sono incontrati il 17 giugno per un colloquio alle Hawaii preparato in gran segreto, sembra soprattutto per volontà americana. Ma la montagna ha partorito un topolino. Al di là di dichiarazioni assai vaghe, le indiscrezioni emerse a seguito dell’incontro dicono chiaramente che l’unico fatto positivo è semmai che l’incontro c’è stato. Un incontro durato sette ore con cena. Taiwan, Hong Kong e la repressione nello Xinjiang avrebbero dominato il summit – definito appunto “costruttivo” – tra Mike Pompeo e Yang Jiechi. Pechino si sarebbe impegnata a migliorare il suo rapporto con Washington – ha scritto il ben informato “South China Morning Post” – ma avrebbe anche avvertito gli Stati Uniti che la Rpc difenderà risolutamente i suoi interessi. Alla fine l’incontro sembra aver solo offerto la prova di un desiderio condiviso di impedire che i rapporti si inaspriscano ulteriormente. Un modo forse per poter continuare a studiare l’avversario. Gli americani del resto hanno ottenuto che l’incontro si tenesse in un luogo non proprio neutro: le Hawaii dove è dislocato il Comando di Usindopacom in un momento in cui gli americani hanno rafforzato un esercizio muscolare navale davvero bizzarro se si vuole raffreddare il rapporto con la Cina. Un esercizio rafforzato da atteggiamenti sempre più anticinesi dell’alleato australiano e della Nuova Zelanda.

 

La guerra con la tonaca

Ma il virus della guerra Cina/Usa non passa solo dalle accuse di aver strumentalizzato l’Oms, dal quadrante marittimo del Pacifico o dalle battaglie sul commercio e, seppur indirettamente, dalle schermaglie sulle vette himalayane. Ci sono risvolti più o meno aperti e manovre più o meno sotterranee come rivela un caso recente che riguarda Hong Kong, tallone d’Achille della Rpc. “UcaNews”, la più diffusa e potente agenzia cattolica in Asia ha scritto recentemente che il cardinale Zen e il vescovo Ha Chi-shing, due leader religiosi cattolici di Hong Kong che non hanno mai nascosto il loro sostegno ai movimenti nell’ex colonia: «potrebbero essere inviati nella Cina continentale per essere processati» dopo che la nuova proposta legislativa sulla sicurezza a Hong Kong voluta da Pechino è diventata legge. Si tratta in realtà più di un’ipotesi che di una probabilità reale, ma quel che è certo è che i due prelati sono invisi alla Rpc per aver sempre remato contro. Zen, in particolare, che cercò di boicottare persino lo storico accordo tra Pechino e Santa Sede (Accordo Provvisorio sulla nomina dei Vescovi) firmato il 22 settembre 2018 sotto il pontificato di papa Francesco. Fu l’atto che segnava l’inizio della fine della guerra tra Roma e Pechino sulla cosiddetta Chiesa parallela (per cui la Cina sceglieva i vescovi e Roma non li riconosceva) e l’avvio di future relazioni diplomatiche tra i due paesi. Ora che anche l’ultimo vescovo è stato riconosciuto, la deportazione di Zen e Ha Chi-shing manderebbe all’aria la faticosa ma ben avviata riconciliazione tra i due stati.

La bozza ufficiale della legge sulla sicurezza nell’occhio del ciclone non è ancora ufficiale e il suo corpus dovrebbe essere approvato dal Comitato Centrale del Partito entro luglio ma, scrive l’agenzia cattolica: «Il dettaglio più recente – cioè che la Cina ha la possibilità di decidere di processare gli accusati in continente – è emerso in una conferenza a Shenzhen il 15 giugno», quando Deng Zhonghua, vicedirettore del gabinetto di Hong Kong e dell’ufficio affari di Macao, ha spiegato che «in circostanze molto speciali, il governo centrale manterrà la giurisdizione su alcuni casi che coinvolgono atti criminali che mettono gravemente a repentaglio la sicurezza nazionale». Da questo agli arresti di Zen ce ne corre: la mossa – che farebbe del cardinale un martire – inasprirebbe inutilmente i rapporti in via di sempre maggior distensione tra Rpc e Vaticano e non farebbe comodo a nessuno dei due: «probabilmente – dice una fonte vaticana – piacerebbe agli americani che hanno sempre ostacolato il processo e hanno sempre sostenuto Zen. C’è una partita geopolitica più ampia intorno ai rapporti tra Rpc e Santa Sede e che fa anche parte della guerra tra Washington e Pechino».

I piccoli tasselli del grande gioco

Joseph Zen Ze-kiun (classe 1932) è stato il sesto vescovo di Hong Kong ed è cardinale dal 2006. Molto duro con la Cina si è sempre esposto anche dopo che nel 2009 si è ritirato per limiti di età, senza per altro perdere influenza. Joseph Ha Chi-shing è uno dei quattro vescovi ausiliari di Hong Kong che assistono il cardinale John Tong Hon nella gestione della diocesi, al cui posto Zen avrebbe invece voluto il suo pupillo. Non sono gli unici ferventi anticinesi nel mondo cattolico asiatico. Recentemente, suscitando stupore e imbarazzo, si è schierato anche il cardinale Charles Bo, arcivescovo di Yangon e presidente della Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche. In una lettera a proposito del Covid-19 apparsa il 2 aprile proprio su “UcaNews” ha accusato la Cina di «atteggiamento negligente, in particolare il suo dispotico partito… Attraverso la sua gestione disumana e irresponsabile, il Pcc ha dimostrato ciò che molti pensavano in precedenza: che è una minaccia per il mondo». Musica per le orecchie di Zen e per quelle di Washington. Probabilmente anche per quelle di Narendra Modi.

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Collane di atolli, rotte commerciali e cavi sottomarini https://ogzero.org/collane-di-atolli-rotte-commerciali-e-cavi-sottomarini/ Tue, 14 Jul 2020 13:17:36 +0000 http://ogzero.org/?p=574 Lattuga, cavolo cinese, bok choi e molto altro. Non siamo in un mercato di Shanghai, bensì a Woody Island, una delle isole artificiali costruite da Pechino nell’arcipelago delle Paracel, nel Mar cinese meridionale, dove la marina militare cinese ha raccolto 750 chili di vegetali dopo aver reso coltivabili 2000 metri quadrati di spiaggia mescolando alla […]

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Lattuga, cavolo cinese, bok choi e molto altro. Non siamo in un mercato di Shanghai, bensì a Woody Island, una delle isole artificiali costruite da Pechino nell’arcipelago delle Paracel, nel Mar cinese meridionale, dove la marina militare cinese ha raccolto 750 chili di vegetali dopo aver reso coltivabili 2000 metri quadrati di spiaggia mescolando alla sabbia una soluzione a base di cellulosa. Una tecnica messa a punto dagli scienziati della Chongqing Jiaotong University nella Mongolia Interna che permetterà di tenere stabili le forniture alimentari dei soldati dislocati in questo strategico tratto di mare.

Controllata dalla Cina fin dal 1956, Woody Island è uno degli atolli al centro delle dispute territoriali che da decenni coinvolgono le Paracel, la catena delle Spratly, le isole Pratas e altri scogli semisommersi contesi con Vietnam, Filippine, Malaysia, Taiwan e Brunei. A partire dal 2013, il gigante asiatico ha trasformato sette barriere coralline in vere e proprie postazioni insulari protette da missili, di cui tre dotate di piste d’atterraggio “dual use”. Si tratta di un’area che si estende per 3,6 milioni di chilometri quadrati, dalla Cina all’Indonesia, e di cui Pechino rivendica come proprio oltre l’80 per cento sulla base di “diritti storici”.

Undici antichi documenti, presentati in sede di disputa internazionale, proverebbero che già intorno al 210 a.C. la dinastia Han aveva costruito un avamposto amministrativo sull’isola di Hainan, estendendo la propria sfera d’influenza fino agli arcipelaghi menzionati. Le vecchie mappe ingiallite non hanno convinto il Tribunale Permanente di Arbitrato dell’Aia che, chiamato in causa da Manila, nel 2016 ha dichiarato illegittime le rivendicazioni cinesi. Ma la sentenza non è bastata a scoraggiare le pretese di Pechino. Da allora, l’avanzata tentacolare del gigante asiatico nella regione ha continuato a inglobare territori disabitati seguendo la cosiddetta tattica salami-slicing: un pezzetto per volta.

Lo scorso maggio, mentre l’emergenza Covid-19 distraeva i vicini rivieraschi, la situazione nel Mar cinese meridionale è tornata d’attualità dopo che la Repubblica Popolare ha annunciato la creazione di due nuove unità amministrative – il distretto di Xisha, che include le Paracel e il Macclesfield Bank (rivendicato da Taiwan e Filippine), e il distretto di Nansha, concentrato sulle isole Spratly (contese con Vietnam, Filippine, Malaysia, Taiwan e Brunei) – che cadranno sotto l’autorità di Sansha, la città-prefettura istituita nel 2012 su Woody Island e parte della provincia di Hainan. La decisione ha coinciso con l’assegnazione di un nome a un’ottantina di formazioni naturali per la prima volta dal 1983. Secondo indiscrezioni del “South China Morning Post”, la prossima mossa potrebbe prevedere l’istituzione di una “zona di identificazione aerea” (Adiz), come già avvenuto nel Mar cinese orientale, dove Pechino contesta la sovranità del Giappone sulle isole Diaoyu/Senkaku.

Per la Cina, ancora ferita dalle umiliazioni ottocentesche, il Mar cinese è soprattutto una questione di sovranità. Ma, come spesso accade nelle dispute territoriali, all’afflato nazionalistico si intrecciano importanti interessi economici. Secondo dati del 2016 raccolti dal Center for Strategic and International Studies, il Mar cinese meridionale ospita circa il 10 per cento del pescato a livello mondiale e risorse energetiche per un valore di 2500 miliardi di dollari. Un terzo del commercio marittimo globale, il 30 per cento delle forniture di greggio e il 64 per cento degli scambi tra la Cina e il resto del mondo solca le sue turbolente acque. E, con il recente sorpasso dell’Asean sull’Unione Europea come prima destinazione dell’export cinese, il traffico regionale è destinato presumibilmente ad aumentare.

Le manovre cinesi nel cortile di casa potrebbero presto raggiungere le acque dell’Oceano più grande del mondo. L’area contesa lambisce la cosiddetta “prima catena di isole”, un termine preso in prestito dagli Stati uniti che negli anni Cinquanta individuarono nella cintura insulare dalle Curili – tra l’estremità nordorientale dell’isola giapponese di Hokkaidō e la penisola russa della Kamčatka – fino al Borneo, un avamposto per circondare l’Unione Sovietica e la Cina. Il piano non decollò mai, ma la minaccia è ancora presente. Sigillare il tratto di mare tra la costa cinese e il Pacifico è diventata una priorità assoluta per Pechino, specialmente da quando Washington ha incrementato le proprie incursioni nel quadrante in supporto alle rivendicazioni marittime degli alleati asiatici. Una posizione ufficializzata per la prima volta il 13 luglio dal dipartimento di Stato con il comunicato “U.S Position on Maritime Claims in the South China Sea”.

Questo spiega la sempre più frequente presenza di aerei e sottomarini cinesi nel canale di Bashi e nello stretto di Miyako, cerniera naturale tra il Mar cinese e il Pacifico occidentale. Stando alle indiscrezioni della stampa nipponica, il Dragone avrebbe già individuato la prossima preda: il piccolo arcipelago delle Pratas controllato da Taiwan, l’isola “ribelle” che la Repubblica popolare vuole riannettere ai propri territori e che Washington, in assenza di relazioni ufficiali, sostiene militarmente.

Pechino giustifica il proprio attivismo regionale in ottica “difensiva”. Ma lo sfoggio di muscoli soverchia i toni rassicuranti del diplomatichese. Con oltre 330 navi da guerra (ma solo due portaerei), la marina cinese ha superato numericamente quella statunitense (285 alla fine del 2019). E se al vantaggio quantitativo non corrisponde una superiorità in termini di efficienza, vero è che l’epidemia da coronavirus – messa ko la marina a stelle e strisce – ha scoperchiato l’evanescenza della supremazia delle undici portaerei americane in situazioni di crisi. Secondo un rapporto del Congressional Research Service, think tank del Congresso statunitense, l’espansionismo cinese costituisce una minaccia per «il controllo [americano] sulle acque profonde del Pacifico occidentale in stato di guerra».

Più a sud il livello d’allarme non è inferiore. «Is China using its South China Sea strategy in the South Pacific?»: è quanto si chiede il think tank governativo Australian Strategic Policy Institute (Aspi), che in un rapporto spiega come il Pacifico meridionale condivida con il Mar cinese meridionale quattro caratteristiche particolarmente attraenti: è ricco di risorse naturali; ospita atolli disabitati e cavi sottomarini; racchiude snodi strategici per le merci globali; dipende economicamente dalla Cina. Queste somiglianze, conclude l’istituto, potrebbero consentire a Pechino di sfruttare canali scientifici e commerciali come pretesto per migliorare la propria conoscenza del territorio in chiave militare.

Con un pil complessivo di appena 33,7 miliardi di dollari e 10 milioni di abitanti – meno della popolazione della Svezia – le isole del Pacifico sono da sempre stati-satellite di Canberra, che con fare paternalistico ne ha supportato economicamente la sopravvivenza investendo a fondo perduto nei servizi di base – sanità e istruzione in primis –, e difeso la stabilità sociale come previsto da accordi stretti con Stati Uniti e Nuova Zelanda negli anni Cinquanta. È stato così fino a quando, nei primi anni Duemila, la “diplomazia dei dollari” perseguita da Pechino in Africa non ha raggiunto questo remoto angolo di mondo. La svolta ha coinciso con la storica visita di Wen Jiabao, nel 2006, la prima di un premier cinese nelle isole del Pacifico. Da allora, il gigante asiatico ha speso almeno 6 miliardi di dollari nelle repubbliche insulari, per lo più in progetti estrattivi e infrastrutturali. La fetta più consistente risulta concentrata nei sette anni di Belt and Road, il progetto con cui Pechino punta a cementare i rapporti economici e diplomatici strappando assegni nei paesi emergenti. C’è chi le definisce vere e proprie delazioni prezzolate quando si prendono in esame le acque del Pacifico. Qui, infatti, si consuma lo scontro più acceso con Taiwan, “l’isola che non c’è” riconosciuta formalmente ormai da appena quindici paesi, di cui quattro (Palau, Nauru, Tuvalu e Isole Marshall) situati proprio nel “nuovissimo continente”. Le numerose defezioni dell’ultimo anno non sembrano aver alterato la strategia regionale di Taipei, che giorni fa ha annunciato la riapertura della sede consolare di Guam con lo scopo conclamato di «facilitare gli scambi con gli alleati del Pacifico».

La resistenza taiwanese ha implicazioni che trascendono il braccio di ferro tra le “due Cine”. Da anni si teme che l’operosità di Pechino negli arcipelaghi a cavallo tra i due emisferi possa assumere connotazioni militaresche, come avvenuto nel Mar cinese meridionale. Basta pensare alle declinazioni strategiche della stazione spaziale cinesi di Kiribati, le isole sottratte a Taiwan lo scorso settembre. Secondo un rapporto della US-China Review Commission, fortificazioni cinesi nel Pacifico meridionale potrebbero bloccare l’accesso americano alla regione e compromettere la stabilità di Australia e Nuova Zelanda. In tempi di “American First” e crisi epidemica, potrebbero essere proprio i player regionali “minori” a dover dettare una linea comune per arginare l’avanzata di Pechino, prescindendo dalle zoppicanti piattaforme multilaterali istituite da Washington nel cosiddetto “Indo-Pacifico”. Come membro del Quadrilateral Security Dialogue (Quad), Canberra è un frequentatore assiduo del Mar cinese meridionale, sebbene non abbia ancora accolto l’invito americano a condurre “operazioni di libera navigazione”, il provocatorio passaggio entro le 12 miglia nautiche dalle isole contese.

Certo, serviranno capacità funamboliche per tutelare gli interessi nazionali senza sfilacciare le relazioni economiche già pregiudicate dalle polemiche sul 5G e la paternità del coronavirus. Tanto più che il peso cinese nelle dinamiche commerciali del quadrante potrebbe aumentare esponenzialmente se, come ventilato dal primo ministro Li Keqiang, il gigante asiatico – già promotore della Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) – dovesse entrare anche nella Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp), il mega accordo fortemente voluto da Obama quando ancora si chiamava Tpp e da cui Trump ha annunciato il ritiro tre giorni dopo l’inizio del suo mandato. Così, mentre Canberra si prepara a rafforzare i propri sistemi difensivi con un piano decennale da 270 miliardi di dollari, non tutti approvano un coinvolgimento australiano nel braccio di ferro tra le due superpotenze. Almeno non quando implica missioni in acque più lontane.

In uno studio dal titolo eloquente (Australia and the US: great allies but different agendas in the South China Sea), il think tank di Sydney Lowy Institue, ricordando come solo il 20 per cento dei commerci con l’Australia passa per il Mar cinese meridionale, nel 2015 concludeva che, se «lo spirito materno impone di difendere la libertà di navigazione», in realtà «solo gli Stati Uniti hanno veramente interesse a condurre attività militari» nelle acque contese.

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Approdo africano della Belt Road Initiative: i meccanismi in gioco nella Great Rift Valley https://ogzero.org/approdo-africano-della-belt-road-initiative-great-rift-valley/ Wed, 24 Jun 2020 10:42:00 +0000 http://ogzero.org/?p=122 l’Africa, l’Asia meridionale e il Sud America sembrano, per molti versi, sopravanzare il mondo euro-moderno, forieri della sua storia-in-fieri, anticipando fenomeni e caratteristiche di “sviluppo”. Che la collocazione dell’Africa nella narrazione dominante della Storia universale sia fondamentalmente errata è un punto che non necessita di ulteriori elaborazioni. Anche se l’Euro-America e il Sud del mondo sono, ora […]

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l’Africa, l’Asia meridionale e il Sud America sembrano, per molti versi, sopravanzare il mondo euro-moderno, forieri della sua storia-in-fieri, anticipando fenomeni e caratteristiche di “sviluppo”.

Che la collocazione dell’Africa nella narrazione dominante della Storia universale sia fondamentalmente errata è un punto che non necessita di ulteriori elaborazioni. Anche se l’Euro-America e il Sud del mondo sono, ora come ora, inglobati dagli stessi processi storici mondiali è al Sud che gli effetti di tali fenomeni tendono a manifestarsi in maniera più esplicita. I vecchi margini stanno diventando le nuove frontiere, posti in cui il capitale competitivo a livello globale – sempre più, di questi tempi, asiatico e meridionale – trova zone scarsamente regolate in cui riversare i propri affari; nei quali l’industria manifatturiera apre siti sempre più convenienti; dove economie informali e altamente flessibili fioriscono da sempre; dove questi stessi servizi esternalizzati estremamente efficienti hanno sviluppato imperi info-tecnologici, legali e non, all’avanguardia; nei quali i nuovi e tardomoderni linguaggi del lavoro, del tempo e del valore prendono piede, alterando così le pratiche del resto del mondo. Ecco perché, nella dialettica della storia mondiale contemporanea, il Nord sembra “evolvere” verso il Sud.

Frag tratto da Jean, John L. Comaroff, Teoria dal sud del mondo, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

Episodi e strategie geopolitiche distanti tra loro, ricondotte a evidenti calcoli economici locali, volti a tessere efficacemente le trame pensate e messe in atto a livello macroeconomico, come quelle vissute dalle popolazioni coinvolte nell’evoluzione repentina del continente: infrastrutture, costruite e gestite da potenze extrafricane per il naturale contatto con le potenze asiatiche affacciate al di là dell’Oceano (anche l’India, non solo la Cina) o con l’Occidente, convenzioni e investimenti, metissage e tecnologie, risorse e metropoli, pil e inflazione, invasioni di insetti biblici ed epidemie racchiudono un concentrato di interazioni che stanno producendo conseguenze da analizzare per la loro unicità.

Collaborazioni, partnership, potenze economiche in competizione sul territorio del Rift.

  • l’Africa, l’Asia meridionale e il Sud America sembrano, per molti versi, sopravanzare il mondo euro-moderno, forieri della sua storia-in-fieri, anticipando fenomeni e caratteristiche di “sviluppo” (Comaroff, p. 13).
  • Interessi in contrasto da sempre per attingere a risorse sempre più risicate per i bisogni delle singole nazioni locali; il caso della Diga della Rinascita etiope che rischia di scatenare la guerra del Bacino del Nilo.
  • Caratteristiche del neocolonialismo: Belt Road Iniziative e investimenti indiani.

Piaghe del Rift:

  • Infestazione militare del territorio
  • Infestazione del territorio di locuste

Acque contese del Bacino del Nilo

 

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L’adesione dell’Africa alla Belt Road Iniziative è stata unanime? https://ogzero.org/la-penetrazione-della-cina-in-tanzania-rispetto-ai-paesi-limitrofi/ Mon, 13 Apr 2020 09:50:20 +0000 http://ogzero.org/?p=142 Grado di penetrazione degli investimenti asiatici in Africa: spartizioni tra India e Cina di OGzero, 21 giugno 2020 La Belt Road Initiative cinese, oltre a essere un’opera di collegamento con l’Europa, privilegia le relazioni con l’Africa orientale, porta di ingresso straordinaria per un’invasione pacifica, ma non senza conseguenze, dell’intero continente. E le porte di accesso […]

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Grado di penetrazione degli investimenti asiatici in Africa: spartizioni tra India e Cina

di OGzero, 21 giugno 2020

La Belt Road Initiative cinese, oltre a essere un’opera di collegamento con l’Europa, privilegia le relazioni con l’Africa orientale, porta di ingresso straordinaria per un’invasione pacifica, ma non senza conseguenze, dell’intero continente. E le porte di accesso sono numerose. L’ultima è rappresentata da Mauritius. Con l’isola nell’Oceano Indiano è stato siglato il primo accordo di libero scambio. L’intesa riguarda il commercio di beni e servizi nonché la cooperazione in materia di investimenti. L’accordo, secondo quel che viene reso noto dal governo cinese, non solo fornirà una più potente garanzia istituzionale per approfondire le relazioni economiche e commerciali bilaterali con Mauritius, ma promuoverà anche la cooperazione economica e commerciale, nonché finanziaria, tra Cina e Africa. La Belt Road Initiative cinese, oltre a essere un’opera di collegamento con l’Europa, privilegia le relazioni con l’Africa orientale, porta di ingresso straordinaria per un’invasione pacifica, ma non senza conseguenze, dell’intero continente. E le porte di accesso sono numerose. L’ultima è rappresentata da Mauritius. Con l’isola nell’Oceano Indiano è stato siglato il primo accordo di libero scambio. L’intesa riguarda il commercio di beni e servizi nonché la cooperazione in materia di investimenti. L’accordo, secondo quel che viene reso noto dal governo cinese, non solo fornirà una più potente garanzia istituzionale per approfondire le relazioni economiche e commerciali bilaterali con Mauritius, ma promuoverà anche la cooperazione economica e commerciale, nonché finanziaria, tra Cina e Africa.

Nel momento in cui si cerca di comprendere lo sviluppo economico e le partnership tra nazioni in via di sviluppo e le potenze economiche che si prefiggono di godere di esclusività nei settori più sensibili e importanti per alcuni stati è indispensabile indossare un paio di occhiali privi di pregiudizi. Vale per tutti i meccanismi di sviluppo globali, ma in particolare per l’immagine deformata delle differenti società africane. Sono situazioni che possono condizionare il mercato mondiale e che vedono in competizione giganti come la Cina, che è molto presente da decenni in Tanzania e che è snodo del Belt Road Iniziative con il porto di Bagamoyo; o l’India che invece ha relazioni privilegiate con Kenya e Sudafrica, anche per la comune tradizione coloniale britannica. Gli investimenti che vengono fatti sono ovviamente sempre comunque mirati a uno sviluppo la cui sostenibilità è sottomessa alla possibilità che consenta ovviamente agli investitori di ottenere profitti

Angelo Ferrari, 23 marzo 2020 su Radio Blackout
© 2015, Railway Gazette

Durante un intervento registrato il 24 novembre 2018 Andrea Spinelli Barrile ha preso spunto dalle infrastrutture per evidenziare la spartizione delle aree tra grandi potenze asiatiche. Del 1964 è il primo progetto cinese per una tratta ferroviaria in Tanzania, una nazione rivolta verso l’Asia che scatena la concorrenza tra Cina e India per soddisfare i loro bisogni (le risorse maggiormente saccheggiate sono legno, petrolio, minerali, gas), arrivando a parlare di investimenti stranieri in Africa orientale e presenza sul territorio anche di maestranze straniere più o meno tollerate in base alle abitudini nazionali.

Andrea Spinelli Barrile, 24 novembre 2018 (Radio Blackout): concorrenza tra grandi potenze asiatiche per controllare le risorse dell’Africa Orientale

L’adesione dell’Africa alla Belt Road Initiative è stata unanime, nessuno escluso. Ma perché attrae tanto la nuova via della seta cinese? I leader africani percepiscono questa iniziativa come una valida e tangibile alternativa agli incerti piani di investimento a lungo periodo proposti da europei e americani. I russi piacciono di più perché offrono su un piatto d’argento armamenti e addestramento militare. Pechino, tuttavia, ha saputo sfruttare la complessità delle garanzie a lungo termine di beni e risorse attraverso un sistema, tanto antico quanto nuovo, di baratto: in cambio del capitale di investimento e dell’infrastruttura, alcuni paesi concedono lo sfruttamento delle proprie risorse e una quota nei progetti infrastrutturali. Insomma, vince il capitalismo di stato. Ma vi è un altro fattore, oltre al denaro, che affascina i governi africani: la politica di non ingerenza negli affari interni ha indotto molti presidenti a individuare nella Cina un partner privilegiato

Andrea Spinelli Barrile descrive lo Zimbabwe in recessione profonda nel 2018, però con una tipologia di formazione educativa molto simile a quella occidentale e quindi con maggiori difficoltà ad avvicinarsi al mondo cinese, più ostico e lontano nell’immaginario e quindi apparentemente in contraddizione con quanto si legge nello stralcio del libro di Masto e Ferrari; in realtà forse è la differenza di accoglienza tra potere economico e politico locale e difficoltà culturale di integrare la presenza cinese. Per esempio la lingua kiswahili si trova arricchita da traslitterazioni cinesi in molte scritte e istruzioni in Tanzania: le lingue avvicinano (i comboniani non a caso hanno traslitterato lo swahili in epoche non recenti, agevolando così i rapporti tra africani e occidentali… che poi questi rapporti evolvano in termini negativi come le conseguenze coloniali, o positivi derivano dall’uso dei mezzi a disposizione), ma in realtà l’approccio dei cinesi che vivono o lavorano in Africa Orientale non concede nulla alle relazioni con le popolazioni locali e si nota anche da come viene percepito il linguaggio.

Andrea Spinelli Barrile su Radio Blackout, 24 novembre 2018: difficile metissage di culture sino-africane

I paesi dell’Africa occidentale – la maggior parte ex colonie francesi e con la famigerata moneta ancorata all’euro e garantita dal tesoro francese – stanno pensando di dotarsi di una moneta propria abbandonando, quindi, il franco Cfa. Tutto ciò è emerso durante una riunione che si è tenuta ad Abidjan tra i ministri delle Finanze e i governatori delle banche centrali dei paesi della Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest (Cedeao); la nuova moneta, l’eco, potrebbe essere ancorato allo yuan cinese, per evitare oscillazioni pericolose per i mercati. Ciò che è accaduto con il franco Cfa ancorato all’euro. Il progetto di moneta unica della Cedeao è fortemente voluto dal Ghana, paese con una moneta abbastanza instabile. Insomma, l’Africa occidentale, se non tutta, vorrebbe passare, con questa decisione, dalla tutela francese a quella cinese. Ciò dimostra, inoltre, che per questi paesi non è pensabile garantire la stabilità monetaria senza un ancoraggio a una moneta forte. Il franco Cfa, negli anni, ha garantito proprio questo: stabilità e bassa inflazione, a differenza di ciò che è accaduto nei paesi dell’area che non avevano adottato quella moneta, il Ghana, ancora, ne è un esempio. Il Ghana è il principale partner commerciale della Cina nell’area: il commercio bilaterale è passato da meno di 100 milioni di dollari nel Duemila a 6,7 miliardi nel 2017. La metà della massa monetaria della comunità economica dell’Africa occidentale circola in Costa d’Avorio e il 40 per cento delle merci viene movimentata attraverso il porto di Abidjan. Nel Duemila il debito nei confronti della Cina era pari a zero, tra il 2010 e il 2015 è diventato di 2,5 miliardi di dollari.

Frags tratti da Mal d’Africa, di Raffaele Masto e Angelo Ferrari, postfazione di Marco Trovato, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

Angelo Ferrari il 26 marzo 2020 su Radio Blackout enumerava quanti e quali paesi africani rischiano la sovranità in cambio degli investimenti cinesi e crisi postepidemia

Anche Andrea Spinelli Barrile si occupava dell’economia, immaginando di poter usare occhiali diversi in grado di adattarsi alle soluzioni parziali connaturate alla struttura economica-finanziaria dell’Africa Orientale. Attrarre capitali stranieri serve per sopperire con quella liquidità alla inflazione; la produttiva o il welfare, la ricchezza si sposano a un approccio forse più umano all’economia delle varie Afriche.

Andrea Spinelli Barrile, 24 novembre 2018: monetarismo e sistemi economico-finanziari in Africa Orientale; intervento registrato su Radio Blackout

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La presenza militare cinese in Africa orientale https://ogzero.org/la-tanzania-tra-risorse-naturali-e-interessi-cinesi/ Sun, 12 Apr 2020 12:21:28 +0000 http://ogzero.org/?p=130 Boots on the ground La guerra fredda è un lontano ricordo. Eppure Russia e Usa hanno ripreso le ostilità, e dove? In Africa. Mosca sta cercando di riprendersi una qualche centralità nel continente africano, favorita, anche, dalle mutate condizioni politiche. Crollato il muro di Berlino, infatti, su tutto il continente si sono scatenate numerose guerre […]

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Boots on the ground

La guerra fredda è un lontano ricordo. Eppure Russia e Usa hanno ripreso le ostilità, e dove? In Africa. Mosca sta cercando di riprendersi una qualche centralità nel continente africano, favorita, anche, dalle mutate condizioni politiche. Crollato il muro di Berlino, infatti, su tutto il continente si sono scatenate numerose guerre che non avevano più nessun legame con gli amici di un tempo – America e Unione Sovietica – ma, semplicemente, rappresentavano il tentativo di riposizionarsi e trovare nuovi amici attraverso l’accaparramento delle risorse naturali. Finito, non del tutto per la verità, quel periodo, ora è “guerra” commerciale, ma anche militare, di tutti contro tutti. L’Occidente ha deciso che è giunto il momento di arginare l’influenza cinese che, ormai, ha le mani su tutto il continente, nessun paese escluso. La Russia non ci sta e non vuole, certo, rimanere ai margini. Mosca sta in maniera sistematica espandendo la sua incidenza militare e strategica nel continente. E tutto ciò allarma, e non poco, le cancellerie occidentali. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno ben marcato il territorio attraverso il comando Africom. Oltre ai 4000 militari di stanza a Gibuti, la missione americana, dispone di 34 siti militari, 14 basi principali e 20 postazioni secondarie a supporto della lotta al terrorismo. In tutto oltre 7000 militari. Le presenze più significative sono in Somalia, Niger, Kenya, Mali e Camerun. 

Tornare a essere protagonisti in Africa, significa anche rafforzare la presenza militare. Un obbligo dettato dal fatto che la Cina ha già messo gli “scarponi” sul terreno attraverso le missioni di peacekeeping. I caschi blu cinesi, tuttavia, dispiegati in Africa – circa 2500 – sono concentrati nelle aeree di particolare interesse per Pechino. Non è un caso che mille di questi siano in Sud Sudan dove la Cina ha investito molto nel petrolio e altri 400 in Mali.

Frag tratto da Mal d’Africa, di Raffaele Masto e Angelo Ferrari, postfazione di Marco Trovato, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

 

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