Baradar Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/baradar/ geopolitica etc Sat, 28 May 2022 20:36:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 n. 19 – L’Afghanistan e i corridoi umanitari fantasma https://ogzero.org/corridoi-umanitari-dall-afghanistan-abbandono-e-false-promesse/ Sat, 28 May 2022 20:34:17 +0000 https://ogzero.org/?p=7731 Procede il lavoro accurato di Fabiana di ricostruzione dei “percorsi migranti” e delle loro cause in un’ottica giurisprudenziale, che evidenzia sempre più le contraddizioni razziste e colonialiste dell’Occidente persino in quell’ambito che dovrebbe distinguerlo dalla barbarie autocratica, dimostrando quanto tutto sia infingimento e gioco delle parti. Questa volta Fabiana si occupa dei corridoi umanitari per […]

L'articolo n. 19 – L’Afghanistan e i corridoi umanitari fantasma proviene da OGzero.

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Procede il lavoro accurato di Fabiana di ricostruzione dei “percorsi migranti” e delle loro cause in un’ottica giurisprudenziale, che evidenzia sempre più le contraddizioni razziste e colonialiste dell’Occidente persino in quell’ambito che dovrebbe distinguerlo dalla barbarie autocratica, dimostrando quanto tutto sia infingimento e gioco delle parti.

Questa volta Fabiana si occupa dei corridoi umanitari per gli afgani tanto sbandierati quando già in agosto ci occupavamo della terrificante situazione afgana poi scomparsa dai radar geopolitici e creatasi in seguito all’assurdo accordo tra Trump e i Talebani – messo in atto da Biden. Un abbandono repentino che ha causato le attuali condizioni in cui versano le persone rimaste intrappolate nel regime talebano, una responsabilità ormai sancita anche dall’ispettorato per l’Afghanistan istituito dal Congresso. Il capo del Sigar, Sopko ha scritto: «La limitazione dei raid aerei (contro le forze avversarie) dopo la firma dell’accordo Usa-Talebani, ha lasciato l’Andsf senza un vantaggio chiave. Molti afgani – ha aggiunto – pensavano che l’accordo Usa-Talebani fosse un atto di malafede e un segnale che gli Stati Uniti stavano consegnando l’Afghanistan al nemico e che si precipitavano a lasciare il paese».
Anche molti afgani hanno lasciato il paese o vorrebbero farlo, ma si trovano di fronte a un nuovo abbandono con false promesse di corridoi umanitari; Fabiana incrocia nuovamente il loro percorso, già altre volte descritto – per esempio sulla rotta balcanica o al confine bielorusso.


Quando nell’agosto del 2021 i talebani hanno preso possesso della città di Kabul, assicurandosi il controllo della totalità del territorio afghano, l’opinione pubblica internazionale e i governi dei paesi Nato – prima tra tutti l’amministrazione americana guidata da Joe Biden – sono rimasti attoniti dinanzi a una tale rapidità dell’ascesa al potere da parte del gruppo estremista islamico. A ciò è seguito oltretutto un improvviso cambiamento dello scenario politico, militare e sociale: l’esercito afgano è stato costretto ad arrendersi, si è resa necessaria l’evacuazione immediata – oltre che dei cittadini afghani – degli esponenti dei membri del precedente esecutivo guidato da Ashraf Ghani e dei cittadini stranieri presenti in Afghanistan a qualsiasi titolo in quel momento, mentre le forze internazionali militari – stanziate nel territorio da oltre venti anni – convergevano verso una repentina ritirata. Una disfatta totale per l’intero versante occidentale dell’emisfero che tuttavia non si è determinata certamente nell’arco di dieci giorni ma più precisamente nel corso di diciotto mesi, ossia dalla stipula del famigerato accordo di Doha – siglato nel febbraio del 2020 – che ha visto sedere al tavolo dei negoziati, accanto all’amministrazione Trump, i “rappresentanti diplomatici” dei talebani, primo tra tutti Abdul Ghani Baradar che Islamabad per anni si è rifiutata di consegnare agli Stati Uniti.

Nel corso dei negoziati gli Stati Uniti – accecati dalla volontà di riconquistare consensi da parte dell’opinione pubblica interna americana e di occuparsi principalmente di limitare l’espansionismo di Cina e Russia – si sono accontentati di vaghe promesse da parte talebana, acconsentendo anche alla liberazione di molti prigionieri appartenenti al gruppo. Inoltre, accanto a una rinnovata veste diplomatica del movimento dei taliban (c.d. corrente degli studenti pashtun) al tavolo internazionale, si è affiancata – nei mesi immediatamente precedenti la proclamazione del nuovo Emirato islamico – da parte del gruppo estremista un’opera di persuasione e di captazione dei consensi di alcuni dei più rilevanti esponenti delle comunità locali afgane – situate soprattutto nel Nord e nell’Ovest del paese – di alcuni miliziani, nonché di dissidenti dell’esercito nazionale che ha accelerato la conquista del territorio. I paesi Nato che avevano seguito immediatamente gli Usa venti anni prima nella “guerra al terrorismo” – senza che per essa fosse stato previsto alcun exit plan – ad agosto del 2021 hanno scelto non solo dunque di chinare il capo e concludere il proprio impegno militare, ma anche di voltare le spalle ai civili lì intrappolati e che a oggi – a parte un primo piano di evacuazione – sono stati lasciati completamente a loro stessi. C’è da dire che vista l’attuale regressione del paese in meno di un anno dal punto di vista del rispetto dei diritti fondamentali nei confronti della popolazione civile (oltre che da quello economico-finanziario) avvenuta con la proclamazione dell’Emirato islamico, facili appaiono le conclusioni in merito all’effettiva utilità del conflitto, considerate la totale incapacità della creazione, da parte delle forze occidentali, di un effettivo sistema di state building come risultato, il numero ingente dei costi che questo ha comportato, nonché il numero di vite perse. Pertanto l’effettiva accoglienza dei profughi afgani sarebbe oggi l’unico passo di civiltà che potrebbe consentire a tutti gli stati che hanno partecipato al conflitto di acquisire una qualche credibilità rispetto all’opinione pubblica di un popolo che già in passato ha mostrato sconcerto e rabbia a causa dell’abbandono da parte del mondo occidentalenello specifico da parte degli Stati Uniti che misero in atto dinamiche limitate alla sola militarizzazione e all’addestramento della popolazione civile e con la medesima preoccupazione di oggi ossia il contenimento della Russia – l’allora Unione Sovietica – alla quale ora però, come detto, si affianca nell’alveo dei timori egemonici statunitensi, la Cina.

Per quanto riguarda l’Italia l’idea dell’accoglienza immediata dei profughi afgani è stata prontamente sollevata dalle associazioni comprese quelle religiose del terzo settore e dalle organizzazioni internazionali con la richiesta dell’attivazione dei cosiddetti corridoi umanitari.

È un’espressione questa che nell’ultimo periodo con la “crisi afgana” si è quasi svuotata del suo significato: un classico di quando si ripete all’infinito lo stesso insieme di parole senza specificarne però il significato in concreto. I corridoi umanitari vengono infatti menzionati attraverso i consueti canali mediatici ogni qual volta si verificano flussi migratori rilevanti ma spesso senza che vengano approfonditi e analizzati gli aspetti strutturali di tale “rimedio” e senza chiedersi se questi possano costituire soluzioni effettivamente attuabili nel lungo periodo per affrontare in modo sistemico il “problema” della mobilità umana. Si cerca pertanto in questa sede di dare, preliminarmente all’analisi del fallimento del loro impiego rispetto ai profughi afgani almeno fino a oggi, alcune nozioni fondamentali dell’istituto in oggetto.

Va in primo luogo specificato che i corridoi umanitari non sono previsti da alcuna legge, né dal nostro ordinamento giuridico, né da quello dell’Unione europea, né tanto meno dall’insieme di norme che costituiscono il diritto internazionale.

I corridoi umanitari infatti altro non sono che progetti che consentono – mediante l’intervento delle associazioni del terzo settore e delle organizzazioni internazionalia determinate categorie di individui, in condizioni di vulnerabilità e presenti in paesi diversi da quello di origine, di giungere nel territorio dell’Unione – in questo caso l’Italia – attraverso vie legali e sicure come i voli di linea, evitando i cosiddetti “viaggi della morte” per poter poi presentare domanda di protezione internazionale. L’Italia ha fatto da apripista nella conduzione di tali iniziative mediante l’attività di impulso – iniziata nel 2015 – dalla Comunità di Sant’Egidio in collaborazione con la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e la Tavola Valdese.

Monaco di Baviera, 2015, rifugiati da Siria, Afghanistan e Balcani.

I primi profughi arrivati nel nostro paese attraverso tale prassi sono stati prevalentemente nuclei familiari di cittadini siriani provenienti dal Libano, nel 2016. Dal 2015 a oggi i progetti sono stati tuttavia rinnovati più volte e sono aumentate anche le associazioni e le organizzazioni che hanno aderito a tali iniziative come Caritas Italiana, e altre non aventi carattere ecumenico come l’Arci. Si è implementato altresì il novero dei paesi di transito che hanno consentito la partenza attraverso tali vie legali e sicure (Etiopia e Grecia – in particolare dall’isola di Lesbo – Giordania, Turchia, Kenya) per cui dal 2016 sono arrivati mediante i corridoi umanitari circa 3000 profughi. Anche se apparentemente questo può sembrare un numero esiguo – considerando i milioni di profughi attualmente presenti nel mondo che fuggono da conflitti armati o da situazioni di violenza generalizzata – se si considerano gli aspetti peculiari di tali progetti, il risultato è sicuramente rilevante e apprezzabile tanto da essere definiti dal parlamento europeo una “best practice” italiana da replicare in tutti gli altri paesi dell’Unione. Oltretutto il fatto che siano stati portati avanti dei progetti di tale tipo, in assenza di un impianto giuridico che li regolamenti, ha del sorprendente e lo ha ancor di più se si pensa che

non solo l’attività di impulso, ma anche la gestione di tutti i costi dei corridoi umanitari sono a carico esclusivamente delle associazioni proponenti e delle realtà ecumeniche senza che per lo stato italiano vi sia alcun costo diretto.

Tuttavia, se l’iniziativa e la gestione dei corridoi umanitari dipende da tali soggetti giuridici è pur vero che questi progetti per poter essere attuati necessitano dell’approvazione da parte del Ministero degli Esteri e degli Interni. Proprio però la concertazione in sede di attuazione con i due ministeri talvolta ha costituito un “intoppo” alla loro effettiva realizzazione, come nel caso dei corridoi umanitari – ancora mai partiti – a favore dei cittadini afgani in seguito alla proclamazione dell’Emirato islamico da parte dei talebani. Altro aspetto che occorre sottolineare è, come annunciato in precedenza, il fatto che tali corridoi siano attivabili soltanto per specifiche categorie di soggetti che fuggono da conflitti armati, da situazioni di violenza generalizzata o di violazione prolungata dei diritti umani e da persecuzioni, in comprovate condizioni di vulnerabilità per le quali si fa riferimento prevalentemente al Capo IV, art. 21 della Direttiva 2013/33/UE che individua tra i soggetti vulnerabili i minori stranieri – accompagnati o meno – i disabili, gli anziani, le donne in stato di gravidanza, le vittime di tratta, di stupri e torture e le persone affette da malattie o da gravi disturbi mentali.

Il meccanismo per l’attivazione dei corridoi umanitari si struttura in tale modo: chiese, associazioni, ong e organizzazioni internazionali, attraverso contatti diretti in loco – ossia nei paesi di transito in cui si trovano i profughi – predispongono liste dei potenziali beneficiari, trasmesse alle autorità consolari italiane dei paesi interessati per consentire i dovuti controlli da parte del Ministero degli Interni. Solo a questo punto i consolati dei paesi europei – come quello italiano – rilasciano visti con validità territoriale limitata a quegli stati membri dell’Unione nelle quali normalmente hanno sede le associazioni che hanno predisposto le liste.

Va infatti sottolineato che l’unico vero appiglio normativo ai quali i corridoi umanitari si ancorano è l’art. 25 al Capo IV del Codice comunitario dei visti (Regolamento CE N. 810/2009) che al punto 1 lett. a) prevede che uno stato membro possa eccezionalmente rilasciare un visto di ingresso a un cittadino di un paese terzo se lo ritiene necessario per motivi umanitari, di interesse nazionale o derivante da obblighi internazionali.

Occorre tuttavia rilevare che – nonostante la legittima applicabilità del riferimento normativo di cui sopra alla prassi dei corridoi umanitari – tutti i progetti attivati dal 2015 a oggi hanno visto l’ingresso dei profughi prevalentemente con visti per turismo! Una volta giunti in Italia i profughi vengono accolti nelle strutture dei soggetti promotori dei corridoi umanitari, prevalentemente secondo il modello dell’accoglienza diffusa e facilitano il processo di integrazione dei profughi nel territorio attraverso l’assistenza legale – per la presentazione delle domande di protezione internazionale – l’apprendimento della lingua italiana e la scolarizzazione per i minorenni. È il caso a questo punto di specificare la differenza tra corridoi umanitari e reinsediamenti – i cosiddetti resettlementmenzionati spesso dai media e più volte citati negli articoli riguardanti le attuali rotte migratorie – in particolare rispetto alla rotta del Mediterraneo centrale – con riferimento a quelli attuati in Niger, con il supporto dell’Unhcr. I due istituti spesso infatti vengono confusi tra loro – nonostante abbiano aspetti differenti – a ragione del carattere di emergenzialità che contraddistingue entrambi, motivo per cui non possono rappresentare strumenti idonei per affrontare la questione migratoria in modo strutturato.

I resettlement consistono in programmi che prevedono il trasferimento di individui fuggiti dal proprio paese d’origine – già riconosciuti rifugiati dall’Unhcr – per i quali nel paese di primo arrivo non vi è possibilità di integrazione e la protezione accordata loro potrebbe essere a rischio (per esempio perché il paese di primo arrivo non ha ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951).

Per tale ragione si chiede il reinsediamento del rifugiato in un paese terzo – chiaramente diverso da quello di primo arrivo – nel quale al rifugiato potrà invece essere assicurata una protezione effettiva e permanente. Va precisato che i programmi di reinsediamento – per i quali gli afgani sono ai primi posti tra i soggetti potenzialmente beneficiari – hanno come presupposto fondamentale la volontà del paese terzo – nel quale i rifugiati si dovranno stabilire definitivamente – di aderire al trasferimento dei medesimi nel proprio territorio e di “selezionarli” basandosi o sui dossier dell’Unhcr, o su un’intervista individuale o ancora su entrambi i metodi, al momento l’opzione maggiormente impiegata.

In questa analisi – mediante la quale comunque si coglie l’occasione per ribadire una sentita preoccupazione per i cittadini e le cittadine afgane rimasti intrappolati in Afghanistan e per quanti sono tutt’ora bloccati e respinti lungo la rotta balcanica – già prima dell’agosto del 2021 – occorre soffermarsi sulle ragioni del fallimento dell’impiego dei corridoi umanitari rispetto ai profughi afgani bloccati al momento in Iran e in Pakistan ancora in attesa che vengano attivati i progetti.

Già, perché dopo ripetuti appelli al Ministero degli Esteri da parte delle organizzazioni della società civile, prima fra tutte Asgi, il 4 novembre del 2021 Sant’Egidio, Arci, Caritas Italiana, Fcei, Oim e Unhcr hanno firmato un protocollo di intesa con il Ministero degli Interni e degli Esteri per l’attivazione di corridoi umanitari destinati a 1200 beneficiari afgani, ma a oggi questo non è stato ancora attuato nonostante le associazioni proponenti continuino a ribadire di essere pronte per l’accoglienza e disposte a pagare ogni costo del progetto, compresi quelli aggiuntivi legati ai voli di linea richiesti dai due ministeri nell’addendum al protocollo.

Ciò che a ogni modo risulta ancora più assurdo è la ragione per la quale, a detta dei ministeri, il protocollo non sarebbe partito: ossia la mancanza nei due consolati italiani – rispettivamente in Iran e in Pakistan – della macchinetta rodata per le impronte digitali che serve al ministero degli Interni per fare i controlli sull’identità dei profughi per ragioni di sicurezza.

Tuttavia, la maggior parte dei profughi inseriti nelle liste sono già dotati di passaporto internazionale che dovrebbe essere sufficiente alla loro identificazione in quanto viene rilasciato mediante rilevazione dei dati biometrici. Non solo, le associazioni di cui sopra si sono proposte di acquistare loro stesse le macchinette per le impronte nonostante ciascuna abbia un costo di circa 10.000 euro. Si rifletta quanto sia paradossale che degli individui rischino la propria vita per ragioni di questa natura: buona parte dei profughi in attesa dei visti per fare ingresso in Italia infatti hanno dei visti in scadenza o scaduti in Iran e in Pakistan – nell’attesa delle macchinette per le impronte. Al riguardo va sottolineato che nei suddetti paesi è previsto che se non si è regolari sul territorio – come appunto nell’ipotesi di visto scaduto – non si può beneficiare di un exit permit per recarsi in un altro stato, in questo caso l’Italia, e si deve disporre il rimpatrio immediato dei migranti nel paese d’origine, in questo caso l’Afghanistan!! E va precisato altresì che la questione produrrà dei danni gravi, se non verrà risolta rapidamente, in quanto in questi paesi il secondo rinnovo del visto non è garantito e dopo il terzo non si ha la possibilità di concederne un altro quindi il rimpatrio nel paese d’origine è quasi automatico. Sempre con specifico riferimento ai corridoi umanitari per i cittadini afgani, è opportuno inoltre fare riferimento alla pronuncia del Tribunale di Roma intervenuta il 21 dicembre del 2021 nei confronti di due giornalisti afgani che fuggiti dal paese in mano ai talebani hanno presentato ricorso d’urgenza ex art. 700 del codice di procedura civile, reso necessario a causa della mancata risposta del ministero degli Esteri rispetto a una segnalazione a questo inviata, nella quale era stato evidenziato il pericolo al quale erano esposti i due giornalisti.

Il Tribunale di Roma si è pronunciato affermando che «nel caso di specie ricorrono condizioni idonee al rilascio del visto per motivi umanitari, specificando che se per l’autorità statale questo è una mera facoltà, per il giudice dei diritti fondamentali è un’attività doverosa poiché il nostro ordinamento attribuisce al giudice il compito di adottare i provvedimenti d’urgenza necessari».

Tuttavia, ciò non è stato sufficiente per il ministero degli Esteri che ha presentato reclamo sostenendo che i due giornalisti debbano beneficiare dei corridoi umanitari e non della concessione di un visto ai sensi dell’art 25 del Codice comunitario dei visti: peccato che i corridoi umanitari – almeno in via di principio – si basino, come detto, proprio sull’art. 25!! La contestazione appare dunque evidentemente contraddittoria e pretestuosa.

Mentre si perde tempo prezioso tra macchinette delle impronte e reclami in Tribunale, in Afghanistan la situazione è drammatica: metà della popolazione soffre a causa della siccità e i minori oltre a non avere più accesso all’istruzione – come d’altronde le donne, costrette definitivamente al burqa in pubblico – sono in gran parte in una condizione di malnutrizione mentre le sanzioni internazionali e il congelamento dei fondi della Banca Centrale peggiorano la situazione economica generale nella quale il prezzo dei beni essenziali è salito in maniera vertiginosa.

Prima di addentrarci quindi nel successivo articolo in merito alla vicenda dello scorso novembre riguardo al mancato accesso al diritto d’asilo per migliaia di profughi – tra cui gli stessi afgani – al confine polacco-bielorusso e delle modifiche apportate ad hoc nelle legislazioni nazionali in materia di immigrazione da parte di Polonia, Lituania e Lettonia – in contrasto con il diritto europeo e internazionale – è necessario trarre conclusioni importanti circa i rimedi emergenziali finora analizzati, ossia i corridoi umanitari.

Tuttavia, si segnalano caratteri di precarietà anche rispetto ai reinsediamenti, alle evacuazioni e da ultimo alla protezione temporanea, riconosciuta applicabile dal Consiglio europeo ai cittadini ucraini ma non a quelli afgani e che analizzeremo nell’articolo giuridico dedicato alla crisi migratoria Ucraina.

I corridoi umanitari infatti pur essendo un lodevole e importante rimedio per l’accesso in modo sicuro al territorio dell’Unione, in particolare a quello italiano – replicati con numeri inferiori da altri paesi europei come Germania e Francia – sono pur sempre uno strumento che non può fronteggiare, anche se implementato, la gestione dei flussi migratori che invece richiede decisioni politiche più coraggiose o più semplicemente che non siano volte a ostacolare l’applicazione del diritto europeo e internazionale vigente, come avvenuto negli ultimi anni con la proposta della Commissione del nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo del settembre del 2020 e con quella di modifica del Codice Frontiere Schengen del dicembre del 2021.

I corridoi umanitari infatti hanno alcuni elementi di criticità che non permettono un pieno rispetto del diritto alla mobilità dei migranti.

In primo luogo, è molto forte il carattere discrezionale dell’istituto in quanto la lista dei migranti potenzialmente beneficiari dei corridoi viene predisposta sulla base di una scelta del tutto imponderabile delle associazioni promotrici; inoltre, poiché il procedimento non è disciplinato da alcuna disposizione di legge, non è totalmente trasparente in tutte le sue fasi per i migranti anche nell’ipotesi in cui venissero riconosciuti beneficiari del progetto; infine, nell’ipotesi di esclusione, non è previsto alcun tipo di rimedio giurisdizionale con il quale il migrante possa impugnare la decisione di esclusione dalla lista predisposta dalle associazioni. Anche se quindi l’impegno negli ultimi anni dell’associazionismo ecumenico e laico in ambito migratorio ha un’importanza straordinaria, esso non può sostituirsi alla politica che è e rimane l’unica vera responsabile sia a livello nazionale che internazionale, non solo per le prassi negative e le leggi poste in essere in spregio ai basilari diritti dei migranti, ma anche per quello che non ha avuto il coraggio di fare o di smettere di fare, come con gli accordi Italia-Libia che non sono stati fermati in cinque anni da nessun partito al governo in Italia. A questo punto quindi finché la politica agirà o non agirà in questo modo è doveroso, non solo per rispetto dei cittadini afgani ma per tutti gli individui che fuggono da conflitti, come quello in Yemen o in Corno d’Africa, che la società civile continui a dare visibilità e a denunciare quello che da anni si vuole nascondere inutilmente.

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n. 5 – Afghanistan: la soluzione si allontana https://ogzero.org/una-difficile-eredita-mina-la-soluzione-dei-conflitti-in-afghanistan/ Wed, 21 Apr 2021 07:13:24 +0000 https://ogzero.org/?p=3177 Prosegue la raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose […]

L'articolo n. 5 – Afghanistan: la soluzione si allontana proviene da OGzero.

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Prosegue la raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Il quinto contributo focalizza l’attenzione sull’Afghanistan.


n. 5

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Una guerra che dura da più di 40 anni

La nazionalità afgana è tra le maggiormente riscontrate tra i migranti che percorrono le attuali rotte migratorie, in particolare quella balcanica. Infatti, uno dei conflitti più longevi che si registra a livello internazionale, con riferimento all’area dell’Asia centrale, è quello che interessa l’Afghanistan. Quest’anno ricorre il ventennale del conflitto, iniziato per mano dell’intervento armato degli Stati Uniti e della Nato nel 2001, in conseguenza alla strage terrorista di al-Qaeda, dell’Undici Settembre dello stesso anno compiuta negli Stati Uniti. Il paese è comunque in guerra da più di quarant’anni e al momento non ci sono buone prospettive né in ordine a una risoluzione realmente pacifica del conflitto in corso che possa rassicurare la popolazione civile,  né tantomeno in ordine a un riconoscimento  di una posizione di stabilità dell’esecutivo, presieduto formalmente dal presidente Ashraf Ghani, rispetto alla costante guerriglia per opera di Talebani e del sedicente Stato Islamico in Afghanistan, costituitosi nel 2015, nonostante la presenza militare degli Usa e degli stati membri della Nato.

Il palazzo Darul Aman a Kabul subì ingenti danni durante gli anni di scontri tra mujaheddin e talebani (foto JonoPhotography)

Dai mujaheddin ai Talebani e ritorno

Come noto l’Afghanistan dal 1979 al 1989 è stato oggetto dell’offensiva e dell’occupazione armata da parte dell’ex Unione Sovietica, alle quali sono corrisposti gli attacchi armati contro il regime di Naijbullah e dei suoi alleati sovietici, da parte dei guerrieri islamici mujaheddin (“coloro che compiono il jihad, la lotta”), sostenuti da diversi governi stranieri in particolare dal Pakistan, dall’Arabia Saudita e proprio dagli Stati Uniti che fornirono loro denaro, addestramento e armi, durante tutta la durata del conflitto, preoccupati com’erano dal continuo espansionismo dell’Urss e dei quali faceva parte lo stesso Osama Bin Laden. Tale sostegno da parte degli Usa venne definito l’ultimo conflitto simbolo della Guerra Fredda tra i due paesi: nel 1989 l’Urss fu costretta a ritirarsi decretando così la vittoria dei mujaheddin e abbandonò l’invasione militare dell’Afghanistan, portando con sé il pesante fardello della perdita di migliaia dei propri uomini. Tuttavia, una volta caduto il regime sovietico di Mohammed Najibullah, che ormai non godeva più dell’appoggio dell’Urss, i mujaheddin conquistarono Kabul destituendo la Repubblica democratica dell’Afghanistan (Rda) nel 1992, proclamando la nascita dello Stato Islamico dell’Afghanistan. Dopo tale proclamazione vi furono dissidi politici e ideologici tra le diverse fazioni e ciò agevolò la costituzione del movimento armato dei Talebani (“studiosi del Corano”) i cui membri si erano addestrati in Pakistan. Il gruppo venne fondato nel 1994 da Mohammad Omar, che nel 1996 destituì lo Stato Islamico e instaurò un Emirato Islamico, ossia un regime teocratico, fondato sulla ferrea applicazione della legge coranica. Tale regime si consolidò negli anni successivi ma i mujaheddin nel 1997 si allearono tra loro formando l’Alleanza del Nord (Fronte islamico nazionale unito per la Salvezza dell’Afghanistan), e si scontrarono nuovamente con i Talebani dando inizio a una sanguinaria guerra civile. I Talebani progressivamente durante la guerra ottennero il controllo di quasi tutto il territorio afgano (alla fine del 2000 più del 95 per cento), nonché il riconoscimento dal Pakistan, dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi. I mujaheddin continuarono comunque a opporsi ai Talebani, soprattutto nel Nord del paese e riacquisirono il potere nel novembre del 2001, solo dopo l’intervento militare della Nato in Afghanistan, in esito all’attentato terroristico alle torri gemelle a causa dei legami del regime talebano con il gruppo terrorista al-Qaeda, ritenuto responsabile della strage negli Stati Uniti.

Le sanzioni e il governo provvisorio

La nota organizzazione terroristica, infatti, fondata proprio da Osama Bin Laden, di origine saudita, negli anni Novanta si avvicinò al regime dei Talebani dal quale ottenne per diversi anni sostegno e protezione.  Gli attentati alle ambasciate americane in Kenya e in Tanzania, attribuiti ad al-Qaeda e gli insuccessi dei tentativi della diplomazia internazionale di riavviare il dialogo fra i Talebani e l’Alleanza del Nord portarono all’inasprimento delle sanzioni da parte dell’Onu per la mancata consegna da parte dei Talebani di Bin Laden, nel 2000. Si accentuò cosi l’intransigenza del governo talebano: nel 2001 venne ucciso Ahmad Shah Massud, capo militare e politico dell’opposizione dei Talebani, e il giorno successivo avvenne l’attacco terroristico dell’11 settembre negli Usa.

Massud, figura culto nel Panshir (foto di Michal Hvorecky)

La guerra statunitense, in coalizione con la Nato contro il gruppo terrorista di al-Qaeda, guidato dallo stesso Osama Bin Laden, iniziò nell’ottobre del 2001 in modo del tutto singolare: l’organizzazione venne considerata, fin da subito, dagli Usa al pari di un’organizzazione statuale. Il governo statunitense appoggiò le forze dell’Alleanza del Nord fino al definitivo abbattimento del regime talebano nel novembre 2001.

Tuttavia il conflitto armato che si instaurò in Afghanistan a partire dal 2001 ha visto il succedersi di diversi accadimenti nei quali i Talebani hanno registrato “sconfitte” e “vittorie”. Dopo la capitolazione di Kabul del novembre del 2001 infatti con gli accordi di Bonn siglati tra le varie fazioni politiche presenti nel paese fu istituito un governo provvisorio formato dalle diverse etnie presenti in Afghanistan a capo del quale venne nominato il presidente di etnia pashtun Hamid Karzai affiancato dalle Nazioni Unite. Nel mentre le truppe speciali americane continuarono la ricerca nel 2001 di Osama Bin Laden e l’individuazione dei gruppi armati dei Talebani che intanto sferravano costantemente la loro guerriglia anche contro il contingente internazionale presente nel paese. Il 9 ottobre del 2004 si tennero le prime elezioni nazionali presidenziali durante le quali Karzai venne eletto con il 55 per cento dei voti a favore, confermandosi così come presidente. Con la nuova tornata elettorale del 2009 che confermò nuovamente la presidenza di Karzai crebbe l’attività terroristica che si basò sulle accuse di brogli elettorali che decretarono la vittoria dell’allora presidente. Anche per questa ragione Karzai propose di intraprendere dei dialoghi di pace con i Talebani che questi rifiutarono. Dopo l’uccisione di Osama Bin Laden nel 2011 una volta individuato il suo rifugio nei pressi della città di Islamabad sono invece stati intrapresi tra Usa e Talebani colloqui volti all’identificazione di una soluzione politica alla guerra. Da quanto esposto si comprende come i Talebani non sono mai usciti di scena nel conflitto afgano fino a costituire, ancora oggi, una forza così influente nel paese da essere stati chiamati dall’amministrazione Trump, nel 2019, a sedere al tavolo dei negoziati con gli Usa per la costituzione di un sistema di pace in Afghanistan.

La madre di tutte le bombe

In questo processo storico però non va taciuto il ruolo del sedicente Stato Islamico in Afghanistan, costituitosi nel 2015 e contro il quale nel 2017 nella regione di Nangharan, nel Nordest afgano, dove risiede prevalentemente il gruppo terrorista, è stato lanciato un ordigno esplosivo di undici tonnellate da parte degli Usa, considerata la madre di tutte le bombe (Moab – Mother of all the bomb). In particolare, l’IS-K – lo Stato Islamico della provincia di Khorasan nell’area nordoccidentale del paese (oggi regione divisa tra Iran, Turkmenistan e nella sua parte sud con l’Afghanistan) – è stato fondato nel 2015 da ex membri dei Talebani pakistani e ha diffuso la propria ideologia nelle aree rurali del paese come la provincia di Kunar nella quale si evidenzia una maggiore presenza di musulmani salafiti, lo stesso ramo religioso dell’Islam sunnita del sedicente Stato Islamico in Afghanistan. Nel 2019 Kabul, come esito di una campagna militare durata diversi anni, ha ripreso di nuovo possesso dei territori da questi occupati.

Gli Stati Uniti hanno dichiarato ufficialmente la sconfitta dello Stato Islamico in Afghanistan, ma ciò non corrisponde alla realtà come si evince dai recenti attentati che hanno interessato il paese.

Doha, il negoziato

Nel 2019 iniziano ufficialmente i negoziati di pace tra Stati Uniti e Talebani a Doha nel Qatar dove la forza talebana vanta di avere una sorta di ambasciata. Ciò che si pone alquanto sconcertante è, dopo vent’anni di guerra nel paese e dopo due tornate elettorali che hanno visto vincitore Ghani, l’estromissione dal tavolo dei negoziati del Governo di Kabul presieduto dallo stesso, compiendo in questo modo una vera e propria sua delegittimazione.

I negoziati, finalizzati a un accordo di pace, che verrà poi firmato il 29 febbraio 2020, per quanto riguarda gli Usa sono gestiti da Zaimai Khalizai, diplomatico afgano americano già ambasciatore dell’Afghanistan negli Stati Uniti, i Talebani, invece, sono rappresentati da Mohammad Abbas Stanikzai diplomatico a capo dell’ufficio di Doha e da mullah Abdul Ghani Baradar cofondatore dei Talebani rilasciato nel 2018 da una prigione pakistana.

L’oggetto dell’accordo di febbraio 2020 è stato essenzialmente basato su due punti: il ritiro di tutte le truppe armate straniere entro il primo maggio del 2021 e l’impegno da parte dei Talebani a che il territorio afgano non sia più la base di attività terroristiche o di minaccia nei confronti degli Usa; nonché l’avvio di un dialogo interno tra afgani. Tuttavia, va detto che se gli Usa mirano a portare sostegno principalmente militare per il consolidamento di un governo di tipo repubblicano in Afghanistan, i Talebani vogliono creare di nuovo l’istituzione di un Emirato islamico auspicabilmente retto da Pakistan, Iran, Cina e Arabia Saudita.

La sigla dell’accordo è avvenuta alla presenza dei ministri e delle rappresentanze delle organizzazioni internazionali di trenta paesi. L’accordo, quindi, ha sicuramente una rilevanza internazionale ma non è ancora risolutivo in quanto, a oggi, non si registra né la fine della guerra né tantomeno quella dell’intervento americano in Afghanistan.

Gli equilibri dell’area: l’utilità (tutta Usa) della pressione

L’accordo dimostra inevitabilmente la sconfitta riportata dall’amministrazione americana rispetto al conflitto afgano, questione che intende abbandonare – come già avvenuto in passato – lasciando alle forze di influenza locali la risoluzione effettiva del medesimo per occuparsi di questioni che al momento le premono maggiormente, come l’avanzata dell’egemonia economica internazionale da parte della Cina o il controllo delle aree di influenza della Russia. Tuttavia, è chiaro allo stesso tempo che risulta sempre importante mantenere per gli Usa una certa pressione sull’Afghanistan, data la sua geolocalizzazione, vicina com’è all’Iran alla Cina alla Russia e al Pakistan con i quali gli Stati Uniti sono in contrasto o in competizione. La sconfitta americana nel conflitto si evince anche dalla progressiva diminuzione dei toni della narrazione delle amministrazioni americane che si sono susseguite nel tempo rispetto agli obiettivi iniziali della guerra in Afghanistan da parte degli Usa, per i quali, dopo venti anni di conflitti, è sufficiente la sigla di un accordo con gli insorti talebani anche se gli attacchi a opera di questi sono ancora oggi tutt’altro che sedati. Il disimpegno completo delle forze armate statunitensi, quindi, è stato previsto dopo 14 mesi dalla stipula dell’accordo, mentre i militari della Nato e altri alleati determineranno un progressivo disimpegno in modo proporzionale. L’amministrazione Trump si è impegnata formalmente anche a rimuovere tutte le sanzioni che gravano sui Talebani e ha promesso la liberazione dei loro prigionieri. Da parte loro, i Talebani devono assicurare una notevole diminuzione degli atti di violenza e l’impegno a negoziare con il governo afgano, oltre che, come detto, a far sì che il gruppo terrorista non rappresenti una minaccia per gli Stati Uniti.

L’indagine dell’Aja sui crimini di guerra (di tutti)

Non è in ogni caso da sottovalutare quanto è avvenuto immediatamente dopo la stipula dell’accordo Usa-Talebani, ossia la decisione all’unanimità, da parte del Tribunale Internazionale dell’Aja del 5 marzo del 2020, con la quale si è autorizzato il procuratore generale Fatou Bensouda ad avviare un’indagine sui crimini di guerra commessi in Afghanistan da parte dei Talebani, degli Usa e delle forze del governo afgano. La richiesta di avviare un’indagine era già stata presentata alla Camera preliminare della Corte internazionale nel 2017 in esito alle denunce delle vittime dei familiari per i crimini puniti dal diritto internazionale compiuti nel conflitto, ma all’epoca era stata respinta sulla base della mancata collaborazione che le parti chiamate in causa avrebbero sicuramente posto in essere rispetto a una chiarificazione degli avvenimenti oggetto delle indagini. Inoltre l’altra motivazione addotta dalla Camera fu quella concernente l’elevato costo che un processo di questo tipo avrebbe comportato. Se lo scorso anno si è arrivati a ribaltare la sentenza è sia per il cambiamento dello scenario politico del conflitto afgano, sia perché vi sono nuove evidenze fattuali portate avanti dall’accusa che non possono essere ignorate e sulla base delle quali è soddisfatto sicuramente il fumus delicti. Ciò che va sottolineato è che oggetto delle indagini non saranno soltanto i crimini commessi nel territorio afgano ma anche quelli compiuti in altri paesi connessi con il conflitto afgano, come Lituania, Polonia e Romania e che, non solo, si procederà per i crimini per i quali è stata richiesta l’autorizzazione a procedere da parte del procuratore generale presso il Tribunale dell’Aja, ma anche per qualsiasi crimine di competenza della Corte che emergesse nel corso delle indagini, collegato a tale conflitto. Secondo Amnesty International si tratta di «una decisione storica con cui il massimo organo di giustizia internazionale, rimediando a un suo terribile errore, si è posto da parte delle vittime dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità commessi da tutte le parti coinvolte nel conflitto afgano».

Inoltre l’Ispettorato generale delle forze di difesa australiane in un rapporto pubblicato nel 2020, basato su un’inchiesta diretta dal giudice Paul Brereton durata 4 anni, ha ritenuto credibili le informazioni circa la responsabilità da parte delle forze speciali australiane di gravi violazioni dei diritti umani, in particolare dell’uccisione di 39 civili e di trattamenti disumani commessi tra il 2005 e il 2016 in Afghanistan, raccomandando un’indagine penale in merito. La Commissione indipendente dei diritti umani dell’Afghanistan ha quindi invitato gli Stati Uniti e il Regno Unito a seguire l’esempio australiano e a indagare in merito ad alcuni atti commessi dalle proprie forze speciali potenzialmente qualificabili come crimini di guerra.

Il 2020 inoltre viene ricordato anche per essere stato l’anno in cui si è registrato il più alto numero di vittime dall’inizio del conflitto nel 2001 e in cui sono iniziati dei nuovi negoziati, questa volta, tra il governo di Kabul e i Talebani sempre finalizzati, come quelli del 2019, tra Usa e Talebani, alla costituzione di un sistema di pace in Afghanistan.

I nuovi negoziati e la delegittimazione di Ghani

Tali nuovi negoziati, portati avanti a partire da settembre del 2020, sono stati – come detto precedentemente – conseguenza diretta delle condizioni poste alla base dell’accordo siglato nel febbraio 2020 tra Stati Uniti e Talebani. I rappresentanti delle due diverse fazioni nel paese sono dal lato della squadra nazionale della Repubblica islamica in Afghanistan (IRoaA team), Abdullah Abdullah, in quanto presidente dell’Alto Consiglio di Riconciliazione Nazionale (Hncnr) e, per la delegazione talebana, Mawlavi Abdul Hazim Ishaqzai, figura di alto rilievo religioso nel paese e vicino a Hibatullah Akhunzada.

Il governo bicefalo

Le cause dell’estromissione dell’esecutivo retto dall’attuale presidente Ghani in tali negoziati intrafgani vanno individuate in due fenomeni. Il primo è costituito dal fatto che i Talebani non hanno mai riconosciuto le vittorie elettorali ottenute da Ghani, sia nel 2014 che nel 2019, ritenendo che in entrambe le occasioni vi sia stata una manipolazione dei risultati elettorali; il secondo fenomeno invece è fondato sull’ampia contestazione subita, sempre in conseguenza dell’esito delle votazioni, da parte dei partiti di opposizione e così accesa d’aver costretto l’esecutivo neoeletto, nel 2014, ad affidare ad Abdullah Abdullah, il leader del principale partito di opposizione, il ruolo di amministratore delegato del governo presieduto da Ghani e, dopo le elezioni del 2019, a concedergli proprio la carica di capo del Consiglio di pace in Afghanistan. Infatti, il risultato delle elezioni di settembre del 2019 non è stato mai avallato da Abdullah Abdullah che aveva costituito un governo “ombra” speculare a quello di Ghani, tentando di impedirne l’insediamento, fino al maggio del 2020 quando, con l’intensificarsi degli attacchi dei Talebani, i due leader hanno concordato una ripartizione proporzionata degli incarichi all’interno del neoeletto esecutivo. Per questo motivo il governo di Kabul oggi viene definito bicefalo. Per aggirare questi ostacoli già nel 2019 all’inizio dei negoziati Usa-Talebani, per l’accordo siglato a febbraio del 2020, il capo negoziatore del governo afgano Stanikzai ha inventato lui stesso il termine “squadra nazionale inclusiva efficace”, identificata poi nel 2020 come team IRoA.

Parte del Team IRoA incontra il ministro degli Esteri americano Pompeo

Tuttavia l’attuale repubblica che siede accanto ai Talebani nei negoziati intrafgani, avviati a settembre del 2020, non esprime tanto un pluralismo democratico presente nel paese, quanto una frammentazione delle forze politiche afgane. La posizione dei Talebani, dopo i negoziati intrafgani, sembra spingere più verso un sistema di governo ibrido islamico che verso un nuovo Emirato. Per quanto riguarda invece l’influenza degli altri attori regionali, quali Pakistan, Russia Iran e Cina, anche se hanno svolto un ruolo importante per l’instaurarsi dei negoziati, la loro influenza nella formalizzazione di un accordo conseguente a questi non deve essere sopravvalutata: i vicini dell’Afghanistan infatti hanno poca capacità di plasmare il pensiero dei Talebani che sanno di potersi liberamente sganciare da eventuali concessioni o promesse di supporto a un governo repubblicano afgano, potendo rinunciare ai colloqui intrafgani e persistere con i propri atti di guerriglia.

Una difficile eredità

A novembre del 2020, inoltre, l’allora segretario americano alla difesa Christopher Miller ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero ritirato le proprie truppe dall’Afghanistan con un’ulteriore riduzione delle stesse dopo le 8000 ritirate lo scorso anno, fino ad arrivare a 2500 entro il mese di gennaio 2021. Questa decisione si è determinata in esito alla vittoria elettorale di Joe Biden, il 7 novembre del 2020, prima del suo insediamento il 20 gennaio del 2021. Biden infatti al momento sta gestendo la difficile eredità lasciata dal suo predecessore nel conflitto afgano dovendo fare i conti, da un lato con le condizioni poste dall’accordo Usa-Talebani del febbraio 2020, dall’altro con l’esacerbarsi degli attacchi armati per mano dei Talebani e del sedicente Stato Islamico in Afghanistan.

Trump, dal canto suo, non ha mancato di evidenziare più volte i risultati diplomatici ottenuti dalla sua amministrazione rispetto alla questione afgana, in particolare: il ritiro delle truppe americane, le garanzie sull’antiterrorismo e del cessate il fuoco, in una prospettiva futura, da parte dei Talebani nonché dell’inizio dei negoziati intrafgani con due incontri rispettivamente tenutisi a settembre del 2020, e all’inizio di gennaio del 2021. Tuttavia, il conflitto resta oggi tutt’altro che concluso.

Il ritiro condizionato delle truppe

Alla data del suo insediamento nel 2021, anno in cui ricorre il ventennale dall’inizio del conflitto in Afghanistan, Biden ha, in tale sede geopolitica, come primo elemento con cui confrontarsi, quello temporale dettato dall’accordo Usa-Talebani siglato a Doha, ossia quello del ritiro, entro il primo maggio del 2021 di tutte le truppe americane.

Al riguardo si sottolineano le dichiarazioni del neoeletto consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan che ha ritenuto, fin da subito, di chiarire l’intenzione della nuova amministrazione a rivedere l’accordo siglato con i Talebani a febbraio del 2020 per verificare se, effettivamente, i Talebani stiano ponendo del tutto fine ai loro legami con i gruppi terroristi e se questa verifica potrebbe comportare la proroga di ulteriori sei mesi della presenza delle truppe americane in Afghanistan, dilazionando la data del loro ritiro. Ciò, in ragione anche del fatto che il ritiro delle forze armate statunitensi deve essere interpretato, secondo l’attuale amministrazione americana, nel senso che questo avverrà solo se vi saranno evidenze fattuali circa l’effettivo adempimento, da parte dei Talebani, delle condizioni dettate nell’accordo con gli Usa.

Fonte: “la Repubblica”, 15 aprile 2021

La società civile: attore e osservatore permanente

In tale scenario il ruolo della società civile afgana si è evoluto nel tempo: all’inizio del XX secolo i rappresentati della società civile erano il clero e gli attori religiosi mentre a partire dalla metà del XX secolo, la rappresentanza della società civile è stata identificata nei professionisti, nei politici, negli artisti e più in generale in tutti i cittadini con alle spalle un sistema di istruzione superiore. Con l’invasione sovietica vi è una rilevante mutazione degli attori della società civile, sia durante il conflitto contro l’Urss, sia nel corso del governo del paese da parte dei mujaheddin sia in seguito, con gli stessi Talebani. La società civile, da questo momento in poi, sarà stata costituita prevalentemente dalle organizzazioni non governative nazionali e internazionali.

A partire dal 2001 la società civile afgana, invece, ha operato in un contesto maggiormente inclusivo grazie al riconoscimento del suo ruolo da parte delle istituzioni statali e ha lavorato nell’ambito dell’educazione civica ricoprendo posizioni di rilievo anche nei media e nelle organizzazioni di diverso tipo.

Infine, oggi, la società civile in Afghanistan è composta da ong, sindacati, organizzazioni sociali e culturali, organizzazioni comunitarie, organizzazioni femminili e di cittadini che promuovono l’organizzazione religiosa, i diritti delle donne, la libertà di parola e più in generale i diritti umani. In quest’ottica è facile comprendere come essa costituisca un attore rilevante per il raggiungimento di un’effettiva condizione di pace nel paese, quantomeno come osservatore permanente.

L’escalation di attacchi terroristici

Nel mese di marzo 2021 infatti – nonostante l’accordo di pace firmato il 29 febbraio del 2020 tra Stati Uniti e Talebani e le due tornate negoziali intra- afgane – si è registrata un’escalation degli attacchi terroristici nel paese. Intanto si avvicina sempre maggiormente il termine del Primo Maggio per il ritiro delle truppe americane. Gli attacchi di cui sopra hanno interessato soprattutto le donne. A essere rimaste uccise, infatti, agli inizi di marzo, sono state una giovane dottoressa afgana che si stava recando al lavoro nella città di Jalalabad, a causa di un ordigno esplosivo posizionato sotto la sua automobile e di tre giornaliste dipendenti della stessa emittente locale, in esito a tre diversi attentati, mentre, tre mesi prima, era già stata uccisa la presentatrice della stessa emittente. Il 30 marzo 2021 Amnesty International inoltre ha riportato l’assassinio di tre operatrici sanitarie, impegnate nella campagna di vaccinazione contro la poliomielite, sempre nella città di Jalalabad, definendo tale atto «codardo, contro tre donne impegnate a proteggere la salute di 10 milioni di bambine e bambini al di sotto dei cinque anni di età, all’inizio della campagna di vaccinazione».

Negli ultimi mesi gli omicidi sono stati rivolti specificatamente a un tipo di appartenenti alla società civile: giornalisti, giovani istruiti, attiviste per i diritti umani. Tali uccisioni sono finalizzate a distruggere la speranza di quanti si impegnano quotidianamente per un futuro diverso dell’Afghanistan e sono stati rivendicati dal gruppo terrorista dello Stato Islamico in Afghanistan con l’intento di affermare la propria presenza sul territorio al pari di al-Qaeda e dei Talebani.

Per questo motivo, in esito agli omicidi di marzo, Fatima Gailani, una delle negoziatrici a Doha per l’accordo Usa-Afghanistan, ha chiesto che i Talebani, distaccandosene, condannino pubblicamente gli attacchi rivendicati dall’IS-K e che si impegnino maggiormente a favore dei cittadini afgani, con una buona istruzione, affinché rivestano ruoli di rilievo nella società civile.

Regioni strategiche: il Nangarhar…

Come visto, i recenti attentati si sono accentuati proprio nella regione del Nangarhar di cui la capitale è la città di Jalalabad, e l’autore è sempre l’IS-K che, come detto, è stato ufficialmente dichiarato sconfitto nel 2019 dagli Usa, ma che in realtà non è stato mai debellato dal territorio afgano e, negli ultimi mesi, sta sferrando sanguinari attacchi prevalentemente sulla popolazione civile come quelli avvenuti dall’11 al 17 marzo e tra il 20 e il 21 marzo del 2021. Secondo il governo di Kabul, pur essendo la maggior parte degli attacchi rivendicati dal sedicente Stato Islamico, essi vengono realizzati con l’appoggio dei Talebani che forniscono militanti e agevolano le attività del gruppo terrorista, Talebani che, a loro volta, sarebbero sostenuti da alcuni militanti pakistani.

La regione del Nangarhar è particolarmente coinvolta dagli attacchi terroristi per diverse ragioni. In primo luogo, la città di Jalalabad ha una posizione strategica, essendo il primo centro urbano prima del confine a Nordest dell’Afghanistan con il Pakistan, nel quale, fin dagli anni Ottanta, si è stanziato, dopo l’occupazione sovietica, il gruppo dei Talebani. In secondo luogo, la regione ha una rilevante importanza poiché la zona risulta essere un punto di snodo cruciale per i due paesi in ragione del passaggio di merci e delle risorse del territorio prettamente rurale. A tali caratteristiche, tipiche dell’area, si aggiunge poi l’attuale presenza massiccia di esponenti del sedicente Stato Islamico, per cui in tali territori si sono accesi negli ultimi anni gli scontri più cruenti tra Stato Islamico e Talebani con conseguenze disastrose sotto il profilo economico, ambientale e rispetto alla condizione della popolazione civile locale, considerando le migliaia di sfollati interni dirette in altre aree del paese e di rifugiati nei paesi limitrofi, provenienti da quest’area.

una difficile eredità

Siyad Darah (foto JonoPhotography)

… e linee tracciate sulla carta

Infine, si aggiunge il problema della certa determinazione del confine territoriale tra tale parte Nordest dell’Afghanistan e il Pakistan, in quanto l’attuale delimitazione viene contestata e non è stata mai riconosciuta dall’Afghanistan poiché imposta sotto il dominio inglese senza tener conto che in prossimità dei due lati del confine risiedevano e risiedono da sempre molti individui di etnia pashtun. Da ciò si comprende anche la molteplicità di aspetti culturali, etnici, religiosi condivisi tra i due paesi e che, nel corso degli anni e ancora oggi, i Talebani hanno saputo sfruttare per il perseguimento dei propri obiettivi. I Talebani, tuttavia, sono responsabili attualmente di un diverso tipo di attentati rivolti, non tanto verso la popolazione civile come nel caso del sedicente Stato Islamico, quanto piuttosto verso le istituzioni dell’esecutivo afgano: come i convogli militari e di polizia gli stessi edifici istituzionali, facendo emergere così il preoccupante cambiamento in ambito securitario seguito al parziale ritiro delle truppe statunitensi nel 2019.

 

18 marzo: la conferenza di pace di Mosca

Infatti, come dimostrano gli accadimenti di metà marzo il rapporto Talebani-Usa, in virtù dell’accordo, non può certo considerarsi disteso: il 17 marzo 2021 i militari statunitensi hanno dichiarato di aver compiuto un attacco aereo contro i Talebani a sostegno del governo afgano che ha provocato la morte di 48 persone nella provincia di Kandahar. Tuttavia, se da un lato gli Stati Uniti hanno affermato che è stato eseguito in piena conformità con l’accordo di Doha, i Talebani hanno invece ritenuto che l’attacco aereo sia da considerarsi una violazione esplicita dell’accordo di pace di febbraio dello scorso anno.  In tale contesto, il 18 marzo, si è tenuta una conferenza internazionale sulla pace in Afghanistan a Mosca coerente con l’intento americano di includere anche gli altri stati che esercitano una sfera d’influenza sull’Afghanistan. Infatti, la conferenza è stata l’occasione per la sottoscrizione di una dichiarazione congiunta della Russia, della Cina, degli Stati Uniti e dal Pakistan in merito al conflitto afgano, mediante la quale hanno deciso che non offriranno sostegno alla creazione di un nuovo Emirato islamico in Afghanistan ma che sosterranno un’azione diplomatica per la risoluzione del conflitto. La dichiarazione è suddivisa in dieci sezioni nelle quali si afferma: l’esistenza di una ferma volontà del popolo afgano rispetto a una condizione di pace duratura nel paese da conquistare solo mediante un’azione diplomatica; la richiesta della riduzione degli atti di violenza del paese e più specificamente la richiesta ai Talebani di non portare avanti ulteriori offensive in primavera; l’impossibilità per i paesi partecipanti alla conferenza di sostenere il ripristino di un Emirato islamico; la necessità del proseguimento dei negoziati intrafgani con una specifica tabella di marcia rispetto agli obiettivi che le parti si propongono; l’imprescindibilità di creare un governo afgano indipendente, sovrano, unificato e democratico; la garanzia dell’assenza di qualsiasi legame con gruppi terroristi; il presupposto fondamentale  della  protezione di tutti i cittadini afgani; l’importanza di un dialogo internazionale dell’Afghanistan in grado di fronteggiare la crisi del paese; l’apprezzamento per il sostegno offerto da Qatar a ospitare i colloqui di pace e, infine, la nomina del segretario generale delle Nazioni Unite Jean Arnault  come inviato nel paese.

La possibile proroga del ritiro delle truppe Usa

Inoltre il 22 marzo del 2021, il segretario alla difesa Lloyd Austyn si è recato in Afghanistan: Il capo del Pentagono infatti ha ritenuto necessario incontrare personalmente l’attuale presidente Ashraf Ghani per discutere dell’escalation degli attentati nel paese e, il 22 marzo, il portavoce dei Talebani ha confermato alla stampa che si sta mettendo in atto un piano di sostanziale di riduzione della violenza nel paese entro 90 giorni, tuttavia ancora non qualificabile come un vero e proprio “cessate il fuoco”. Inoltre, il presidente della Commissione delle Forze Armate Statunitensi Adam Smith, il 25 marzo, ha rivelato l’intenzione dell’amministrazione Biden di negoziare una proroga della scadenza per il ritiro delle truppe statunitensi – condivisa dalla Nato che è pronta ad aspettare con gli Usa il ritiro delle proprie forze – e che, tuttavia, i militanti talebani stanno combattendo contro l’IS-K, quanto contro il governo afgano. Al riguardo si sottolinea che il parlamento tedesco, il 25 marzo 2021, ha già però avallato il rinnovo della partecipazione delle truppe tedesche Nato nel conflitto afgano fino alla fine del 2022. Infine, il 31 marzo, secondo il quotidiano “Tolo News” gli stati Uniti sarebbero sul punto di decidere per una proroga dai 3 ai 6 mesi per il ritiro delle truppe, mentre i Talebani hanno richiesto la liberazione di 7000 loro detenuti nelle prigioni afgane.

Intanto le violenze nel paese si stanno esacerbando sempre di più. La sensazione che si ha, quindi, è che sia nel caso in cui Joe Biden rispettasse la condizione del ritiro delle truppe dal Primo Maggio entro l’11 settembre, conseguenza dell’accordo formalizzato dalla precedente amministrazione degli Stati Uniti con i Talebani, sia nel caso in cui il presidente neoeletto decidesse di non rispettarla, prorogando i termini di alcuni mesi, potrebbero comunque verificarsi nuovi scontri e attacchi armati: nel primo caso perché i Talebani e il sedicente Stato Islamico potrebbero, in questo modo, continuare a contrastare il consolidamento dell’esecutivo afgano, avendo maggiore campo libero e approfittando del totale disimpegno delle truppe americane, mentre nel secondo caso avrebbero l’alibi del mancato rispetto del termine per giustificare il perdurare delle loro attività sanguinarie di guerriglia.

Quello che si evince in tale scenario politico e che condiziona anche le dinamiche strategiche e tattiche degli altri paesi interessati alla stabilizzazione dell’area è il principio secondo il quale, per risolvere situazioni complesse come quella afgana, l’intervento militare è una soluzione meramente transitoria nel processo di pace che coinvolge il paese. Questo infatti dovrebbe essere accompagnato da politiche basate principalmente sul miglioramento del sistema scolastico-educativo per la popolazione civile e sulla messa in atto di strumenti di state building rispetto alle forze politiche locali: solo in questo modo si potrebbe raggiungere effettivamente il tanto auspicato cambiamento.

L'articolo n. 5 – Afghanistan: la soluzione si allontana proviene da OGzero.

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La pace di Doha è quella sospirata dagli afgani? https://ogzero.org/la-pax-talebana-preparata-a-doha-dagli-americani/ Sun, 13 Sep 2020 12:07:56 +0000 http://ogzero.org/?p=1233 O non è piuttosto quella di Mike Pompeo, segretario di stato statunitense, di Abdul Ghani Baradar, numero due della gerarchia talebana, e persino di Abdullah Abdullah, capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale? La pax (elettorale) americana si combina con l’occasione storica per il movimento jihadista di riprendersi il paese (ora Repubblica, nel 2001 Emirato […]

L'articolo La pace di Doha è quella sospirata dagli afgani? proviene da OGzero.

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O non è piuttosto quella di Mike Pompeo, segretario di stato statunitense, di Abdul Ghani Baradar, numero due della gerarchia talebana, e persino di Abdullah Abdullah, capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale? La pax (elettorale) americana si combina con l’occasione storica per il movimento jihadista di riprendersi il paese (ora Repubblica, nel 2001 Emirato islamico) senza colpo ferire.

Una guerra lunga 40 anni

Gli americani sono apparentemente arbitri, l’intento di Trump è quello di ritirare le truppe (a fine ottobre si ridurranno a 4000 unità, secondo gli accordi del 29 febbraio con i Talebani) a scopi elettorali e ottenere uno stato non troppo islamico, controllato attraverso l’indispensabile erogazione di fondi e assistenza a un tessuto socio-economico reso incapace di reggersi da 40 anni di guerra ininterrotta; ai Talebani è richiesta un’abiura dei legami con al-Qaeda, un brand a cui hanno aderito obtorto collo per l’aggressività di Bush, di cui il negoziato è la più patente sconfitta; il governo di Ghani e Abdullah è da sempre debole, quotidianamente sotto scacco per gli attentati che costano la vita a 50 persone al giorno e che vedono Isis e al-Qaeda disputarsi la leadership jihadista, un potere fondato su elezioni andate deserte e i cui risultati hanno impiegato mesi a essere diramati e che deve presenziare a negoziati che hanno come fine la dissoluzione del governo stesso per crearne uno condiviso tra tutte le fazioni, le culture e le tribù che costituiscono la nazione.

Il vicepresidente Amrullah Saleh, tagico della cerchia di Masud ed ex capo dei servizi nel governo Karzai, è il più scettico sull’opportunità dei negoziati con i Talebani, che considera marionette in mano ai militari pakistani. È infatti scampato al secondo attentato ai suoi danni; lui è rimasto illeso, non così le decine di feriti e i 10 morti procurati da quella bomba piazzata a Kabul – in un quartiere residenziale non a caso presidiato dagli americani – emblematicamente quattro giorni prima che iniziassero i negoziati. E già una settimana dopo l’inizio dei negoziati era stato ucciso il presunto responsabile dell’attentato (il mullah Sangeen, il numero due della Red Unit talebana) in un’operazione condotta a Surobi.

Quello intrafgano è un negoziato tra fronti opposti delegittimati agli occhi degli afgani, che non li ha mai considerati propri rappresentanti: poche frange tribali al confine pakistano riconoscono l’autorità dei Talebani, le richieste dei quali sono il ritiro delle truppe straniere e l’imposizione di uno stato islamico; peraltro nessuno riconosce l’autorevolezza di un governo corrotto e fondato sugli interessi di lobbies oligarchiche, che ha obbedito agli accordi siglati dall’amministrazione Trump in campagna elettorale e in assenza di rappresentanti del governo e della società civile afgani, così Ghani ha dovuto liberare obtorto collo 5000 prigionieri talebani (in cambio di mille governativi).

Intanto all’inizio della seconda settimana il leader del partito Jamiat-e-Islam, Salahuddin Rabbani, che è stato anche a capo dell’Alto Consiglio per la pace del governo Karzai ha esposto notevoli dubbi sull’efficacia della road map dei temi proposti, proponendo di rivedere anche il sistema politico attuale.

In previsione di un approfondimento che intendiamo proporre una volta che gli sviluppi consentano valutazioni sulle trattative, riproponiamo uno stralcio dell’analisi che inquadra precisamente la situazione attuale. Un saggio scritto quasi un anno fa da Giuliano Battiston, e compreso in La Grande Illusione, volume a cura di Emanuele Giordana sull’Afghanistan in guerra dal 1979, di cui l’attuale teatrino qatariota (regime sunnita filojihadista) è il nuovo atto messo in scena, mentre i civili – fisicamente vulnerabili – muoiono per gli attentati, o – vulnerabili economicamente – sopravvivono sotto la soglia di povertà.

[OGzero]


Delegazione talebana a Doha il 12 settembre 2020

Dipendenza dall’estero: sovranità parziali e segmentate

La questione che qui vogliamo sottolineare è che il progetto di state-building ha avuto effetti controproducenti. Ha generato uno state-rentier, frammentato, debole, fortemente dipendente dalle risorse esterne. Il welfare sociale, l’educazione, la salute, le infrastrutture, l’esercito, la regolamentazione e la pianificazione economica: in Afghanistan ogni aspetto della vita pubblica è dipendente da aiuti esterni. La dipendenza dall’esterno ha inficiato la legittimità dello stato e del governo, ha modificato radicalmente il panorama della governance, la stessa nozione di potere, le relazioni tra il territorio e la politica, producendo principi politici, valori morali e culturali, fonti di potere e di legittimità diversi. In poche parole, ha prodotto “sovranità segmentate”, parziali, per ricorrere ancora una volta al lessico di Territorio, autorità, diritti. A ben vedere, poi, sebbene questi nuovi network di potere globale abbiano istituito tra di loro rapporti diversi e discontinui, a volte competendo, a volte confliggendo, a volte finendo per cooperare, è la loro stessa presenza ad aver impedito che il governo centrale trovasse e potesse rivendicare fonti autonome ed esclusive di legittimità normativa e politica. Infine, ma non da ultimo, l’emergere di nuove forme di sovranità e governance ha indebolito non soltanto lo stato, ma la stessa capacità dei cittadini di rivendicare trasparenza, aumentando la distanza tra governo/stato e popolazione. In poche parole, il processo di state-building centripeto ha creato un regime di poteri multipli, privi di responsabilità e di “responsività” verso i cittadini. Un esito che ha conseguenze anche sul processo di pace. Vediamo come.

Governo e Talebani: attori illegittimi

All’interno della complessa geografia di poteri appena descritta, esistono due attori – non monolitici e diversificati al loro interno (due reti di potere sarebbe più opportuno definirli) – che almeno a livello simbolico giocano un ruolo preminente: il governo di Kabul e i Talebani. I Talebani sono il principale movimento di opposizione armata in Afghanistan. Ci interessa però sottolineare alcuni aspetti, funzionali al nostro discorso. Il primo è che i Talebani rappresentano una galassia articolata al proprio interno, con centri di potere (le shure, i consigli) diversificati, con indirizzi strategici, finanziatori, priorità diverse e a volte confliggenti; il secondo è che la postura dei Talebani recentemente è stata condizionata dall’ingresso in Afghanistan di un altro attore della guerriglia, la “Provincia del Khorasan”, la branca locale dello stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi; il terzo è che, proprio in ragione del rapporto dialettico tra le varie componenti dei Talebani e gli sponsor stranieri, come il governo/stato anche i Talebani sono percepiti come un attore soltanto parzialmente legittimo, perché non del tutto autonomo, ma eterocondizionato; il quinto punto è che non sono una forza residuale, ma un gruppo consapevole delle proprie potenzialità, tanto da sommare ai successi strategici sul campo anche quelli politici: deboli, divisi e sfiduciati all’inizio del 2002, oggi i Talebani hanno fatto digerire all’Amministrazione degli Stati Uniti l’idea che l’opzione militare sia ormai impraticabile e che l’unica opzione plausibile per mettere fine alla guerra sia quella diplomatica. Fino a pochi anni fa soltanto dei “terroristi” o dei pariah, oggi godono di una patente di legittimità politica. Se non degli alleati veri e propri contro l’espansione dello Stato Islamico in Asia centrale, sono diventati degli interlocutori politici a tutti gli effetti.   

Resistenti sul campo di battaglia, forti al tavolo negoziale, finanziariamente ancora piuttosto solidi, i Talebani appaiono però fragili in casa, in termini di consenso. Se in alcune aree e fasce sociali godono di un appoggio logistico e dell’adesione della popolazione, altrove sono guardati con sospetto: troppo pesante l’eredità del loro governo, troppo pesante il bilancio delle vittime civili, troppo lontani dal sentire comune le loro idee sull’economia e sulla società, sull’Afghanistan che verrà. La domanda da porsi allora è: perché rimangono un attore egemone? Per tre motivi principali. La prima rimanda a quella particolare economia politica di guerra a cui abbiamo fatto riferimento. La seconda è la presenza delle truppe straniere, di per sé un fattore di mobilitazione antigovernativa, un carburante per la macchina della propaganda jihadista. La terza è il forte deficit di legittimità del governo, screditato agli occhi della popolazione.

Delegazione governativa a Doha

L’attuale governo ha una storia particolare, che merita di essere raccontata. Il governo si basa su un compromesso politico, imposto dall’esterno, uno dei simboli della subalternità alle reti di potere globale. Per porre fine alla lunga contesa sugli esiti del ballottaggio presidenziale del 14 giugno 2014, l’allora segretario di stato Usa John Kerry ha sollecitato un accordo che prevedeva un governo bicefalo: accanto alla carica del presidente – attribuita ad Ashraf Ghani – è stata introdotta una nuova figura istituzionale, quella del Chief of Executive Officer, con poteri «simili a quelli di un primo ministro», attribuita allo sfidante Abdullah Abdullah. L’inedito esperimento di ingegneria istituzionale non ha funzionato, finendo con il paralizzare le attività dell’esecutivo, istituzionalizzando la rivalità che intendeva sanare. Anche se politicamente debole e diviso, il governo di unità nazionale è rimasto in carica per un intero mandato, cinque anni, per due ragioni: la debolezza delle opposizioni e il sostegno della comunità internazionale, che in assenza di alternative ha preferito accordargli credito, come dimostrano i 15,2 miliardi di dollari stanziati al termine della conferenza dei donatori di Bruxelles dell’ottobre 2016.

Al di là del ruolo giocato dagli attori esterni, l’impasse in cui si è ritrovato il governo Ghani-Abdullah rimanda a una discussione interna, la grande questione irrisolta della governance dell’Afghanistan posTalebano. Affrontata già negli incontri preliminari alla conferenza di Bonn del 2001, è stata particolarmente dibattuta nel corso della Loya Jirga costituzionale del 2003, quando si sono contrapposti due grandi blocchi etnico-politici: da una parte il blocco “pashtun”, con l’idea di un sistema presidenziale fortemente centralizzato, modellato sulla Costituzione del 1964, poi adottata con alcune modifiche; dall’altra il blocco “tagico”, propugnatore di un sistema di governo più rappresentativo e meno centralizzato, che includesse la carica del primo ministro, anche come contrappeso alla storica, contestata egemonia dei pashtun come reggenti dello stato-nazione. Dietro all’antagonismo e alla reciproca diffidenza personale tra Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah si è giocata dunque una partita cruciale: quella tra rappresentanza, società ed esercizio istituzionale del potere. Una partita simile a quella che si gioca ora, o che si potrebbe giocare, tra il governo da una parte e i Talebani dall’altra. Una partita che va sotto il nome di processo di pace, ma che non si esaurisce in quello.

Reti di potere, pace politica e pace sociale

«Leader dei Talebani, la decisione è nelle vostre mani. Accettate la pace, sedetevi al tavolo negoziale e costruiamo insieme il paese». È con queste parole che il 28 febbraio 2018 il presidente Ashraf Ghani ha offerto ai Talebani il riconoscimento come partito politico, l’implicita garanzia dell’immunità, la possibilità di rivedere la Costituzione, l’inclusione nelle istituzioni, un ufficio politico a Kabul e l’ipotesi di un cessate il fuoco, realizzato poi per tre giorni nel giugno 2018. In quel discorso Ghani ha fatto riferimento alla possibilità di affrontare «aspetti controversi della futura presenza internazionale», questione dirimente per i Talebani. Un riferimento che lasciava presagire margini di manovra futuri per un dialogo diretto tra i Talebani e gli Stati Uniti, un negoziato che ha assunto una forma concreta con gli incontri tenuti nell’estate del 2018 tra esponenti del movimento antigovernativo e l’inviato di Donald Trump, Zalmay Khalilzad, da cui è scaturito nel gennaio 2019 una bozza di accordo.

Anche la proposta di Ghani di una «revisione congiunta» della Costituzione era un passo verso gli “studenti coranici”, che però hanno continuato a lungo a invocarne la riscrittura completa. Oltre ai dissidi interni del fronte antigovernativo, incapace di trovare una linea comune sul “che fare” una volta che le armi verranno deposte, dietro alla questione della revisione costituzionale e dell’architettura politico-istituzionale si nasconde un nodo politico: per i Talebani il governo di Kabul è illegittimo, semplice braccio amministrativo delle forze di occupazione, soltanto un pezzo di una rete di potere globale, un interlocutore privo di coesione, facile da manipolare e dividere. A dispetto dell’unità di facciata e dei successi politici che li hanno condotti al tavolo negoziale di Doha, in Qatar, anche i Talebani però, come abbiamo visto, sono un attore attraversato da spinte centrifughe, frutto dell’adesione delle diverse anime del movimento alle diverse reti di potere globale emerse in Afghanistan negli ultimi anni. Da questo punto di vista, se il dibattito con gli americani, un nemico esterno, può essere facilmente condotto sulla base di posizioni condivise dalla maggioranza, quello con il governo di Kabul sulla governance postnegoziato potrebbe risultare molto più difficile e frammentare ulteriormente il già composito fronte antigovernativo.

In sintesi, proprio a causa della presenza delle reti di potere globale che abbiamo provato a descrivere, sia il governo/stato sia i Talebani sono divisi al loro interno e godono di una scarsa legittimità agli occhi degli afgani. Ciò rende rischioso e costitutivamente fragile qualunque accordo i due attori possano trovare in futuro, sottolineano molti esponenti della società civile. In termini generali, tra gli intervistati prevale l’idea che la soluzione militare si sia rivelata inefficace e che sia indispensabile seguire la via del dialogo politico, attraverso un piano di riconciliazione nazionale e un contestuale processo di pace. Si registra la tendenza a sostenere l’ipotesi che i Talebani possano ottenere posizioni di potere in un futuro governo di “ampia coalizione”, a due condizioni: che ciò serva davvero a porre fine al conflitto e che non pregiudichi, se non l’architettura politico-istituzionale creata dopo il 2001, le conquiste legislative e sociali degli ultimi anni, spesso associate a tale architettura. Le aspettative che i Talebani siano in grado o siano disposti a soddisfare tali condizioni sono superiori a quelle registrate dallo stesso autore negli anni passati, ma rimangono piuttosto basse. Quanto alla capacità dei rappresentanti governativi di garantire la sopravvivenza dell’ordine normativo/istituzionale corrente, si registrano aspettative molto basse, che sembrano rimandare alla convinzione che i Talebani siano “più forti” del fronte governativo-statuale, giudicato litigioso e fragile. Comunque tutti gli attori risultano scarsamente legittimi.

Per questo gran parte degli intervistati distingue tra “pace politica” e “pace sociale” e reclama un doppio approccio al processo di pace: al negoziato politico-diplomatico che punta nel breve periodo all’interruzione del conflitto dovrebbe accompagnarsi un parallelo processo sociale di lungo periodo che punti alla ricostruzione delle relazioni tra le comunità locali. E che offra canali di comunicazione e confronto agli attori che, pur godendo di maggiore legittimità e rappresentatività del governo o dei Talebani, sono stati esclusi dalle reti di potere globale emerse in Afghanistan. Molti degli intervistati condividono infatti una diagnosi di partenza: alla base dell’instabilità del paese ci sono molti fattori, endogeni ed esogeni, ma uno di questi è la crisi identitaria causata da quattro decenni di guerra. Il tessuto connettivo che fa di una società una nazione sarebbe stato indebolito dalla guerra e questa fragilità sarebbe stata sfruttata dagli attori endogeni che fanno parte delle reti di potere globale, parzialmente esogene. Reti opache, che non possono essere smantellate attraverso un negoziato, dall’alto al basso, ma che vanno prima “rese trasparenti”, poi trasformate con processi sociali di lunga durata, dal basso all’alto. Senza una sottostante pace sociale che gli dia solidità e consistenza, sostengono gli intervistati, ogni accordo politico tra attori illegittimi è destinato a produrre risultati effimeri. Il dialogo politico-diplomatico è lo strumento più adatto per porre fine al conflitto nel breve periodo, ma il dialogo sociale, il recupero di sovranità e autonomia di fronte all’egemonia delle reti di potere globale, sono gli strumenti per costruire un nuovo spazio sociale e politico dotato di legittimità, unico antidoto a una nuova esplosione del conflitto.

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